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ROBERTO ZANETTI

LE OPERE TEATRALI
DI ADRIANO LUALDI


BIOGRAFIA DI ADRIANO LUALDI

Su uno stesso piano [...] poniamo Adriano Lualdi e Giuseppe Mulé, due compositori che più di altri si legarono all'apparato fascista, come riferisce il ruolo di deputati che entrambi tennero [...]. Da tutto ciò entrambi derivarono motivi di fama sicura per il ventennio fascista e addirittura furono anche sopravvalutati come artisti. Come figure di musicisti, Lualdi e Mulé non sono poi molto distanti tra loro, anzi si potrebbero dire strettamente uniti nel rappresentare la cosiddetta «musica fascista», musica fatta di tradizionalismo di generi e d'espressioni, di pomposità e di superficiale italianità di immagini e di linguaggio, di approssimazíone ispirativa e refrattarietà a qualsiasi impulso di ricerca e d'aggiornamento. Va tuttavia rilevato che forse il primo, il Lualdi, ebbe personalità più spiccata dell'altro, non solo come compositore ma anche come intellettuale: si ricordi, in proposito, la sua opera di animatore culturale che abbiamo rievocato in precedenza, nonché altri aspetti della sua presenza nella cultura italiana dell'epoca. Nell'anteguerra sia il Lualdi che il Mulé si erano già fatti notare come autori di brevi lavori teatrali.
Il primo con «l'intermezzo giocoso per marionette viventi» Le furie di Arlecchino (1915), l'altro con la tragedia lirica d'ambiente siciliano La baronessa di Carini (1912). Entrambi avevano cioè dimostrato la forte attrazione per il teatro, quasi un comune denominatore tra di loro anche per l'attività successiva. Nel contempo avevano svelato due diverse disposizioni. Il Lualdi inclinava verso il comico e il fantastico, verso soggetti parodistici da trattare - secondo l'esempio del suo maestro Wolf-Ferrari - con forme e stile derivati dal Settecento; il Mulé preferiva invece il fosco dramma su storie e miti siciliani, nel solco, anche dal punto di vista linguistico, del Mascagni siciliano. Caratteristiche che poi trovano conferma, pur con qualche deroga, nella produzione successiva dei due musicisti. Nella quale - e torniamo a un elemento comune - si adoperano entrambi per attuare un linguaggio sedicente italiano, alieno da ricerche e da innovazioni novecentesche.
Può risultare utile esporre congiuntamente la successione dei lavori che Lualdi e Mulé destinarono al teatro, come appunto suggeriamo col seguente prospetto:

LUALDI

MULÉ

Al lupo! dramma lirico in due atti da una leggenda siciliana, libretto di F.P. Mulé [1] [...] Roma, Teatro Nazionale, 13 novembre 1919

Guerrin Meschino leggenda medievale per marionette, libretto di G. Cavicchioli - Roma, Teatro dei Piccoli, novembre 1920

La figlia del re tragedia lirica in tre atti su libretto proprio [2] - Torino, Teatro Regio, 18 marzo 1922
La monacella alla fontana dramma in un atto, libretto dell'Adami da una leggenda siciliana [3] - Trieste, Teatro Verdi, 17 febbraio 1923

Il diavolo nel campanile grottesco in un atto, libretto proprio da Poe
Milano, Scala, 22 aprile 1925 [4]
Dafni poema pastorale in tre atti libretto di E. Romagnolí dall'idillio La morte di Dafni di Teocrito - Roma, Teatro Reale dell'Opera, 14 marzo 1928 [5]

La Grançeola opera da camera in un atto, d'argomento popolare dalmata, libretto proprio da una novella di R. Bacchelli - Venezia, Teatro Goldoni, 10 settembre 1932 [6]

Liolà commedia in tre atti su líbretto del Rossato, da Pirandello - Napoli, Teatro San Carlo, 2 febbraio 1935

Lumawig e la saetta fantasia mimocoreografica in un atto e due quadri da una leggenda del figlio Maner - Roma, Teatro Reale dell'Opera, 25 gennaio 1937 [7]

Taormina dramma lirico su libretto dell'Adami - Sanremo, Teatro del Casinò, 4 aprile 1938

