RAFFAELLO DE RENSIS

LA VISITA A VERDI
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Nell'estate del 1895 a Venezia come ogni estate; e questa volta per rimanervi sempre. Non recava, a conclusione degli studi, il titolo accademico, è vero, ma si sentiva pronto e forte a sfidar l'avvenire. Per mezzo del collega Giulio Bas, che lo aveva seguito nella scuola di Rheinberger fece la conoscenza di Don Lorenzo Perosi, maestro della Cappella di San Marco. Il piccolo sacerdote era un prodigio di attività, instancabile nello studio e nel lavoro: messe, mottetti, offertori, salmi, cantici, inni, sequenze profluivano con rapidità sbalorditiva. Amava restar solo a meditare, pregare, comporre nelle stanzette del Palazzo del Patriarca- questi era il Cardinale Giuseppe Sarto, asceso poi ai fulgori del trono pontificio col nome di Pio X - e di tanto in tanto si sporgeva dalle finestre prospicienti al Ponte della Canonica. L'aspietto sereno, la gran testa di bambino, gli occhi vivacissimi, il parlare schietto e festoso sedussero immediatanlente Wolf-Ferrari.
Giovanissimi entrambi ed accesi dal medesimo culto per un'arte eletta e gentile, si sentirono avvinti da un'amicizia che quasi sembrava preesistesse. Il giorno dell'incontro Perosi iimprovvisò al pianoforte una fuga a cinque voci su tema dato dal nuovo amico; questi suonò alcune sue più recenti composizioni da camera. Si dettero subito del tu. Le visite, le conversazioni, le audizioni, le passeggiate si seguirono con frequenza. Per la prima volta Wolf-Ferrari avvicinava un musicista ilaliano per la prima volta sentiva parlare ed aveva l'occasione di parlare di musica italiana. Non importa se i due fossero diversi: l'uno vagava fuori della realtà, negli spazi eterei, l'altro attaccato alla dura terra, di cui si sforzava d'indagare le virtù e i difetti, il bene e il male. L'essenza ideale dell'arte, la purezza dei loro propositi, un medesimo sogno di elevazione li univa strettamente, nobilmente.
Dal fraterno e fecondo contrasto, per cui l'uno levava lo sguardo agli angeli e l'altro lo piegava sugli uomini nacque in Wolf-Ferrari un assillante desiderio di concepire un'azione rappresentativa. Finallora, negli ambienti e nei contatti tedeschi, non aveva oomposto che musica strurnentale, raramenle vocale, da camera; in Italia, a Venezia, avvertì come fosse naturale, fatale comporre un'opera di teatro. Non aveva mai tentato l'uso della lingua italiana, e fu questa a rivelargli, subitamente, un fascinante mistero di bellezze espressive. Parve che in lui fosse scomparso d'incanto, il colto, l'erudito, il professore e scattasse fuori l'artista libero e felice.
Si ricordò d'aver un po' di pratica nel congegnar commedie e drammi, avendo nella fanciullezza messo sottosopra la famiglia con le sue rappresentazioni; non si chiese nemmeno se fosse stato capace di tracciare un libretto per musica; lo fece senz'altro. L'argomento gli venne facilmente suggerito dalle idee sociali del tempo. Una fanciulla del popolo è l'amante di un giovine dell'aristocrazia. Poiché questi corre pericolo di vita in una di quelle ondate di furia plebea che mai si reprimono, la ragazza, per salvarlo, non esita a far sacrificio del suo onore. Ma l'amante non cornprende il gesto e l'abbandona, per cui la derelitta è costretta al suicidio purificatore.
S'accinse alla composizione invaso da straordinario fervore. Gli pareva di liberarsi da un immaginario passato e di correre verso un reale avvenire, di dare sfogo a sentimenti da lunga pezza repressi, di assolvere un preciso dovere verso di sé, una missione verso l'Arte. In tre mesi l'opera fu fatta, e poiché la sede centrale del teatro era a Milano, qui regnavano gli editori da cui soltanto dìpendeva la sorte dei composikori, si sentì in obbligo di recarsi a Milano. E vi andò munito di una lettera di Alessandro Pascolato per Arrigo Boito, e di un'altra di Lorenzo Perosi per il conte Francesco Lurani. I due personaggi autorevolissimi lo avrebbero introdotto nell'ambiente artistico e mondano, lo avrebbero avvicinato ai cerberi editori.
Così fu. Il Conte Lurani, gentiluomo perfetto, grande amatore di musica, esperto nell'organo e nel pianoforte, dedito a tutte le arti e a tutte le scienze, botanico, fotografo, alpinista, apriva i suoi aviti saloni del palazzo di via Lanzane ad una schiera di persone intelligenti e raffinate, ooadiuvato nelle cerimonie di ospitalità dalla amabilissima Contessa Cecilia, squisita dilettante di canto. Il nuovo arrivato, ch'è poi anche un giovine simpatico e vivace, è cordialmente accolto e subito preso in partioolare considerazione. Il conte Lurani, che era fanatico di Bach e poteva vantarsi di conoscerne l'intera produzione, si compiacque d'incontrare in Wolf-Ferrari un intenditore non meno profondo e appassionato. Insieme organizzarono sedute di omaggio al genio di Eisenach, sedute che assunsero via via una notevole importanza educativa e divulgativa nella città.
