FEDELE D'AMICO

GLI OTTANT'ANNI DI MALIPIERO

I CASI DELLA MUSICA

IL SAGGIATORE
MILANO 1962
pp. 457-461
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La melodia decantata a puro arabesco, eppure densa di lirismo in ogni sua fibra; il fiore d'un'antica civiltà musicale rievocato nella scoperta d'un suono terso, immacolato, ignaro delle tentazioni dell'eloquenza. Queste furono certo le ragioni del fascino che il primo Malipiero esercitò su di noi, dello spicco che la sua novissima apparizione ebbe nella situazione italiana: in un senso sotto molti aspetti analogo a quello che l'apparizione d'un Debussy aveva avuto, poche decine d'anni avanti, nella situazione francese ed europea.
Importa ora ricordare che quella «rievocazione dell'antico», contrariamente a quanto succede spesso, non nasceva da un estetismo più o meno edonistico, ma da un atteggiamento spirituale assai amato, tragico. Dietro al netto rifiuto malipieriano di continuare l'Ottocento musicale c'era la delusione di fronte a tutti gl'ideali dell'Ottocento in genere: di fronte a ogni stia fede storicistica o attivistica, di fronte all'avventura psicologica, al gioco dei caratteri umani in movimento, alla vita stessa intesa come divenire e progresso.
Il mondo del primo Malipiero tende infatti a irrigidirsi nella contrapposizione di due momenti immutabili: da un lato, la contemplazione di un'intatta Bellezza, simbolizzata appunto negli spiriti dell'antica musica italiana, e veneziana; dall'altro, la fatale insidia del disfacimento, della morte, espressa in un linguaggio acre, deformante, che fa suoi non pochi impulsi dell'espressionismo. Appunto per questa riduzione di tutto l'umano a questi due poli opposti il teatro del primo Malipiero non conobbe mai personaggi veri e propri ma soltanto personificazioni, allegorie, come di sacra rappresentazione; mentre tutta la sua musica mirava ad abolire il sentimento stesso dello sviluppo tematico, cioè di un dialettico divenire musicale, sì che la sua forma tipica fu la successione di illuminazioni liriche, ognuna conchiusa in sé, e legata alla sua vicina soltanto da ragioni d'immediato contrasto.
Non bisogna d'altronde pensare che nel primo Malipiero questo dualismo sia sempre in atto nel giro dell'opera singola; ci sono anche casi in cui l'elemento, diciamo così, positivo, prevale in modo esclusivo o quasi. Alle volte il contrasto è soltanto fra momenti di spensierata espansione e momenti di ripiegamento lirico: per esempio nei quartetti. Alle volte non c'è neanche questo contrasto : il San Francesco è tutto lirica malinconia, le Commedie goldoniane sono allegrezza pura. Ma pure in un'eccezione al tono tragico così vistosa come questa delle Commedie goldoniane colpisce l'assenza di vicenda, di sviluppo. Perfino da un autore così legato alla vicenda, alla psicologia, alla narrazione, Malipiero non cava altro che colori, atmosfere, istantanee, abolendo tutto il resto. Il risultato è il distacco da una qualsiasi realtà in atto: tutto è come allontanato nel tempo, simbolo immobile di cose trapassate. Ed ecco che nonostante la natura serena dei contenuti il sentimento di una sorta di frustrazione si disegna ai margini, vagamente angoscioso.
La conclusione del primo Malipiero, e il suo culmine, è da vedere nell'opera Torneo notturno (1929), nella quale i termini del dualismo, più che opporsi, sembrano nascere l'uno dall'altro. Caduta ogni acredine, ogni smorfia grottesca, il presentimento della morte sembra fiorire silenziosamente e irreparabilmente dal seno stesso delle più incantante melodie; così come i due protagonisti non sono altro che due volti inseparabili d'uno stesso destino.
Appunto questa sintesi avviò al superamento del dualismo, cioè al secondo Malipiero; nel quale a poco a poco i contrasti netti scomparvero; e scomparve, sia nell'opera che nella musica da concerto, la struttura a quadretti staccati, in pro del discorso musicale continuo. Fu l'approdo, scrisse Massimo Bontempelli, «a un senso disteso di pianura solo confinata dal più lontano orizzonte ove la terra si confonde col cielo». Ma Bontempelli stesso si preoccupò di chiarire: «la montagna è ostile e difficile, ma la pianura è più inesorabile della montagna.» Fuor di metafora: uscito dalle antitesi tragiche, non per questo Malipiero annacquò il suo pessimismo o si riconciliò col «mondo»; né col divenire. Il suo discorso continuo non ha nulla a che fare con strutture di tipo comunque dialettico: è qualcosa che fluisce, semplicemente, senza piani prestabiliti, senza rilievo esteriore, in una sorta di spontaneità associazionistica.
È come un sommesso soliloquio, che dura ininterrotto per anni e anni, passando dall'una all'altra opera, apparentemente sempre lo stesso. Ciò che espressivamente vale, sono le illuminazioni che lo percorrono, le invenzioni di cui è costellato: non il modo in cui s'organizzano, non il discorso in sé. Ed è vero che per coglierle bisogna spesso tendere l'orecchio, vincere le abitudini imposteci, dopo più di un secolo di eloquenza musicale, da un'epoca dove pare che le idee e i valori non possano costituirsi se non amplificati da altoparlanti, celebrati da titoli su sei colonne. Ma è altrettanto vero che proprio nel loro presentarsi disarmate, disadorne, non reclamizzate, è il senso profondo di queste invenzioni, la garanzia della loro autenticità. Proprio perché è così solitario, non esibito, il fantasticare di Malipiero conferma di non essere gratuito edonismo ma prodotto di un atteggiamento morale: anche nelle sue espressioni più lievi, più festive.