La zolfara dramma lirico in un atto, libretto dell'Adami [8] - Roma, Teatro Reale dell'Opera, 27 febbraio 1939
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Le nozze di Haura (1908), libretto di L. Orsini [9] - Roma, Teatro dell'Opera, 1943

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Con La figlia del re Lualdi cerca di dimostrare come sia possibile non accettare integralmente la tradizione dell'opera italiana. Ma la ricerca di una propria via d'azione, che tende anche a centrare l'ambiente esotico con una ricercata timbrica caratteristica (risentendo l'influenza della Sakuntala di Alfano), non riesce a concretarsi in modo coerente e costante. Anche l'orientaleggiante taglio melismatico dell'invenzione vocale finisce per mascherare appena, ma non tanto da non riconoscerlo, il gusto melodico italiano. Ne esce così, nonostante le intenzioni, un'opera tradizionale di buona lega teatrale, con pagine descrittive e con comunicativi episodi vocali, ma nulla più.
Meno compromesso con la tradizione, almeno in superficie, l'altro lavoro, Il diavolo nel campanile. Nel quale il Lualdi compie anche un duplice esperimento, cioè il grottesco portato sulla scena musicale e il teatro da camera, di cui appunto resta uno dei primi esempi italiani. Un duplice tentativo non poi risoltosi del tutto positivamente, nonostante un'indubbia estrosità inventiva che corre un po' lungo l'intera partitura. Ma resta troppo divario tra le parti sentimentali, che rievocano il melodizzare della Figlia del re, e quelle satiriche, polemiche e caricaturali per testo letterario e meno musicalmente, poiché non trovano il mordente che sarebbe stato necessario per sperdersi, invece, tra verismo e neoclassicismo d'accatto. Come ebbe a scrivere il De' Paoli [12] al taglio letterario caricaturale e satirico del libretto,
la musica (che, nonostante qualche apparenza contraria, ripugna alla caricatura ed alla satira) resta estranea... e le numerose deformazioni di frasi musicali celebri, le allusioni parodistiche di cui la partitura abbonda restano lettera morta per il pubblico che non le conosce o, se le conosce, non ha il tempo di concretare il ricordo delle opere e delle tendenze prese di mira: restano ancor più lettera morta per il musicista, perché allusioni e citazioni ottengono solamente il risultato di rendere ancor più disparata una partitura per sua natura già poco omogenea. Il tentativo poteva sembrare legittimo, ma la concezione era viziata alla sua stessa origine. [13]
Di parere diverso il Veretti [14] che riteneva nel Diavolo nel campanile poste in caricatura
quelle penose condizioni nelle quali si è trovata un tempo l'Italia: gli usi e ragionamenti di questo mondo regolare, testardo e sordo si riferiscono ai discorsi di ministri, nomine di commissioni e di sottocommissioni, provvedimenti legislativi da parte dei governi del dopo-guerra... E vuol essere anche una malinconica considerazione sullo stato odierno del teatro lirico italiano, che minaccia rovina non per difetto di musicisti geniali che lo praticano, ma per il pernicioso attaccamento a tutto quello che è definitivamente classificato e glorioso, e per la sistematica negazione di tutto quello che è di oggi e non ancora consacrato.
Anche la valutazione complessiva del Veretti era ben diversa da quella del De' Paoli e da quella che poi si cristallizzerà nella critica posteriore. Difatti Veretti giungeva a valutare «l'opera lualdiana, sommati i suoi valori positivi e negativi, fra i tentativi più ínteressanti e più vicini alla realizzazione di quell'opera moderna italiana, generata dalla tradizione...»
Ma l'insieme è in realtà più spesso banale e casuale nelle varie formulazioni, così da rappresentare sì un prosieguo della tradizione italiana ma a livello abbastanza basso. Resta soltanto il significato caricaturale, anche se non nel senso che riteneva il Lualdi [15] e cioè «violenta satira della decrepitezza spirituale e della menzogna convenzionale, che tentano invano d'opporsi alle energie sempre rinnovantisi e alla forza invincibile della verità e della vita...»
