La musica, il tempo, il mito

Di Paolo Isotta (*)  -  Altri Testi -  13/02/2006

 

Introduzione a "Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista" di Giorgio Locchi

Sotto il nome di Somnium Scipionis l'Occidente tenne fra i più cari suoi testi di metafisica quella parte del De Republica che sola sopravvisse del dialogo prima dell'ottocentesca riscoperta dei libri perduti. In essa, Cicerone riprende dalla Repubblica e dal Timeo di Platone un celebratissimo luogo già pitagorico e riforgia nel suo latino uno di quei miti che, sempre riapparenti sotto le più varie forme, rappresentano la sostanza stessa della cultura occidentale: «hic [dulcis sonus] est, qui intervallis coniunctis imparibus, sed tamen pro rata partium ratione distinctis, impulsu et motu ipsorum orbitum conficitur; qui acuta cum gravibus temperans, varios aequalibiliter concentus efficit».

È il mito dell'armonia delle sfere: vero e proprio stampo del pensiero occidentale, come scoprirà chiunque abbia a leggere il libro dedicatogli da Leo Spitzer, e che rispunta, dopo innumeri trasposizioni in tonalità rinascimentali e barocche, persino in quella del Secondo Faust. Ma non è del mito dell'armonia delle sfere che dobbiamo qui occuparci, sebbene d'un suo particolare, indiretto rapporto con il libro di Giorgio Locchi. Per accordarci anche noi al tono di questo libro, ch'è quello di una ardita meditazione metafilologica e metastorica, gettiamoci sul piano delle ipotesi impudentemente ignare dei portati scientifici e filologici attuali.

Essi ci dicono, e con grandissimo fondamento, che ogni nozione di polifonia sistematica fosse ignota alla nostra, e a ogni altra civiltà, prima del Medioevo occidentale. L'interpretazione degli oscuri teorici musicali antichi non consente equivoci, seppure tale interpretazione sia per gli scienziati stessi paurosamente oscillante, al punto da far constatare all'ignaro di filologia che non una sola nozione sulla musica greca potrà dirsi pacifica (vedi, per esempio, la lettura «polifonica» che un etnomusicologo del nostro secolo, Curt Sacks, offre di un importante luogo platonico – Leggi, VII, 812 - in The History of musical instruments, p. 134, Norton, New York 1940). Ammettiamo dunque che la polifonia fosse concetto ignoto al mondo greco-romano. Su questa base, del passaggio di Cicerone (un cui frammento Dante parafrasa in Par., I, 8: «con l'armonia che temperi e discerni»: ed è l'armonia prodotta dalla «rota» in sempiterno moto per il desiderio di Dio) si daranno sempre traduzioni o poco soddisfacenti o evasive per appianare difficoltà. Perché alla fine ci troviamo comunque di fronte a un sonus che conficitur intervallis coniunctis imparibus; i quali sono tamen pro rata partium ratione distinctis; e ci troviamo di fronte ai varios concentus la cui causa è acuta cum gravibus temperans. Il testo di Cicerone è, come sempre, estremamente preciso. D'una precisione che pare scientifica. Qui, troppo preciso. Non c'importa sostenere che Cicerone faccia riferimento a un'effettiva pratica musicale dei suoi tempi. Possiamo persino spingerci ad ammettere ch'egli non sia fino in fondo consapevole di quel che tramanda, limitandosi a trascrivere con la più plastica esattezza non solo la sua fonte ufficiale (Resp., X, 616-17; Tim., 34b-40d), ma anche un'esoterica e perduta fonte pitagorica su cui possiamo solo congetturare. Resta un'impressione difficile da cancellare: nel passo del Somnium Scipionis si parla della risonanza simultanea di suoni differenti, accordati da una mente divina. Ci si lasci almeno sognare (non l'ha fatto ancora nessuno) dell'armonia delle sfere come di un divino accordo. Ci si lasci sognare d'una concezione dell'accordo, fosse dipendente da esperienze sperimentali d'ambito pitagorico o fosse puro frutto di speculazione, che, esoterica, circolasse nell'antichità occidentale come un sotterraneo fiume, il terreno essendo quello della teoria musicale esoterica poi consegnata al Medioevo cristiano nell'epitome boeziana del De Musica. Ci si lasci sognare che circoli di iniziati conoscessero le proprietà della triade, senza per questo applicarle, e serbandole gelosamente. O che fantasticassero d'un meta-accordo, l'armonia delle sfere, nel quale, fondendosi le diverse frequenze e le opposte qualità del suono, potesse simboleggiarsi l'essenza del Tutto.

La musica cristiana, come quella giudaica, donde rampolla, è monodica in modo addirittura assolutistico. Giunge a regolare con inedita minuzia ogni aspetto del rito per evitare deroghe. Per salvaguardare la purezza monodica esclude gli strumenti dal rito. Eppure, pochi secoli appena dopo la vittoria del cristianesimo, la polifonia fa la sua prima centripeta apparizione nell'Occidente. Che cosa sappiamo dei secoli che vanno dal quarto all'ottavo? Praticamente nulla. Esistettero anche lungo il loro corso gl'iniziati alle qualità dell'accordo? E le tramandarono finché la nozione, trasformatasi in viva pratica musicale, abbatté gli argini della cultura vincitrice, che l’imprigionava, facendosi da esoterica trionfalmente universale? Oppure la polifonia, dimenticata, rinacque; ma in modo completamente diverso, concepita dall'inconscio collettivo degli uomini dell'Occidente, per la cui natura la musica non poteva che essere costituzionalmente polifonica? È certo vera la seconda ipotesi. Quand'anche, come noi fantastichiamo, qualcuno conoscesse nell'antichità il principio di far risonare simultaneamente frequenze diverse, ciò dovette essere qualcosa tra il magico, l'aritmetico e il puramente immaginario: buona per una grandiosa similitudine cosmologica, ma inadatta per qualsiasi applicazione pratica che avesse un senso. Laddove la polifonia medioevale è la lenta scoperta collettiva, fatta dalle genti del Nord, di qualcosa che giaceva nel loro inconscio. La musica moderna dell'Europa occidentale, come la tragedia greca, nasce dal popolo; nell'uno e nell'altro caso, si tratta di forme di espressione assolutamente esclusive, che non trovano riscontro in alcuna altra creazione in nessun tempo e in nessun luogo.

