G. F. MALIPIERO
MONTEVERDI

FRATELLI TREVES EDITORI
MILANO 1930
pp. 25-41

[...] Tutti i meravigliosi aspetti dell'arte monteverdiana, sia nel campo dell'armonia, che del canto, nascono sempre da un animo tormentato, avido di novità, ma che non disdegnava di seguire con palese interesse l'evoluzione di tutta la musica europea. Il viaggio in Ungheria (1595), non ostante le battaglie a cui ha assistito, più che sulla musica eroica (Combattimento di Tancredi e Clorinda, ecc.) ha forse influito sul carattere di certe sue melopee un po' slave e un po' orientali. Come pure se dopo aver letto e sentito, durante il viaggio
nelle Fiandre (1599) le nuove musiche francesi, egli scrisse della «alla franzese» e lo dichiara apertamente, non si abbassa mai alla gretta imitazione, ma arricchisce di nuovi mezzi d'espressione, la sua già ricchissima «fucina sonora».
Fin dal Primo Libro dei Madrigali, s'intuisce la grandezza dell'innovatore, dominato dal fascino dell'armonia e della canzone popolare. Vi abbondano «vaporosi ed opalini» passaggi armonici che potrebbero inorgoglire un contemporaneo di Claudio Debussy.
Le sorprese armoniche dei sei primi libri dei Madrigali e dell'Orfeo sono troppo numerose e sarebbe fatica inutile enumerarle tutte, tanto più che sovente le più azzardate derivano dall'indipendenza assoluta delle parti.
I polifonisti italiani del XVI secolo, compreso il Palestrina si temprarono al rigore delle leggi contrappantistiche che lo Zarlino promulgò definitivamente nei suoi trattati.
Il Monteverdi, senza nè punto nè poco rinunziare alle risorse infinite dell'intuizione, preferì seguire le teorìe di Nicola Vicentino (L'antica musica ridotta alla moderna pratica), ma non si può dire per questo che «il Monteverdi disponeva male le parti! ...» Egli è stato accusato di essere un debole contrappuntista nell'ottocento, quando il contrappunto si insegnava (come del resto in molte scuole italiane s'insegna tuttora) avendo «il Cherubini» come guida. Questi ha ridotto il contrappunto a una esercitazione scolastica che non ha più nulla a che vedere con la vera arte contrappuntistica dei grandi polifonisti italiani, l'unica che dovrebbe interessare ora la gioventù studiosa, sia per liberarsi da uno dei tormenti della scuola, che per acquistare la conoscenza della nostra grande arte musicale.
Avendo il Monteverdi creato vari capolavori nello stile della più pura arte polifonica, si è dimostrato un abile contrappuntista, e poco importa se non ha seguìto le orme degli «Zarliniani».
Adottando nuovi procedimenti armonici e semplificando il contrappunto egli non ha voluto evitare scolastiche difficoltà, ma allargare il proprio orizzonte.
Spesso in qualche voce si trovano salti di quinta diminuita
o di seconda eccedente
e se talvolta egli non evita le proibitissime quinte e ottave parallele, lo fa per conservare una linea più nobile e più vigorosa alle parti. Certamente avrebbe potuto accontentare i suoi critici se, anzichè un innovatore egli fosse stato un arido accademico e avesse pensato che due secoli dopo la sua morte, le leggi del contrappunto sarebbero state dettate da Luigi Cherubini.
Nei primi libri dei Madrigali è innegabile che si riscontra già il germe della «seconda pratica» perchè, specialmente nei madrigali più patetici, è sempre una parte che «canta» e se il tema predominante passa serpeggiando da una parte all'altra, egli lo fa per ottenere singolarissimi effetti di colore. Però fra la prima e la seconda maniera c'è un salto enorme, che nelle altre arti non si potrebbe riscontrare nello stesso autore. Egli è Giotto e Paolo Veronese, Mino da Fiesole e il Bernini.
Oggi noi troviamo più perfette e moderne le opere della prima maniera monteverdiana, specialmente, per il fascino delle ardite armonie, ma chi nel Monteverdi della seconda maniera deplora, quali sintomi di decadenza, la sobrietà armonica, le frequenti progressioni, le parti che hanno lunghi procedimenti per terza o per sesta, le cadenze troppo comuni, dimentica che la maggior parte di queste originalissime invenzioni monteverdiane, per due secoli interi vennero sfrattate da tutti i «compositori», perchè semplificando la tecnica musicale egli ha spianato il cammino ai faciloni e all'improvvisazione melodrammatica. Nelle opere di Claudio Monteverdi, il diatonismo, le progressioni, il canoro cadenzare sono ancora «materia vergine» uscita dalla fantasia di un insaziabile innovatore.
