ADRIANO LUALDI

IL MIO MAESTRO ERMANNO WOLF-FERRARI

TUTTI VIVI
pp. 377-426
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«Quanta pace dà questa musica!» Sono le parole che piú frequentemente si sentono pronunciare dall'ascoltatore sensibile, a proposito di Wolf-Ferrari; e le ricorda anche Giulio Cogni in un suo vivo ritratto del Maestro.
Ma ciò che si può sottintendere attraverso tale impressione è giudizio troppo semplicistico, per una figura tanto ricca e complessa.




Questo di Ermanno Wolf-Ferrari (1876), è un «caso» sul quale i critici «tradizionalisti» non hanno ancor preso l'abitudine di soffermarsi, e su cui i critici «modernisti» - i buttafuori autorizzati dei vari «movimenti» - amano sorvolare, perché imbarazzante ai fini delle loro tesi.
Geloso sempre della propria indipendenza e della propria solitudine, rimasto sempre estraneo a quei cenacoli e a quei gruppi che, agli aderenti, procacciano spesso una fama altrettanto rapida ed immeritata quanto effimera, questo artista compiuti appena gli studi col Rheinberger a Monaco di Baviera si recò, verso il 1897, a Milano, e qui fondò una Società corale di cui molti che ne furon parte si ricordavano ancora vent'anni or sono, come di un focolare d'arte la piú elevata e pura e, si può aggiungere, «insolita» per quei tempi e per la media della cultura dell'ambiente anche musicale. Sotto la direzione di Ermanno Wolf-Ferrari si studiavano e si imparava ad amare le opere dei grandi maestri della polifonia vocale dei secoli XV e XVI.
Erano nuovi paesaggi di meravigliosa bellezza, che si rivelavano alle menti degli amatori dell'arte; nuovi orizzonti che si aprivano ai giovani ansiosi di nuovi ideali; un'oasi d'arte serena, disinteressata, elevatrice, purissima, in un ambiente che non riconosceva e non si appassionava che di teatro; un pensiero a Dio e ai Santi Padri della Musica, in un mondo che non alzava mai lo sguardo al cielo. Per ciò che riguarda la musica istrumentale, G. S. Bach era il piú grande amore del giovanissimo maestro. A casa Lurani, a casa Boito, a casa Ricordi, quando Wolf-Ferrari sedeva al piano, era per suonare musica di Bach. A Venezia, piú tardi, fra il 1902 e il 1907, quando, direttore del Liceo Civico Benedetto Marcello, impartiva lezioni di composizione - il piú delte volte peripatetiche - erano Palestrina, Gabrieli, Da Vittoria, Marcello, Frescobaldi, Bach, Mozart, Gluck, Rossini e Verdi, Verdi di Falstaff, i libri di testo e i modelli ch'egli illustrava. E, nutrito di classicismo com'era, non riusciva a darsi pace dell'abbandono in cui erano lasciate tutte le forme dì musica «pura» da camera e sinfonica; non riusciva ad «intonarsi» con gli ideali che vedeva comunemente seguiti. E intanto componeva o aveva già composto le due Sonate per violino e pianoforte, il Quintetto per pianoforte ed archi, il Trio per violoncello e pìanoforte, la Sinfonia da camera e gli Oratorî La Sulamita, La figlia di Jairo, la Cantata La vita nova.
Per il teatro, dopo la Cenerentola, componeva Le donne curiose (1903) e I quatro rusteghi (1905) dimostrando, con queste commedie, di avere, primo fra tutti i nuovi maestri italiani, intesa e raccolta l'immensa eredità spirituale lasciata da Verdi con Falstaff. Dimostrando, ancora, di rifarsi, in quanto a stile, per spontanea inclinazione di un animo bene educato e sollecitato dalle affinità elettive, a quei Maestri nostri e stranieri, del '700 che intorno al1930 - vent'anni e piú dopo di lui - tanti compositori giovani presero ad imitare e rievocare, perché così voleva la moda, e perché il Movimento, dopo essersi gettato tutto all'estrema sinistra, ritornava ora precipitosamente verso l'estrema destra.
Ritornando alle antiche abbandonate fonti, coltivando le forme da camera e sinfoniche che ai primi del '900 erano da tutti neglette (perché gli Sgambati, Martucci, M. E. Bossi, Busoni, Sinigaglia: coloro cioè che formarono «il ponte» di cui in altra sede parlai, appartenevano a generazioni precedenti) il Wolf-Ferrari cercava ristoro e conforto fra le grandi ombre del passato, e provvedeva a formarsi quello stile che gli fa tanto onore (neppur questo gli fu in un primo tempo riconosciuto, in onta alla sua evidenza); e a trarre dallo studio intelligente, veramente umile e appassionato del Falstaff quei tesori di saggezza, di gusto e di bellezza tutta spìrìtuale che glì avrebbero permesso dì comporre un capolavoro come I quatro rusteghi, quasi fuori del tempo.
Ermanno Wolf-Ferrari deve essere considerato, dunque, come un precursore della «ripresa» della musica pura e il primo, dei giovanissimi, a render fecondo l'esempio degli Sgambati, Martucci, Busoni ecc., rimasto fino a lui sterile; pioniere di quel ritorno che dette luogo intorno al 1930 - ma per altri nomi - a scalpore grande. A chiarir meglio la sua figura, e le ragioni dell'incomprensione e del silenzio organizzato di cui fu, tra noi, oggetto, non potrò che ripetere cose che ho già dette moltissimi anni or sono. Quando comparvero Le donne curiose e, nel 1906, I quatro rusteghi le seguirono, gran da fare si dettero alcuni, per mettere Wolf-Ferrari in rapporto al momento artistico di allora (1903-1906). E vi fu, in Germania, chi parlò di lui come di un «retrogrado» volontario, e chi lo trattò addirittura come un «fenomeno». Il fenomeno si riduce forse a questo: nel non aver seguito la moda del tempo. Quanto a «retrogrado», tale potè apparire non essendosi abbandonato ad escandescenze musicali per timore di restare indietro.
È un fatto che, dopo cinquant'anni, queste sue opere comiche non recano neppure il minimo segno dell'età che hanno. E che, ad ascoltarle - ne fu buon testimone il pubblico della Scala nella edizione 1954 de I rusteghi - si prova un così squisito ed aristocratico piacere, si rivede un mondo lontano sotto un così seducente aspetto, ed è cosi arguto e sereno il sorriso che le infiora tutte, da renderle veramente incantevoli: oasi di frescura in un paese torrido, momenti di pace in un ambiente temporalesco.
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L'impressione di pace appunto, di cui parlavo in principio, di una pace senza attributi e senza sottofondo, conquistata senza lotta; anzi, neppure conquistata ma naturalmente spontaneamente dolcemente raggiunta e concretata nello stato di grazia di un'anima e di uno spirito giovanile, la si riceve però - a mio vedere - soltanto dalle prime, dalle primissime opere di Wolf-Ferrari: quelle sinfoniche e da camera: la prima serie dei Rispetti toscani (1902), e specialmente il quasi-aforisma «Io dei saluti ve ne mando tanti» e la squisita melodia «E tanto c'è pericol ch'io ti lasci»; alcuni episodi del giovanilissimo ed esuberante Trio in re magg., che è del 1896 (vent'anni); il primo tempo, Allegro moderato, e il Finale della Sinfonia da camera, che è del 1901; ma, soprattutto, la cantata La vita nova per baritino, soprano, coro, orchestra, organo e pianoforte, che è dell'aprile 1901: venticinque anni.
