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MONOGRAFIE DI AUTORI ITALIANI CONTEMPORANEI RICORDI

ADRIANO LUALDI

RICORDI - MILANO - 1954






La vocazione di Adriano Lualdi non fu tarda a manifestarsi. Ancor giovanissimo, infatti, risalì dal natio Abruzzo a Roma, compiuti che ebbe gli studi classici, nell'allora Liceo musicale di Santa Cecilia ebbe a maestro di contrappunto e fuga Stanislao Falchi, per dirigersi più tardi alla volta di Venezia dove completò l'educazione artistica alla scuola di Ermanno Wolf-Ferrari. Questo provvidenziale contatto con il raffinato autore dei Quatro rusteghi era destinato ad avere decisiva ínfluenza sulla futura attività artistica dell'esordiente compositore, che non poco riuscì ad assimilare da quel sano mondo musicale veneziano che non aveva trascurato il prezioso insegnamento del verdiano Falstaff. Già sui banchi della scuola la vena del musicista ventenne si era espressa in maniera assai promettente, tanto che l'allievo diplomando in composizione era riuscito ad approntare per l'esame di licenza una cantata per soli, coro e orchestra su testo di Arturo Graf dal titolo Attolite portas che, dopo la favorevole accoglienza nella sede accademica, ottenne di essere eseguita anche in altre città italiane fra le quali Como. Così per una volta tanto un diploma non testimoniava solo il superamento dei corsi scolastici, ma laureava un compositore.
Per un musicista che intorno al 1907 si affacciava alla vita musicale italiana carico di entusiasmo e del desiderio di esprimersi, due erano le attrattive irresistibili: la tradizione dei teatro melodrammatìco, e, in campo strumentale, il poema sinfonico. Ed ecco che nell'anno che seguì il diploma, il Lualdi si cimentò nel poema sinfonico L'Albatro e, sui sonanti versi di Luigi Orsini, scrisse l'opera in un atto Le Nozze di Haura. Toccò a quest'opera un singolare destino: poichè, se ebbe la ventura di trovare un editore, il sopraggiungere della prima guerra mondiale ne mandò in fumo la progettata rappresentazione nel Teatro di Stato di Dresda; e quando l'orizzonte ritornò sereno e il teatro lirico riprese in pieno la sua attività, Lualdi aveva pronti lavori ben più maturi, così che Le Nozze di Haura furono messe temporancamente in disparte e fecero la loro comparsa sulle scene dell'Opera di Roma soltanto nel 1943, a distanza cioè di 35 anni dalla loro nascita. Questa «prima assoluta» che aveva lo strano sapore di una rappresentazione retrospettiva, ebbe agio di dimostrare la provveduta mano e il vivace senso del teatro che già possedeva il Lualdi ventenne.
La lusinga del poema sinfonico, inteso più nelle sognanti atmosfere debussiane che non attraverso le drogate densità straussiane, attira la fantasia dei compositore che, con la impressionistica Leggenda del vecchio marinaio (1910), seppe dar prova di quanto la sua niano di strumentatore fosse scaltrita nel portare in orchestra la struttura di immagini fortemente evocatrici. Più tardi sopraggiunse anche la prova nel campo della musica da camera, e il Quartetto in mi maggiore (1914), pur nel suo taglio classicheggiante e nella sua struttura eminentemente polifonica, riconfermò la spiccata tendenza dei musicista a prediligere la cantabilità distesa e piana sempre confortata da un gustoso piglio popolaresco.
Qui occorre dire che si era intanto verificato, nel 1912, un incontro decisivo per l'orientamento estetico e spirituale e per la formazione della personalità artistica del Lualdi: la scoperta a Milano, su una bancarella di libri usati, e la lettura folgorante di un prezioso opuscolo di Giuseppe Mazzini, La Filosofia della musica, che colpì profondamente e lasciò orme indelebili nello spirito del giovane maestro, sì da essere da lui assunto a guida luminosa e a vangelo della sua attività artistica. Di questa importante fra le minori opere del Mazzini, Lualdi si fece già allora divulgatore e zelatore in articoli di riviste e giornali; e, recentemente, nelle due edizioni 1940 e 1954 (Bocca) di un volume ad essa dedicato a questo illuminato altissimo vangelo il Lualdi rimase sempre, ed è oggi più che mai, fedele nell'opera sua di compositore. A tale giovanile momento della vita artistica si riallaccia il Quartetto in mi maggiore di cui si è detto: esso rappresentò infatti, in quegki anni, lo studio di prepacazione per la ricerca dell'atmosfera armonica e per lo sviluppo di alcuni temi della tragedia La figlia del re, della quale proprio nel 1914 Lualdi aveva scritto il libretto.
