ADRIANO LUALDI

SALUTO A E. WOLF-FERRARI

TUTTI VIVI
pp. 253-278

Quarant'anni di amicizia, e fedele sempre, e senza ombre mai, dalle due parti, è caso raro in ogni tempo, credo; rarissimo nel nostro. Ed è in questo sentimento che si riassume la storia dei rapporti umani e artistici fra il grande musicista, Maestro nell'arte sua e Maestro di vita, del quale mi onoro essere stato discepolo, e me che oggi lo piango perduto.
Mi ero intrattenuto lungamente con lui l'ultima volta a Venezia nel mese di settembre del 1947. Era rientrato da pochi mesi nella sua città, dopo la tormentosa odìssea dei traslochi da Planegg a München, da München alla Svizzera, dalla Svizzera in Italia; aveva trovato alloggio nella casa del suo buon fratello Cesare a San Samuele, e là gli amici vecchi e nuovi si recavano a salutarlo. Non tanto nell'aspetto fisico quanto nel modo di porgere, nel parlare, nel gesto mi era parso in un primo incontro molto mutato. Mutato era sopra tutto nello spirito, che sembrava chiuso e depresso.
Come in tutte le anime sensibili, le tragedie e le ignominie del mondo avevano lasciato anche nella sua un segno profondo. Il suo gesto, misurato sempre ma una volta franco e deciso, era adesso esitante. La parlata, facile, eloquente e volentieri disposta, nei tempi andati, alle digressioni filosofiche i e morali, appariva oggi come quella dì chi sia sotto l'incubo di un pensiero fisso, e preferisce tacere, ascoltare, meditare; e se parla lo fa a fior di labbro, quasi timoroso di stancarsi. Quel giorno di settembre però fu lunga conversazione fra noi. Anch'egli aveva da raccontarmi tante cose, e nessuna ne tralasciò. Alla fine, ci trovammo ad aver fatto un bilancio di quello che era accaduto, di quello che ancora poteva accadere.
Il Maestro mi accompagnava alla porta; mi disse: «Certo, xe una gran umiliazion viver in 'sto mondo.» E queste furono le ultìme parole che udii dalla sua voce.
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L'ho riveduto la mattina di venerdi 23 gennaio 1948, sempre nella casa del fratello Cesare a San Samuele. Ma questa volta disteso su un letto nell'estremo riposo, la bocca sigillata in un silenzio che durerà sempre. E anche questa volta mi sono trattenuto lungamente con lui, soli noi due, a fargli compagnia, a ricordargli tante cose nostre.
Ha l'aspetto dell'uomo sano che sia da poco addormentato. Nessun segno di deperimento o di decadenza o di sofferenza fisica è nella poderosa figura e nel volto di lui. La bella testa di artista è perfetta in ogni suo lineamento; quasi rosea ancora ne è la maschera. L'espressione non è sorridente, come di tanti che muoiono dopo aver sofferto, e sorridono alla liberazione; ma non può dirsi neanche del tutto serena, perché due lievi pieghe amare permangono ai lati delle labbra ancora abbastanza colorite. Pare appena addormentato. Pare uno che, neppure del tutto addormentato, aspetti pazientemente chi sa che cosa.
Una volta, quando gli parlavo di certe miserevoli cricche del piccolo mondo musicale nostrano, - non glie ne mancarono i saggi, specie nei primi decenni di carriera, - quando era sul punto di inquietarsi tagliava corto, e soleva dire: «Oh, mi no' vado a combater. Mi fazzo el morto».
Eccolo: «Fa il morto», il buono, l'amato Maestro.
E continua pazientemente ad aspettare che il suo Paese lo ponga, nella scala dei valori musicali, al posto che gli è dovuto.
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Georgicamente era nata la nostra amicizia nell'estate del 1906 a Susin di Sospirolo in quel di Belluno. Io, fresco dall'aver conquistato il diploma di Contrappunto e Fuga al Liceo Musicale di Santa Cecilia, dove ero entrato l'anno scolastico precedente (1904-05), mi ci trovavo, a Susin di Sospirolo, per ragioni di cuore: si trattava di rivedere una bella intelligente signorina triestina che avevo conosciuto l'anno avanti in villeggiatura, a Fener: quella Wanda che da tanti annì è la compagna della mia vita.
Lui, il Wolf-Ferrari, vi si trovava per comporre la musica de Il segreto di Susanna. Egli abitava una villetta disadorna, circondata da un minuscolo giardino spennacchiato, con un muricciuolo di cinta cosí basso che mi ci potevo sedere a cavalcioni; e io, alloggiato ìn un piccolo albergo del villaggio, mi prepara-,o con
animo sospeso - perché aridissimo era l'indirizzo degli studi, grigia l'atmosfera scolastica - ai quattro lunghi anni del corso di alta composizione che mi attendevano.
Passando davanti alla villetta di Wolf-Ferrari ci si soffermava talvolta. Arrivavano alla strada, dalla finestra aperta, melodie molto semplici e nobilmente dolci: l'Aria del fumo, o l'inizio del duetto d'amore «Se v'offesi non volendo, se il mio torto assai vi spiace», del Segreto di Susanna; ed era bello ascoltarle perché avevano un andamento moderno senza ricordare nessuno dei figurini allora in voga, e, pur familiari e affettuose com'erano, palesavano un gusto raffinato e una cultura diversa dalle solite.