Non è esagerazione «di parziali» il ritrovare nelle sue opere, per quanto in embrione, anche il tema con variazioni. La Romanesca del VII libro lo conferma.
Se egli si inebbriava a girare anche per otto o più battute fra la tonica o la dominante, non poteva immaginare che da buon alchimista stava filtrando un potentissimo veleno che soltanto due secoli più tardi avrebbe distrutto l'armonia.
Nemmeno si deve giudicare una lacuna l'assenza di bemolli o diesis in chiave (quasi tutte le sue opere sono in fa e in do, e nei relativi maggiori e minori, ma allora gli esecutori, se necessario, cioè secondo le voci di cui disponevano, trasportavano la composizione che dovevano cantare, in una tonalità più alta o più bassa) perchè alle modulazioni da tono a tono egli preferiva la varietà delle armonie. Il frequente mutare di tonalità si usò più tardi per mascherare la monotonia armonica.
Egli fu il precursore di tutto e dì tutti, anche di quelli che non poterono subire la sua influenza diretta perchè nati quando ormai egli era stato fatalmente dimenticato. Nelle sue opere ci sono spunti, temi, progressioni armoniche e ritmiche di Bach, Beethoven (nell'ottavo Madrigale del sesto libro c'è un intero passaggio beethoveniano) Chopin e Domenico Scarlatti, e di quest'ultimo non dobbiamo meravigliarci: Domenico Scarlatti fu l'anello di congiunzione fra Monteverdi e tutta la musica del XVIII secolo e dei romantici.
Ma alludendo a queste parentele non si devo materializzare il legame spirituale fra i musicisti del passato e quelli dell'avvenire. Il plagio, l'imitazione volontaria non esistono. L'evoluzione del linguaggio musicale obbedisce a leggi che non dipendono dalla volontà di chi è stato destinato a creare quei capolavori che la volubilità della moda non pnò condannare a una vita effiniera e al meritato oblìo.
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Il Monteverdi avverte nel Combattimento di Tancredi e Clorinda che «la voce del testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia alquanto discosta da gli ustrimenti, a ciò meglio sii intesa nel oratione, NON DOVERA FAR GORGHE NÈ TRILLI in altro loco che solamente nel canto de la stanza, che incomincia notte; il rimanente porterà le pronuntie a similitudine della passione dell'oratione».
Però egli non scrive nè gorghe nè trilli e forse concede a malincuore che si possano introdurre nel punto sopraindicato, soltanto perchè ormai deve sottomettersi alle esigenze di una sua creazione: «il bel canto». Ma purtroppo insistendo nella ripetizione delle parole e accordando il predominio alla voce, sia pure per sottolineare «le passioni dell'oratione» ha contribuito a trasformare la «passione dell'oratione» in passione per la sola voce e allo sfacelo dell'oratione, tanto più che la sua musica istrumentale è sempre inferiore e sottomessa a quella vocale.
In quasi tutte le sue opere avverte che «gli istrumenti doveranno essere tocchi ad imitatione delle passioni dell'oratione» e se non quando egli affida la sinfonia agli istrnmenti ad arco, i suoi impasti istrumentali sono quasi tutti irrealizzabili.
Le didascalie molto vaghe ma interessanti, come «qui entrano li tromboni cornetti et regali» oppure «furono sonate le altre parti da tre viole da braccio, e un contrabasso de viola tocchi pian piano» si trovano sempre dove l'impasto indicato non corrisponde alla musica, che il più delle volto, nei brani istrumeutali è completa meno che per i chitarroni e clavicembali per i quali egli scrive il solo basso che si deve realizzare. Sono evidenti le sue intenzioni e intuizioni orchestrali (negli archi egli introduce pizzicati, colpi d'arco speciali e il famoso tremolo che sollevò l'ilarità dei suonatori obbligati «a tempellare sopra una corda sedici volte in una battuta »), ma forse, appunto perchè considerava l'espressione istrumentale meno importante, è meno curata di quella vocale, anzi spessissimo è palesemente trascurata.