Dopo questo incontro decisivo, nella temperie della prima guerra mondiale la personalità del Lualdi venne decisamente maturandosi attraverso due opere di teatro che posero in evidenza gli aspetti decisamente contrastanti della sua schietta vitalità musicale: il primo aspetto che traeva la necessaria linfa da una specie di gusto tipicamente veneziano per le brillanti situazione comiche e che appariva alimentato sia dalla origine veneta del maestro (i suoi genitori erano infatti veneziani), sia dai proficui contatti formativi con l'insegnamento di Wolf-Ferrari; il secondo che riallacciava il canto del musicista al sensuale turgore dellla corrente postverista nostrana, con unapreferenza verso i soggetti tragici. Del primo aspetto resta documento inequivocabile l'intermezzo giocoso in un atto Le Furie di Arlecchino (1915) su libretto dell'Orsini, che ebbe lietissimo battesimo al Carcano di Milano; d'intonazione tragica furono invece i tre atti La Figlia del re il cui testo fu trattato dallo stesso Lualdi su una trama ispirata dal Mahabarata, e che - dopo aver vinto nel 1917 il premio di 20.000 lire del Concorso E.M. Cormick di Parma - furono festosamente accolti nel 1922 al Regio di Torino. Questa tragedia lirica su soggetto indiano rivelò la felice intuizione del compositore nel risolvere in evidente plastica tematica la varia psicologia dei personaggi del dramma, nel raggiungere attraverso il sapiente uso di un avveduto cromatismo la sottile vaghezza del colore esotico, nel costruire con facilità d'inventiva episodi densi di emozione nei quali le risorse di moderne acquisizioni tecniche vivificano scenicamente gli impeti di primordiali passioni. Con questo suo importante lavoro il Lualdi trentenne riusciva a dimostrare come le ferree leggi del teatro musicale possono consentire l'intimo rinnovarsi nell'espressione senza per questo dover venir meno alle fondamentali e familiari esigenze d'antiche tradizioni. Recenti riprese di questo lavoro che, in sede puramente cronologíca, può considerarsi opera gìovanile, hanno confermato il successo che l'accolse al suo apparire quando Toscanini ne volle essere l'autorevole padrino.
Lo spirito di letizia che anima l'opera da camera Le Furie di Arlecchino, nella quale il musicista trasfuse quella giocondità piccante destinata a rimanere il lato più ammirato della sua personalità, doveva potenziare in seguito il suo vivace mordente per giungere al grottesco in un atto Il Diavolo nel campanile (Milano, Scala 1925) il cui argomento scenico fu ideato dallo stesso Lualdi sul soggetto di un racconto di Poe. Qui la scrittura distesa, tanto cara all'istintivo senso polifonico dei compositore, si anima di scatti repentini e alacri, di trovate gustose ed insolite, di paradossali assaggi tecnici che l'autore affronta con brillantezza di mano. Basterebbe citare come l'uso saporoso della variazione melodica e ritmica o armonica che accompagna, ad esempio, il ripetersi della «Canzone del custode dell'orologio» (il cui placido temi si trasforma nel finale, in travolgente ritmo di danza), riesca a porre quasi in caleidoscopica luce il clima conservatore che grava sullo strano «Paese del sistema» dove si svolge la fantasiosa vicenda, per convincersi di come la interiore unità strutturale sia costante preoccupazione del Lualdi anche laddove la vena potrebbe apparire abbandonata ai variopinti ghiribizzi dell'estro.
Fra l'abbandono drammatico de La Figlia del re e la bulinata comicità de Il Diavolo nel campanile, il musicista aveva fatto ascoltare a Milano la ballata per soprano e pianoforte La Morte di Rinaldo, e, per il Teatro dei Piccoli, era stata presentata a Roma la leggenda medioevale Guerrin Meschino (1920) su testo di Giovanni Cavicchioli. Il decennio 1920-1930 accanto alla Sonata in sol maggiore per violino e pianoforte vede rafforzarsi quel bisogno istintivo del maestro a espandere in cantabilità affidata alla voce timana il proprio interiore urgere musicale, attraverso pagine che arricchiscono notevolmente il nostro repertorio lirico da camera. Sono di codesto periodo i due Rondeaux su testo rinascimentale di C. Marot, nei quali i vecchi ritmi poetici rivivono nel morbido clima pittorico di un sapido recitar-cantando; i tre Canti dell'isola, che nei tocchi delicati della amorevole veste sonora ripetono, potenziata, la suggestiva evocazione poetica di Ada Negri; i Due pezzi corali a tre voci femminili su poesie di Saffo e Tommaseo; i Tre pezzi corali a voci miste su testi di Pusinich, Rau e Poliziano, che testimoniano la fluida scioltezza dell'espressione polivoca del maestro; la canzone romanzesca per soprano e orchestra da camera Sire Haletvyn che, superando i limiti della comune lirica, si afferma come un poemetto ricco di afflato chiaroscurale e dì immediatezza emotiva.