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Bisogna rifarsi a quel momento.
Il Maestro che da un paio d'anni era stato assunto, per designazione di Arrigo Boito, alla direzione del Civico Liceo Musicale Benedetto Marcello di Venezia, era conosciuto pochissimo, allora, in Italia. Qualcuno lo aveva notato per il nome bilingue (Wolf, un pittore tedesco, era il padre; Ferrari la madre), per un Trio che si era sentito a Roma, per una Sinfonia da camera di cui si conosceva l'esistenza. Forme singolari, allora, e tali da svegliare curiosità intorno ad un nuovo musicista; perché nessuno tra noi pensava, in quel tempo, a coltivare la musica «Pura», e il buon esempio dei Giovanni Sgambati, Giuseppe Martucci, Marco Enrico Bossi, Ferruccio Busoni, Leone Sinigaglia era rimasto senza seguito. I maestri della generazione di Wolf-Ferrari non guardavano (come i piú anziani Puccini, Mascagni, Giordano) che al teatro, e specialmente - ì giovani - a quello di Wagner e Strauss, essendo Verdi, nel mondo accademico, un po' in ribasso (era morto da cinque anni soltanto: c'era ancora, intorno, la tentazione di trattarlo come un «vivo »).
Dopo i primi contatti spirituali per la via della finestra, i primi incontri con Ermanno Wolf-Ferrari avvennero in sentieri di prati, viottoli di boschi, o fra gli olmi della rotonda Miari, generosissima d'ombre ai villeggianti di Sospirolo nelle ore della canicola. Ma il piú delle volte ci si trovava, al tramonto, presso un ruscello le cui acque scorrevano per un tratto in grossi canali di scorza d'albero, e dove ogni sera un gregge veniva a bere: proprio come in Virgilio, currentem ilignis potare canalibus undam.
Gli raccontavco, un giorno, come procedessero gli studi dei Licei Regi; ed egli: «Oggi studiano male Wagner, perché non sanno penetrarlo e si fermano al sistema, felicissimi di poterlo, così, catalogare; si inebriano di Strauss e di quello che Strauss ha di meno buono; si incantano di Debussy e scambiano l'impressionismo musicale con un vellicamento dell'epidermide. Ma ignorano Giovanni Sebastiano Bach e tutti i classici del nostro cinque, sei e settecento; e lo Spontini della Vestale, e il Rossini del Guglielmo Tell, è del Cherubini la Medea, la Messa Solenne e fin il Trattato di Contrappunto e Fuga, (verissimo: si studiava sul francese Dubois) e il Verdi del Falstaff.
Pochi giorni dopo arrivava, spedita d'urgenza da Venezia, una cassa piena di musica. La sera stessa dell'arrivo incominciavano, nella villetta del Maestro, le letture di Bach. Tutti i Preludi e Fughe, le grandi Passioni e un centinaio di Cantate furono letti e illustrati per noi dal Maestro in poco piú di un mese. Per riposare da Bach, erano le Toccate di Frescobaldi e le Sonate di Scarlatti, i Salmi di Marcello, Il Filosofo di campagna di Galuppi, che il Wolf-Ferrari trascriveva per l'esecuzione che ne avrebbe diretta l'anno dopo nel teatrino del Liceo; gli Oratori di Haendel, l'Orfeo di Gluck, il Guglielmo Tell di Rossini, il Falstaff di Verdi: quel Falstaff che il Maestro conosceva nota per nota, e che allora imparai ad amare.
Si apersero, così, gli occhi miei alla luce; si rinfocolarono gli entusiasmi che mi avevano spinto nelle vie dell'arte, e che nelle aule di Via dei Greci parevano essersi svuotati. Presero forma e chiarezza quegli ideali che pochi anni piú tardi sarebbero stati ancor meglio illuminati e resi fermi da un altro incontro per me decisivo: quello con La filosofia della Musica di Giuseppe Mazzini.
Il Palazzo Pisani in Campo S. Stefano, la sede del Civico Liceo Musicale Benedetto Marcello, era veramente quel che ci voleva per ospitare un Maestro d'eccezione. Non aveva nulla di comune con gli altri Licei e Conservatori e Accademie Musicali, relegati per solito in vecchi conventi, magari bellissimi, come quello di Parma, ma malinconici da stringere il cuore. La superba mole, incominciata alla metà del cinquecento e condotta a termine nella sua forma attuale dall'architetto Girolamo Frigimelica nel '700, è, anche nell'ìnterno, decorata da opere d'arte che ne rendono caldo e accogliente il clima.