Contuttociò egli è un sinfonista: le sue opere vocali, specialmente quelle a cinque o più voci, sono autentiche sinfonie che spesso ci fanno quasi desiderare la sostituzione delle voci con gli istrumenti. Per citare un esempio soltanto, il madrigale Cantai un tempo (l'ultimo del secondo libro) è ammirabile, forse quasi più completo se quattro viole e un violoncello prendono il posto delle cinque voci. Anche nei «leggiadri» ritornelli delle canzonette e delle composizioni più gaie, e nei ritornelli e sinfonie dell'Orfeo, che nei silenzi continuano o rievocano «le passioni dell'oratione» e si trasformano quasi in motivi conduttori, il Monteverdi non riesce a costruire la frase ampia delle composizioni vocali, nè riesce a liberarsi dalle progressioni, dalle cadenze, insomma da tutto quello che paralizza anzichè dare maggior respiro al periodo musicale.
Claudio Monteverdi nella musica istrumentale è inferiore a parecchi altri musicisti anche al Gabrieli, mentre il suo genio mai lo abbandonò nella musica vocale.
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Le opere religiose appartengono ai due stili, a quello severo e contrappuntistico della «prima pratica» che lo costringe a sottomettersi alle discipline dei suoi contemporaneì, e a quello della «seconda pratica» che gli concede di abbandonarsi a quel lirismo profano che contempliamo nella pittura religiosa dei maestri veneziani del XVI secolo, i quali non profanavano la religione, ma vivevano nella religione della loro arte.
Non è dunque per semplice opportunismo che Claudio Monteverdi volle mutare il testo del Lamento d'Arianna in quello del Pianto della Madonna. Se il dolore per la perdita della moglie ha ispirato il Lamento d'Arianna, questo può esprimere anche il dolore della Madonna per la morte del figlio. Non spetta alla musica di precisare la qualità di un sentimento, ma può intensificarne l'espressione appunto perchè è indefinita. Da ciò l'assurdità della musica a programma.
In molti casi Claudio Monteverdi cambiò le parole, riducendo la stessa composizione da profana a religiosa. Senza ammettere le profanazioni nell'arte è però in contradizione con sè stesso: se, come egli vuole, la musica deve essere schiava della parola, come può adattarsi la stessa musica a due differenti poesie?
Le sue opere religiose appartenenti alla «prima pratica», pur tenendo calcolo di quelle che si dice siano andate perdute, rappresentano una piccola parte della sua attività.
Egli tende, fino dalle opere giovanili, a raggiungere il massimo grado di espressione e non si preoccupa di creare nuove «forme» di musica religiosa, madrigalesca, o teatrale. Egli vuole esprimere soltanto le passioni umane e non è mai nè convenzionale nè enfatico, quantunque creda seguire, come un cane fedele, la poesia e s'illuda di rimanere sempre ligio ai suoi principi estetici che vorrebbe applicare a tutti i generi.
Senza appartenere alla Camerata fiorentina realizzò quello che gli amici del Conte di Bardi avevano appena intravveduto, nè si interessò alla rinascita della tragedia greca.
I gruppi di tre, quattro o anche cinque Madrigali, tenuti insieme dall'argomento poetico, dei primi sei libri, sono dei piccoli melodrammi, e in alcuni madrigali, per quanto primitiva, c'è già la cantata.
Tutte le opere della «seconda pratica» sono drammatiche e i melodrammi rappresentano un seguito di cantate e di madrigali. Nel teatro monteverdiano l'Orfeo (1607) è quello che più si avvicina al dramma della Camerata tiorentina. Non conosciamo la musica di Proserpina rapita (1630) scritta in occasione delle nozze Mocenigo-Giustinian, sul libretto di Giulio Strozzi, nè quella della Finta pazza Licori pure dello Strozzi.
Ugualmente perduta è la musica dell'Adone (1641) e delle Nozze d'Enea con Lavinia (1641). Dello stesso anno è il balletto La vittoria d'Antore, scritto per il Duca di Parma.
Nell'anno 1641 a Venezia si rappresentarono tre opere del Monteverdi. La terza è il Ritorno di Ulisse in patria che esiste manoscritta alla Biblioteca di Vienna. Può darsi che i melodrammi composti nel 1641 siano anche stati buttati già frettolosamente, ma pur attribuendo all'esagerata fecondità i difetti del Ritorno di Uiisse in patria, in molto pagine di quest'opera il divino Claudio non è riconoscibile. E poi come mai il libretto che venne stampato per la prima rappresentazione (la Biblioteca Marciana di Venezia ne possiede una copia) non corrisponde a quello del manoscritto di Vienna?