Il Prologo, bello, dolcissimo, che, nell'attacco, fa pensare per la sua atmosfera all'apertura della Passione secondo S. Matteo, e il Corale dei ragazzi cantori sostenuto dalle trombe, che si affaccia sereno sopra le riprese delle sequenze di accordi, sulle prime parole del primo sonetto dantesco; e a guisa di coronamento. la generosamente amorosa frase, affidata anche questa ai ragazzi e alle trombe, sulle parole: «Saluta in lor Signor cioè Amore», queste pagine, sì, come la Danza degli Angeli «per prata e per verdura», suscitano nell'ascoltatore un senso di pace, di distensione, di patetica, sospesa (intendo levitante) letizia che ci fa bene riconoscere, in Wolf-Ferrari, l'amoroso cultore (e rivelatore al discepolo) dell'arte e del genio di Giovanni Sebastiano Bach.
Ma in altre opere della giovinezza: Le donne curiose, del 1903, e il capolavoro I quatro rusteghi, del 1905, questa impressione di pace ha già altre radìci, si nutre già di altre linfe.
Stimolato e rapito in uno stato di piena euforia da un accidente di stato civile che si presentava carico di sfolgorante felicità e che doveva concludersi non troppo brillantemente - il matrimonio con Clara - il non ancora trentenne Maestro scopre, attraverso lo studio del Falstaff e dei classici dell'opera buffa settecentesca e attraverso la lettura di Goldoni, scopre in sé la preziosa vena del senso comico, malizioso e bonario insieme, che è proprio caratteristico del popolo e del vernacolo veneziano, e, tra i ventisette e i ventinove, offre in dono all'arte e al mondo le due gemme che ho detto.
Con Le donne curiose e I quatro rusteghi, Ermanno Wolf-Ferrari dichiarail suo vero essere di artista, rìvela e confessa anche a sé medesimo l'autentico suo volto di drammaturgo (l'uomo, l'intelletto raziocinarite che talvolta tocca il sofisma, sono altra cosa; lo vedremo anche noi). Ed ecco che quel senso di pace prima accennato permane e si accentua anzi come nota fondamentale e stato d'animo base della letizia, del sorriso, del riso aperto suscitati nell'ascoltare dalla vis Comica, dalla affabilità libera da sottintesi e da riserve mentali di tante bellissime, limpide musiche teatrali di Wolf-Ferrari.
Limpide e fresche come acqua di sorgente, o lungamente decantata fra le ombre fiorite di un bel giardino. È questa trasparenza di cristallo, e questa perfettissima decantazione di ogni pur minima scoria che tien ferma e anzi rassoda l'impressione fondamentale di pace. Perché il comico e - meno frequente - l'umorismo musicale di Wolf-Ferrari non nascono (almeno per quel che si avverte) dalla malinconia, come il riso di Machiavelli, come la rassegnata allegrezza o le nostalgìe paggesche o l'ncapacitá di rinuncia in Falstaff, come la grottesca impotenza di Beckmesser.
Nel comico e nell'umorismo musicale di Wolf-Ferrari non si avverte fondo di malinconia o di dolore, né sarcasmo, né protesta, né rivolta. Anche l'ironia scherzosa vi è rarissima. Ecco allora che il sorriso, la gaiezza, l'aperta risata nascono e si fanno corali senza che nulla vi sia, sotto, a renderli amari, o a mutarli, nel segreto del cuore, in una smorfia di dolore o in un gesto di ribellione. Da qui il senso di serena sorridente pace, di piena pace suscitato da tante sue musiche, a partire dalle prime opere godoniane: diverso e già più complesso della impressione di pace dirò patetica, un poco sognante e levitante, suscitata dalle opere della primissima giovinezza, ma sempre accordato al diapason di uno spirito superiore, che vive e opera artisticamente in una sfera di astrazione dai pesi, dalle miserie, dalle brutture della vita.
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Eppure non mancavano motivi di amarezza e di dolore a questo italiano tenuto, come artista, in esilio. Posso ben dirlo io che lo conobbi in tal giro di anni nell'estate del 1906, a Susin di Sospirolo dove villeggiava e componeva Il segreto di Susanna.
Da due o tre anni aveva avuto, nella sua Venezia natale, un importante riconoscimento accademico con la nomina senza concorso, per iniziativa e per l'interessamento di Arrigo Boito, a direttore del civico Liceo musicale Benedetto Marcello. Ma erano i tempi in cui il Boito appunto, ad un giovane che si era recato da lui per chiedergli consiglio se avviarsi o no alla carriera di compositore, aveva risposto non con parole, ma semplicemente aprendo un cassetto della scrivania, togliendo una rivoltella carica, e offrendola con un bel sorriso invitante all'interlocutore, perché operasse 'illico et immediate'.
E, quanto a Wolf-Ferrari, di lui fino a quel momento non erano conosciuti in Italia (e in poche città) che alcuni pezzi corali pubblicati dal Fantuzzi, il Trio in re magg. - che era stato, qualche anno avanti, il mio primo incontro musicale con lui, avendolo sentito a Roma, Sala Sgambati - e la sesquipedale farraginosa prima opera teatrale, Cenerentola, che, rappresentata alla Fenice di Venezia nel 1900, (età dell'autore: 24 anni) era rimasta incenerita da un orripilante fiasco. E siccome in quei giorni che, a ripensarli, sembrano oggi a noi remotissimi e incredibili e paradossali (ma erano ancora intrisi del candore ottocentesco) un fiasco clamoroso non procurava al suo titolare né premi internazionali, né diplomi di genio incompreso da parte di onorate Società ancor di là da venire, cosí avvenne che il giovanissimo direttore del Liceo musicale di Venezia, se volle continuare a cimentarsi nel teatro, dovette farlo oltre le Alpi, in Germania.
E questa fu la fortunata ragione che lo indusse a far stendere in dialetto veneziano, dal fido, bravissimo Giuseppe Pizzolato, il libretto de I quatro rusteghi. «Tanto, diceva, bisogna in ogni modo tradurlo per l'esecuzione».
Le donne curiose e i Rusteghi avevano ottenuto in Germania buoni successi, con effetto, in Italia, controproducente.
Gli editori musicali italiani facevano sul serio, quella volta. Animati da convinzioni profonde, appoggiata la loro fiducia su due o tre nomi al massimo, per ciascuno, su quei nomi giocavano le carte e la fortuna delle Case. Era vivo e operante il vecchio Giulio Ricordi che aveva lanciato Giacomo Puccini. Catalani, Franchetti, e governava la sua grande e potentissima Casa dalla sede di Via Omenoni, 1; era vivo e operante Edoardo Sonzogno, fondatore della Casa omonima, che aveva lanciato Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano, e governava la sua Casa, meno grande e meno potente della Ricordi, ma di notevole autorità, dalla sede dì Via Pasquirolo, 13. Altri editori di qualche importanza non v'erano; ed era con questi due, Ricordi e Sonzogno, che compositori e teatri (tutti a gestione impresariale o delle Società di palchettisti) dovevano fare i conti.
