RENATO MARIANI

GLI «HERZGEWACHSE» DI PANTEA

VERISMO IN MUSICA

OLSCHKI 1976

Considerando Pantea, vorrei assumermi il gratuito rischio di ritenere che Malipiero rimembrasse i palpiti, gli scatti, i cedimenti e le propiziatorie fiducie della protagonista di Erwartung di Arnold Schönberg. Sarebbe troppo facile un controllo d'ordine cronologico. È, forse, più audace pensare che certi atteggiamenti siano nell'aria: e gli spiriti vivi sappiano captarli oltre la conoscenza del documento e della nota sul pentagramma. Pantea data del 1918-1919 ed è un «dramma sinfonico scritto per amore del teatro musicale e per evitare il melodramma». Il piglio polemico delle parole dello stesso autore interessa, indirettamente, proprio per tentare di rintracciare in esse un vincolo, nello spirito informativo, a testimonianze, allora, ancora mal conosciute o fraintese. Anche Erwartung - monodramma - viene concepito per evitare il melodramma, quantunque Strauss possa sembrar battere alla porta della «teatralità» (non già della musica) del lavoro. In un certo senso il gesto malipieriano è più perentorio. Anche qui una sola figura scenica. In Schönberg una donna che trasmette i propri Herzgewächse (ossia le germinazioni o sedimentazioni od effiorescenze del cuore, che dir si voglia) con la voce; qui una danzatrice che i suoi Herzgewächse ce li fa intendere col gesto, col richiamo della agitazione mimica.
Siamo sul medesimo minutaggio. È un «tour de force» strenuo; ma Malipiero, anche se chiama in soccorso, per pochi istanti, la voce del coro e quella di un baritono solista, si addossa una responsabilità più ardua anche per i suoi collaboratori scenici. Si sa che Malipiero esige che si rispettino le prescrizioni da lui stesso dettate per la realizzazione dei suoi lavori. Pantea non è un balletto e giustamente esclude una visione coreografica pur allettante e pur assai più comoda. Di qui, probabilmente, il non frequente apparire sui palcoscenici di un lavoro particolarmente significativo e ben ricco di valori musicali veri e propri. Sta alla sola protagonista, danzatrice, il giuoco feroce di una «trasfigurazione» emotiva che tocca una serie innumerevole di stati di animo, di Herzgewächse mal differenziabili ma differenziatissimi attraverso i segni della partitura. L'interpretazione del testo scenico può essere anche molto semplificata. Malipiero ci parla di «vicende belliche che nell'autunno del 1917 hanno quasi suggerito le allucinazioni di una donna prigioniera mentre fuori infuria la battaglia». Vi sono elementi per legittimare il vincolo della ritenuta spuria fase impressionistica di Impressioni dal vero al tratto espressionistico di Pantea caratterizzato - secondo Luigi Pestalozza - dalla presenza di «allucinazioni simboliche dell'invincibile prigionia umana, di una vita prigioniera delle tenebre contro cui invano si ribella il gesto inane dell'uomo quasi sempre espressionisticamente sentito». Insomma, un sentimento di ineliminabile prigionia che suonerebbe unico (tra noi, al suo tempo) ammonitore e pessimisticamente profetico.
D'altronde, la dovizia delle didascalie è la guida più sicura ed autentica per seguire la vicenda che, va detto subito, s'impone per l'unità musicale proprio oltre la molteplicità delle sfumature patetiche. L'uragano di ferro e di fuoco responsabilizza, si direbbe, il rilievo, la tensione, l'impeto della scrittura tutta percossa dai richiami e dalle evocazioni di una cantabilità che del tratto espressivo malipieriano - già tipico negli anni di Pantea - reca, volutamente, soltanto monconi, spezzoni, brandelli. Eccoli allorché la protagonista si toglie dal suo stupore al levarsi delle voci mattutine che salutano l'alba. Eccoli nell'avvio baritonale, dove un segno di malinconia sembra amplificarsi in una più imperiosa e categorica traiettoria espressiva. Se il prologo di questo dramma sinfonico non ha requie nel fitto incalzare degli elementi figurativi strumentali, la prima allucinazione ne è una conseguenza diretta. Direi, però, che la scrittura sembra divenire subito più asciutta e il segno sinfonico più netto ed individuato.
È noto che Alfredo Casella pone la partitura di Pantea tra i vivi retaggi dell'elaborazione armonica singolare del linguaggio di Malipiero. Qui, come egli avverte, «continui contrasti ed urti, tra modalità e gravitazioni tonali divergenti, determinano una incertezza tonale, una instabilità modale che costituisce uno dei lati più potentemente originali di quell'arte». La seconda allucinazione dovrebbe trasformare, per poco, il pedale nemboso della pagina sinfonica. «Un prato sconfinato, tutto verde»; e una danza «sotto il sole del meriggio» con ritmo di «una vivacità sfrenata». Ma è distensione di breve giro se, con la terza allucinazione, la «notte cupa, piena di riflessi violacei» affiora da un «fondo vaporoso» dove «si profilano le ombre di grandi alberi nerissimi». E Pantea «esce correndo, come frustata da mille sferze». Il motivo della foresta (MaeterlinckDebussy; Pappenheim-Schönberg) non viene evitato da Malipiero, oltre la traccia di un espressionismo che ramifica, retroattivamente, in terra impressionistica.
Ma la scrittura tende adesso a semplificarsi; procede, sì, in forma agitata, ma sembra voler scaricarsi da alcune precedenti soprastrutture che potevano arrivare ai margini della superfetazione. E vi è una pagina elevatissima: il «lento», che reca all'epilogo; forse una dolorosa meditazione che suona rinunciataria e funerea. Le voci corali spaziano, cromatizzate e sensibilizzate; anche la rimembranza baritonale torna, categorica, ad imporre a Pantea un suo estremo, impossibile comportamento. Tanto è vero che affiora, adesso, la conclusiva «danza della morte» calata entro i ritmi di un avvio «lento, molto triste»: un congedo di alta forza patetica dove la musica s'inerpica forzando le suggestioni - romantiche - del fatto visivo. Ecco perché appare logico e conseguenziale che Pantea, «dramma sinfonico», debba essere, oltre ogni stimolo coreografico e oltre ogni allettamento visivo, il dato di fatto «protagonistico» «di un solo personaggio», come una tremenda confessione, come un'automatica trasposizione di fantasmi sentimentali nell'ambito di una fatale solitudine che non ammette contaminazione ed inframmettenza di testimone alcuno.

[«Teatro Comunale», Firenze, 1971-72]