Quanto all'amicizia e ai rapporti scolastici fra Ermanno Wolf-Ferrari e me, pare avessero nel loro destino alcunché di acquatico perché, nati fra i mormorii di un ruscello, si saldavano e si affinavano, ora, sulla laguna veneta. Ma erano anche germogliati e fiorivano «peripatetici» senza remissione. Passeggiando e conversando col nuovo amico per le campagne di Sospirolo, lo studente romano si era deciso ad abbandonare le gelide aule e le vantaggiose, potenti combriccole di Via dei Greci; e passeggiando e conversando per Calli e Fondamenta e Campi veneziani, apprendeva ora il bello stile. Di lezioni sedentarie non vi furono che quelle strettamente legate al pianoforte, il quale non potevamo portare a spasso con noi; o allo studio dell'orchestrazione, per via dei grandi fogli da partitura, che aperti in Calle della Bissa, mettiamo, avrebbero interrotto la circolazione. In ogni altra circostanza - fossero da discutere le forme, o da sviluppare un tema o da commentare un autore, o da metter ordine in certa mia indisciplina che era la disperazione del Maestro - sempre in giro, e sempre a piedi: anche quando pioveva. Quant'acqua ho preso, Dio mio, fra autunno e inverno, e quante scarpe ho consumato! E la zia Olga mi ripeteva: «Ti te ciaparà un malanno, vissere; ma ghe xe proprio bisogno de andar sotto la piova, per studiar musica?».
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Richard Strauss era la Circe del momento e, nell'imbastardimento di tanta parte della nostra giovane musica di allora, si vedevano già i brillanti effetti di questi sviscerati amori di Maestri e discepoli per il grande musicista del Nord. Wolf-Ferrari avvertiva il pericolo e provvedeva alle difese di chi gli era vicino, additando altri idoli - piú puri e piú utili alla schiettezza dell'arte nostra - alla meditazione e alla venerazione dei discepoli.
Egli, pure ammirando le bellissime pagine che sono in Vita d'Eroe - il primo contatto che aveva avuto con lo Strauss dei Poemi sinfonici - diceva per esempio: «Ma l'Eroe dov'è? È forse eroico preoccuparsi tanto dei critici, da arrivare a presentarli grotteschi e ridicoli, come fa lo Strauss, e passar tra loro con tanta alterigia? Ma un vero Eroe non se ne accorge neanche, dei suoi critici, e procede diritto per la propria strada, senza curarli. Eroe non è chi, deridendo l'altrui pochezza, sembra volere in tal modo convincersi della propria grandezza; eroico, invece, a me pare il fiore di campo, che ad onta di tutte le forze universe, e senza neppure conoscerle, nasce, cresce e vive fiore di campo, e dà, senza avvedersene, profumo e colori fino a che sia giunta l'ora di piegare sullo stelo ». E aggiungeva: «Che gli italiani studino tanto Strauss» (dopo, con uguale feticismo fanatico e con uguale rinuncia ad ogni senso critico, avrebbero studiato e imitato Strawinski, Debussy, Schoenberg, Bloch ecc.) «e se ne nutriscano fino al punto di assimilarlo e di imitarlo, come già incominciano a fare i giovani, è assurdo ed è sciocco: innanzi tutto perché non vi è oggi musicista piú antitetico allo spirito della nostra razza; e poi perché quel che egli ha detto, è inutile ripeterlo.»
Cosí, fra una lezione e l'altra, e, piú tardi, nel corso di abbondantissime corrispondenze epistolari, nascevano quei suoi ragionari che poi, una diecina di anni or sono, comparvero condensati e riuniti in un breve suo libro: Considerazioni sulla musica. Prezioso libro, arguto libro; dove tra l'altro è detto: «La cosa peggiore in Beckmesser non fu d'esser pedante, ma di voler essere compositore». E dove si trovano ricette di sicurissimo effetto, come la seguente: «Se parlo di Firenze non è necessario ch'io faccia sentire che m'intendo anche di chimica... Questo sia detto a quei Maestri che fin dalla prima pagina vogliono mostrare tutto quello che sanno. Liszt (se non sbaglio) diceva che suonar bene come lui non era difficile: - basta mettere il dito giusto sul tasto giusto al momento giusto. - Comporre è ancor piú facile: basta mettere la nota giusta al momento giusto. Si risparmia il dito».
Proprio a Firenze, sedici anni or sono, in occasione del quarto Maggio Musicale, fu tenuto un Congresso di musicisti che ebbe per tema generale il valore della musica nella vita contemporanea; e la presenza piú inattesa e sorprendente - specie per chi lo conoscesse bene - fu quella di Ermanno Wolf-Ferrari, e la sua partecipazione ai lavori con una relazione in cui volle precisare il motivo, parlando sul valore della musica dei vivi per il nostro popolo.
«Bisogna riaffermare il concetto di Bellezza in arte», egli disse allora (*), «bisogna liberare il pubblico dalla paura, che oggi ha, di non capire». Ma aveva anche aggiunto che con questa paura in corpo, esso rischia di diventare complice di colui che, scrivendo, tenta ingannarlo, dandogli ad intendere, nel presentargli una musica brutta in cui niente v'è da capire, che chi non capisce è lui, il pubblico. «Mi fu raccontato, disse quel giorno Wolf-Ferrari, di una signora che dopo una musica simile disse: E se fosse bella? Questo è il colmo! Sentiva che era brutta, e dubitava ancora. In arte decide il sentimento, non il raziocinio. Essa non ambisce un pubblico di iniziati, una congrega di affiliati, ma un cuore aperto e schietto. La perplessità del pubblico d'oggi non è pericolosa per la musica bella, perché al suo contatto essa (perplessità) scompare di colpo. È nei confronti della musica brutta che porta danno. Ne deriva un avvelenamento di tutta la vita musìcale».
