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ADRIANO LUALDI

DIARIO II

TUTTI VIVI


STORIA DI HAURA E DI MANER

Torino, ottobre 1939. - Da quandoManer mi ha messo k. o. sul ring dell'Eco della Stampa, molti mi domandano: Ma perché lo hai chiamato Maner? Dove lo hai pescato, questo nome?
Questo bel nome lo pescai nelle acque del Nilo; ed ecco: è venuto il momento di raccontare come ciò avvenne.
È venuto il momento, perché le sere di giovedì 19 e sabato 21 ottobre dirigerò nell'Auditorio di Torino dell'E.I.A.R., e sarà radiotrasmessa, la prima esecuzione assoluta dell'opera mia giovanile:
Le nozze di Haura, scene liriche in un atto, libretto di Luigi Orsini.
La composi giusto trent'anni fa, nella primavera del 1909: e senza spiattellare i miei affari personali, posso assicurare che, in quegli anni, ero veramente molto giovane.
Avevo iniziato la mia carriera nel 1907, mentre ancora studiavo con Ermanno Wolf-Ferrari, alla «Fenice» di Venezia dove, direttore Tullio Serafin, sparavo il cannone, suonavo le campane e - dalla buca del suggeritore - ammiravo le gambe, e loro dintorni, delle ballerine ne La dannazione di Faust e in altre opere. Diplomato nel giugno 1907, ero stato chiamato nell'autunno dello stesso anno da Pietro Mascagni, come suo sostituto al Teatro Lirico di Milano.
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Nella primavera del 1908 poi avevo diretto la mia prima stagione d'opera a Mirandola (Modena), con la Norma. L'impresario, che ne aveva pochi, ma sempre piú di me, mi aveva onorato di tutta la sua fiducia e di tutta la sua economia scritturandomi col triplice obbligo contrattuale di Maestro concertatore e direttore d'orchestra, Maestro istruttore dei cori, Maestro sostituto dell'uno e dell'altro. Il tutto per lire 12,50 al dì, e a me era sembrato un ottimo affare.
Le mie faccende, per essere all'A, B, C, andavano in complesso abbastanza bene; ma ero, certo, meno occupatissimo del Ministro del «Bosco sacro», o di quei pezzi grossi della burocrazia siamese che fanno fare, a chi vuol vederli - se si tratta di tipo innocuo - tre quarti d'ora e anche un'ora di anticamera.
Qualche settimana, mettiamo qualche mese, mettiamo qualche semestre di «riposo» Io avevo, nella mia tetra camera mobiliata di Corso Indipendenza 14, a Milano.
In Galleria andavo, sì, ogni giorno: per «farmi vedere», per «tenere i contatti» come mi avevano consigliato. Ma maledetta la volta che avessi abbordato un impresario o un agente: ero di una riservatezza estrema, e non mi pareva mai che fosse il «momento buono». E poi, non potevo stare tutto il giorno in Galleria. Bisognava vincere la malinconia e combattere la minaccia di impigrimento.
Realizzare un vecchio sogno. Comporre
un'opera; anzi «l'opera».
Ma il libretto? Non pensavo ancora alla soluzione piú semplice, adottata poi, a partire da La figlia del re: fare il libretto io stesso.
I librettisti che andavano per la maggiore li consideravo inabbordabili; e poi tendevano tutti a quel «verismo» che era la moda del momento, ma dal quale io, pur ammirandone le opere maggiori, mi sentivo spiritualmente lontanissimo.
Pensavo ad un'atmosfera insolita, a un tempo leggendario, a una pagina di poesia e di fantasia, e volevo che il testo fosse scritto in buona lingua italiana.
A Luigi Orsini, del quale ero amico, confidai i miei disegni.
***
Mi propose, e io accettai, la poetica antica leggenda della Sposa del Nilo.
L'azione si svolge presso un piccolo villaggio copto, sulle rive del Nilo, nei primi tempi della conquista araba (anno 18 dell'Egira). Il fiume sacro non da ancora segno - e il termine ultimo è trascorso - della piena fecondatrice dei campi che ogni anno è attesa con ansia dal contadino e dal popolo, come sicuro auspicio di buon raccolto e come arra del favore divino. È l'alba, e voci lontane di barcaioli, di Fellah, di vedette del fiume lamentano a vicenda e la magra delle acque e l'inutile fatica delle braccia sull'arida gleba. Sopraggiungono scolte, e una teoria di vergini, e gente del popolo a confermare che, se il Nilo non ha mantenuto la sua promessa, sarà necessario propiziare il Dio irato nel modo voluto dalla legge antica, col sacrificio, al Fiume, di una fanciulla: la «Sposa del Nilo».