Era ovvio che, così stando le cose, per Ermanno Wolf-Ferrari non vi fosse posto nell'editoria nazionale italiana e nei nostri teatri; era ovvio che, il giorno in cui Arrigo Boito volle interessarsi del giovane Maestro che molto stimava, non ne parlasse al Sciur Giuli (Ricordi), come di un compositore. (Tanto piú che era recente il naufragio di Cenerentola; e il Boito, incontrandosi con il Wolf-Ferrari dopo il fatto, non aveva toccato l'argomento; e questo silenzio era molto dispiaciuto a Wolf-Ferrari. Lo aveva offeso e scandalizzato come un sintomo di debolezza e di sfiducia. «Quando, dopo el fiasco di Venezia, mi raccontava, son tornà a Milan, e go' visto che nissuni, gnanca Boito, me parlava de 'sto fiasco, come se 'l fusse sta' un disonor per mi, go' ciapà su, e son andà in Germania»).
Era ovvio infine che, fra il 1903 e il 1906, la stampa italiana ignorasse i successi germanici del Maestro veneziano.
Il Boito non parlò dunque a Giulio Ricordi del giovane compositore; ma scrisse, o fece parlare, al sindaco di Venezia, Filippo Grimani, del giovane Maestro come del possibile direttore del Benedetto Marcello; e Filippo Grimani illuminatamente accettò la designazione.
Eccolo ora, dunque, il Wolf-Ferrari, comporre a Susin di Sospirolo Il segreto di Susanna: con molto amore, ma con poca fiducia: perché atto unico («El matrimonio de Cavalleria e Pagliacci, diceva, el xe un caso unico, quasi come i matrimoni ben riusciti; e no' lo credo ripetibile») e perché l'argomento gli sembrava troppo tenue. Il lavoro di composizione del «Segreto», lo intramezzava con quello di trascrizione de Il filosofo di campagna, del Buranello, Baldassare Galuppi, (1706-1785) che avrebbe diretto nel 1907, nel teatro del Liceo Musicale, in occasione del 2º centenario della nascita di Goldoni, autore del libretto.
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Intanto, fra l'una e l'altra voluta di fumo della sigaretta di Susanna avveniva l'incontro con lo studente di Santa Cecilia fresco del diploma di Contrappunto e Fuga; si effettuavano i primi scambi di musiche; si apriva e si svolgeva lungo quattro intensissime settimane quella provvidenziale, per lo studente romano, iniziazione a Giovanni Sebastiano Bach, di cui ho parlato altrove; nascevano e si accrescevano nel Maestro l'interesse e l'amicizia; nel giovanissimo studente l'ammirazione, la devozione e la gioia profonda, finalmente raggiunta, di poter parlare di musica, di poter fare della musica con un Artista invece che con un Professore; un bravo ma arido Professore di grammatica e di retorica.
Spuntava infine, bellissime, fiore dopo un mese di dimestichezza, la proposta di lui, di Wolf-Ferrari, che m'inebriava, che mi dette, al primo udirla, un vuoto al cervello: «Se lei viene a studiare composizione con me, al Benedetto Marcello, io credo che, in un paio d'anni, potrò darle il diploma di Magistero».
Si era nell'agosto del 1906: a Santa Cecilia (anche quello Liceo, ma governativo) il corso di composizione importava allora non due, ma cinque anni di studio.
Rientrato in famiglia dissi la cosa a mio padre. Mio padre, il quale non ignorava che l'ago della bussola che mi aveva portato a villeggiare a Susin di Sospirolo obbediva alla legge del magnetismo cardiaco; e che il polo magnetico di quella bussola era dalle parti di S. Giusto - quello delle campane e dell'alabarda - scrisse, tra il serio e il faceto al Maestro che allora si trovava a Monaco di Baviera; e Wolf-Ferrari gli rispondeva, in data 19 ottobre: «Suo figlio le disse la verità. Però ci tengo a dichiarare: 1) che le promesse fattegli non sono favori speciali, ma cose che il Liceo Marcello usa concedere per ragioni didattiche a tutti i suoi allievi di composizione; 2) che, dato che la durata dell'insegnamento varia a seconda degli individui, nel caso nostro potrebbero bastare due anni, ma che ciò dipende da Adriano, cioè dalla sua diligenza... Quanto alla portata del talento musicale di Adriano è difficile pronunciarsi ora. Talento ve n'è; quanto, bisogna lo dimostri lui col tempo» [V. l'autografo qui sotto].









Le promesse che mi aveva fatte erano: che se avessi composta la musica per un poemetto di Arturo Graf al quale pensavo da tempo, lo avrebbe fatto eseguire con la mia direzione; e che avrebbe tentato di farmi scritturare dalla impresa del teatro La Fenice come secondo sostituto del direttore d'orchestra (il primo sostituto era Baldi Zenoni).
Nel novembre del 1906 io ero assunto dal Wolf-Ferrari come allievo di composizione; nel dicembre, entravo alla Fenice dalla porta dei palcoscenico (altro vuoto al cervello); nel giugno dei 1907 dirigevo, nella nuova bella sala del «Benedetto Marcello», la mia Cantata per soli, coro e orchestra Attollite Portas, su poema di Arturo Graf; nel luglio dello stesso 1907 mi guadagnavo il diploma di Magistero in Composizione.
Il Maestro aveva mantenuto piú che non avesse promesso. (Ma anche il discepolo).
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Si era dunque, come produzione la piú recente, al Segreto di Susanna. Se si istituisce un confronto fra quest'opera e le due precedenti goldoniane, è tutto a scapito di Susanna.
A parte la sinfonia, che è un gioiello ineguagliabile perché è la piú fine la piú bella la piú spiritosa apertura d'opera della musica contemporanea italiana, tutto l'impianto musicale (e anche la stesura orchestrale) di Susanna è troppo denso e corposo rispetto alla estrema leggerezza e volubilità della commedia.
Volubilità e leggerezza d'aria, di fumo, di odor di sigaretta. V'è, sì, una bella parte di baritono, vi sono un paio di graziose arie di Susanna, v'è la gustosa macchietta del servo muto; ma il tessuto sinfonico, gli accenti, le interlocuzioni e i commenti orchestrali (pensate alla baruffa) la stessa scrittura, talvolta, la stessa durata in minuti dell'opera, non hanno rapporto, o lo hanno a briglia lenta, con la fatuità, col peso piuma dei soggetto.
Pensiamo, in contrapposizione, allo stupendo senso di proporzione, di perfetta armonia, di ugual grazia e elegante levità di gesti - nella musica come nella poesia - che si trovano in ogni pagina e delle Donne curiose e dei Rusteghi; ricordiamo quei tessuti orchestrali, sempre trasparenti e snelli, sempre pittoreschi e cosí attenti alla economia dei timbri, che basta talvolta la sortita di un fagotto solo per suscitare un senso di sorpresa e per far sorridere; oppure quella di un flauto a dir poesia, o quella di un oboe a dir tenerezza.
Al discepolo che gli parlava con entusiasmo della orchestrazione de I quatro rasteghi, il Maestro rispondeva «me ga tocà scriver tutta la partitura, e la xè longa, in quaranta giorni. Allora, per far presto, avanti co' i archi e, proprio quando che gera necessario, una penellada de legni o de ottoni. El se ricorda: el timbro dei archi el xè l'unico che no stufa mai».