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Il motivo non era nuovo. Io stesso lo avevo proposto una quindicina di anni prima - primo (non in senso assoluto, ma fra i miei coetanei): fra i compositori della cosi detta, allora, giovane scuola, dei post-veristi, di coloro che si distaccavano, con le loro opere di teatro, dalle vie seguite dai Puccini e Mascagni e Giordano, e che lavoravano a costituire un nuovo patrimonio di opere: quello della musica sinfonica e da camera, di cui da piú di un secolo si era interrotta, in Italia, la tradizione. - Io stesso lo avevo proposto questo motivo del Bello e del Brutto, nel 1925, scrivendo per il Secolo di Milano la cronaca del Festival tenuto dalla S.I.M.C. a Venezia [cfr. Serate musicali, p. 190]): quello che fece esclamare a Toscanini, concluse che furono le «Messe nere» celebrate alla Fenice tra il raccapriccio degli astanti: «E adesso bisogna disinfettare il teatro»; quello stesso che fece nascere in me la prima idea dei Festival internazionali di musica contemporanea organizzati a Venezia con criteri, con gusto e con denari italiani: cioè indipendenti, non asserviti a nessun editore straniero o a cricca alcuna internazionale; non esclusivamente riservati alla musica contropelo e ai disciplinatissimi seguaci dei figurini di moda oltremontani.
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In Ermanno Wolf-Ferrari, che a Firenze pronunciava il suo richiamo all'ordine, si riconobbe, nel 1939, l'autorità di un «pratico», un compositore dei maggiori nostri di oggi, ed uno dei pochissimi tra i viventi, ed estranei alla Scuola verista, alla cui musica arridesse, in tutto il mondo, il piú completo successo. Parlava dunque uno che di certi problemi - riguardanti soprattutto la musica che non riesce a «sbucare» - avrebbe potuto assolutamente non interessarsi. Ma siccome una sincera passione lo animava, e l'età e il passato e i consensi ottenuti gli conferivano il diritto di considerarsi un Maestro, volle allora dire la sua parola, e la disse con efficace chiarezza.
Pochi anni prima, nel 1936, scrivendo a me dalla sua villa di Planegg, presso Monaco, aveva toccato lo stesso argomento alludendo alla politica artistica seguita dagli organi preposti agli Enti teatrali lirici e agli Istituti di Concerti, a tutto vantaggio di certe determinate tendenze artistiche estremiste, dei gruppi e chiesuole, e dei singoli che ne erano gli esponenti; e a tutto danno, e grave danno, delle tendenze e degli artisti indipendenti: menomazione e ferita gravissime inferte al libero svolgersi della vita musicale nazionale, che è stupefacente vedere oggi ancora durare e anzi aggravarsi.
Oggi che le sue labbra sono sigillate e la mano è ferma, non mi accontenterò di scegliere alcuni fra i molti ricordi che di lui serbo; ma, sul tema che tanto lo interessava, e che tanto interessa la vita musicale italiana di oggi e di domani, lascerò che egli stesso parli ancora attraverso alcune poche delle centocinquanta lettere, inedite naturalmente, che di lui posseggo e che spero di potere, un giorno, pubblicare tutte e integralmente. Non sarà piccolo, in tal caso, il dono che offriro, la sua mercè, alla letteratura musicale italiana.
«Ti ringrazio», mi scriveva dunque il Wolf-Ferrari nel 1936, «per le notizie interessantissime e per il consiglio di non far nulla da me. Credo che sia stato Liszt a dire, ad uno che gli chiedeva come mai facesse a suonare cosí bene: «È semplice: basta mettere il dito giusto sul tasto giusto nel momento giusto.» Ora io, stando qui, non so né il dito, né il tasto, né il momento. Non c'è dunque pericolo che faccia nulla, né di bene né di male. Tu invece, se crederai di dover fare qualche cosa, stando sul posto saprai dito, tasto e momento. Volevo soltanto che tu sapessi il mio pensiero in materia. Non mi pare sia permesso stare a guardare con le mani alla cintola Marsia scalare l'Olimpo. Se ci riuscisse, addio Olimpo e Dei. La situazione musicale in Italia (e nel mondo) è tale, che una resipiscenza s'impone. Bisogna restaurare il concetto di bellezza! Hai osservato che questa parola viene evitata da molto tempo? Io so perché: essa fa paura. «Interessante», «innovatore», «volto al futuro», ecc. ecc., tutte parole che èvitano, senza che si veda, il 'busillis'.
Bellezza svela tutto; quindi non parlarne... Una volta, chi non aveva orecchio lo sapeva, si scusava, e in musica non interloquiva. Ora sono essi che dettano legge e che si atteggiano perfino a Profeti! Non è permesso che si vada avanti cosi » [...] «Vorrei che i giovani d'oggi dicessero, e a maggior ragione di me, che lo dissi a me stesso sui 24 anni: «Noi giovani non faremo i matti!» E lo dicevo perché vedevo fino da allora su quale china si andava scivolando. Ora che vanno a rotta di collo, non dovrebbero accorgersene assai piú? Vorrei che si potesse formare per isforzi comuni una Scuola che fosse creatrice d'uno stile invece che di un gergo. Guai alla musica se vincesse Marsia».