Nessuno ha mai pensato ad allineare, dei molti passi d'argomento musicale della Divina Commedia, quelli facenti diretto riferimento alla polifonia. Ad allinearli e a suggerire alcune osservazioni che dal semplice elenco nascono. E non ne è questa la sede: un simile lavoro richiede un apparato semantico, analitico, filologico e tecnico che non possiamo esibire qui. Ma ci sia lecito un accenno ai principali luoghi che c'interessano. I quali si dividono in due categorie: quelli in cui la polifonia appare come un'effettiva pratica artistica, e gli esempi in cui essa è implicata sono desunti dalla personale esperienza di Dante sulla musica del tempo; e quelli in cui la polifonia rappresenta per Dante solo una terrena similitudine, o una terrena traduzione, dell'armonia delle sfere di Platone e Cicerone e pertanto, nel considerare polifonica la musica celeste, egli non fa che volgersi dalla copia al divino Originale.

Già in Purg., XXX, 91-93, il poeta immagina il Paradiso come un concerto vocale e strumentale ancor più imponente di quello solo strumentale (ossia limitato alla sola musica mundana) del già citato Par., I, 78: i cori angelici accompagnati dalla musica mundana o con essa in contrappunto:

così fui sanza lacrime e sospiri
anzi '1 cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li eterni giri.

Nel decimo canto del Paradiso (139-148) un «concerto» è minuziosamente descritto attraverso una lenta, complicata, sontuosa similitudine:

Indi, come orologio che ne chiami
ne l'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l'ami,

che l'una parte l'altra tira e urge,
tin tin sonando, con sì dolce nota
che '1 ben disposto spirto d'amor turge;

così vid'io la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce, in tempra
ed in dolcezza ch'esser non pò nota

se non colà dove gioir s'insempra.

L'esperienza contrappuntistica, e fatalmente anche armonica, della polifonia vocale, dell'unione delle voci (pro rata partium distinctis, saremmo per aggiungere), è descritta in Par., VIII, 16-21. In questi versi, Dante produce in un'analogia sinestetica (un'esperienza dell'occhio, quasi indescrivibile per tale, tradotta attraverso un'esperienza musicale: se non che, ne ricaviamo la più vivida immagine dell'unione delle voci mai creata da penna umana) che chiameremmo wagneriana avanti la lettera (Tristano morente che «ode la luce»):

E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si, discerne,
quand'una è ferma e l'altra va e riede,

vid'io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di for viste interne.

Nel sesto canto del Paradiso (124-126) troviamo questa terzina:

Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia fra queste rote.

che così viene spiegata da un letterato affatto ignaro di musicologia, Natalino Sapegno (talcbé la spiegazione ne risulta nella nostra prospettiva ben più efficace): «Come diverse qualità di voci, fondendosi e intrecciandosi in un coro, formano un armonioso accordo, così nel cielo i diversi gradi di beatitudine producono un'armonia concorde di sentimenti nello spirito di carità che informa tutte le anime sante».

Leggiamo infine questa coppia di terzine (115-120) dal XXVIII canto del Paradiso:

L'altro ternano, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia,

perpetualemente «Osanna» sberna
con tre melode, che suonano in tree

ordini di letizia onde s'interna.

Dalla semplice lettura parallela di questi passi, ricaviamo importanti conclusioni. Alcune, incontestabili. L'Inferno è il regno dell'urlo, del rumore bestiale e inarticolato. Il Purgatorio risuona tutto delle sante monodie gregoriane. Ma il Paradiso è un solo gigantesco concerto di polifonia vocale e strumentale cui partecipano gli astri, i cori angelici e gli spiriti beati, e che si ripartisce per ancor maggiore sontuosità in cori parziali, così come in cori può a tratti ripartirsi una Sacra Symphonia di Gabrieli e di Schütz. E la polifonia viene adoperata come termine di paragone per descrivere la perfezione della volontà delle anime beate. In un'epoca nella quale la polifonia subiva i più violenti attacchi da parte della Chiesa, ben conscia ch'essa, dopo essersi nutrita delle sue linfe, fosse il germe dissolutore della «sua» musica, il canto gregoriano, Dante considera dunque la nuova musica, la discors concordia, sia come la traduzione dell'armonia delle sfere, sia come la musica stessa di Paradiso. Ecco un ennesimo ardimento del poeta: per quel che ne so, non era stato ancora osservato. Fin qui l'incontestabile; e potrebbe bastare, essendo già gravido di tutte le conseguenze che vogliamo cavarne. Ma possiamo aggiungere: deriva questa rivoluzionaria gerarchia musicale di Dante solo dall'esperienza ch'egli poté avere della musica del tempo suo? Deriva solo dall'immensa capacità d'astrazione e di concentrazione del poeta, il quale dalla musica polifonica del suo tempo, tecnicamente e artisticamente poverissima, sarebbe stato capace di risalire a una sontuosa polifonia puramente immaginaria, di quel genere che solo dopo alcuni secoli si realizzerà? O non deriva piuttosto dal fatto che Dante è qui, inconsciamente, il portatore d'un sentimento della musica completamente nuovo e diverso? È quello stesso sentimento della musica - ossia sentimento del mondo - che aveva portato, secoli prima, alla nascita, dal basso; della polifonia. Dante, com'è evidente, ne era così pervaso da interpretare, senza alcun dubbio, in senso coerentemente polifonico l'antico mito di Platone e del Somnium Scipionis nel rifonderlo per la sua immagine del Paradiso. E ne era così pervaso da adombrare fantasticamente lo stesso concetto di accordo, che noi intravvediamo confusamente latente tra le nebbie della musica del suo tempo, che ancora per secoli non verrà teoricamente afferrato; ma che sarà l'esito fatale e necessario, inscritto nel suo destino sin dall'attimo della nascita, della musica polifonica in quanto tale. Come che sia: uno dei creatori della coscienza dell'Occidente attribuisce alla polifonia una preminenza addirittura metafisica. Ciò non deve far riflettere, in relazione a quel che adesso si leggerà.

Giacché pare giunto il momento di domandarci che cosa questa scorribanda fantamusicologica abbia da fare con il libro di Giorgio Locchi che presentiamo. In realtà, essa si collega a uno dei punti chiave del volume: a un'argomentazione che ne costituisce la premessa storica fondamentale. Tale premessa, sostenuta dal nostro filosofo contro la buona parte della scienza musicologica, è che questo Dreiklangsgefühl, questo sentimento armonico e tonale sia innato nei popoli originari del Nord-Europa oltre che, com’è, loro esclusivo patrimonio. Tale sentimento venne, secondo Locchi, violentemente conculcato a opera del vincitore installatosi sulle rovine del mondo antico: il giudeo-cristianesimo. Conculcato insieme con tutto quel complesso di miti, credenze, pensieri, attitudini; tradizioni e comportamenti che sintetizziamo come il suo proprio sentimento del mondo. Il vincitore impose all'Occidente il suo sentimento del mondo, succhiando alla civiltà che tramontava tutto quel che potesse offrirgli l'armatura dottrinaria e filosofica che all'origine non possedeva, tutto quel che potesse irrobustirlo. Il fatto che dalla simbiosi nascesse un'alta e armoniosa civiltà non basta a far dimenticare quanto straordinariamente forzosa, oltre che straordinariamente sanguinaria, fosse quest'imposizione a un'Europa che al nuovo sentimento del mondo riluttava, a lungo riluttò e, nonostante tutto, dopo duemila anni ancora rilutta.