Un sacerdote, Ahmed, spiega la legge e procede al sorteggio dinanzi a tutto il popolo riunito, e pieno di ansia. Haura, la bellissima, è sorteggiata. È essa che dovrà scendere al mortale abbraccio delle acque. Subito si ode un grido: è Maner, il fidanzato di Haura, che si precipita disperatamente verso l'amata. Il popolo dolorante, guidato da Ahmed il sacerdote, si allontana per preparare la cerimonia del sacrificio, e lungamente, affettuosamente compiange i due giovani sui quali si è abbattuta la sventura. Maner e Haura, rimasti soli, si dicono il loro amore, rievocano le serene dolci ore del passato. Al disperato dolore di Maner, Haura che reca il conforto della sua purezza e della obbedienza alla volontà divina. Ritornano le fanciulle: Haura dovrà ora recarsi con loro, e prepararsi alle funebri nozze. Dopo un ultimo abbraccio i due amanti si dividono.
Si è spenta appena l'eco delle loro voci lontananti quando, con grande tumulto di passi e di grida, tutto il popolo irrompe precipitosamente nella scena. Sono, con la folla, il sacerdote Ahmed e il principe Amrou, generale del Califfo Omar. Il principe Amrou, dopo aver sentito da Ahmed la causa dell'agitazione del popolo, si oppone al sacrificio della vergine Haura: esso offenderebbe le umanissime leggi del Califfo. Alla pervicace, fanatica intransigenza di Ahmed e degli altri sacerdoti, Amrou risponde, infine, rivolgendosi al popolo ed esortandolo a ripetere la preghiera che egli stesso intonerà al fiume e che, vergata su un papiro, sarà poi gettata alle onde, per ottenere che avvenga la piena, e Haura sia salva. Mentre Amrou intona la solenne preghiera, vi è chi scrive sul papiro, mentre dodici arpiste coi loro strumenti e tutto il popolo si preparano a ripeterla. In un grande unissono la preghiera è poi ripetuta da tutta la folla. Le voci corali sono appena cessate, che - accompagnata in corteo dalle compagne - ritorna Haura. Tutto è pronto ormai. Mentre Haura incomincia a spogliarsi - essa deve entrare nuda nel fiume - Amrou getta ieraticamente il papiro nelle onde. Segue Haura la sua azione religiosa, fra il silenzio angosciato. di tutto il popolo.
Essa sta per togliersi l'ultimo velo, quando voci prima lontane, poi vicine, gridano, e gridano che l'acqua del fiume si accresce, si avanza a enormi ondate, palpita, scintilla, danza. Haura è salva e andrà alle sue liete nozze con Maner. Un grido di tutti saluta la gloria di Allah.
In quindici giorni Orsini mi consegnò il libretto. In tre mesi composi la musica.
Compiuto che ebbi, nell'estate del 1909, a Malgrate di Lecco, lo strumentale, mandai l'opera ad un concorso del Ministero, della Pubblica Istruzione, dove non fu presa in considerazione alcuna.
Ma quando, sul finire del 1911 - mi ero intanto sposato, avevo già un bambino - venne in Italia, da Monaco, il mio, Maestro, Ermanno Wolf-Ferrari, a lui feci sentire «Le nozze di Haura».
L'opera gli piacque molto, egli stesso spontaneamente si offrì di parlarne a Tito Ricordi, che era allora lo Zar del mondo musicale italiano. Conoscevo il «Signor Tito» per sentito dire. Uomo intelligente, ma carattere autoritario e secco; e coi compositori, poi, se non gli andavano, di una rudezza da levar la pelle e il fiato.
Quando, ai primi di febbraio del 1912, mi invitò per l'audizione, mi feci precedere dal libretto, e il giorno fissato mi recai a Casa Ricordi con lo spartito non arrotolato nella mano, sinistra, e con uno spaghetto da non si dire in tutte le altre parti del corpo.
Dopo che ebbi vigorosamente suonato e cantato, Tito Ricordi mi disse subito: - C'è molta ispirazione, prendo l'opera; la pubblicherò; ma non le prometto affatto di rappresentarla. Come lei sa, ho dei grossi impegni editoriali con altri Maestri compositori, che sono già della Casa.
In onta a queste dichiarazioni, delle quali solo negli anni seguenti dovevo conoscere la gravità e la minaccia, io mi sentii istantaneamente trasferito al settimo cielo: quello. dicesi, di tutte le allegrezze e di tutte le glorie.