Questo aver tirato in ballo Marsia imbroglia un po' la faccenda sotto un certo punto di vista. Il Wolf-Ferrari si sente a buon diritto erede del citarista Apollo e si assumerebbe volentieri, forse, il còmpito di scorticare simbolicamente il rivale - che sarebbe un modo pratico e sbrigativo per mostrare quel che veramente c'è sotto quella pelle; e intanto lo invita a ripetere il gesto rivelatore di Atena: si guardi, il flautista Marsia, in uno specchio non importa se di acqua o di anima o di spirito; veda come quel suonare lo deturpi; getti via lo strumento. Tutto bene fin qui, e il mito calza a meraviglia. Ma nello stesso mito evocato innocentemente dal Maestro veneziano si può trovare l'origine dell'enorme e ormai quarantennale equivoco di cui si valgono, su cui riescono a campare gli eredi odierni di Marsia da Celene, i fanatici e molto presuntuosi rivali di Apollo; coloro che, invece di essere (simbolicamente, s'intende) scorticati a causa del loro duro e aspro suonare, scòrticano e la musica stessa e le orecchie del prossimo.
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L'equivoco - che è poi comodo come può esserlo una speculazione qualunque, ma redditizia - è questo. È ben noto che Marsia, nel passare da Celene a Roma, si trovò raffigurato come un silèno recante un otre sulla spalla, e divenne popolare nel simulacro posto in vicinanza della Basilica Giulia fino ad essere considerato quasi come il simbolo dello stesso Foro Romano, dunque simbolo della libertà che nel Foro aveva il suo presidio e riconosceva la sua sintesi. Non altrimenti i sileni, o satiri, o pastori odierni, rivali e odiatori di Apollo e dell'arte apollinea (tutti in costumi d'Arcadia, peraltro; e tutti dediti, a ben considerare, a pastorellerie di Arcadia) passando, dal triangolo fatale di Berlino - Rudolf Steiner; Vienna - Universal Edition; Parigi - Picabia o Max Jacob, a Roma credettero, (per il solo fatto di essersi scontrati, nel Foro, con il simulacro del loro trisavolo Marsia, e di sentirsi iconoclasti nell'anima, e temerari e disposti a tutto: anche a scorticare Apollo e la Musica e le Muse) credettero di essere portatori di un nuovo Verbo, e alfieri di libertà. E non erano invece - tali poi si sono dimostrati nel quarantennio e continuano a dimostrarsi oggi, nella recrudescenza che ci affligge - che gli alfieri dell'arbitrio e dell'anarchia, e gli annunciatori e gli zelatori di una farmacopèa di ricette e di formulari artistici oltremontani i quali sono serviti ottimamente, sì, a imbastardire tanta parte della produzione avutasi in Italia (non si può neanche dire italiana) in questi quaranta anni; ma non sono valsi affatto ad arricchire di una sola opera vitale, in questi quarant'anni, il nostro patrimonio artistico.
Non è e non sarà mai dalla schiavitú allo straniero - specie, poi, spirituale - e dalla rinuncia ai suoi ideali di sempre, al culto della bellezza, ai caratteri nativi e permanenti del suo modo di esprimersi in arte, che l'Italia potrà aspettarsi buoni e durevoli frutti.
Tanto profondamente sentiva Ermanno Wolf-Ferrari queste verità; e tanto soffriva di veder complici del disorientamento generale - per quella irreligiosità spirituale che è alla base dell'ìgnoranza - proprio coloro che, davanti alla necessaria, feconda lotta delle tendenze sarebbero dovuti rimanere strettamente neutrali; e tanta nausea gli dava lo sforzo inane dei chierici e dei buttafuori della setta: di non vedere e di negare ciò che era ben visibile e innegabile, che una volta questo molto pacifico e longanime Maestro perdette la pazienza; e, in una lettera a me indirizzata il 20 febbraio dei 1939, se ne esce con accenti di vivacità e di fierezza assolutamente insoliti in lui.
Fu dopo la prima esecuzione alla Scala avvenuta il 1º febbraio di quell'anno 1939 de La dama boba (io ne diressi al Teatro Comunale di Firenze,- sei giorni dopo, la bella Ouverture) che aveva trovato dissenziente, e con poco garbo, il distratto critico di un grande giornale milanese; e il buon Ermanno si era seccato, egli così superiore a queste miserie; e dopo diciotto giorni, riguadagnato il suo rifugio di Planegg, la irritazione gli durava ancora, e, passando dal particolare al generale, mi scriveva così:
«Per dir male della mia musica bisogna esser cattivi, perché non ci può essere un buono che non s'accorga che essa stessa è un atto di bontà. Quella bontà che, a detta di Toni Guarnieri, è si inesorabile che non mi permise di cadere nei lacci delle brutte sirene impestate e ostrogote che hanno traviato quasi tutti i musicisti italiani della mia generazione. È naturale che questi, ora, non vogliano darmi ragione, perché per ricredersi dovrebbero condannare tutto il loro passato. Strano che un critico che, musicalmente, di passato proprio non ne ha, sia tanto cocciuto nel non voler imparare nulla neanche da me, e che dica male persino di Lope de Vega. Una commedia che in un paese come la Spagna e viva ed ammirata da 300 anni, la chiama stupidetta: e aggiunge poi che la Favero è troppo intelligente per fare la stupida. Come se per fare una parte di stupido in scena non ci volesse un Ferravilla, che era intelligentissimo!