Ma di questa resistenza noi abbiamo solo pochi, casuali, frammentarii, dispersi documenti. Come sempre accade, chi detiene il potere culturale ha in mano anche la possibilità di forgiare la storia a sua immagine. Il giudeo-cristianesimo non solo esercitò un condizionamento culturale che non ha eguali nella storia; relegò l'opposto sentimento del mondo, oltre che alla clandestinità, fuori del cerchio dell'alfabetismo, che rimaneva saldamente in suo potere. Il sentimento del mondo dei vinti rampollò da una cultura prevalentemente analfabeta e periferica, e pertanto c'è giunta solo quando riuscisse a rompere la crosta di ghiaccio dell'alfabetismo che l'opprimeva, ovvero se s'insinuasse, inavvertito, nella cultura dominante, attraverso codici simbolici che il più delle volte sono inconsci.

Sappiamo che il più vero e più specifico linguaggio dell'inconscio è l'arte. Sebbene frutto d'un individuo, nulla come l'opera d'arte è in grado di cogliere ed esprimere, oltre che il cosiddetto Zeitgeist (nel che consta tuttavia solo una sua secondaria funzione), anche l'inconscio collettivo. Giorgio Locchi, che conosce da maestro la filosofia romantica tedesca, raccoglie naturalmente e agevolmente una verità che dalla filosofia romantica tedesca nasce: essere fra tutte la musica l'arte privilegiata a esprimere l'inconscio. E non solo a esprimere l'inconscio dell'individuo, ma a esprimere, in maniera simbolica, tutto quel che venga represso o rimosso da una civiltà il cui comportamento è analogo a quello d'un tirannico super-Io, rifugiandosi nell'inconscio collettivo. La musica, dice dunque Locchi, è il linguaggio cifrato dell'inconscio. Ma quale musica? Eccoci al nostro punto di partenza: la musica frutto di quel Dreiklangsgefühl ch'è innato ai popoli occidentali. La musica tonale. Quella musica che, preparatasi nei lunghi secoli di polifonia medioevale ove riuscì sempre più a spogliare della loro natura i modi del canto liturgico, contemporaneamente succhiandone il sangue; manifestatasi nel modo più aperto, seppur non completo, nella grande scuola polifonica fiamminga e soprattutto nell'impressionante fioritura del sedicesimo secolo italiano; lancia un arco ininterrotto che va da Bach a Wagner. Un arco ininterrotto: e questo lo comprendono anche gli storici della musica, seppure il concetto d'una fondamentale coerenza del linguaggio musicale sia loro naturalmente ostico. Ma un arco, appunto, d'unità addirittura assoluta dal punto di vista linguistico: giacché quel che unisce è, al suo interno, infinitamente più importante di quel che divide: cosa che chi scrive non si stancherà di ripetere, contro coloro i quali hanno del linguaggio musicale una visione unicamente e prevalentemente storicistica.

La riflessione del nostro filosofo della storia parte da un postulato non nuovo (lo espone, da ultimo, anche lo scrivente nel suo libro I sentieri della musica) ma non abbastanza radicato, o comunque non radicato in tutto il suo senso: la musica tonale è patrimonio esclusivo dell'uomo dell'Occidente. Locchi aggiunge: perché essa traduce un altro suo patrimonio assolutamente esclusivo, la sua concezione del tempo. Qualsiasi musica, di qualunque epoca e paese, postula una concezione lineare del tempo: ogni nota è un punto isolato nello spazio sonoro, preceduta e seguita da un altro punto. Il canto gregoriano non fa eccezione: secondo Marius Schneider esso ha addirittura, strumento ascetico, la funzione di annullare il senso del tempo, tutto racchiuso in un istante dilatabile all'infinito, per consentire l'accesso a quello stadio di estasi ch'è il contatto con Dio: ed ecco con questo asseverata anche la sua origine orientale. Ma in qualunque brano di musica tonale, la nota (l'istante) non significa di per sé: scorre lungo l'asse del tempo, anzi dello spazio-tempo che le leggi, insieme fisiche e psichiche derivanti dalle strutture stesse della percezione e della coscienza, determinano (Ernest Ansermet, Les fondements de la musique dans la conscience humaine). Ogni nota (l'istante) è frutto delle note (degli istanti) precedenti, cause che l'hanno determinata: e perciò le contiene; ma contiene anche quelle che seguiranno, a sua volta loro causa. Ogni nota (ogni istante), in quanto presente, contiene dunque in sé il passato e l'avvenire. Le due forme che per eccellenza nascono dalle basi biologiche della tonalità, la Fuga e la Sonata, sono infatti architetture nel tempo che proprio da ciò traggono il loro significato. Dall'essere distese in questo tempo tridimensionale cavano la loro propria struttura. La musica tonale, dice dunque Locchi, è la sorgente, e insieme la cifra di quella concezione tridimensionale della storia che da oltre un secolo conforma un possibile avvenire. Nella musica tonale confluisce, ma interamente «mutata», una tradizione di cui l'antichità e la coerenza addirittura sgomentano.

Tutta la prima parte di questo libro di Giorgio Locchi è dedicata a illustrare che cosa sia la concezione tridimensionale del tempo e della storia, del libro sostrato concettuale. Argomenti tanto ardui quanto arditi, la cui originalità filosofica s'accompagna ad una esposizione tanto stringata da risultare quasi impenetrabile al lettore frettoloso: ciò che è in parte una caratteristica dello stile dell'autore, in parte una inevitabile conseguenza della tematica, in parte un elemento stesso del linguaggio filosofico. Chi a questa difficoltà s'arrestasse, commetterebbe un errore. Ma pari errore commetterebbe chi pensasse di potersi accingere alla lettura a cuor leggero. Questo libro molto chiede: è addirittura ferreo e tirannico nel non concedere nulla di quelli che comunemente si chiamano i piaceri della lettura; chi alla fine offra all'autore quei doni di concentrazione, attenzione e meditazione che così inflessibilmente gli vengono esatti come un pedaggio, a sua volta molto riceverà.