Più concretamente espressione di una «cultura», quella fascista, che si riempiva la bocca di belle parole («verità e vita», ad esempio) e che sotto vi mascherava violenza e odio, arbitrio individualistico, soprusi e ipocrisie.
La grançeola fu occasionata dalle serate dedicate all'opera da camera dal secondo Festival veneziano di musica contemporanea. Con questo lavoro Lualdi intese protrarre l'esperienza del teatro cameristico che gli stava particolarmente a cuore e insieme si proponeva di portare avanti il passo agile e scanzonato che aveva saputo realizzare nelle Furie di Arlecchino, e la vena di fatua sentimentalità che aveva derivato dalle commedie musicali italiane del primo Novecento. In più Lualdi mirava a misurarsi con l'assimilazíone del dato popolare, nel caso specifico con certo materiale popolare dalmata che elaborava nella «canzone della grançeola» e nel Kolo - tipica danza in tondo slava -, due pagine che la critica valutò come le più originali e riuscite dell'opera. La quale, forse più sensibilmente che le Furie d'Arlecchino e meglio certamente che Il diavolo nel campanile, si pone sulla via del Wolf-Ferrari, anche per l'utilizzo delle forme chiuse miniaturizzate, come pareva pretendere l'operina da camera. Tuttavia la musica non può dirsi nel complesso riuscita. Ad essa, come poi alla stragrande maggioranza di lavori lualdiani, conviene massimamente un giudizio formulato dal Rossi-Doria nel 1928.[16] Si tratta cioè di una musica a cui il critico ormai si diceva ostile perché - motivava -«non riesco a sentire vitalità e calore d'ispirazione melodica tali da far dimenticare la retorica e l'incoerenza del discorso sinfonico. Alcune cose, come l'Ouverture delle Furie d'Artecchino, sono di sicuro effetto estetico...»
Nella Grançeola come poi nel successivo Lumawig Lualdi dimostra vivaci attitudini orchestrali che piega però all'effettismo gratuito, all'esteriorità pittoresca, al grottesco goliardicheggiante, alla citazione un po' dotta e un tanto gratuita. Questi i grossi difetti del compositore: difetti che gli consentono di scrivere a getto continuo nel periodo tra le due guerre, quando il potere gli garantiva esecuzioni più o meno immediate e importanti, ormai riconosciuto alfiere della musica «comprensibile» a tutti - perché vuota e epidermica - del tradizionalismo sedicente italiano ma non altrimenti qualificabile dalla superficialità e grossolanità fascista. E su tale linea continuerà a procedere anche nel secondo dopoguerra, quando sfornerà altri lavori specialmente teatrali. E cioè l'atto unico La luna dei Caraibi, che trovò una certa fortuna nel 1953-54, perché esponente di un reazionarismo di facile presa sull'ambiente che osteggiava l'avanzata del movimento dodecafonico nostrano. Come poi altri lavori, rappresentati e no, che seguiranno.[17]
Un episodio invece a sé stante è costituito dallo scherzo coreografico Lumawig e la saetta, nel quale Lualdi diede ancora una volta la misura della cultura della sua epoca e della sua sfera politica. Appunto celebrando da civilizzato che guarda con superiorità e superficialmente l'esotico, la negritudine, il sensualismo del jazz, intendendoli come elementi primordiali. Lo riferiscono certi ritmi sfrenati immessi nella partitura con grande compiacimento, e così certi cori ieratici africaneggianti, ritmati su percussioni insistite, con spunti onomatopeici elementari. Dunque volutamente Lumawig cerca di esporre l'umana animalità scatenata: e lo fa tenendosi ancora saldo linguisticamente alla tonalità e alla sintassi tradizionale. Non diversamente agirà poi il Lualdi nel secondo dopoguerra con la citata Luna dei Caraibi, dove però assumerà un ambiguo linguaggio atonale che - a ben vedere - non è poi tale assolutamente.