«Sarebbe ora che in Italia si comprendesse chiaramente che cosa io rappresento nel momento attuale: io non sono né un capriccio né, che è lo stesso, una cosa voluta: io sono una necessità. I musicisti della mia generazione avevano per Maestri M. E. Bossi e Martucci. Questi erano artisti intedescati: ma cosi profondamente e severamente che tra i tedeschi di allora avrebbero fatto una buona figura. Non erano falsi, ma solamente parlavano in una lingua straniera. I loro allievi, per il monopolio editoriale di allora esclusi dal teatro, vollero strafare per superare quei loro maestri; e, pancia a terra davanti a strafattori tedeschi come Strauss, da tedeschi divennero ostrogoti e si misero a parlare non una lingua, ma un gergo di gangsters della musica. Facendosi fanfareggiare dai critici, o critici essi stessi, convinsero un po' alla volta tutti gli snobs che il progresso della musica stia lì, nel parlare quel gergo. E quindi, se uno come me non lo parla, perché ha altro da fare, lo trattano come un crumiro. Il pubblico mi dà ragione sempre, perché è stufo di falsità: ma quei delinquenti hanno talmente denigrato il successo (come se esso fosse, sempre, frutto di 'lenocinî' e solo di questi; avere una sintassi, un'armonia organica, secondo essi, è già lenocinio) che ciò che per me è un merito, secondo loro è il contrario.
«Il successo mio è fatto della mia umanità, che mi costò la vita intera, ché non faccio altro che educarmi. e tu lo sai: tu che dai miei discorsi devi avere l'impressione che io insegni sempre. E a chi? A me stesso, perché cerco, cerco eternamente di imparare: ma non dalle partiture dei colleghi, bensì dalla vita stessa che mi innaffia il cervello e mi nutre dal profondo. Finché non si avrà capito la ragione per cui non sono anch'io un traviato, il traviamento sarà, o resterà generale come e ora, e lo si chiamerà progresso invece di degenerazione.
Ti formulo chiaramente tutto questo perché nessuno meglio di te, per i mezzi di cui disponi, è in grado di servirsene per il bene della nostra musica». (Qui il Maestro mi attribuisce, nel suo affettuoso ottimismo, troppo maggiori possibilità che non avessi. I mezzi di cui disponevo nel 1939 erano precisamente quelli di oggi, personali, dunque modesti, e legati soprattutto alla mia attività di direttore d'orchestra, e della mia Orchestra da Camera; perché i Festival musicali di Venezia, che volli e seppi mantenere indipendenti e aperti a tutte le tendenze dalla loro fondazione nel 1930 fino al 1936, furono - proprio per questa ragione -oggetto del solito attacco alla diligenza sotto gli auspici dei buròcrati di cui sopra; e da allora divennero, e sono oggi piú che mai, feudo della gaia Accademia del mezzo lutto).
«Quando tu eri mio allievo» continua il Wolf-Ferrari «allora io non sarei stato in grado di spiegarmi così chiaramente, perché allora il male di cui la musica italiana soffre era solo all'inizio. Non prendevo sul serio l'indisciplina dei giovani, credevo che, da mosto, sarebbero diventati vino. Invece!... Musica italiana, un tempo, voleva dire il colmo della chiarezza. Ed ora? che si provino a scriver chiaro; e vedano se non è per faciloneria che «costruiscono» il difficile! E fosse il difficile! È l'insensato; null'altro.
«Vedano Finea (la Dama boba) che musica fa, quando si finge stupida. Non è mica musica difficile: è senza senso. Ma là occorreva che fosse cosí. Là si capisce perché mi sono divertito a farla; e perché nel fondo, fondo, un senso c'è: altrimenti l'armonia dell'opera tutta ne avrebbe sofferto».