Molti autori studiano di graduare le difficoltà; sdegnoso di espedienti, o forse desideroso di selezionare severamente il suo pubblico, Giorgio Locchi colloca il più duro scoglio proprio all'inizio. Il primo capitolo farà sembrare assolutamente piani, se non piacevoli, gli altri: ma non si può prescinderne. Nella mia qualità di storico della musica, non sono il più abilitato a riferirne, né il più capace di farlo: dirò solo che vi si illustra quella concezione propria al suo autore ch'egli denomina la teoria aperta della storia. Vi confluiscono le sue vaste cognizioni e le sue profonde riflessioni che non si limitano alla filosofia. Esse si volgono in pari misura alla scienza politica: laddove la destra, specialmente da noi, tratta la politica o in termini esclusivamente empirici, se non grossolani, oppure in quelli addirittura stomachevoli del lamento accorato, e della petizione di principio galantomistica e moralistica: Dio, Patria, Famiglia. E si rivolgono alla microfisica: così da avvolgere la sua visione della storia in un reticolo che possiede anche l'inesorabilità dell'enunciato scientifico. È perciò con argomenti del tutto originali, e tanto più forti, che Locchi aggredisce gl'idoli del pensiero contemporaneo, dei quali il marxismo, con le sue ripugnanti applicazioni «storiche» (se tali i comunismi sono) non è che uno: se si vuole, l'estrema degenerazione. Giacché per Locchi, in ciò discepolo di Nietzsche, tutto è fatale conseguenza di quel riduzionismo egualitarista che il giudeo-cristianesimo, seppure temperato dalla simbiosi con la civiltà greco-romana, impose all'Occidente: egualitariste sono tutte le dottrine che ne derivano, il cristianesimo come il liberalismo, la democrazia come il capitalismo e il marxismo, e tutte s'oppongono alla concezione tragica e non egualitarista della vita e del mondo, che sul tempo tridimensionale, invece che sulla sempre rimandata «liberazione» dell'umanità seguita dalla «fine della storia», si basa.

È in questo primo capitolo che viene dunque esposto nei suoi termini completi il nuovo sentimento-del-mondo di cui la musica tonale è il linguaggio cifrato e che solo attraverso la musica l'Occidente in una prima fase dice a se stesso. Ed è a coronamento del processo creativo della musica tonale, la cui ricchezza non trova riscontro in alcun'altra arte della nostra o di altrui civiltà, che giunge la rivoluzione di Wagner. Epifania necessaria, inscritta nel destino stesso della musica tonale. Locchi non si cura in questa sede delle singole personalità dei compositori, della loro «originalità» individuale, bensì concentra il suo studio su quell'«arco ininterrotto di assoluta unità linguistica» che è la musica tonale da Bach a Wagner, e dunque sulla «tendenza storica» che crea e sorregge questa unità. Per l'autore la musica dell'Occidente esprime innanzitutto se stessa: in quanto linguaggio chiuso e autosufficiente. Linguaggio dell'inconscio significativo per l'inconscio, e ovviamente solo per esso, la musica tonale sotterraneamente educa le sensibilità alla percezione della tridimensionalità del tempo della storia. Di tale tridimensionalità essa è cifra perfetta poiché la struttura nel suo seno, traendone la sua inconfondibile unicità e originalità. Perciò in questo libro la categoria dell'estetica è presupposta più che non sia trattata. Locchi guarda alla musica con occhio che non è soltanto musicale. Esso è meta-musicale. Se il termine non fosse odiosamente insozzato, definirei ideologico l'occhio da filosofo della storia dell'autore: ed è questo aspetto, centrale del volume, che accosta in modo straordinario Locchi a Theodor Wiesengrund Adorno. Il quale, con la luciferina intelligenza che gli era propria, ebbe facile giuoco a demolire d'estetica delle anime belle, e a dimostrare che la musica è anche, e formidabilmente, portatrice di valori che sono altro da sé; e buona parte delle sue analisi sono d'ammirevole sottigliezza (purtroppo, viziata per le sue conclusioni, tirate in malafede, è la Filosofia della Nuova Musica, che certo nella tragedia della musica moderna scruta con lucidità infinitamente maggiore delle stanche difese d'ufficio della tonalità basate sul rugiadoso gemito, e capaci di opporre Britten e Prokofief, per non dir peggio, a Schönberg e Webern; e addirittura abietto, perché con deliberata abiezione ideologica costruito, il libro su Wagner). Ebbene, lo scandalo rappresentato da Locchi è che egli si rifiuti di ricorrere a Dio, alla Patria, alla Famiglia per oppugnare ad Adorno. Ma adopera i suoi stessi argomenti: solo, li volta di segno, li poggia sopra basi più veridiche, ricorre assai di meno all'affascinante arma dell'ambiguità sistematica (quanto affine alla medioevale dottrina della doppia verità: per il chierico Adorno muta solo la chiesa, non il procedimento) e li maneggia meglio. Certo, per Locchi la musica esprime qualcosa di assai più ampio e profondo, di assai meno ingenuamente determinato, che non i rapporti e i conflitti sociali. (Il libro di Adorno su Wagner viene addirittura demolito da Locchi). Questa è inaudita impudenza! Rifiutare nel dibattito ideologico le armi che l'avversario vorrebbe concedergli! Pretendere di scegliersele da solo! Come si fa a sparare a un duellante che non accetta di fare da bersaglio legato mani e piedi? Dove andremo a finire, di questo passo? Davvero, non c'è più religione!

Ma torniamo a Wagner. Perché con lui il cerchio si chiude. Non solo in tutta la storia della musica intesa come sistema autonomo nessuno ha potuto superare la sua potenza di linguaggio, e quelli che lo eguagliano non raggiungono forse il numero delle dita di una mano (e nella storia delle arti non è forse la stessa cosa?). Ma perché con lui la musica cessa di essere il linguaggio cifrato d'un represso sentimento-del-mondo. Ne diviene la proclamazione mitica. Proclamazione deliberata e cosciente fin negl'infinitesimi particolari; e insieme, sua espressione più alta e perfetta. Dobbiamo avere il coraggio di fare l'affermazione solo apparentemente retorica che il complesso di opere che va dal Tristano al Parsifal è il più alto monumento che l'umanità abbia mai eretto in tutta la sua storia. Millenni di Verfall, Verflammen, Verfehlen, secondo il verso di Gottfried Benn, saranno giustificati per questo sol raggiungimento. In qual modo la musica di Wagner sia nei due sensi, implicito ed esplicito, diretto e indiretto, la manifestazione di questa idea del mondo, è ovviamente la parte più avvincente del libro di Locchi.