NOTE

[1] L'opera svolgeva un argomento siciliano dell'epoca feudale, dalle forti passioni antagonistiche e che offriva anche ampie possibilità di color locale, tra cui quella del tramonto (all'inizio), del ritorno dalla caccia, delle danze rustiche (atto I), dell'inseguimento del lupo (atto II).
[2] Composta nel 1916-17, dopo Le nozze di Haura e Le furie di Arlecchino, La figlia del re vinse nel 1917 il premio indetto dal quarto Concorso Mac-Cormick-Campanini di Parma. La «prima» torinese fu condotta dal Serafin con protagonisti Ester Mazzoleni (Damara), Ezio Pinza (Tahana), Apollo Granforte (Svarga) e Luigi Abrate (Ariuna). Fu ripresa nel corso della stagione 1939-40 all'Opera Reale di Roma. L'azione muove dal mito di Antigone, trasposto nel lontano Oriente, nella mitica India. Due tribù alleate, capeggiate da Svarga e Ariuna, celebrano la vittoria sulla città di Kampilia e la morte del suo re Drupada. Entrambi s'invaghiscono della danzatrice Damara, in realtà figlia del defunto re. Ariuna aiuta la giovane a ritrovare la salma del padre e a bruciarla sul rogo, così contravvenendo a quanto stabilito dal feroce Svarga. Sorpresi da questi sono condannati entrambi: Ariuna ad essere accecato e Damara a divenire schiava di Svarga stesso. Ma mentre la fanciulla danza per l'ultima volta per Ariuna, lo pugnala e quindi si pugnala a sua volta, dopo aver lanciato un segnale per i suoi guerrieri perché assaltino il campo di Svarga.
[3] L'atto unico è ambientato nella campagna di Monreale, assolata e riarsa. In primo piano è il popolo che soffre la siccità e la carestia, mentre sullo sfondo sta l'amore tra Maru (soprano) e Pedru (tenore). La Monacella (contralto) è una figura soprannaturale che nel corso del rito per la Madonna del Carmine compirà il miracolo di far crescere le messi.
[4] Protagonisti della rappresentazione scaligera, diretta dal Gui, furono Elvira Casazza (Irene), Gaetano Azzolini (Carpofonte), Rosina Torri (Eunomia), Piero Menescaldi (Tallio), Aristide Baracchi (il custode dell'Orologio), José de Olivera (il diavolo). L'azione si svolge in una città immaginaria, dominata dal campanile su cui sta l'orologio detto «l'infallibile», simbolo dell'Ordine, e dove dieci vecchioni dalle barbe fluenti tengono acceso il fuoco sacro della Dea Regola. La vita scorre tranquilla e regolare, apparentemente tutto si svolge nella norma, comprese le tresche di giovani uomini e donne a dispetto degli anziani consorti e senza che questi se ne accorgano. Un giorno il diavolo ci mette la coda. Entrato nel campanile rivoluziona il tempo e rompe la regola, così che la città impazzisce. Quando il diavolo se ne andrà lascerà una città dove ognuno vive liberamente, nella più completa sregolatezza. Il diavolo nel campanile fu accolto con molto entusiasmo e si vide persino dedicare completamente il n. 5 di «Musica e scena», che pubblicò anche un buon numero di lusinghieri giudizi espressi da musicisti italiani e stranieri. Ebbe successo anche nelle svariate riprese in Italia (tra l'altro a Roma, nel 1930), ed estere (nel 1935 a Coburgo, nel 1938 a Stoccarda). Fu ripreso anche nel dopoguerra, tra l'altro a Cagliari (1952) e al Maggio Fiorentino (1954), dove però venne valutato come ormai troppo distante dai gusti e dalle tendenze della giovane musica italiana.
[5] Dedicato a «Benito Mussolini, fiera anima italiana», il poema pastorale rievoca il mito di Dafni e Egle, il cui amore è contrastato dalla gelosia di Venere e dalla concupiscenza del satiro Sileno. Venere punisce l'indifferenza di Dafni condannandolo a cercare invano la sua innamorata. Sileno e i suoi satiri inseguono Egle, ma la fanciulla per sottrarsi alle brame di quelli si lancerà in un precipizio. Nel disperato tentativo di soccorrerla anche Dafni si lancia nel vuoto. Il pastore è raccolto morente mentre Egle è invece stata salvata dall'impietosita Venere. I due amanti vivono un ultimo momento insieme, prima che Dafni muoia, pianto da Egle e dai pastori. All'Opera romana fu diretta dal Marinnesi ed ebbe per protagonisti Bianca Scacciati (Egle) e Lo Giudice (Dafni).