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Conosceva tutto Goldoni come ben pochi altri in quegli anni, e lamentava che fosse, - dai nostri teatri, tanto trascurato:
«Perché lo si eseguisce cosí poco, mi scriveva piú tardi, mentre una serata goldoniana è ogni volta una delizia ed una sorpresa? A Goldoni battono con una mano sulla spalla, come a Haydn, con aria di protettori: Papà Goldoni, Papà Haydn! Forse perché seppero sorrìdere?
Non bisogna sorridere ai lacché. C'è un proverbio asiatico, non so piú se cinese o indiano, che dice: non scherzare con lo schiavo, perché altrimenti ti mostra il sedere. Cosí quei due, per avere rivelato le loro nature affabili, sono stati trattati sempre come degli esseri bonari, da non temersi, miniature da tabacchiera; non vengono messi i tra i grandissimi. Pare proprio che, senza un lato pesante e che rechi dolore, un artista non venga mai considerato grande. Non c'è che Mozart che, pur senza pesantezza, sia tenuto fra i grandissimi. «Comunque, pesanti o no, i grandi Maestri rimasero sempre soli.»
E le sue invenzioni melodiche, e l'atmosfera particolarissima delle sue commedie, e la stretta intima adesione fra il motivo vocale o strumentale e il momento scenico, e il carattere del personaggio? Abbiamo noi, nella letteratura teatrale di questo primo cinquantennio del ventesimo, una pagina piú sorridente affettuosa e graziosa del duetto Rosaura-Florindo che, ne Le donne curiose, chiude la prima parte del secondo atto, con quel candore di accenti, quell'intrecciarsi di voci, quello spaziare di pause che diventano anch'esse espressive, e con quegli incantevoli due sospiri, dominante e tonica, mi-la, che teneramente lo chiudono? Abbiamo una nota di colore piú semplice, piú tecnicamente indovinata, (il registro basso), piú efficace dei due flauti che, in terza minore, do - mi bemolle, sottolineano piano (cioè soffiando anch'essi) le quattro soffiate, fortissimo, di Colombina, quando, nel primo atto, le quattro donne almanaccano di magia, di alchimia, di filtri, di alambicchi, di fornelli?
E I quatro rusteghi? A volerne parlare, e neppure adeguatamente, tutto il discorso dovrebbe vertere su questo autentico capolavoro, nel quale tutto è perfetto, e i caratteri sono incisi col bulino, e l'atmosfera è Venezia, e le persone sceniche sono Venezia, e la parlata musicale così dei vecchi burberi come dei giovani amanti, nei languori sentimentali come nelle 'racole' diluviali, sono sempre Venezia.
(Un mesto pensiero a quel compositori contemporanei che pretendono fare Teatro applicando, irremovibili, un unico ricettario di cifre, formule, procedimenti, accenti, agli argomenti e paesaggi drammatici e scenici i piú diversi).
Buona dunque, se pure non adeguata fortuna, nei teatri germanici, alle due opere goldoniane; e silenzio totale in Italia, su questi successi d'oltr'Alpi. Ma Susanna, in compenso, doveva riservare qualche sorpresa al suo autore, in attesa che il teatro alla Scala finalmente accogliesse nel suo arco scenico Le donne curiose.
Questo avvenne nel 1913 con la magnifica direzione di Tullio Serafin: quando Wolf-Ferrari, anche per le ostilità che, manco a dirlo, gli si eran levate contro nella sua città, aveva abbandonato da tre o quattro anni la direzione del Liceo Marcello.
Dopo la prima milanese, che ebbe pieno successo di pubblico e una stampa in complesso favorevole ma non molto calorosa, fatta eccezione per un quotidiano che fu severissimo, io mandai a Ermanno Wolf-Ferrari, che si trovava a Monaco di Baviera, tutti i giornali. Ed Egli subito mi scrisse:
«Carissimo, grazie per le notizie, i giornali e la tua bontà verso i miei vecchi (avevo procurato i posti per lo spettacolo ai genitori del Maestro). Hai fatto benissimo a mandarmi anche la critica di Beckmesser. Quello li ha tutta l'ingenuità del critico, che non sospetta nemmeno il pericolo del suo compito: quello di rendersi ridicolo presso il giudizio del domani. Ma... dimentico forse che i critici, il piú delle volte, nulla hanno da temere dai posteri, perché, per quell'ora, sono belli e dimenticati? No, essi hanno il diritto di fare le piú brutte figure, perché nessuno se ne accorge.
Intanto la piccola Susanna ha smentito la mia profezia. Brava, poveretta: non poteva fare di piú. E poi, farsi eseguire cosi alla chetichella, senza che io ne sapessi niente, risparmiandomi tutte le noie dell'autore vivo! (Penso ai pesci vivi che si vendono qui a Monaco nell'acqua corrente, salvo ammazzarli appena pagati)...
Nella stessa lettera il maestro si dice contentissimo che io stia rimaneggiando la mia prima opera di teatro, «Le nozze di Haura», composta nel 1908, che Tito Ricordi, succeduto a Giulio nella direzione della Casa, aveva acquistata nel 1912, e aggiunge: «Ma non vedo l'ora che tu ti metta a fare del nuovo (su un buon libretto). Solamente facendo del nuovo ci si accorge che, con l'andar del tempo, si è guadagnato in tecnica e in tutto il resto. Io fui sempre meravigliato di vedere che, dopo una pausa, nel lavoro nuovo si andavano svelando a me stesso potenzialità a me pure, prima, sconosciute. Ed è proprio quello il piacere del creare: assaporare la propria forza e scoprirne i lati nuovi, cioè nuovi a noi stessi».
Mi diceva poi che la sua opera nuovissima L'amore medico, da Molière, sarebbe andata in scena a Dresda, nel novembre o dicembre di quell'anno 1913.
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L'ingresso in Italia, dopo dodici anni di anticamera, de Le donne curiose, né aveva voluto dire, per gli altri teatri nostri, porta aperta, né era stato sufficiente a porre Wolf-Ferrari nel posto che artisticamente gli spettava.
Nell'aprile del 1914 mi annunciava da Viareggio un suo imminente arrivo a Milano per cercare di impedire una esecuzione affrettata dei Rusteghi a Firenze.
Nell'agosto di quell'anno scoppiava la prima guerra mondiale che avrebbe avuto partecipe anche l'Italia, e prodotto i suoi effetti pure nel campo dell'arte.
Ecco i passi essenziali della lettera 30 aprile 1916 che Wolf-Ferrari mi scriveva da Zurigo:
Visto che l'uragano ancora imperversa, son venuto qui, dove spero di poter mettere a posto, sia pure lentamente, le mie cose private.
Dove ero, tutto era arenato... ho finito da un pezzo l'opera
(Honny soit qui mal y pense: poi mutò il titolo in Gli amanti sposi)... Finché dura la guerra non dò premières. I denari se ne vanno allegramente come sono venuti, visto che da due anni non guadagno più nulla o quasi... Quando non avrò più niente, ricomincerò... Questa benedetta bufera di anni che sconvolge tutto, lascia imperterriti solamente i bambini lattanti. I giovani, o li travolge, o li ferma nella loro carriera; ai maturi divide la vita in due epoche distinte, quasi ad indicare loro il momento in cui comincia la discesa fisica; i vecchi sgomenta, spesso uccide.