Che ne sia la manifestazione diretta, è delle due la cosa più facile da dimostrare. Di null'altro la Tetralogia e il Parsifal sono l'oggetto mitico, se non di questa idea del mondo. Fin qui, tutti concordano. Ma che cosa dicono veramente la Tetralogia e il Parsifal? Il loro autore, questo genio su cui è stato scritto forse più che su ogni altro uomo, è stato anche uno dei più incompresi. Se dovessi fare una serie di nomi di studiosi wagneriani da prendere in considerazione, non saprei andare oltre questi: Lorenz, Newman (e solo per quel che riguarda la sua attività di certosino ricostruttore della biografia), Furtwängler, Westernhagen, Cooke, Dahlhaus, Boulez (con riserve, quest'ultimo: ma l'intelligenza è vivida), e qualche minore su aspetti particolari (a esempio, Bailey sulla filologia degli autografi). L'incomprensione con cui è accolta l'idea del mondo da Wagner espressa nel Tristano, nella Tetralogia e nel Parsifal, è addirittura sconvolgente. Il suo pensiero, già avvolto di nubi mitiche, è di per sé complesso, arduo e, non di rado, oscuro. La malafede e l'imbecillità altrui sono possenti alleati della sua difficoltà. Poi, la sua forza di scandalo è immensa. Infine, esso è volto, imparzialmente, contro tutti gli aspetti del mondo contemporaneo. Odia il presente, ma non ammicca al borghese per fargli sapere che gli sta a cuore di conservare il suo mondo e il suo sistema di valori, gli annuncia che lo farà perire nel rogo finale. Non strizza l'occhio nemmeno ai patiti di Dio-Patria-Famiglia. Per cui, se il pensiero di Wagner ha, da parte di tutta un'ala della sinistra «istituzionale» e delle forze aggiogate al suo carro, ricevuto i più feroci attacchi, dall'altro s'è visto prevalentemente fatto oggetto di qualche imbecille esaltazione (ch'è la stessa cosa degli attacchi) o di difese timide, dimidiate, da parte delle «persone perbene». Eccezion fatta per i fanatici di Bayreuth, costume corrente è di abbandonare il pensatore per salvare «almeno» il musicista. Si ammette che i suoi drammi siano un complesso di farneticazioni riscattato da musica sublime (all'incirca come dicevano i crociani della Divina Commedia, e don Ferrante del Cardano antiperipatetico). E’ pane quotidiano quello delle «contraddzioni» che si riscontrerebbero nella Tetralogia, nel corso dei quasi trent'anni nei quali si svolge l'elaborazione del ciclo e a causa del mutamento di opinioni politiche e filosofiche che il suo autore avrebbe subito lungo di essi. È immagine corrente quella di un Wagner rivoluzionario «democratico» e «liberale» o «socialista» nel 1848 divenuto borghese e reazionario nel 1870 e bigotto nel 1882. Le aggressioni di Nietzsche, e le loro edulcorate e un po' viscide repliche di Thomas Mann, sono un pozzo dal quale si pesca a volontà, e a pescare, soprattutto dalle copie delle copie di Nietzsche e di Mann, sono intellettuali, giornalisti di ebdomadari, musicologi che erudiscono il popolo nei programmi radiotelevisivi, e simile marmaglia.

Occorre dire che si tratta di favole? Proprio perché protrattosi nel corso di trent'anni, il progetto di Wagner, interamente realizzato e fuso nell'opera, è d'una coerenza e di una unità di determinazione che trovano rarissime analogie, presso qualunque altro artista. Lo studio degli abbozzi del Ring, effettuato da Curt von Westernhagen in uno splendido volume e, per alcuni particolari, da Robert Bailey, fornisce risultati sorprendenti anche a chi ammiri Wagner senza riserve: contrariamente a quel che crede la coscienza volgare, quando abbiamo a che fare con figure veramente grandi, più c'interniamo nella loro conoscenza, più cresce il nostro amore per loro e il nostro stupore per la loro grandezza. Wagner passa bensì attraverso una faticosa elaborazione della sua opera, ma solo per realizzare la logica, o, se si vuole, la volontà dell'opera stessa. Rifiuta risultati, o li migliora instancabilmente, supera soluzioni in apparenza geniali, poiché sa che non ancora incarnano quella concezione dell'opera ch'entro di lui giace coerente e concreta. Riprende dopo anni pagine interrotte, ed è come se per lui fosse trascorso un giorno. Lavora contemporaneamente a più opere che più diverse fra loro non potrebbero essere, non solo per la sua immensa capacità di concentrazione, ma anche perché ha chiarissima l'immagine che tutto, dal Tristano al Parsifal, è un sol immenso ciclo. L'esame delle varianti, una sola nota che altera il profilo d'un tema, una differente armonizzazione, un differente contrappunto applicato a una linea, induce a una illimitata ammirazione dal punto di vista tecnico specifico, come peraltro l'esame di qualsiasi singola battuta di qualsiasi composizione di Wagner: e ci si rende conto che l'autore d'un così immenso piano lavora con l'infallibile minuzia artigianale con cui Bach rifiniva l'ornato gotico della sua musica. Nietzsche coglie nel giusto, seppure la connotazione di quel che osserva sia perfida, affermando nella lettera a Peter Gast del 21 gennaio 1887 intorno al Preludio del Parsifal: “La più alta coscienza psicologica; la precisione spinta all'estremo in quel che dev'essere detto, espresso, comunicato il più direttamente possibile, ogni sfumatura del sentimento spinta all'estremo; una musica così descrittiva da far pensare a uno scudo finemente sbalzato in rilievo; una maniera straordinaria di farci vivere i sentimenti, rivelazione dell'anima della musica che la alto onore a Wagner; una sintesi di stati che molti spiriti - e anche spiriti superiori - giudicheranno inconciliabili; severo nel giudizio, elevato nel senso più sconvolgente del termine, con una conoscenza e uno sguardo penetrante che trafigge l'anima come una lama, ma colmo di pietà per quel che vi scorge e quel ch'è giudicato. Solo in Dante si trova qualcosa di simile”.