Uguale cordiale accoglienza ricevette da Boito: altro bachiano imperterrito. Andò a scovarlo al quarto piano di via Amedeo 1, nelle due modeste camerette. Il maestro stesso aprì la porta. Lo trattenne a lungo in una conversazione che vagò da un argomento all'altro, i più opposti. Da questo monento le visite e le conversazioni sì rinnovarono con reciproca delizia, entrambi amando sollevarsi in regioni alte di dottrina e di sentimento.
Una sera Boito si recava al Dal Sterme con la partitura del «Falstaff» sotto il braccio, ad una delle rappresentazioni dirette dal maestro Rodolfo Ferrari. All'ingresso vide Wolf-Ferrari, che s'avviava verso il loggione. Lo chiamò e lo invitò nel suo palco di prima fila, al centro, dove non c'era altri che il pittore Carlo Mancini, fraterno amico dell'autore del «Mefistofele». L'attenta ascoltazione fu un godimento indicibile, e Boito rimase sorpreso per la esatta conoscenza che il giovine possedeva della partitura. [...]
Alla sua irrompente passione verdiana era riservato un premio - che neppur sognava di poter meritare - per volontaria intercessione di Boito. Un giorno questi d'improvviso gli disse: - Vi conduco da Verdi, volete? Penso che con l'andar degli anni sarà un indìmenticabile ricordo per voi.
Verdi alloggiava nel solìto appartamento all'Albergo Milano, e la sera riceveva pochissimi intimi. Quando giunsero da lui Boito e Wolf-Ferrari erano presenti la moglie Giuseppina, Teresa Stolz e Giulio Rìoordi. Verdi acoolse con molta semplicità il nuovo venuto, e di sotto le lunnghe ciglia gli profuse (è la parola) una lunga occhiata serena, piena di bontà, mentre gli parlò: - Lei ha studiato a Monaco?
L'interrogato avrebbe voluto rispondere: «già, ma non basta», invece si impappinò e si limitò ad acconsentire senza pronunziar verbo. Verdi non parlava molto, e quasi sempre si rivolgeva alla «Peppina», la quale, piuttosto seria e, involontariamente compassata, incuteva una certa soggezione. Alquanto freddo sembrava (e non era) Giulio Ricordi. L'unica persona, che pareva fatta apposta per togliere dall'imbarazzo l'ospite, era la Stolz, maschia, allegra, affabile, piena di volontà di veder tutti contenti.
Ricordi chiese a Woolf-Ferrari informazioni su «Hänsel e Gretel», di cui si parlava molto in quei giorni. Verdi raccontò di certe nebbie di Parigi, poi di certi lavori fatti un tempo a Sant'Agata, cioè di un pozzo artesiano che gli era costato dei gran danari senza risultato pratico: - Ho speso venti mila lire, e ho detto basta.
Quando la riunione si sciolse, Verdi disse a Wolf-Ferrari «onoratissimo», e questi, che anche ora avrebbe voluto pronunziare un bel discorso, a sentir quell'«onoratissimo» rimase male e balbettò appena qualche sillaba, battendo subito in ritirata sotto le ali protettrici di Boito.
Da quella sera non ;dimenticò più l'austera e statuaria figura di Verdi; gli restò fisso nell'orecchio e nell'animo il suono della sua voce, un po' acuto, gutturale, dolce e buono. Da quella sera sentì più che mai la gioia di aver compreso la bellezza e l'ammonimento di «Falsfaff».
Le giornate milanesi trascorrevano rapide e belle, specie per l'assiduità in casa Boito, dove era entrato in intrinsichezza con Camillo e la moglie Madonnina Malaspina, che lo chiamava Casamatta.Conversavano volentieri con lui e spesso lo trattenevano a colazione. Lo avevano preso ad amare per la sua naturalezza, per la finezza del gusto, per la varia cultura insolita nei giovani musicisti d'allora, per l'acutezza dell'ingegno, per la freschezza di spirito tutta veneziana.
Intanto sfuggiva la ragione del viaggio e del soggiorno a Milano. Aveva conosciuto eminenti personalità, finanche il sommo Verdi - aveva avvicinato l'editore Ricordi in circostanze favorevolissime; ma alla povera Irene - questo era il titolo dell'opera - non pensava più; gli pareva sorpassata e la dimenticò nella valigia.
La piccola scorta di danaro era giunta agli estremi; tuttavia, desiderando lasciare a Boito una prova tangibile della sua riconoscenza, comprò tutte le opere di Chopin - visto che egli non le aveva - le fece ben bene rilegare, e glielie offrì. Il Maestro non voleva assolutamente accettare, ma quando si acoorse che il giovine amico - che aveva fatto il sacrificio persino della rilegatura in marocchino - se ne sarebbe sinceramente dispiaciuto, l'accettò.
Passarono altri giorni e, poiché il padre lo richiamava, Wolf-Ferrari decise di partire. Preparò il bagaglio di panni, libri e carte e lo portò alla stazione ferroviaria. Prima di prendere il treno di notte, corse in casa di Boito per congedarsi. Ma il Maestro, Camillo e Madonnina lo pregarono insistentemente di rimanere a cena e di rimandare la partenza all'indomani. Per la notte Camillo gli prestò la sua candida e lunga camicia.
La mattina seguente, nel separarsi, Boito gli donò le opere complete di Shakespeare, nella traduzione tedesca, e stringendogli la mano gli disse,:
- A rivederci presto, capito?