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Nella prima lettera del 1936 che ho citato il Wolf-Ferrari invoca la creazione di uno stile e il ripudio del gergo che avvilisce e brutalizza l'arte; in questa seconda, del 1939 ancora maledice il gergo, ed invoca che i compositori italiani ricomincino ad esprimersi, nelle loro musiche, in lingua italiana, o per lo meno in una lingua musicale che da tutti possa essere intesa, come e proprio, e caratteristico, e mirabile e singolarissimo privilegio della musica, appunto. Egli aveva scritto, infatti, altra volta:
«Abbiamo perduto la lingua musicale, da tutti intesa, nella quale ciascuno possa dire quel che ha da dire, per essere inteso; non, per farsi capire, pretenda creare una lingua a modo suo. Abbiamo perduto la grammatica musicale, confondendo la verità che la grammatica non è la poesia, coll'assurdo che basti essere sgrammaticati per esser poeti. Perciò si va a tentoni, pur gridando parole gonfie di vento. Il Caos di Verdi si chiamerà oggi Torre di Babele, ma sarà la stessa cosa. E perché ciò poté accadere in arte e non accade anche nella vita pratica?... Ma il male è che in arte i danni non sono mortali. Se un ingegnere fa un ponte che, cadendo, uccide delle persone, lo si mette in prigione; un 'gangster' musicale può commettere dei delitti molto peggiori, senza che nessuno lo castighi; anzi, dato il caos, troverà sempre qualcuno che lo dichiarerà «innovatore», o genio, non comprendendo nulla di musica. Nella vita pratica ad un disordine segue sempre un nuovo ordine, perché senza leggi l'uomo non può vivere. Il castigamatti non può mancare. In arte il disordine pare che possa durare assai lungamente. Ma non sarà eterno neppure qui; e questo sia affermato, benché non possediamo esperienze in proposito. Poiché oggi è la prima volta che in arte lo sfrenato e gretto individualismo arriva a vere e proprie orge, rumorose e sciocche.
«L'individuo che conta in arte» continua il Wolf-Ferrari «è quello ideale, quello dell'uomo in quanto cantore dell'io profondo, universale, che non gli appartiene, ma a cui egli anzi appartiene; non l'individuo privato, il signor «tal dei tali », col suo odorino personale e i suoi capricci che non interessano nessuno. E come nella pratica, appunto perché vita, si creano necessariamente e non per capriccio leggi scritte e costumanze da tutti osservate, così è probabile che sia anche in arte, in tempi di salute. Se osserviamo l'arte antica, sentiamo che è così. Palestrina, Marcello, Haendel, Bach, Pergolesi, Cimarosa, Mozart... sono individui dai quali parla l'umanità; tu li ascolti col cappello in mano. Forse perché seguono delle regole? No certamente; ma quelle regole li hanno tuttavia abituati, quando ancora studiavano, alla disciplina; e chi è abituato ad obbedire a una disciplina esteriore è sulla buona strada per obbedire, piú tardi, a ciò che «detta dentro», che è una disciplina interiore assai più severa.
«Forse che le regole della buona creanza insegnano la gentilezza vera, quella del cuore? Direttamente, no; ma, infrenando la base bruta dell'uomo, lo mettono sulla buona strada. Non si sentirà libero mentre sta ancora imparando? Meglio! Vuol dire che comincerà a distinguere la libertà, che è umana, dalla natura che, nell'uomo, è bestiale. Verrà il giorno della libertà vera; e allora non rinnegherà la «creanza», ma la assorbirà nella gentilezza del cuore. In musica, ormai, per mancanza di disciplina, siamo arrivati al punto che vi sono degli «artisti» i quali si comportano, in arte, in modo cosi sconcio, pur non dicendo nulla, che se si comportassero nella stessa maniera fra persone civili, verrebbero messi alla porta.
«Chi mai, per dimostrare di essere persona libera, sente in società il bisogno di levarsi i calzoni?»
Sì, dopo tutto, alla base di questo penoso e ormai troppo annoso fenomeno, e della sua gravissima recrudescenza odierna, stanno - oltre ad un gusto malsicuro e ad una malsicura coscienza, oltre ad uno scarso senso di dignità personale e nazionale, oltre all'antico vezzo tutto italiota di cadere in deliquio dinanzi alla merce di importazione, e di mettersi immediatamente al suo servizio - stanno i primi elementi delle piú elementari regole della buona creanza: quello di non seccar la gente, quello di non affliggere il prossimo intrattenendolo sempre e soltanto sui propri dispiaceri e problemi di famiglia, di salute, di tavolo.
Quello, appunto, di non togliersi le brache nel bel mezzo di un salotto, fra dame e gentiluomini che prendono il tè; che, nella sintesi del buon Ermanno, dice tutto.
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Nella lettera del 20 febbraio 1939, quella della Dama boba, il lettore avrà osservato con quanto senso musicale e della forma, e con quanta naturalezza di passaggi e di modulazioni Ermanno Wolf-Ferrari ritorni, alla fine del suo scritto, al motivo da cui aveva preso le mosse, al tema primamente esposto: dalla stupidità autentica e facile da constatare - di certa critica musicale, alla stupidità simulata - e difficile da rendere artisticamente - di Finea, la Dama boba.
Ebbene, anche io chiuderò queste, che sono state una serie di Variazioni su un unico tema, richiamandomi alla prima esposizione del motivo, quella del Congresso di Firenze; e sarà ancora il mio amato Maestro ad offrirmene il modo, con alcune righe di un'altra sua lettera ancora, scrittami subito dopo il IV Congresso dei Musicisti da Planegg, il 12 giugno del 1939:
«Penso con piacere, egli dice, alla gita di Firenze col nostro breve incontro. Sono contento di aver fatto quel richiamo all'ordine. Non ho risposto al Casella quando nell'ultima seduta si mise a polemizzare con me: prima di tutto perché non ho pratica di improvvisare in pubblico; poi, perché - come non avevo pensato affatto a lui nello stendere la Relazione - non era a lui che mi sembrasse di dover rispondere.
