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MARIO MORINI

UN DIALOGO INTRODUTTIVO

ALLE CRONACHE MUSICALI
DI UN SESSANTENNIO (1907-1967)


LA BILANCIA DI EURIPIDE
pp. 461-469


Quando, in un giorno del maggio di quest'anno [1957], entrai nel suo studio rivestito di scaffali colmi di libri, illuminato dai due finestroni che si affaciano sul Largo Augusto, - e quello di sinistra ha in primo piano la statua del Redentore che s'alza con la sua croce sul capitello della colonna votiva del vecchio Verziere milanese, - Adriano Lualdi era intento a legare un grosso pacco - mezzo metro cubo, mettiamo - di giornali e riviste.
- Per il mácero, Maestro?
- Mai più. Da scremare. E molte di queste pagine uscite dalle rotative o dai rotocalchi hanno i loro segni a penna - pennello rosso scarlatto, - con le paroline che ne precisano la destinazione nell'inserto «documentario stampa» al quale sono destinate: e il titolo del periodico, la data di pubblicazione, il nome dell'autore se è qualcuno. Così per le varie voci: «Natura», «Religione», «Astronautica», «Scienza», «Musica», «Teatro lirico», «Lettere», «Poesia e teatro», «Clima», «Criminalità», « Malcostume», «Politica», eccetera.
Un bel regalino che vado preparando da più di due anni ormai, - da quando ho varcato la soglia degli «ottanta» - per quei disgraziati - se li troverò - che si assumeranno il compito di portare a buon fine una delle «Incompiute» - questa - che, profondamente rammaricato della impossibilità di portar via tutto con me (mi piacerebbe tanto), dovrò lasciare sul marciapiede della stazione al momento di salire sul treno di Liliom. Lo r[corda, nell'edizione cinematografica della Leggenda di Ferenc Molnar, quel meraviglioso «Settebello» che viaggia fra le nuvole e ci porta in un battibaleno dinanzi alla Corte Suprema?
Quest'operazione nella quale Lei mi sorprende, è il mio modo di occupare il poco tempo libero di cui dispongo, ed è anche il mio modo di far le valigie di minor conto, destinate all'archivio di un ignoto erede, dirò consanguineo, il quale, aggravando la tara della grafomania col vizio - anche questo mio congenito - del diarismo, ami avvalersi del genere «divulgativo» di temi assai ardui, e della cronaca nera bigia e rosa, per documentare, quando occorra, quel che gli salta in mente di scrivere. Non ho la minima idea di chi provvederà a raccoglierle dal marciapiede della grande stazione terminale queste valigie di minor conto. Ma questo è il mio modo di attendere l'arrivo del meraviglioso «Settebello».
- Lei pensa all'avvenire, Maestro, e dà tempo al tempo. E, con questo, rende più grave il mio imbarazzo, sebbene m'introduca all'argomento spinoso, al motivo di questa mia visita. Debbo dirle infatti - contro ogni mia previsione - che assolutamente mi manca il tempo di stendere, come avrei voluto e come mi sarebbe piaciuto anche per la novità dell'assunto, la nota prefativa a questa antologia di cronache e critiche musicali comprese nel sessantennio 1907-1967. E non so dirle quanto mi rincresca dover rinunciare all'invito dell'Editore, e al piacere di provarmi nell'approfondimento e nello studio di un materiale già storico a proposito di un artista ancora presente e operante. Se ho atteso fin oggi - a un mese dalla data stabilita per la consegna del testo richiestomi, - a renderle questa confessione, è proprio perché speravo, credevo, ero certo di poter evitare a Lei e all'Editore il disappunto, a me l'insoddisfazione di un impegno non tenuto.
- Certo che questa notizia me la comunica un po' tardi: dopo parecchi mesi dall'invito accolto. Un po' molto tardi. Ma lei sa quanto io sia accomodevole. Prendo il ritardo per il verso buono, come testimonianza della sua sincera volontà. Ma desidero precisazioni.
- Eccole le bozze del volume critico-documentario su Umberto Giordano a mia cura, la cui pubblicazione deve necessariamente coincidere con la ricorrenza del centenario giordaniano: agosto 1967. Anche questo, panoramicamente osservato, un'antologia. Vi lavoro da quasi due anni, per commissione della Casa Musicale Sonzogno. Avevo tutto disposto perché i tempi di lavorazione non subissero arresti e le varie parti del volume venissero allestite in perfetto sincronismo fra l'impegno degli autori e quello della tipografia; ma queste cose si sa purtroppo come vanno: una parte del materiale iconografico e documentario, cercato un po' dovunque in Italia e all'estero, è arrivato con parecchio ritardo; fotocopie di lettere e di recensioni critiche, fatte eseguire oltre Atlantico, sono ancora in viaggio. Insomma, a giudicare con ottimismo quel che resta ancora da fare, ne avrò per tutto questo mese e probabilmente anche per i prossimi.
