RAFFAELLO DE RENSIS

L'INCONTRO CON GOLDONI
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In questi stessi mesi estivi, attendeva alla strumentazione di una seconda opera di teatro, pressoché alla fine. La scelta deil'argomeuto gli era balenata nel cervello nell'anno dell'apparizione delle Maschere di Mascagni, che il 10 gennaïo 1901 tentarono la sorte in sette teatri contemporaneamente. Osservò, allora, che Illica aveva trattato astrattamente le maschere, le quali dicevan di sé: Siamo noi, siamo ritornate..., e pensò che, volendo riportarle in vita, bisognasse rifarsi a lavori del tempo in cui eran vive davvero, e non nella maniera simbolica di Illica. Fu così che gli venne incontro Goldoni, che gli aveva sorriso varie volte quando frequentava l'antico Teatro di Corte a Monaco, piccolo e conciliante.
Rileggendo le commedie si fissò su Le donne curiose, che lo attrassero, principalmente, per quei ben disegnati gruppi di donne contro gruppi di uomini. Non si curò se altri musicisti avessero avuto la medesima idea, e comunicò la sua all'amico Luigi Stigana, che l'approvò senz'altro.
Intrapresero insieme, nell'estate 1902 la riduzione a libretto. Ma era un bel da fare a correre dietro al poeta, original tipo che viveva la sua giornata a rovescio. Si levava da letto alle ore diciotto e se ne scendeva al Caffè Dante a San Luca (che ora non esiste più), dove concionava, a voce alta, briosamente circondatio da assidui sino all'ora di pranzo. Quindi a teatro tutte le sere, e infine di nuovo al Caffè, per rimanervi chiuso anche dopo che tutti gli avventori se n'erano andati a casa. E si metteva a scrivere libretti e commedie sino alla riapertura mattinale.
Figura popolarissima il Sugana, si ornava di una lunga barba rosso-cupo riconoscibile a distanza, e la cortesia dei modi, la espansività bonaria, la colta e irruente conversazione lo rendevano gradito a tutti. In origine era benestante, ma alcune imprese andate a rotoli lo avevano ridotto nella più squallida povertà. Aprì, tra l'altro, un gran salone d'esposizione per liberare i pittori dall'avidità degl'intermediari; ma costoro gli fecero una lotta implacabile per cui dovette chiudere con gravi perdite. Buon esito, invece, ebbero le sue commedie in dialetto veneziano, tra cui El fator galantomo, ch'era un cavallo di battaglia di Emilio Zago; mentre un cielo di sette commedie e un prologo - che descrive le miserie complicate d'una famiglia a traverso tre generazioni - giace manoscritto al Museo Correr.
Contava al suo attivo alcuni libretti d'opera, quando Wolf-Ferrari gli richiese la collaborazione Per Le donne curiose, ma, come abbiamo detto, era un problema vedersi e discutere; per lo più si davano convegno al Caffè Dante dalle otto alle dieci, e dai loro convegni poté finalmente uscir fuori un libretto delizioso e vivace.
La forma sonora che sgorgava dal dialogo goldoniano aveva sospinto il maestro al punto opposto della Cenerentola: questa era nata dal principio della sovranità della musica pura sul dramma quale semplice incitamento; quella dalla necessità del dramma che comanda alla musica e la vuole semplice, trasparente, espressiva, tale da scoprire ogni riposta piega del pensiero e del sentimento. L'azione scenica si fonda sul dialogo, alla condizione di non lasciar perdere una sola parola, altrimenti svanisce ogni efficacia, su intrecci che corrono diritti e senza indugi (quindi evitando la tentazione di commentare e sinfonizzare), su personaggi che nulla hanno da celare della loro interiorità. Il compositore si muove in uno stato di servitù e insieme di libertà: servitù obbligatoria se per il carattere della commedia, libertà o meglio liberazione dall'egoistico, per quanto superbo, impero della sinfonia.
Mise la parola fine a Le donne curiose nel momento in cui tutte le campane della laguna annunziavano l'elezione del nuovo Papa, Pio X: 4 agosto 1903.
L'opera andò in iscena a Monaco il 22 novembre, nel piccolo Teatro di Corte - il Residenztheater - e conseguì un pronto successo, collaudato dalla critica in toga.