Non ho in corpo retoriche che valgono a farmi pensare con delle belle frasi su questo fatto crudo. Penso a Gesù Cristo e al suo perdono dalla croce verso coloro che non sanno quello che fanno. Siamo tutti quanti, che non sappiamo nulla! Penso che in cent'anni siamo tutti tranquilli. Benedetta la poesia che, uccisa, rinasce sempre eternamente giovane...
E come io gli scrivevo un po' severo, lamentando il suo distacco, e che egli non dividesse con me l'ardore patriottico e le ansie per le sorti della guerra che andava male; e poi gli dicevo il mio dolore di non poter essere, neanche volontario, al fronte; e il conforto che trovavo nella composizione di un'opera di alto argomento morale e umano (era La figlia del Re) e poi passavo a descrivergli la durissima lotta che da quattro anni ormai andavo sostenendo (poco lavoro come direttore d'orchestra; nessuna luce all'orizzonte per la composizione, perché Ricordi si era dichiarato preso da altri impegni) per non naufragare nella grande rinuncia a tutti i miei sogni d'arte, il Maestro mi rispondeva l'11 luglio 1916, sempre da Zurigo, con una lunga, magnifica lettera, della quale citerò solo un passo più degli altri rivelatore del suo sentire in quel momento:
Vedi, per il mio carattere e per le mie vicende è naturale che io sia un po' buddista. Non ho mai sentito l'arte come una lotta, ma come una emanazione naturale, come dalla pianta nasce un fiore con il suo profumo, indifferente se questo non trovi il naso che lo goda. Tu mi avrai visto grato per il successo, ma mai fremebondo per ottenerlo. È la mia natura che volentieri fa il morto, in acqua, invece di lottare. Dico io che sia meglio essere cosí piuttosto che altrimenti? Niente affatto: sono fatto cosí e basta. E il mondo mi pare un manicomio appunto perché vedo che il volere imporre le proprie idee ad altri (cosa istintiva e primitiva) è la causa di tutte le lotte cruente. Come credo che in ciascuno di noi ci sia qualche cosa di inconscio e di piú vero del conscio che va per la sua strada (destino) anche se il 'proprietario', la pensi diversamente, cosí credo che l'umanità (come realtà di se stessa inconscia) vada per la sua strada siderea. E a questa umanità credo (in pace e in guerra); ma ripeto che l'umanità, come si rispecchia nelle coscienze dei singoli, è vana astrazione. Tutto questo, ripeto, per me, dato il mio punto di vista.
Tu ne hai un altro perché sei un altro, 'capperi'!
La tua lettera è interessantissima, come sintomo del tuo problema personale. Tu senti che in te c'è qualche cosa di più alto, per cui diventano vermi tutti i singoli, mentre questi stessi singoli, nella collettività, diventano quella umanità eroica della quale tu ti senti fratello... Tu stai formandoti la tua persona: cosi hai bisogno di odi e di amori. Tu odi negli altri ciò che odi in te stesso, e ami negli altri ciò che ami in te stesso. Ma cosi facciamo tutti! E non lo sappiamo. Comprendi ora che cosa intendo quando parlo di manicomio universale? Pensa che siamo tanti individui che non conosciamo 'noi stessi', e che vorremmo che tutti pensassero come la pensiamo noi, giorno per giorno -mentre la realtà è profonda, inconscia, sia nel singolo, sia nella collettività. Per conto mio, non giudico piú: né tutto disprezzo, né tutto amore - cioè, un amore fatalistico, lontano, lontano, che per ora mi fa fare il Budda, non avendo la forza magica di trasformare le teste, per farle andare a seconda col 'regno dei cieli' che è in ciascuno di noi.
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Nel P.S. di una lettera di alcuni mesi dopo, quasi a rassicurarmi, senza averne l'aria, che, in onta al buddismo, il suo dovere di cittadino lo aveva compiuto, mi scriveva: «Mi presentai qui (sempre a Zurigo) alla leva e fui proposto per la riforma per un'ernia doppia. Come vedi, ho 'due mondi' agli inguini pure». E poi, in margine: «Se mi rispondi, parlami di cose interiori (se vuoi): delle esterne sono stanco, stanco».
Per le necessità della famiglia che mi ero formata, e per poter continuare il lavoro intrapreso de La figlia del Re senza abbandonare il 'mare magnum' di Milano dove mi ero gettato, deciso come ero a tenermi lontano dalla soluzione pratica dell'insegnamento in qualche Conservatorio, mi ero procurato intanto, auspice Gino Cucchetti, qualche collaborazione a riviste mensili e settimanali; attività abbastanza redditizia per una economia famigliare estremamente sorvegliata. Ottenni anche di collaborare ad un quotidiano milanese di buona tiratura, La Sera, e il secondo mio articolo si intitolò Un assente. Vi dicevo che, in giorni tanto gravi per la Patria, era assai doloroso che un artista della statura e dell'italianità di Ermanno Wolf-Ferrari fosse costretto a vivere fuor dei confini, perché dentro i confini non v'era posto, né pane per lui.
Fu allora che lo 'statu quo ante' che aveva fatto seguito al successo de Le donne curiose del 1913, acquistò un piú grave significato, e che i potentati e la cabala musicale milanesi scoprirono le batterie, dando a divedere che quello che si diceva fosse accaduto vent'anni avanti ad Alfredo Catalani, erano rose e gelsomini, in confronto di quello che adesso accadeva e piú tardi sarebbe accaduto ad Ermanno Wolf-Ferrari (e non ad esso soltanto).
Il mio articolo di evocazione e di rivendicazione del Maestro, comparso nella prima edizione, ore 16, de La Sera, del 23 settembre 1915, scomparve, fu tolto di pagina nella seconda edizione delle 18, e nell'ultima delle 21.
Cosa era dunque accaduto?
Era accaduto che un grande editore di musica, il quale, per esserne azionista, fruiva di qualche potere di controllo su La Sera, con una semplice telefonata aveva fatto toglier di mezzo l'articolo che ricordava agli italiani l'assenza forzata di un grande artista italiano, Ermanno Wolf-Ferrari.
Di questo Maestro non si doveva parlare. Assente fisicamente, anche spiritualmente aveva da rimanere assente. La cabala delle mezze calzette di Galleria parlottava di diserzione; e tornava assai comodo e corroborante, perbacco, all'alta politica teatrale dei potenti, come alla bassa invidia degli impotenti, lasciar circolare e accreditare tale accusa infamante: per l'oggi e per il domani.
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Nei primi mesi del 1917 ero caduto per le scale di casa, e m'ero leso un ginocchio.
Obbligato a letto per quaranta giorni, li avevo goduti tutti dando gli ultimi ritocchi alla partitura de La figlia del Re che volevo mandare al concorso Editii Mac Cormick. Finito tutto, avevo scritto, e dell'infortunio e del lavoro compiuto, a Wolf-Ferrari. Ed egli a me, in data 23 aprile: «... La vita è proprio varia: oggi è una tegola sul capo, domani una frattura al ginocchio, dopodomani un successo della tua Damara...»
Queste ultime parole erano una buona profezia.
Poco piú di un mese dopo, il 29 maggio 1917, il Maestro mi scriveva: «Avevo ricevuto la tua lettera del
17 e non sapevo come rispondere perché mi fa sempre
pena un idealismo contornato di troppo disprezzo...
per le cose brutte. Mi piace piú quello tutto pieno della gioia serena di se stesso, cioè quasi dimentico di ciò che lo contrasta.