[6] La vicenda della Grançeola è imperniata sul classico trio amoroso, con la giovane Dalmatina che ama ed è riamata dal marinaio Marchetto, mentre anche l'attempato Schiavone, padrone del giovane, la concupisce. Per sbarazzarsene i due giovani buttano a mare il vecchio e lo ripescano coperto di fameliche granceole, che soltanto il canto della ragazza saprà ammansire. Naturalmente in cambio della liberazione i due otterranno dal maturo amatore la promessa di non essere più infastiditi. Diretta dallo stesso Lualdi, l'opera - ambientata in epoca contemporanea, in un'isola dalmata - ebbe per interpreti Iris Adami Corradetti, Alessio de Paolis (Marchetto) e Ernesto Badini (Schiavone). La regia fu firmata da Lothas Wallerstein, scene e costumi da Guido Marussig.
[7] Il balletto costituì una delle novità del cartellone 1936-37 dell'Opera di Roma, insieme a Ginevra degli Almieri di Mario Peragallo. Con molta eleganza il corrispondente della «Rassegna musicale», Luigi Colacicchi, riferì delle due novità concentrando l'attenzione sull'opera del Peragallo, dedicando uno spazio limitato a Lumawig. Di cui dice che sviluppa una «fragile trama» che serve come «pretesto al susseguirsi di una serie di quadri scenici variamente coloriti». La musica, soggiunge, aderisce «alle parti dinamiche con degli episodi vagamente descrittivi. In più, un coro interno commenta di quando in quando i salienti del racconto, costituendo una sorta di orizzonte alle delicate atmosfere strumentali. C'è ancora una sommessa canzone, quasi uno spiritual negro, per il tipo della melodia e il giro delle armonie, che, variamente presentata, collega fra loro le diverse scene del balletto. Alla fine, ripresa in piena sonorítà dal coro e dall'orchestra, assume il rilievo massimo, e conclude la vicenda con un inno trionfale». La fantasia mimo-coreografica, dopo la «prima» romana, fu ripresa a Napoli nel 1938 e quindi accantonata. Nel dopoguerra Lualdi ne curò una nuova versione, aggiungendovi un antefatto, che chiamò Praehistoria, e lo presentò alla Scala il 29 maggio 1956. Nel rifacimento accentuò il tono barbarico e animalesco del
lavoro, aggiungendo nella citata Praehistoria, ambientata nella foresta, tutta una serie di onomatopee e persino «urla di bestie registrate». Con questo ambiente contrastava non poco l'arrivo degli dei Apollo, al suono di una Sarabanda, Dioniso, di una Mazurca, e Afrodite, di un Valzer. Riportava il caos Ciclone Zeus. Sia la storia che il rivestimento musicale e così i mezzi scenografici (ad esempio la nuvolapullman su cui arrivavano gli dei) davano tutti l'impressione di un goliardismo stantio e gratuito. La vicenda è incentrata sull'amore di Wenka e Habima, a cui pone fine Lumawig, dio della saetta, che appunto scaglia uno dei suoi dardi contro il giovane Wenka e lo fulmina. La bellissima Habima raggiungerà poi la cima della montagna dov'è il rifugio di Lumawig e lo sedurrà con le sue danze. Lumawig perde la testa e lascia cadere le saette. Di una si impadronisce Habima che la scaglia contro il cielo e può così rompere l'incantesimo e riavere lo sposo Werka.
[8] L'azione è ambientata in Sicilia, nel primo Ottocento. Un gruppo di zingari si ferma presso una zolfara per dare spettacolo ai lavoratori. È uno spettacolo violento, con la danza della frusta a cui è sottoposta la bella Zulma, colpevole di avere disobbedito all'amante e al marito. La danza eccita il padrone della zolfara che maltratta e frusta i suoi sottoposti, ignorando i lamenti quando ormai stanchi vorrebbero sospendere per poco il lavoro. Una donna per sottrarre un ragazzo ai maltrattamenti scaglia una pietra contro il padrone, mancandolo per un soffio. Naturalmente si scoprirà che il ragazzo è il figlio del padrone e ciò lo farà ravvedere, strappando al popolo grida di esultanza.
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