Non bastasse, i promotori del recente «Convegno Toscanini» di Firenze mi chiedono il testo della mia relazione, per il volume degli atti; ma io ho parlato su appunti, e perché la relazione sia pubblicata, come desiderano, bisogna che la scriva: e anche questo vorrà tempo. Altro tempo vorrà la preparazione del discorso celebrativo in programma a Baveno per il centenario dell'autore di Chénier, scoprendosi su quel Municipio una lapide dettata da Gianandrea Gavazzeni a ricordo degli operosi soggiorni - colà - di Umberto Giordano. E non è tutto...
- Basta con gli alibi. Sono persuaso delle sue buone ragioni. Veniamo alla fattispecie, con la pregiudiziale che né l'Editore né io rinunciamo, alla nostra volta, all'attesa nota prefativa.
- La fattispecie è che io esporrò a lei, seduta stante, come avrei voluto stendere le pagine introduttive all'antologia cronistica e critica che ho curata con estremo interesse e non senza ritrarne io stesso, durante il lavoro di soppesamento e di trascelta degli articoli, qualche edificante impressione.
- È ammirevole l'obiettività, la sagacia, l'acutezza di alcuni fra gli esperti dell'intero sessantennio. Ed esemplare è lo scrupolo che i più di essi mostrano, di tenersi esclusivamente ai fatti d'arte, - siano letterari o musicali, - senza mai lasciarsi fuorviare o disorientare da pregiudizi, personalismi, interessi opposti o divergenti. Ma prima di riferirle le impressioni tratte dalla lettura dei suoi critici, consenta ch'io le esponga una mia osservazione di ordine generale. Un'osservazione che, anche in quanto a immediatezza, a «priorità» vorrei dire, credo di dovere al mio abito mentale di studioso, di soppesatore di fatti accertati.
- Leggendo i suoi libri, gli scritti che dettò e ancora viene dettando per quotidiani e riviste, le raccolte antologiche della serie Piazza delle Belle Arti, i volumi della ormai decennale collana Karakiri (ovvero Il sabotaggio ufficiale dell'Arte Italiana) sono stato colpito dal fatto che lei, oggi come un tempo, non ha mai taciuto, anzi ha chiaramente espresso (sarebbe forse il caso di dire «confessato»), la sua ammirazione per i «Grandi» dei suoi anni giovanili. Li ha ammirati non soltanto quali esponenti e continuatori - ogni secolo a suo modo - della tradizione del Melodramma nazionale, ma anche quali personalità di rilievo, quali solidi anelli di una gloriosa catena. Li ha guardati e considerati con rispetto, con calda simpatia, e ha saputo guadagnarsene la stima e l'affetto.
A me, storico, pare che il tempo formativo e decisivo della sua figura di cittadino e d'artista sia quello degli e anni venti», come oggi si dice: l'incontro con la Filosofia della Musica di Mazzini; poi gli incontri con Ermanno Wolf-Ferrari, con Tullio Serefin e Rodolfo Ferrari per la direzione d'orchestra, con Pietro Mascagni, con Giacomo Puccini non fisico, ma spirituale; infine con Leone Sinigaglia e, - risolutivo addirittura, - quello con Arturo Toscanini. Insomma, questo suo fervido, convinto accettare come pienamente legittima la gerarchia dei «Grandi» in cattedra nel ventennio 1905-1925, ha lasciato nel mio animo, non so perché, un segno profondo come di cosa singolare e «diversa».
Ciò detto, - anzi confidato, - vengo alla seconda delle caratteristiche peculiari, o per lo meno insolite, che mi pare di poter leggere nella biografia per così dire «esterna», annotata dai suoi esegeti. E scelgo, nei decisivi «anni venti», due nomi illustri: quelli dei titolari della rubrica musicale in quotidiani fra i più diffusi d'Italia: Gaetano Cesàri, l'insigne storico cremonese, studioso di Monteverdi, rivelatore, fra l'altro, dell'importanza di un Giorgio Giulini nel campo della Sinfonia, direttore della Biblioteca del Conservatorio di Milano; e Giacomo Orefice, compositore di musica teatrale e sinfonica, eccellente scrittore, biografo di Luigi Mancinelli, professore di Alta Composizione nel Conservatorio milanese. Le poche osservazioni che mi sono state suggerite dagli articoli di questi due maestri, le chiariranno quello che - in sintesi - avrei voluto fare anche per gli altri esponenti della critica musicale che figurano con stimolanti scritti in questa antologia.