«Ma ora leggo il Corriere e vedo che hai vinto il concorso Mac Cormick e, immaginando la tua gioia, la quale, colla esultanza che arreca, ti darà appunto questo oblio del brutto che tanto ti desideravo, cioè qualche giorno di gioia completa, godo con te e per te!
Ora si, che trovo il modo di scriverti! Bravo ed evviva! Coraggio sempre e senza imprecazioni. Vedi che i successi arrivano da per loro stessi! Se non vi fosse il dolore, chi sentirebbe la gioia? E così, se non vi fosse tutto quel brutto di cui tu nella tua ultima lettera ti lamenti, se non vi fosse la mancanza di idealismo, che valore avrebbe l'idealismo?
È concepibile il concetto della luce senza quello dell'ombra? Il male è la condizione 'sine qua non' del bene, e viceversa. Conosci la fiaba della principessa costretta a baciare il ranocchio per trasformarlo in un bel principe? Se vuoi rendere completa e dolce tutta la vita, bacia anche tu il ranocchio...»
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Ahimè, povero grande Maestro. Questo suo ottimismo ad oltranza, questo toccasana del baciar ranocchi non dovevano durar molto neanche per lui, cosí deciso a non fermare la mente sul brutto e sul male della vita come è.
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L'amore medico, a Dresda nella magnifica esecuzione diretta da Ernst Von Schuch (e io vi ero, anche per i miei interessi) aveva fatto, dopo il successo del gennaio 1913, un bel giro nei teatri germanici, europei e nord americani. Cosi I gioielli della Madonna che avevano avuto la loro prima assoluta a Berlino, nel 1911.
In Italia, fino al 1925 (anno in cui, a Venezia, ebbero il battesimo Gli amanti sposi), fino al 1925 e oltre, quelle due opere (e non solo quelle) rimanevano sconosciute. Dopo di quelle, era comparsa sulle scene, sempre in Germania, La veste di cielo.
Nel 1927, finalmente, quando il Maestro contava 51 annì, una prima assoluta a Milano: al Teatro alla Scala, la prima opera composta per commissione di un editore italiano, Sonzogno: Sly, su libretto di Giovacchino Forzano.
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Queste che ho nominate, potrebbero dirsi le opere della tentata evasione dal mondo, fino al Segreto di Susanna, consueto e caro a Ermanno Wolf-Ferrari.
Le ultime due possono dirsi quelle create sotto il cielo temporalesco dello Sturm und Drang, che si era incupito sul cuore del Maestro sette e sei e cinque anni prima, quando cioè, cessati ormai da tempo lo spargimento di sangue, il fragor delle armi, la distruzione di beni, la paralisi, nell'intera Europa, della vita artistica e teatrale che avevano accompagnato la guerra mondiale, tutti dovevamo accorgerci che, quella che il mondo aveva raggiunta dopo tanti lutti e tanti dolori, non era la pace; ma soltanto un armistizio, e gravido di minacce, per giunta. (Oggi noi non possiamo neanche dire, purtroppo, «precisamente come dopo la seconda guerra mondiale»: perché l'oggi 1955 è considerevolmente peggiore e piú turbolento e minaccioso dell'ieri di trent'anni fa).
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Fino all'Amore medico, i costumi sono, su per giú, quelli di prima, ma le persone sceniche che li vestono sono già, nello spirito e nel modo di esprimersi, mutati. Anche la stesura vocale e strumentale è più contrappuntistica che ne Le donne curiose, nei Rusteghi, in Susanna.
Scorrendo le pagine dell'Amore medico appunto, già nella bella e complessa ouverture il vivo contrasto fra l'andamento sostenuto e omofono della ninna-nanna che la apre e l'allegro del brillantissimo fugato che segue, rivela i poli opposti del 'modus agendi' adottato da Wolf-Ferrari per rintera opera. Poi nei tre atti, ricchissimi di belle idee musicali magistralmente esposte ed elaborate, è messa in piena luce la profonda sostanziale distanza di questo, dai precedenti spartiti del Maestro. Anche dei momenti piú calmi, anche dei piú dolci, l'ascoltatore sensibile che ho chiamato in principio a testimoniare, non potrebbe piú dire: «Quanta pace dà questa musica».
Qualche cosa è mutato nel cielo una volta cosí sereno di Wolf-Ferrari; qualche greve ombra tormenta ora il suo cuore.
Il 12 dicembre 1922 - sentitelo 'quantum mutatus ab illo' di solo cinque anni prima - mi scrive da Monaco di Baviera:
Vuoi che ti scriva presto. Ed eccomi a farlo. Ormai le tue lettere sono, per me, uno dei pochissimi piaceri certi che io mi possa attendere. Per cui, scrivendoti presto, posso sperare anche piú presto in una tua risposta.
Ti fa specie il mio pessimismo! Dopo tutto, esso era preparato da un pezzo, perché ricordo che, scrivendo a Mario Pascolato (sono quindi molti anni fa) mi firmavo: «l'autoillusionista». Dunque sapevo di illudermi; e riuscivo a godere della illusione ugualmente. Poi non avrei mai scritto delle opere comiche se non fossi terribilmente serio nel fondo». (Osservate: scrive: «serio», non malinconico). «Chi è allegro non sa che sia umorismo».
Alle volte il mondo mi sembra assolutamente un inferno... E vedo il mondo com'è. Cioè abitato da stolti, e da rapaci carogne. E non si sa quale sia il male maggiore: la stoltizia o la cattiveria (stupida, questa, anche piú della stoltizia, trattandosi di gente che vive qualche decennio e poi muore!). E ora so che quel poco di valore in piú che ci ha dato la natura accordandoci un cervello non del tutto dozzinale, lo dobbiamo scontare col dolore di vedere il mondo abitato dai sullodati; mentre sono certo che questi sono perfettamente contenti di sé e del mondo e delle proprie ruberie e assassinî!... Poi, il dopoguerra mi ha levato ogni speranza, se ne avevo. E - ne avevo, ancora! Immagina: credevo questa guerra fosse l'ultima! Invece... non si sente già parlare della prossima? No, no, è una fortuna il poter dire: Morirò, addio, mondo sporcato! (Perché non è vero che sia sporco in sé. Lo si sporca. Ecco.) Ma ora, ecco! L'autoillusionismo mi riesce piú difficile!
Mi lodi troppo dicendomi 'anima alta', ecc. No! L'uomo normale, come lo vorrei io, dovrebbe essere assai migliore di me. Sono pieno di difetti. Ma come 'carogna' non ho talento. Ecco tutto.
L'opera nuova? È una fiaba, ma non quella che conosci (Colibrì). Un'altra, nata dopo. Colibrì seguirà.
[...] Sai perché scrivo? Perché è ancora il conforto migliore per un pessimista novello» (ecco dunque: come pessimista, sì riconosce di primo pelo: anni di età 46). «Una volta, era una certa gioia giovanile fra pelle e pelle che mi faceva scrivere» (fra pelle e pelle: senza troppo scavare nelle tenebre forse tormentose del profondo; ed ecco l'impressione di pace suscitata dalle opere giovanili). Ora, giacché la vita non mi sembra assai dolce, via, ci metto un po' di zucchero io, con quattro note. Una gocciola di miele concia un mar di fiele, dicono. È vero? Uhm! Salverei io il mondo colla 'gocciola' e allora addio pessimismo.