Il ciclo melodrammatico monteverdiano si chiude coll'Incoronazione di Poppea che è il secondo capolavoro di Claudio Monteverdi, e l'ultimo canto del cigno morente.
Il libretto dell'Incoronazione di Poppea è un dramma senza le situazioni ridicole dei «libretti d'opera». L'azione è concisa e il poeta evita le goffaggini del «verso per musica».
L'incoronazione di Poppea e l'Orfeo si dovrebbero rappresentare tuttora sulle scene italiane. Sono i più solidi pilastri del nostro teatro musicale e possono degnamente occupare il posto d'onore nel «repertorio nazionale». Altrettanto si dovrebbe dire per la musica corale di Claudio Monteverdi, ma purtroppo mancano i cantori capaci di interpretare l'antica musica polifonica italiana. Non è facile riformare l'orecchio e sviluppare il perduto senso della polifonia e delle tonalità non ancora completamente diatoniche. Qualora si creassero nuove scuole corali, e i cantori si istruissero abituandoli «a sentire» le tonalità antiche che sono le più moderne, le esecuzioni della musica corale di «tutto» le epoche non offrirebbero più difficoltà.
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Anche nella ristampa delle opere di Claudio Monteverdi si dovrebbe seguire un solo criterio: dimenticare quello che si è fatto dopo di lui e non illudersi che dopo il XVII secolo ci sia stato un progresso.
Per esempio, è inutile cambiare la disposizione delle battute, spostando le stanghette, perchè nel XVII secolo non era stato ancora stabilito che i tempi forti e deboli dovessero cadere sempre sullo stesso punto della battuta. Questa era più che altro una convenzionale divisione grafica e i tempi forte e debole si adattavano al ritmo della parola, prova ne sia che quando le voci si rispondono per imita, zione, sarebbe impossibile spostare i valori dei tempi perchè pur riuscendo a modificare una parte per le altre non ci sarebbe rimedio.
Di recente è stato pubblicato uno studio sulle quattro battute di uno dei ritornelli dell'Orfeo, e si discutono le varie interpretazioni ritmiche dei raffazzonatori di questi ultimi tempi.
Il ritornello è stato scritto dal Monteverdi con matematica precisione, ed il ritmo è di dodici ottavi, però i tempi forti cadono dove l'accento determina le caratteristiche del tema stesso ed ogni ottavo ha il valore di un ottavo:
Siccome fra il 3º e il 4º ottavo della seconda (A), terza (B) e della quarta (C) battuta c'è una sincope che forse oggi si scriverebbe così:
ma che si può auche scrivere alla mauiera del Monteverdi, si è creduto opportuno di correggere un errore che non esiste e di discutere l'indiscutibile.
Simili assurdità sono possibili soltanto nella musica, cioè nell'arte che ammette persino gli «enfants prodiges» e che li prende anche sul serio, probabilmente perchè la musica ha il potere di sviluppare rapidamente l'intelligenza dei fanciulli, la quale però si matura con una precoce senilità.
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Come certe famiglie nobilissime cercano fra i vecchi documenti nuovi titoli di nobiltà, così noi oggi dobbiamo rievocare i fasti della nostra arte musicale. E Claudio Monteverdi ha molti diritti da rivendicare in questo processo per il ricupero di una considerevole eredità. Egli accumulò ricchezze incalcolabili che i suoi credi sperperarono con troppa prodigalità.
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Ora noi viviamo nel secolo del rumore, ed il rumore è la negazione della musica. Il rumore non è necessario, mentre alla musica non si può rinunziare. Tutti urlano sperando di farsi sentire al di sopra del rumore e credono che se il rumore è progresso i più progrediti saranno coloro che lo domineranno gridando, e nella baraonda si odono soltanto le parole «moderno», «arte nuova» e altre molto pìù oscene, mentre una turba di deformi creature si dimena nella polvere e i banditori esaltano le meraviglie della loro avariata mercanzia.
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Se noi saliremo verso le sorgenti della nostra arte musicale, con maggior forza potremo lanciarci nell'avvenire, evitando di precipitare nelle voragini del caotico presente. E Claudio Monteverdi, il prodigioso alchimista, ci offre «l'elisir di lunga vita» distillato nel suoi meravigliosi lambicchi. E l'infallibilità dei suoi filtri egli la dimostra con le sue opere, che han potuto conservarsi eternamente «moderne».
Asolo, 2 Agosto MCMXXVIII