Nella fase più recente di questo secondo Malipiero, pressappoco corrispondente all'ultima decina d'anni, s'è voluto vedere un suo accostamento allo schönberghismo e derivati; motivo per cui anche le sue partiture sono state passate al vaglio dei rabdomanti delle dodici note (dei dodici suoni anzi, come dicono). Ma era un quiproquo. Molto opportunamente e recisamente Piero Santi (vedi «L'approdo musicale» n. 9, pp. 102-105) ha chiarito la radicale differenza che passa fra gl'ideali dodecafonici, i quali mirano a privare gl'intervalli delle loro tensioni tonali specifiche, e la prassi di Malipiero, che è invece compenetrazione di modalità diverse, serbante ciascuna il proprio sistema di tensioni. Fra l'altro Santi ha sottolineato con acume la funzione che in Malipiero ha il melos, il quale condiziona l'armonia e ne è condizionato ma non si confonde con essa: «la proiezione della melodia nell'armonia e viceversa è, nella dodecafonia, una pura astrazione metodica, in Malipiero invece, sia nel primo, ma più ancora nell'ultimo, è un processo organico, vivente».
A parte quest'ultima considerazione, la spiegazione che Casella aveva dato del linguaggio armonico di Malipiero in un suo scritto di vent'anni fa [...] era sostanzialmente la stessa che ne dà oggi Santi: segno che un mutamento di principi in Malipiero non c'è stato; tanto meno una crisi stilistica provocata dall'esterno, cioè dalla voga postbellica della «nuova musica».
In realtà la maggior complessità tonale dell'ultimo Malipiero rispetto al diatonismo prevalente (sia pure in modo non esclusivo) nel Malipiero degli anni trenta e quaranta non ha senso di rottura, non è un capitolo nuovo; è solo testimonianza dei fatto che gli anni, lungi dal placare il suo orecchio nelle abitudini, lo hanno reso sempre più teso, aperto all'avventura, al rischio. In questo senso, Malipiero ottantenne è più giovane che mai; ma non nel senso che rifaccia il verso ai giovani d'oggi, né in quello che si mantenga «al passo coi tempi»; giacché il suo modo di stare nella storia consiste appunto, oggi come ieri, nel non marciare al passo coi tempi.
I primi quartetti, Pause del silenzio, Le stagioni italiche, San Francesco, Filomela e l'Infatuato, Sette canzoni, Torneo notturno. Per noi delle generazioni non più giovani, è innegabile che il nome di Malipiero susciti subito quei titoli, o altri come quelli: voglio dire, i capolavori del primo Malipiero. Tuttavia da questa ammissione a un giudizio che sancisca obbiettivamente una superiorità del Malipiero anteriore al 1930 su quello di poi ci corre parecchio. È vero che il primo Malipiero, impostato com'è sui suoi netti dualismi o sul preciso isolamento di uno dei suoi motivi, raggiunge più facilmente dell'altro la chiarezza plastica, l'immagine che si staglia subito nella memoria; ma non è detto che questo vantaggio equivalga automaticamente a una superiorità. Tanto meno poi costituiscono superiorità obbiettiva quegli altri vantaggi che il primo Malipiero possiede soltanto in rapporto alla nostra particolare posizione: il nostro sentirlo legato alla memoria indimenticabile di quando, nella nostra giovinezza, lo scoprimmo - il poterlo oggi vedere in prospettiva, ormai abbastanza lontano nel tempo, come un classico.
E intanto, è già un fatto che anche opere del secondo Malipiero si sono a poco a poco andate sistemando nella nostra immaginazione accanto alle maggiori del primo: per esempio alcune sinfonie, per esempio La Passione, che è del '35 e nella quale è difficile non vedere una delle vette di tutto Malipiero, e a fortiori della musica italiana di questo secolo. Questo potrà ben accadere, a poco a poco, di tante altre, che per mettersi completamente a fuoco hanno soltanto bisogno di tempo; perché ormai da circa trent'anni, l'abbiamo visto, Malipiero tende a dissimulare le gemme della sua fantasia sotto apparenze consuete, quasi monotone; e per di più scrive enormemente. Non è facile tenergli dietro, discriminare nel complesso della sua produzione, trasformare le nostre impressioni in giudizi, in collocazioni gerarchiche.
Ciò non toglie che le nostre impressioni sulla sua attività più recente siano spesso estremamente vivaci: più forti di qualsiasi ragionamento. Ho sott'occhio, tanto per fare un esempio, la sua partitura per me più recente, che s'intitola Serenissima: una specie di divertimento su sette canzoni veneziane, per orchestra e saxofono concertante, composta l'anno scorso [1961, n.d.r.] e stampata in questo. L'ho comprata appena due giorni fa, e non ne azzarderei un giudizio vero e proprio. Penso però all'annata in cui è stata scritta: un'annata più che mai rigurgitante di teorie, di festival, di nuovi geni; e mi domando quante altre partiture, a conti fatti, siano state scritte in quell'annata, che mi abbiano affascinato con tanta prepotenza.
Qui è forse il sugo di tutta la storia. C'è un Malipiero ormai classico, vivo nel senso in cui è vivo ogni classico. Ce n'è un altro che, pur continuando quello, è tuttavia ancora disponibile, aperto; e non meno vivo, se pure in altro senso. Quest'altro Malipiero, non c'è nessuna fretta di sistemarlo, di «giudicarlo»; piuttosto, ci sono fondati sospetti che un giorno, almeno nelle sue pagine maggiori, sarà lui a giudicar noi.