Caro Adriano... Il Diavolo lo farai, no?» (come Toscanini, era rimasto colpitissimo dal libretto de Il Diavolo nel campanile che gli avevo mandato in lettura) «almeno, continua, per rendertelo propizio. Il Diavolo è più potente di Domeneddio, forse - e non si sa mai. Tientelo amico.
Inconcepibile l'agire di Ricordi con te! Ma perché stampano, se poi lasciano raffreddare il successo?
(Dopo ben 5 anni dall'esito del concorso Mac Cormick, per l'interessamento di Toscanini, La figlia del Re era stata rappresentata finalmente, nel marzo di quell'anno 1922, al Teatro Regio di Torino, direttore Tullio Serafin, protagonista Ester Mazzoleni, con successo che fu allora definito clamoroso; l'editore teneva ora chiusa nell'archivio questa, per imporre ai teatri opere di altri nuovi compositori. Quelli con i quali, mi aveva avvertito nove anni prima il «signor Tito», la Casa aveva dei contratti).
E fosse vero» continua Wolf-Ferrari «che le opere che fanno girare fossero piú 'commerciabili'; ma non ne imbroccano una! E sono anni. Tutti mezzi successi. Nascite moribonde. Recipe: stultizia gr. 0,20; carognaggine gr. 0,01... Che sia cosí anche in questo caso?».
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Questa ricetta di sicurissimo effetto, sebbene, forse, ancora troppo ottimista nell'analisi chimica del Maestro perché le misure in grammi (o in chilogrammi) delle sostanze prescritte sarebbero certo da invertire, fu, ancora una volta, largamente usata dall'intrigo della invidia nazionale contro lo stesso Wolf-Ferrari qualche anno dopo, ai primi del 1926, togliendo a pretesto I gioielli della Madonna.
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Se vi è opera che presti il fianco ad una onesta, intelligente critica negativa è questa: sia per il libretto oleografico e pieno di luoghi comuni, sia per la musica che, tolte alcune belle pagine, è debole, generica e non bene intuita nell'atmosfera: che vi risulta inefficace (per es.: abbondano, nelle parti vocali, i procedimenti per terze. Ebbene, il popolo napoletano non canta mai, o rarissimamente, per terze).
Ma non bastava, all'intrigo e alla invida cattiveria nazionali, colpire l'opera singola (forse, mossi dalla stupidità e dalla ignoranza com'erano e come sono sempre, non avrebbero neanche saputo farlo); bisognava investire tutta la produzione del Maestro, con la speranza di ricacciarlo definitivamente in esilio, lui con tutte le sue opere; e che non se ne sentisse piú parlare.
Ed ecco, ai primi del 1926, in un momento cioè di ripresa del sentimento nazionale, indiziarlo, a proposito de I gioielli della Madonna, di anti-patriottismo, di anti-italianità.
Wolf-Ferrari accusa il colpo, ne soffre profondamente e scrive al suo editore una lunghissima lettera della quale citerò solo alcune parti:
Come mai posso proprio esser io a dovermi difendere d'un'accusa da cui l'opera incriminata, - di per se stessa - invece d'accusarmi mi difende? Io l'ho scritta per amore, come ho scritto ogni mia nota, e mi si vitupera così, falsando origine e scopo di quell'opera d'arte? Non avrò raggiunta la bellezza di Napoli, ma ho scritto l'opera perché ne ero e ne sono innamorato! E dunque si era tutti rei di anti-ìtalianità dodici anni fa a Chicago, e Campanini, e Sammarco, e Bassi, quando a far risuonare quell'opera ci si sentiva inteneriti dalla nostalgia?! Ed erano proprio i giornalisti italiani di Chicago che inneggiavano alla italianità di quel lavoro!... Non è proprio colpa mia se fui ostracizzato per ragioni editoriali, ormai antiche e morte, per 15 anni, e se la mia carriera dovette farsi così che - per arrivare con Le donne curiose in Italia dopo 12 anni che erano fatte - ho dovuto prendere la via di Monaco - New-York - Milano. Io potrei dire che fu delitto di anti-italianità il tacermi a bella posta e il chiudermi le porte dei teatri d'Italia per tant'anni, benché fossi a Venezia direttore di quel Liceo... Io di camorra non me ne intendo: ho visto il lato pittoresco, e basta... Io sono artista. L'artista loda, non denigra. Una bestemmia non fu mai messa bene in musica, perché la musica è fatta d'amore. L'odio non canta: grida, o tace. Forse offende il fatto che l'epoca è 'moderna' ? Ma ormai l'opera ha veneanni sulla gobba... Non sono mai riuscito ad ottenere costumi borbonici, come avrei voluto, perché c'erano quelli della Cavalleria e dei Pagliacci, che si potevano usare senza spesa: ciò che mi ha procurato anche la taccia di aver scritto un'opera verista in ritardo...».
Fàtene, dei Gioielli, una magnifica esecuzione in Italia, e vedrete. Del resto, ho aspettato tanto... Ma il trionfo lo avrò e, se non ci sarò piú al mondo, in quel giorno si penserà con qualche rammarico ai dolori recatimi inutilmente ora...».
Eccolo dunque, il neo-pessimista 1922, peccare ancora di eccesso di ottimismo nel colmo dell'amarezza e del dolore 1926. E infatti li vedemmo, dopo il recente trionfo dei Rusteghi a Milano, i detrattori, gli ostracizzatori, come diceva, gli orditori di intrighi professionali, le «carogne», coprirsi il capo di cenere, battersi il petto recitando il Mea culpa...
Dopo L'amore medico, a partire da I gioielli della Madonna, attraverso La veste di cielo e Gli amanti sposi, per dire delle piú importanti, fino a Sly, opere della tentata evasione dal mondo consueto, ho detto prima, e dello Sturm und Drang.
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Fra queste, le piú importanti e significative sono senza dubbio due: Gli amanti sposi e Sly, ovvero La leggenda del dormiente risvegliato.
La composizione de Gli amanti sposi risale al 1916; la sua prima assoluta, alla Fenice di Venezia, al 1925.
Il libretto, ispirato dal Ventaglio di Goldoni, pervenne alla sua forma ultima dopo una lunga serie di mutamenti e di collaborazioni le piú varie, che andarono dal conte Sugana: il riduttore de Le donne curiose, al Pizzolato; dal Golisciani al Forzano; si che di papà Goldoni non rimase (sintomatico) quasi piú nulla.
Il Wolf-Ferrari dovette esser sedotto dalle possibilità che venivano a lui musicista, dal contrasto fra la sentimentalità doloroia,e l'intimo dramma di Rosalba e Giacinto, e la gaia e frivola schiera delle macchiette che inghirlanda i due sposi separati da una breve burrasca di ricongiungersi. Schiera di macchiette che è formata dal visconte Filidoro e da madama Flori, da sei Galanti,e da alcune Modistine; e che sta al motivo centrale come una cornice rococò può stare a una Prigione del Piranesi: perdendo quella, nel contrasto talvolta stridente, un poco della sua volubilità; questa, un poco della sua forza drammatica.