Ma qui si parla ancora solo della coerenza del musicista. Quel che Westernhagen effettua sulla musica da filologo dotato di superiore intuizione, sul complesso di testo e musica, ossia sul Gesamtkunstwerk, l'opera d'arte totale in cui dalla musica deve sprigionarsi la parola per affermare la wagneriana idea del mondo, Locchi effettua con l'attitudine sintetica del filosofo. Egli non cade in trappole superficiali. «Sarebbe evidentemente impossibile, - afferma - oltre che disonesto, interpretare il mito wagneriano senza tenere alcun conto delle intenzioni e ambizioni dichiarate di Wagner e, quando esista, della sua interpretazione autentica. Se Wagner è, più che mai, artista "moderno”, è proprio perché in lui la parte di "ingenuità”, di "soggettività” incapace di cernere la propria opera, è ridotta quasi al minimo imposto dal principio di indeterminazione. Sul filo d’un’impresa artistica colossale maturata lentamente in ben trent'anni, Wagner ha anche sviluppato una riflessione filosofica, estetica e critica, del resto non tanto sull'opera compiuta quanto sul progetto di quest'opera. Senza dubbio nella folla di saggi, lettere, articoli del Wagner “filosofo” è facile riscontrare incertezze, ambiguità, contraddizioni. Sul terreno “filosofico”, abbordato per necessità, Wagner resta prigioniero di un linguaggio inadeguato, che è quello del Romanticismo tardivo, e si sforza di dare tuttavia espressione alle sue idee, magari con un ricorso ad accenti quasi esoterici, che oggi ci sembrano astrusi e quasi indecifrabili. In realtà, le incertezze e le contraddizioni del pensiero filosofico ed estetico di Wagner sono una pura apparenza, che proprio la logica della sua opera artistica - espressa, questa, con un suo nuovo, adeguato linguaggio - può facilmente dissipare. Se qualche ultimo iato persiste talvolta tra gli scritti teorici e l'opera artistica, si tratta di quello iato insopprimibile che sempre separa l'opera artistica realizzata dal progetto, nonché dalla riflessione che ha condotto al progetto. Le pretese “ambiguità” non sono poi tali che per una ragione che resti estranea al mito rappresentato dall'opera di Wagner. Il mito realizza sempre l'unità dei contrari, ma questa unità è percepita e accolta soltanto da chi per sua natura partecipa al mito e, ricreandolo in sé, lo perpetua. A chi resta fuori il mito offre sempre un'ultima ambiguità, che però può anche agire come una calamita, farsi suggestiva, affascinare, incantare».

In questo libro, l'idea del mondo di Wagner viene esposta, e l'attualità del suo messaggio politico rivendicata, con una forza d'intuizione, una novità e una potenza forse senza precedenti. Non solo Loccbi ha sottoposto a una vera analisi spettrografica i testi dei drammi musicali di Wagner, tendendo il filo che attraverso di essi, e attraverso la loro serie, trascorre: ha fatto lo stesso anche per gli abbozzi, i palinsesti spirituali e gl'incunabuli che questi drammi circondano, e per la messe di scritti teorici e lettere che dell'opera sono la preparazione o i sodali. Materiale collaterale di cui pochissimi hanno saputo far uso. Ne emergono non solo la profondità e la violenza profetica del pensiero di Wagner: ne emergono anche l'incredibile concretezza e la fin disumana coerenza, sin dai progetti anteriori al 1848 (a proposito del quale anno, Locchi spiega, non per primo, ma una volta per tutte, in che cosa consistesse la partecipazione di Wagner ai moti: non è vero ch'egli fosse dalla parte di Bakunin, come da sinistra si sostiene per poi accusarlo di essere passato nel campo avverso, ma nemmeno che quella sua partecipazione fosse un'innocente scappatella, come le «persone perbene», desiderose di difendere la sua coerenza, affermano: egli non s'intese con Bakunin e con i liberali, né mai avrebbe potuto farlo, perché era infinitamente più rivoluzionario di loro, e le rivoluzioni per la carta costituzionale lo facevano ridere). In fondo, se dall'Oro del Reno al Crepuscolo lo stile musicale passa attraverso un'evoluzione che non è affatto impossibile individuare, dai primi progetti del Siegfrieds Tod a quando l'accordo di re bemolle maggiore fu apposto a chiudere, con la Götterdämmerung, la Tetralogia, un solo mutamento di rilievo avvenne nell'idea dell'opera: quello relativo al finale destino degli dèi e del mondo. Wagner trascorse dall'immagine del dio padre che riconquista il dominio sull'universo pacificato, ossia della filosofica apocatastasis panton, a quella dell'estremo rogo dell'univero, attizzato dalla fiamma dell'Amore, rogo distruttore del tutto ch'è la sola arra di redenzione. Ma questo è un mutamento, non una contraddizione: perché solo questo finale, quello che adesso la Götterdämmerung possiede, è coerente con l'idea dell'opera quale il Locchi magistralmente mostra essere e come giaceva, si direbbe ab aeterno, nelle latebre dell'inconscio di Wagner. Questo mutamento di concezione, che s'è voluto spiegare con una più radicale influenza del pessimismo di Schopenhauer sull'animo di Wagner (esso ha fuori di dubbio un ruolo di primo piano) o, risibilmente, da parte di Ernest Newman, come conseguenza di uno sconforto politico in Wagner subentrato per la presa di potere di Napoleone III (!), non è in realtà che l'attuazione del vero progetto della Tetralogia, attribuendole il solo esito possibile date le sue premesse e il loro svolgimento nel corso del Prologo e delle tre Giornate. Inoltre: la conclusiva apocatastasis panton traduce bensì una concezione del tempo opposta a quella lineare segmentaria del giudeo-cristianesimo: quella diremmo, pur essa lineare, ma ciclica, dello stoicismo greco-romano; però il rogo finale, con l'immagine di un universo rigenerato e redento, porta finalmente alla luce l'idea affatto wagneriana del tempo tridimensionale che il Locchi ha saputo dipingere: «il rifiuto del presente - della società e della cultura date - il rifiuto dell'attuale “decadenza umana” si traducono in ripiego su un passato mitico e, insieme, in slancio (utopico) verso l'avvenire, “ricerca del fiore azzurro”».