Aprile 1962


PRESENTAZIONE DE

I CASI DELLA MUSICA

Ci sono parecchi modi di leggere questo libro. Il primo può addirittura essere quello di sfogliarlo, lasciando che l'occhio si fermi sulla pagina che lo attira, come si fa con i diari o gli zibaldoni. Perché esso mescola cose, materie, generi vari di discorso critico, che si succedono nell'ordine cronologico delle occasioni. Ci sono saggi veri e propri, e ritratti di vario formato, che ci presentano i più diversi personaggi musicali, compositori, interpreti, studiosi (da Mahler a Perosi, da Janàcek a de Falla, da Toscanini a Beniamino Gigli, da Gieseking a Fausto Torrefranca, ecc.); cronache di concerti e spettacoli d'opera e di balletto, che tuttavia guardano sempre oltre la semplice recensione; polemiche sull'interpretazione scenica, sulla vita e il costume e i mezzi di diffusione della musica e della cultura musicale. Ai sopracciò della critica, che usano considerare frivoli o aneddotici molti di quegli argomenti, la risposta di D'Amico, facile a dedursi dai suoi scritti, è che l'esperienza musicale d'oggi non è fatta solo della musica che oggi si scrive, ma del modo come questa musica e quella di ieri vengono rivissute dagli interpreti e dagli esecutori (compresi i registi d'opera) e ricevute dal pubblico. È questa un'idea costante in D'Amico: lo sa chiunque abbia visto nell'Enciclopedia dello Spettacolo il suo articolo sul Canto, dove la storia dell'opera è ricostruita in base ai tipi e ai «ruoli» vocali. L'altro modo di leggere il libro è quello di seguirne, attraverso la varietà degli episodi, la linea organica e conduttrice. Una linea di cui per alcuni aspetti l'autore stesso chiarisce l'orientamento: per esempio, nei tre saggi sulla «nuova musica» collocati alla fine del libro. Molto discussi nell'ambiente musicale fin dal loro primo apparue, essi precisano un atteggiamento di principio che non tanto è polemico verso la «nuova musica», quanto verso le interpretazioni che se ne sogliono dare. Un altro modo ancora è quello di leggere il libro per il piacere di leggerlo. Quali che possano essere la sostanza e il piglio, a volte provocatori, di questi saggi articoli e note, il piacere della lettura non è mai deluso. Perché, senza rinunziare a nessuna delle sue responsabilità critiche, intellettuali e morali, D'Amico raggiunge immancabilmente quello che anche i musicisti chiamano il brio, detesta la noia, ha una irresistibile comunicativa e crea subito simpatia. Chi si imbatte, scorrendo il ricchissimo indice, nell'opera o nel personaggio che gli interessa, è sicuro di trovare, oltre a tutto il resto, anche una pagina che gli piacerà.