Un mese dopo, il 23 marzo. la mia Wanda dava alla luce il nostro secondo figlio. Eravamo, essa ed io, così calibrati ancora nell'euforia del grande avvenimento editoriale di febbraio, che decidemmo di dare al nostro piccolo, per ricordo della nostra prima grande gioia d'ordine artistico, e per buon augurio, il nome del buon compagno di Haura; il nome a noi oggi tanto caro e dolce, che ci riempie di fierezza: Maner.
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Alla fine del 1912 Wolf-Ferrari ritornò in Italia. Quando seppe, dallo stesso editore, che nessun passo sarebbe stato compiuto dalla Casa per far rappresentare l'opera in Italia, mi consigliò di fare qualche tentativo in Germania. Ne parlai a Tito Ricordi che trovò buona l'idea, e mi diede ottocento lire per il viaggio.
Partii con mia moglie, ai primissimi del 1913, munito delle presentazioni di Wolf-Ferrari per Bruno Walter, che dirigeva il Teatro di Stato di Monaco e per Ernst von Schuch, che dirigeva il Teatro di Stato di Dresda. Questo, celeberrimo - ed era infatti un grandissimo direttore d'orchestra; - l'altro, Walter, già avviato alla luminosa carri era che poi ha percorso.
Bruno Walter, sentita l'opera, mi disse: - Lei ha un ricco temperamento, ma di carattere drammatico; questo libretto è troppo lirico. Scriva un'altra opera, drammatica questa, e ritorni a farmela sentire.
Corremmo difilato alla stazione.
A Dresda le cose andarono diversamente.
Ernst von Schuch volle sentire due volte l'opera. Dopo la seconda audizione, presenti Ernst von Schuch e il Generalintendant von Seebach, attesa spasmodica di quattro giorni all'albergo Goldenen Engel.
Finalmente, la mattina del 13 gennaio, una chiamata a Teatro. L'opera è stata accettata, e sarà rappresentata nel Teatro di Stato di Dresda, sotto la direzione di Ernst von Schuch, nell'inverno del 1914.
Casa Ricordi pubblicava infatti, ai primi del 1914, la elegante edizione bilingue dello spartito: LE NOZZE DI HAURA - HAURAS HOCHZEIT che dedicai, naturalmente, a Ermanno Wolf-Ferrari.
Nell'estate del 1914, però, incominciarono in Europa quei piccoli incidenti che tutti ricordiamo, e che durarono fino al 1918.
E cosí, insieme a molte altre cose molto piú importanti, avvenne che la esecuzione della mia Hauras Hochzeit a Dresda non ebbe più luogo.
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Ermanno Wolf-Ferrari, il buon Maestro che disapprovava i sistemi degli editori musicali italiani (egli stesso, italiano, da essi respinto aveva dovuto trovarsi i suoi in Austria e i. Germania; e in Germania e in Austria percorrere i primi dieci anni della sua brillantissima carriera di operista) era dispiacente quanto me che l'opera mia alla quale si era interessato giacesse sepolta negli archivi di Casa Ricordi. E volle un giorno riparlarne al signor Tito.
In quegli anni gli editori di musica usavano imporre ai Teatri (perché ne avevano la forza) le opere dei Compositori ai quali tenevano. Erano veramente gli arbitri della buona e della cattiva fortuna (limitata a quel momento) di un artista; non del suo destino e della sua fortuna avvenire, come largamente si è visto nell'ultimo quarantennio. Usasse dunque il signor Tito, diceva Wolf-Ferrari, della grande forza di cui disponeva; e si decidesse a trovare; anche per Le Nozze di Haura, un Teatro che la rappresentasse. Risposta testuale del signor Tito, riferitami da Ermanno Wolf-Ferrari: «So che Lualdi ha molto talento, e gli ho dato prove della mia fiducia pubblicando Le Nozze di Haura e acquistando La leggenda del vecchio marinaio che pubblicherò più tardi (la mia prima opera sinfonica; la pubblicò nel 1920); ma io avvertii subito Lualdi, quando accettai l'opera di teatro, che non gliene promettevo la esecuzione. D'altra parte, Lualdi è giovane, e non ha ancora fatto la sua via crucis».
Nel dopoguerra, preso da altri lavori, io non pensai piú alle Nozze di Haura e l'editore meno che mai.
Senza dircelo, si vede che avverano di perfetto accordo deciso di svegliarla dal suo sonno catalettico in occasione del trentennale della sua nascita che si compie proprio in questo 1939.
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Ecco perché Haura, trovandosi ancora in stato di verginità a trent'anni, mostra, in fondo, di essere un'oca, e di aver meritato forse tale iniqua sorte; mentre invece Maner s'è messo a volare per conto suo ed è diventato un bello prode aquilotto d'Italia.