È il tempo dell'eterno ritorno, come lo dipinge questo passo di Così parlò Zarathustra: «Tutto va, tutto ritorna: eternamente si volge la Ruota dell'Essere. Tutto muore, tutto di bel nuovo fiorisce; eternamente scorre l'anno dell'Essere. Tutto crolla, tutto nuovamente si ricompone; eternamente si riedifica la stessa Casa dell'Essere. Tutto si separa, tutto di nuovo offre il suo saluto; eternamente resta fedele a se stesso l'Anello dell'Essere. A ogni momento l'Essere ha inizio; intorno ad ogni Qui si svolge la sfera del Là. Il centro è ovunque. Curvo è il sentiero dell'Eternità». Con autorità, se possibile, ancora maggiore che la chiusa della Götterdämmerung, significa la stessa cosa il finale del Parsifal. Lo statismo cerimoniale in cui tutta l'opera s'è svolta (un meraviglioso scritto di Richard Strauss ne spiega il senso), salvo qualche istante del secondo atto, abolisce puramente e semplicemente il tempo fenomenico per instaurare quello mitico che s'impone, prepotente, fra i protagonisti del Bühnenweihfestspiel. Nelle ultime battute, risanato Amfortas, riconquistata la lancia e riconsacrato il Graal, morta Kundry senza che l'impassibile soavità liturgica della musica si sia minimamente increspata (Kundry è rientrata nel ciclo degli Eoni, ma affrancata dalla colpa), ascoltiamo per l'ultima volta, in un impasto timbrico che ce lo fa apparire luminoso come non mai, il vero Urmotiv del Parsifal, quello cosiddetto della «Sacra Agape», onde alcuni dei principali temi dell'opera sono generati. Ma adesso il tema, toccato il suo climax, non ricade più nella dolorosa inflessione semitonale, incapace di oltrepassare l'ottava per ridiscendere, affranto, quello spazio che aveva percorso in ascesa: si drizza, e monta, posando in alto grazie alla «metastorica» cadenza plagale. S'è slanciato verso l'alto, acquisendo un moto che non certo l'ultimo accordo del Parsifal, che non certo la cadenza plagale, interromperanno: il tema ascenderà in eterno, nel nuovo tempo della redenzione. L'ultima pagina dell'ultima opera di Wagner, questo finale enigmaticamente «aperto» verso l'infinito, simboleggia con la massima precisione possibile il passaggio, nella redenzione, dall'una all'altra delle forme del tempo.

Più sopra, il tempo tridimensionale è stato descritto con un frammento di Also sprach Zarathustra: Nietzsche è naturalmente l'altro polo del libro di Giorgio Locchi. La lettura del capitolo intitolato "Il caso Nietzsche" è una delle sorprese del volume. Perché anche qui Locchi apporta una parola che mi sembra definitiva. Le relazioni tra Wagner e Nietzsche sono un vero nodo gordiano. La cultura europea è quasi sempre propesa dalla parte del secondo. Ciò non meraviglia. Innanzitutto, l'estrema contraddittorietà del pensiero di Nietzsche rende con lui meno difficile un'operazione che, tentata con Wagner, ha dato luogo a veri e propri infortuni senza che per questo i suoi artefici per decenza decampino: il suo arruolamento forzoso nei ranghi della sinistra, storica, utopica, istituzionale, operaista o che sia. È una coscrizione alla quale è seguita quella di Céline; di Spengler, di Benn, addirittura di Evola; cui seguiranno di certo quelle di Mussolini, di Goebbels, dello stesso Hitler. Quella di Nietzsche è il fenomeno più vistoso della vita culturale di questi ultimi anni. E se Nietzsche risulta abile e arruolato, tanto più se ne prenderanno le parti contro un non arruolabile. Che sono le più facili del mondo: egli offre ai suoi interessati difensori contro Wagner, o a tutti coloro che son disposti a piangere su di lui pur di aggredire Wagner, un armamentario di argomenti che, falsi fin che si vuole, sono d'un incisività, d'una brillantezza, d'un'efficacia retorica che non verranno mai eguagliate. Poi, il dissidio che oppone Nietzsche a Wagner è quello che oppone un intellettuale a un poeta. Anche prescindendo dal suo lato politico, è fatale che l'intellighentzia di tutto un secolo si schieri dalla parte di chi senta costituzionalmente suo simile. Ché questo è il secolo dei giornalisti e degli intellettuali. Persino il più grande poeta del Novecento, Gottfried Benn, cade nell'equivoco a causa della violenza della sua religione nietzschiana: ecco la terza strofe di Turin:

Indes Europas Edelfäule
an Pau, Bayreuth und Epsom sog,
umarmte er zwei Droschkengäule
bis ihn sein Wirt nach Hause zog. 

(Mentre la nobile muffa d'Europa / di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva, / lui abbracciava due ronzini, / finché l'albergatore non lo trasse a casa.)

Non parliamo di Thomas Mann, i cui due celebri saggi su Wagner non sono che la trasposizione in tono falso-pacato di quei deliri che l'insuperabile saccheggiatore aveva trovato in Nietzsche. Solo che Mann sapeva. Egli conosceva benissimo la verità. I saggi su Wagner sono una delle principali tappe della sua calcolatissima trasformazione in “intellettuale democratico”. Ben altro aveva affermato nelle Considerazioni di un impolitico, mescolandola, incurante della contraddizione, con lo stesso nucleo dei saggi “antifascisti”. Il tono profetico e declamatorio non di rado ansimante delle considerazioni induce a qualche sospetto sulla loro assoluta sincerità. Il che non infirma il valore e la verità delle affermazioni: si può dire la verità anche non credendovi; e non infirma nemmeno il loro coraggio: il coraggio può nascere anche dal calcolo e dall'estetismo, o da un indeterminabile loro miscuglio con la verità e la sofferenza, come mi pare il caso delle Betrachtungen. E tuttavia Mann, che qui si ricollega all'altro Nietzsche, quello de La nascita della tragedia e della quarta Inattuale, vi afferma qualcosa che il libro di Giorgio Locchi tratta fino in fondo: la musica tedesca, e Wagner, ch'è il suo coronamento, è una vera idea del mondo: opposta, inconciliabilmente, a quella del giudeo-cristianesimo. Mann sapeva che per sradicare per intero quest'idea del mondo il sistema infallibile sarebbe quello di distruggere la musica tedesca e cancellarne ogni traccia: e, sotto veste paradossale, lo dichiara e ne invita nella sua ambigua produzione scritta durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Ma tra Wagner e Nietzsche, tra Wagner e i nietzschiani, il torto è dalla parte di Nietzsche e dei suoi. Dal punto di vista psicologico, il problema fu risolto una volta per tutte da Wilhelm Furtwängler nello splendido saggio Il caso Wagner. Liberamente da Nietzsche, del 1941, pubblicato in Suono e parola (anche Anacleto Verrecchia apporta utili elementi nel suo recente volume su La catastrofe di Nietzsche a Torino). Furtwängler coglie per primo la radice psicologica dell'invidia in Nietzsche: l'invidia dell'intellettuale contro il poeta. Talché ci si domanda come possano continuare a uscire libri del tipo del Wagner und Nietzsche di Dietrich Fischer-Dieskau, non solo zeppi di vecchi errori ma condotti su di una linea di superficialità e radicale incomprensione che in un grande interprete quale Fischer-Dieskau sgomenta. Ma Locchi fa molto di più di Furtwängler. Non si limita alla psicologia, seppure la ricostruzione anche solo cronistica da lui offerta del rapporto fra i due sia magistrale. Egli proietta questo rapporto su di un più ampio sfondo filosofico. E dimostra che la struttura e la tematica del messaggio di Wagner e di quello del suo allievo sono, al di là degli elementi accidentali, i medesimi. Da un lato una musica del divenire: dall'altro una filosolia del divenire; da un lato e dall'altro, il tempo tridimensionale contrapposto al tempo lineare: da un lato e dall'altro, 1'«irrazionalismo» mitico; da un lato e dall'altro, la redenzione dal giudeocristianesimo. Ma Wagner era arrivato prima di Nietzsche: e seppure l'allievo gli sia senza paragone superiore nella pura formulazione filosofica del Weltbild ad ambedue comune, il medesimo Weltbild quale s'eleva dagli scritti di Nietzsche quanto pallido appare a paragone di quello che miticamente s'irraggia dalla musica di Wagner! In modo oscuro o preciso Nietzsche lo avvertiva; egli sapeva che Wagner gli aveva tolto la possibilità d'essere la «dinamite della storia», o almeno in questa funzione s'era assicurato la priorità cronologica. Eccolo allora darsi a una sistematica falsificazione della figura e dell'opera di colui che aveva chiamato suo maestro; eccolo darsi a una sua sistematica demolizione. Falsificazione in parte deliberata, in parte incosciente: solo così egli sarebbe stato, di fronte al mondo, il creatore del «nuovo mito».