Non si discute, credo, di luce con i ciechi. Credo anch'io che sia possibile che siano in buona fede, come
affermò qualcuno. Ma appunto questa è la peggior condanna. Così, anche i ciechi sono in buona fede, se non ci - vedono. Bisogna restaurare, nella musica, il concetto di bellezza».
Bello, brutto. Sono questi, proprio questi, i due aggettivi che dopo decenni di attesa e, di oblio, dopo la troppo lunga fortuna dell'anòdino e diplomatico «interessante» sentimmo con gioiosa emozione ricomparire, tredici anni or sono, proprio nella città di Firenze dove di bello (perché ci vivono in mezzo: dalla parlata all'architettura al monumento) e di brutto (e fanno, perciò, presto a riconoscerlo) se ne intendono tutti: dallo spazzino che non spazza piú le strade perché c'è la libertà, al capintesta dell'illuminazione pubblica, che abbandona al buio piú profondo - cioè senza lampadine - il Lungarno della Zecca, mettiamo, rendendo cosí possibile certo involontariamente, su quel meraviglioso e fatto all'uopo marciapiede pénsile, l'anacronistico prolungamento di una campagna demografica d'infausta memoria.
Bello, brutto: li sentimmo pronunciare, tredici anni or sono, questi aggettivi, proprio a Firenze, nella capitale spirituale d'Italia, da musicisti puri, da critici puri, da filosofi puri, da italiani e da forestieri, da giovani e da vecchi.
E questo, certo, fu - al disopra di ogni altro - il fatto saliente, distintivo, memorabile di quel Congresso.
Mi pare giusto, meritato omaggio e riconoscimento al Maestro scomparso, che questo tema sia riproposto oggi, nel Suo nome, alla meditazione e alla buona volontà degli artisti, degli appassionati e dei cultori dell'arte. È, credo, il modo piú degno di onorare la Sua memoria, di raccogliere la sua eredità, e di rendere fecondo, finalmente, il seme che Egli ha gettato.
Molti dei compositori nostri contemporanei - intendo delle generazioni post-verismo - «resteranno» solo nella «letteratura», negli articoli dì qualche rivista specializzata, nei libri di qualche storico o critico delle Accademie del mezzo lutto. La musica di costoro bisognerà andarla a cercare nelle biblioteche.
Di Ermanno Wolf-Ferrari - che i critici e gli storiografi delle Accademie del mezzo lutto su citate sempre onorarono del loro più sdegnoso silenzio - è probabile che, quando il ciclone di stupidità che ci investe sarà caduto, resteranno in circolazione nei teatri (vive, cioè, ed eloquenti) alcune opere: per esempio Le donne curiose, Il segreto di Susanna per quel gioiello che è l'Ouverture, La vedova scaltra, I quatro rusteghi che non soltanto nella produzione del Wolf-Ferrari, ma della commedia lirica italiana e straniera, è un capolavoro.
Bastano questi spartiti, basta uno solo di questi, a rendere duratura la fama del Maestro, e a rappresentarne degnamente la singolare, arìstocratica personalità artistica.
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In questi ultimi anni, aveva ripreso la musica «pura».
Ho potuto dare una scorsa all'ultima sua opera: rimasta incompiuta nella orchestrazione, ma completa nella stesura del primo abbozzo.
È intitolata: Chiese di Venezia; Tre tempi; San Marco - Santa Maria dei Miracoli - Santa Maria gloriosa dei Frari. A piè dell'ultima pagina dell'abbozzo del secondo tempo si legge, scritto a matita, questo appunto, forse per un altro quadro ancora da comporre: « Meditazione sulla Cattedrale di Torcello - Dialogo dell'anima con gli elementi».
Sola nell'antichissima chiesa quasi emersa dalle onde, l'anima, tuttora confusa, si raccoglie e si rassegna nel pensiero soave: Benedictus qui venit in nomine Domini.
Ma poi un'ombra l'opprime al pensiero delle vicende umane. Prorompe nel grido: Miserere mei. Domine. Di fuori, rombano i ventì della marina.
Tenta, l'anima, di ritrovare la serenità di prima; ma non può piú, vinta dalla tristezza.
E piange, mentre il vento si tace.
Dei tre tempi, solo l'ultimo è completamente orchestrato.
Nell'ultima pagina di questo tempo - quella dunque che chiude l'intera opera - si osserva una strana particolarità. Dopo l'ultima battuta, che finisce con due movimenti di pausa, un'altra battuta ancora è aggiunta: vuota, e su questa è segnato un grande punto coronato.
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La vana ricerca della serenità di prima, come si legge nella didascalia. La tristezza dell'anima e il suo pianto. Questa grande corona su una battuta vuota alla fine di un'opera: che non v'era nessuna ragione palese di scrivere.
Una sospensione. Un'attesa.
Di che?
Questa pagina ultima della sua partitura, questa grande corona, Ermanno Wolf-Ferrari la scriveva alle ore tredici di mercoledí 21 gennaio 1948. Alle 18,30 dello stesso giorno moriva.