Vennero poco dopo le rappresentazioni di Essen, e più tardi quelle del Teatro del West di Berlino, direttore Hans Pfitzner, che, alla interpretazione impresse il grado giusto della grazia e della spigliatezza, indispensabili al perfetta rendimento. Trattandosi, poi, di un teatro non obbligato alle restrizioni del calendario fisso, poterono farsi tutte le repliche chieste, che sommano - con godimento del pubblio e con sorpresa della critica - a più di sessanta. La critica non riusciva a persuadersi come, in pieno dominio wagneriano, fosse riuscita ad insinuarsi e suggestionare l'anima delle folle un'operina modesta e gioconda.
Da questo momento una pioggia di rappresentazioni e repliche nei teatri tedeschi, di cui ricordevoli le impeccabili e squisite esecuzioni di Mahler a Vienna e di Nikisch a Lipsia, che fecero testo.
In Italia di tali successi strepitosi neppur l'eco. Il nome del Direttore del Liceo Marcello non compariva mai sui quotidiani; i critici non furono punti neppure dalla curiosità d'informarsi di un'opera itatiana acclamata e discussa all'estero, nel tempo stesso che mostravano tanta sollecitudiiie per opere straniere, rappresentate in gran mimero. Gli editori non si scomodarono neppure in vista di un affare commerciale.
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Frattanto Wolf-Ferrari, gradeolmente installato nello storico Palazzo Pisani, dedicava assidue cure al Liceo. La condizione degl'istituti italiani era di totale asservimento al metodi e alle musiche
d'oltr'alpe, e ciò lo impensieriva seriamente. Possibile che i dirigenti politici e gl'insegnanti non si fossero mai posto il problema della istruzione e dellla educazione musicale in senso italiano? Spettava proprio a lui, che aveva trascorso gli anni più giovani e plasmabili in terra tedesca, accorgersi o se ne accorse appunto per questo) di tale situazioiie irragionevole e falsa?
Nella Biblioteca del Liceo si ammucchiava una enorme abbondanza di musiche straniere, mentre scarsissima era la musica italiana antica. Perché?
Escogitò vari mezzi per ovviare al deplorevole stato di cose e, per quel che fu nelle sue possibilità, guidò gli allievi alla graduale conoscenza dei nostri grandi autori strumentali e vocali. Ma quelli, al di fuori della scuola respiravano aria straussiana e debussiana e mal s'intendevano con l'insegnante, il quale tuttavia, non accorgendosi forse di non esser capito, li avviava per i sentieri voluti da lui, principalmente alla lettura collettiva e ad importanti rievocazioni.
Si devono a Wolf-Ferrari alcuni avvenimenti, che vanno, ricordati negli annali del Liceo, tra cui le rappresentazioni della Serva padrona e, del Filosofo di campagna per celebrare insieme i centenari di Goldoni e Galuppi, affidate ad allievi che, per la paziente preparazione, sembrarono esperti cantanti ed attori.
Grandiosa ed imponente una esecuzione corale, a cui presero, parte molti maestri elementari e una massa di cinquemila bambini, raccolti con fatica e diligenza in ventisette scuole della città. Li addestrò Vittore Veneziani con quella sapiienza e con quell'ardore che gli han fatta la reputazione di oggi, e l'effetto dinanzi ad una folla enorme fu trascinante e sorprendente. Lo sciame innumerevole dei piccoli cantori, ordinatamente disposto sulla bianca gradinata di Santa Maria della Salute - sullo sfondo scenografico della superba mole del Longhena - costituiva già per se stesso uno spettacolo pittoresco e gentile. Si eseguì, tra l'altro, un Inno Sacro d'origine sieiliano, con parole adattate dalla fedele Pezzè-Pascolato.
Da tanto fervore di attività nessuno avrebbe mai potuto immaginare che sarebbero derivate lotte intestine tra clericali e anticlericali, lotte del resto, proprie dell'epoca, ma non perchè meno dispiacevoli all'animo di Wolf-Ferrari, estraneo per natura ad ogni competizione religiosa o politica. In realtà era estraneo anche alle battaglie estetiche - avendole superate nel suo spirito - e ancor più a quelle burocratiche, professionali che si agitavano sordamente intorno a lui. Perciò il disagio nell'interno del Liceo, aggravato dall'indifferenza dell'ambiente musicale italiano verso di lui, andava accentuandosi, sì che nel suo cervello cominciò a penetrare l'idea della quasi ineluttabilità di un nuovo esodo dalla patria.