E fin qui, dei rapporti tra Wagner e il «nuovo mito», abbiamo trattato un sol aspetto: l'idea del mondo, propria di un “nuovo" Occidente e opposta al giudeo-cristianesimo, che costituisce il diretto argomento dell'opera di Wagner. Ma, pagine addietro, affermavamo che di quest'idea del mondo l'opera di Wagner è, in tutti i sensi, la trionfale fondazione. Ciò è quel che mostra il libro di Giorgio Locchi. Se si dice in tutti i sensi, ci resta da affrontare il secondo corno: non già l'argomento trattato nel complesso dell'opera di Wagner, dal Tristano al Parsifal, ma la musica, che, in quanto tale, non quale ingrediente del Gesamtkunstwerk, si presenta come sentimento del mondo. Qui torniamo al nostro punto di partenza: al rapporto fra tempo della storia e musica dell'Occidente; alla concezione del tempo che, linguaggio cifrato, la musica dell'Occidente esprime. Ora, con Wagner la musica tonale cessa di essere linguaggio cifrato dell'inconscio: da mitologo e da filosofo Wagner scopre con prima consapevolezza il tempo tridimensionale, e se il linguaggio della sua arte, in quanto linguaggio, il senso di questo tempo esprime inconsciamente, egli della sua arte forgia in assoluta coscienza inedite forme che di questa concezione del tempo sono la dimora elettiva.

Perché dal Tristano al Parsifal la struttura musicale è il reticolo tessuto intorno ai temi. Tecnicamente parlando, essi sono l'armamentario contrappuntistico più complesso e più geniale mai creato nella storia della musica: nella Götterdämmerung non v'è una sola voce del contrappunto, anche in quelle parti interne che l'orecchio non può cogliere, che non sia tematica; e non solo, ma questo contrappunto, non procede da ragioni contrappuntistiche, quindi secondo le leggi del possibile, sebbene da ragioni poetiche, sfidando e superando ogni possibilità decretata dalla pura ingegneria musicale! Poeticamente parlando, i temi sono un complesso la cui funzione è non soltanto di abolire puramente e semplicemente il tempo lineare (questo lo ha intuito anche Pierre Boulez nel brillantissimo saggio dal titolo Le temps recherché) ma anche e soprattutto di instaurare il tempo tridimensionale. Grazie alla loro presenza, è come se Wagner, in ogni istante della sua opera, buttasse tutte le sue carte sul tavolo da giuoco. Perché, grazie a quelle straordinarie scorciatoie verso il passato e verso il futuro ch'essi sono, ogni elemento del mito è in relazione con tutti gli altri elementi, ogni istante con tuti gli altri istanti, e se mai qualcosa raffigurò quella sfera ciascuno dei cui punti è il centro e la cui circonferenza è illimitata, che per Parmenide è Dio e per Locchi il tempo tridimensionale, questo è l'incredibile congestione tematica del finale della Götterdämmerung, ove i principali temi della Tetralogia risuonano insieme, aperti verso l'Eterno Ritorno. Ecco Locchi parlarci del tempo tridimensionale nel tessuto della musica di Wagner: «Presente e operante ad ogni momento del Wort-Ton-Drama e della realizzazione del mito, l'"idea della musica" può oggi essere compresa - intellettualmente - come un principio, che organizza in modo radicalmente nuovo lo spaziotempo della rappresentazione e costituisce in tragedia il divenire storico dell'umanità. In virtù di questo principio, la storia non è più lineare, non è più una successione di momenti che l'un l'altro si escludono, non è più unidimensionale. Non ci sono più un inizio ed una fine assoluti della storia. Ad ogni momento il divenire è dato dalla sua totalità; e soltanto muta il suo centro, la prospettiva che esso istituisce. L'istante non è più un "punto", il presente non separa più il passato ed il futuro e non è da essi separato. Il presente è la sfera, di cui "passato", "attualità" e "futuro" sono le tre dimensioni. Il tempo della storia non è unidimensionale; ad essere unidimensionale, invece, è lo spazio della storia, giacché lo spazio della storia (discontinuo), il solo luogo in cui la storia abbia luogo, è la coscienza umana».

La ricchezza d'idee di questo libro non si esaurisce in quelle che ho tentato di indicare; né esse vengono trattate con lo schematismo che forzosamente risulta dalle mie parole. Ho tentato solo di preparare il lettore ad affrontare i suoi temi. Un replicato studio delle pagine del libro farà sprigionare tale ricchezza. Per quel che ci riguarda, esso ci lascia soprattutto un'immagine: quella di Wagner che, nella lettera del 9 febbraio 1879 a Luigi di Baviera dichiara: «Ich stehe ganz, ganz einsam»: «Sono solo, assolutamente solo». I cento anni trascorsi da quel giorno ci mostrano che Wagner aveva ragione ancor più di quel che non immaginasse. Grazie al libro di Giorgio Locchi comprendiamo che passeranno ancora centinaia di anni prima che il messaggio di Wagner, nella sua profondità e nella sua insondabilità, venga colto.


Paolo ISOTTA

- Testo principale: Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista di Giorgio Locchi