Già era avvenuto nel 1907 a Venezia con la sua tesi di laurea per il diploma di magistero in alta composizione, l'oratorio Attollite Portas, su testo di Arturo Graf, che dette luogo a lietissimi pronostici non soltanto nel giudizio del suo maestro Ermanno Wolf-Ferrari, ma anche di Pietro Mascagni; mentre nella stampa cittadina fu salutato come una sicura promessa sia per la scelta del soggetto, che per la realizzazione musicale. Uguale senso di sorpresa e lo stesso alto apprezzamento accompagnarono, nel 1922, al teatro Regio di Torino, la «prima assoluta» della tragedia La figlia del re, premiata nel 1917 al 30 Concorso internazionale dalla Fondazione Edith Mac Cormick presieduta da Cleofonte Campanini.
Tanto Gaetano Cesàri quanto Giacomo Orefice pongono in grande rilievo, nelle loro recensioni, sia l'insolito valore letterario del libretto, il suo congegno scenico del tutto estraneo alla residua moda veristica, sia la solida fattura e il carattere ciclico - sulla base di temi e di cellule tematiche facilmente riconoscibili - della stesura musicale e sinfonica, la sua fedeltà allo schema - com'è naturale, aggiornato - prettamente italiano del Melodramma: «aria» e «recitativo». Tanto il Cesàri quanto l'Orefice sottolineano il nuovo ufficio che lei ha affidato al Coro, trattandolo scenicamente e musicalmente come «personalità» attiva partecipante, e in qualche luogo determinante, dell'azione scenica. Anche questo, un riconoscimento di non lieve importanza.
Sul contenuto musicale dello spartito, l'Orefice fa molte più riserve che non il Cesàri. Sembrano essergli sfuggite molte delle «Variazioni» sinfoniche che, nei momenti più drammatici della vicenda, sostengono la parte vocale. Affermando, per esempio, la passione amorosa di Damara per Ariuna nel momento stesso in cui Damara disperatamente nega tale amore rispondendo all'invettiva del Gran Purohita Tahana. Ma, onestamente, l'Orefice dichiara che l'opera meriterebbe un più approfondito studio. Severissimo è, poi, verso la realizzazione scenica: dice che è «tutta sbagliata»...
- E ha perfettamente ragione. Per quanto riguarda il paesaggio, i fondali e gli spezzati, non erano molto lontani da quello che io avevo visto scrivendo il libretto. Ma l'unica scena veramente perfetta, che destava l'impressione tragica e monumentale da me voluta, era quella del primo quadro del terzo atto: i due colossali elefanti di pietra che dominano nella notte il campo di battaglia. Era la riproduzione fedele, molto ingrandita, di uno dei più impressionanti monumenti ancora visibili nell'India brahamanica. Fui io a procurare a Giovanni Grandi, il primo scenografo, e ai successivi allestitori de La figlia del re, le fotografie di questo capolavoro remoto nel tempo e nello spazio. E anche i pannelli dei fianchi - le «quinte» - furono sempre eseguiti sotto mia dettatura: nessun rapporto col fondale e con gli spezzati, ma - sulle vastissime superfici rettangolari pendenti dal soffitto - rabeschi, figure, motivi tolti dagli antichissimi templi e monasteri ed edifici indù , tracciati su fondo nero. In modo che, al primo aprirsi del velario, anche lo spettatore più «sprovveduto» subito intendesse che qui si era non contro, ma fuori del «verismo». Mentre, dice bene l'Orefice, i costumi, i figurini con le loro stoffe e gli ornati e le calzature e i monili e i bracciali erano tutti sbagliati. Troppo avanti nel tempo, troppo evoluti civilizzati cincischiati, laddove io li avevo immaginati assolutamente primitivi, e con molta epidermíde in mostra: stoffe ruvide e pelli di fauna selvaggia. Purtroppo, i figurini del Grandi io li vidi tardi, quando non c'era più tempo per porvi rimedio. Quanto alle edizioni successive, decise per lo più all'ultimo momento e all'insegna di un'economia ridotta all'osso, questo materiale fu sempre «rimediato» negli sterminati guardaroba dei grandi teatri: assai più da Pescatori di perle che non da La figlia del re.