La Rosa di Saaron (1931) che l'autore definì «arazzo» per soli, coro e orchestra, nella sua rievocazione del clima appassionato del «Cantico dei cantici» mise ancora una volta in calda evidenza l'esuberanza amorosa dell'anima musicale del Lualdi che qui si accende di morbidi tocchi nostalgici. Ma l'affermazione più significativa di quegli anni fu l'opera da camera in atto La Grançeola il cui libretto, sempre dovuto al musicista, si ispirò ad una novella di Riccardo Bacchelli, e che costituì uno dei successi del Festival di musica contemporanea di Venezia nel 1932. Lo spiccato talento dei compositore per il teatro comico, che da Le Furie di Arlecchino al Diavolo nel campanile aveva documentato una vasta gamma di colorazioni efficacissime, raggiunge qui un equilibrio essenziale fra lirismo e comicità. Tradizione e modernità, gaiezza e cantabilità, struttura serrata e scioltezza d'azione si danno amabile convegno in questa partitura dove una naturalezza tutta italiana chiarifica ogni problema sia scenico che musicale. L'arguzia tipica dell'anima qui doppiamente venezíana del compositore, non ha mai bisogno di ricorrere a lenocinii di dubbio gusto per guadagnarsi la simpatia dell'ascoltatore; essa troverà sempre una soluzione musicale che, o sulla melodiosità dei pezzi chiusi o sulla ariosità dei recitativi, saprà far procedere la vicenda sul binario melodrammatico.
Il Lualdi sinfonista ha ancora i suoi momenti felici dì affrescatore che riesce ad abbinare la chiarezza dell'idea con una facondia colorita e varia, sia nella Suite adriatica (1932) che comprende: «Ouverture per una commedia», «Tramonto fra pasture e marine», «Kolo, danza nazionale dalmata» sia nella rapsodia coloniale Africa (1936) dove all'abusato carattere esotico, letterarianiente inteso, si sostituisce un sorprendente dinamismo ritmico che trasferisce sul piano sinfonico la nativa travolgenza delle danze negre. Questo inatteso aspetto della personalità artistica del Lualdi che allontana le nuove pagine tanto dal brillante accento veneziano quanto dagli appassionati abbandoni venati di calda sensualità che abbiamo fin qui sottolineato, assume ora un carattere di incisività estrosa e di festosità audace dal quale prenderà le mosse il balletto Lumawig e la saetta su soggetto del figlio del compositore, Maner Lualdi (Roma, Teatro dell'Opera, 1937). Qua la baldanza ritmica e la originale sagacia strumentale vivificano e, più ancora, suggeriscono gli episodi e le immagini cori quella vigoria descrittiva che si conviene ad una partitura che vuole accoppiarsi alla danza.
Questa vasta attività prettamente musicale non aveva impedito al Lualdi di occuparsi acutamente di critica musicale, di indagini umanistiche e di trascrizioni di antichi testi. Oltre a tenere la rubrica musicale in quotidiani di Milano e Roma, il musicista dette alle stampe anche vari contributi e volumi, fra i quali citiamo quelli dedicati a Debussy, al Principe Igor di Borodin, alla Filosofia della musica di Mazzini, al Rinnovamento musicale italiano (1931), ai suoi «viaggi musicali» in Italia (1927), in Europa (1928), nel Sud America (1934), nell'U.R.S.S. (1941). Raccolse nelle interessanti Serate musicali la personale esperienza critica di varie stagioni liriche, e ne L'arte di dirigere l'orchestra (1940) espose una copiosa e utile documentazione teoretica e pratica -sull'argomento. Nè qui è tutto; che nel 1936 il Lualdi veniva nominato direttore del «Conservatorio S. Pietro a Majella» di Napoli e, nel 1947, passava a dirigere il «Conservatorio Luigi Cherubini» di Firenze e a presiedere con entusiastico fervore l'Accademia Nazionale Cherubini. Nel campo delle revisioni il musicista si è occupato particolarmente dei concerti di Durante, e di Pergolesi, delle sinfonie di Cherubini, delle opere di Paisiello. Infatti l'opera Il Mondo della luna di Paisiello, riportata in luce dal Lualdi, si è di recente affiancata all'ultimo lavoro teatrale del maestro, La Luna dei Caraibi, su libretto che il compositore ha ricavato dal forte dramma di O'Neill (Roma, Teatro dell'Opera, 1953). Questa partitura di intensa atmosfera umana e di forti accenti nostalgici ha seguito, nella ripresa musicale del dopoguerra, gli altri lavori teatrali del Lualdi: Montecassino (Venezia, 1946) e Santa Caterina da Siena (Siena, 1949). Ai quali si devono aggiungere gli inediti: la tragedia lirica L'isola dei beati; la commedia radiofonica Il Signore degli echi (in collaborazione con Orio Vergani); le 12 Antifone di Santa Cecilia per coro misto a 3, 4, 5, 6, 12 voci; le 20 Liriche, su testi classici greci e, recentissima, la prima «interpretazione e trascrizione» italiana per orchestra da camera del monumentale capolavoro di G. S. Bach, L'Arte della fuga.