- Dunque, su questo punto Giacomo Orefice aveva ragione. Ma, mi dica, Maestro, aveva ragione anche Cesàri quando, scrivendo de Il diavolo nel campanile alla Scala, - 1925 -, solo tre anni dopo il battesimo torinese, diede l'impressione di soggiacere a uno stato d'animo totalmente diverso da quello mostrato alla «prima» della tragedia di Damara e Ariuna? Certo, anche in quest'articolo Cesàri le riconosceva singolari, personali qualità di alto livello, di ardimento, di originalità sia nell'interpretazione e nella stesura letteraria eteatrale della novella di Edgar Poe, sia nella complessa architettura e - nel «finale» - arditissima stesura musicale. Ma, a parer mio, quel volere far derivare il suo «Grottesco» da precedenti straussiani o strawinskiani che «Grotteschi» non sono affatto, e quell'indugiare sull'esito assai contrastato della «prima» milanese, sono vere e proprie «chiusure». «Chiusure» che stupiscono, perché, - se tali zone limitative della sensibilità sono frequenti oggi, in così aperto conflitto di « tendenze», - non mi risulta che quarant'anni fa, di tali fenomeni se ne verificassero...
- V'erano, v'erano. Ma in embrione: saggiavano il terreno della credulità nazionale...
- A ogni modo, mi ha stupito il fatto che due critici di tanta maturità, come appunto il Cesàri e l'Orefice, cadessero, nello stesso articolo, nel difetto di coerenza, e, altrove, nel divario fra opinione critica e impressione delle platee...
- Per quanto concerne la «cronaca» della «prima» de Il diavolo nel campanile, il Cesàri fu l'unico, fra gli autorevoli colleghi suoi convenuti alla Scala, a far capire che si trattava di una grossa battaglia. E fece benissimo. Fu anche allora onesto, come sempre. Anche perché dette, così, maggior rilievo al fatto che dalla seconda recita in poi i contrasti cessarono. Dalla seconda rappresentazione, il pubblico della Scala entrò nello spirito del mio «Grottesco». Come sempre avvenne poi, ante e dopoguerra, nelle varie edizioni italiane e straniere di questa che è l'opera mia più frequentemente rappresentata dopo Grançeola, Furie di Arlecchino, La luna dei Caraibi.
Quanto allo stato d'animo da lei accennato, posso dirle solo che era assolutamente da escludere l'ipotesi - allora avanzata - che non vi fosse estranea l'aperta rivalità in atto fra il «Corriere della Sera», dove scriveva Cesàri, e «Il Secolo», del quale io, - succeduto all'Orefice, - tenevo la critica musicale. Niente da obiettare, su questo campo... minato.
- Ma, e l'«accento?», il «modo?»
- La ragione del diverso «accento» da lei còlto nel Cesàri è da ricercare, io credo, nel fatto che il mio «Grottesco», - oltre a essere poco rispettoso verso l'Autorità costituita di Venderwotteimittis, - punta la sua satira soprattutto contro il conformismo ottuso, la menzogna convenzionale, l'ipocrisia eretti con la spirituale aridità a codice della vita sociale. Si tratta, lei lo sa, di argomenti un tantino sdrucciolevoli, che a uno storico specialinente possono riuscire ingrati. Onusti di passato remoto e, insieme, di futuro prossimo come sono, in quanto appartengono anch'essi alla natura umana, possono condurre una società che sta cambiando pelle, a crisi di enorme confusione e disorientamento: durando le quali, i confini fra vero e falso, fra lecito e illecito, fra bene e male, fra bello e brutto si fanno tanto fluidi e mutevoli che nessuno - e neanche lo storico più avveduto, avvezzo a lavorare su periodi passati in giudicato - capisce più nulla. Figurarsi l'uomo della strada.
- Ho la vaga impressione, Maestro, che lei senta lo spirito di corpo...
- Non appartengo più, e me ne dolgo, a quel corpo dei giornalisti militanti cui mi sentivo fiero di essere aggregato.
- Comunque, sono lieto di averle potuto accennare, sulla base di pochi spunti sintomatici che comprendono, anche questi, il passato come il presente, - al modo come avrei voluto stenderla, la mia nota prefativa, se il tempo me lo avesse concesso. Le sembra che sarebbe stata «funzionale»?
- Quel che lei mi ha detto così, per sommi capi e alla buona, funziona benissimo. Non occorre niente di più. Anche alla materia grigia - alla fantasia, ai pensamenti, alla capacità di deduzione - dei lettori, un po' di spazio vitale bisogna lasciarlo, no ?
- E allora, per chiudere, Maestro, dopo essermi scusato con lei e con l'Editore, consenta ch'io chieda ai nostri lettori di indulgere all'inconsuela forma di questa premessa, considerando le mie opportune giustificazioni.

Maggio, 1967