Che un compositore dell'ingegno e delle risorse di Wolf-Ferrari potesse interessarsi a un simile giuoco di contrasti, in un dato particolare momento spirituale e psicologico, si comprende dunque benissimo; che l'assunto fosse particolarmente difficile - pur rimanendo, come riconosceva lo stesso Wolf-Ferrari, nell'ambito del vecchio melodramma - è anche evidente. Difficile sopra tutto non tanto perché a personaggi vecchio stile era da dare un'anima che potesse stare in quei panni; problemi delle cui difficoltà Wolf-Ferrari - unico quasi fra tutti i contemporanei - ha trionfato tante volte con vera genialità e con inimitabile bravura; ma perché in un ambiente di opera giocosa, che per noi vuol dire tutto sorridente e leggiadro di superficialità, di sentimentalità a fior di pelle, era da dar credito e affermare artisticamente, cioè senza urti troppo gravi e con verosimiglianza ed evidenza di trapassi, non soltanto la serietà del sentimento di Rosalba e di Giacinto, ma il mondo doloroso di questo sentimento, la sua sostanziale drammaticità.
In questo compito, il Wolf-Ferrari non fu certo aiutato da artifici scenici che, presi a sé, sono assai graziosi e che - anche se discosti dal verosimile, anzi appunto per questo - rientrano benissimo nel quadro dell'opera giocosa; ma che, riferiti al dramma e divenuti quasi il perno dell'azione di Rosalba e Giacinto, rendono poco credibile la profondità del loro amore e della loro sofferenza; e, quindi, apparentemente ingiustificata la bella e dolorante eloquenza, l'umano e profondo calore di molte pagine musicali dettate per essi dal loro Autore.
Rosalba ama perdutamente Giacinto e anela ricongiungersi a lui; e questo suo segreto sentimento è espresso assai bene dalla musica, nella scena del primo atto tra Rosalba e i galanti. Ma poi, quando si trova dinanzi al marito che implora pietà e perdono alla marachella commessa, la donna oppone alla possibilità di un'immediata pacificazione l'ostacolo di una giarrettiera da rimettere a posto: efficace e malizioso espediente scenico, ma tale da mettere in dubbio la profondità del dolore e la serietà dell'amore di Rosalba.
Essa, per quanto tesa nel suo orgoglio, o potrebbe subito perdonare, o imporre al marito infedele prova ben piú seria e grave. Così, nell'ultimo atto, quando Giacinto, credendo addormentata la moglie, si ricorda della scommessa e allaccia il «roseo oggetto» sotto il roseo ginocchio di Rosalba, mostra di possedere buona memoria quanto ha padronanza di nervi, e l'episodio non manca di arguzia e di grazia. Ma quando poi, vicino alla consorte finalmente riconquistata - in una alba di estate, tra bei tappeti di verde e amiche ombre di alberi e cespugli - si addormenta per davvero, mentre la donna dorme solo per scherzo, allora esagera in delicatezza. È un cavaliere poco cavalleresco; è un Giacinto che fa il Fabio temporeggiatore, e che meriterebbe di pagar cara la sua olimpica flemma.
Anche qui tra quello che avviene sulla scena e quel che dovrebbe bollire nell'anima e nei sensi di Giacinto - e che ha trovato adeguati accenti nella musica - vi è contrasto, e l'effetto non è proporzionato alla causa.
Questo per spiegare qualche momento di perplessità che si prova ascoltando l'opera; (sulla quale mi soffermo perché pochissimo nota in Italia: fra le importanti, anzi, la meno nota) e per intendere come Wolf-Ferrari, trattando con tanta ricchezza di vibrazioni i sentimenti dei due personaggi centrali, e con la sua solita spiritosissima vivacità alcune scene affidate ai personaggi di contorno, abbia compiuto artisticamente opera molto superiore a quella dei suoi collaboratori letterari. (Ogni volta che ripenso questi Amanti sposi, e adesso che li rileggo, mi ritorna alla mente una quasi verità scritta nel 1912 - fra alquante non verità - da Fausto Torrefranca: «La verità è che un operista non può toccare il vertice dell'arte sua se non in due casi: se è il librettista delle sue opere; se è, oltre che operista, sinfonista»). I quali collaboratori letterari, pensando all'autore de Le donne curiose e dei Rusteghi, avranno forse immaginato che le possibilità creative di questo musicista non andassero oltre la sfera di sentimenti nella quale si aggirano e vivono le deliziose figure goldoniane; e avranno confidato in una musica che, rimanendo ai margini della passione senza penetrarla troppo, attenuasse alcune intime disarmonie del testo, invece di sottolinearle.
Ma invece, come già nella giovanile Figlia di Jairo, come nella Vita nova come ne L'amore medico, in molte pagine, in quasi tutte le piú belle e forti di questi Amanti sposi si trova un Wolf-Ferrari meno noto di quello conosciuto ed ammirato da tutti; ma altrettanto ricco di doni e altrettanto convincente.
La scena della Marchesa che, leggendo la lettera di uno sciocco spasimante, pensa al suo segreto tormento, è una delle piú significative: la musica esprime qui quello che la Marchesa non dice, e rivela l'anima sua dolorante. La romanza di Giacinto «Perché ti abbandonai» è anch'essa sostenuta da una bella e calda ispirazione. Lo stesso modo tormentato armonicamente, e molto cromatico cosí nelle parti vocali come nell'orchestra, col quale sono quasi sempre trattati gli incontri fra i due innamorati, o i loro monologhi, si distacca dalle maniere piú consuete del Wolf-Ferrari e mostra, nella già molto nota tavolozza di questo artista, nuovi colori e nuovi efficaci mezzi di espressione, dei quali si erano avuti saggi mirabili ne La vita nova e nell'Amore medico. A questa maniera appartengono anche la delicata canzone di Nini, rievocante l'amore di Giacinto per Rosalba; la ripresa e il concertato bellissimo e di grande effetto che segue; lo squisito episodio della campana e la pagina della Marchesa «Era di sera» - una delle piú elevate e belle che siano uscite dalla penna del Maestro - e infine l'«albata» dell'atto terzo.
Anche nel trattare le scene e i personaggi comici Wolf-Ferrari si allontana in questa sua nuova opera dal modo seguito nei Rusteghi e ne Le donne curiose. Diversa è l'epoca (primi dell'800), diversi i personaggi, e non è Venezia il luogo dell'azione.
Ecco dunque altre prove, se ne occorressero, dell'istintiva sensibilità di questo grande artista, e della varietà dei suoi modi di esprimersi. L'onestà la chiarezza la forza del temperamento musicale la mano del maestro rimangono sempre quelle. Mutano, col mutare dei paesaggi, delle epoche, delle atmosfere, delle figure sceniche, le «cifre» del disegno e i colori e gli accenti: come è giusto (direi necessario) che sia.
Oltre a questi Amanti sposi, un'altra opera importante e, per il nostro ragionamento, significativa è Sly. Ma questa ebbe, dopo la sua comparsa, molte edizioni fra noi; è assai nota; potrò essere dunque molto piú breve.
È la storia, tutti lo sanno, della beffa che il conte di Westmoreland e i suoi amici e cortigiani ordiscono contro Sly, il poeta beone, portandolo, dormiente carico di vino, dalla Taverna del falcone al castello del conte; e qui facendogli sognare, da sveglio, il piú fantastico e allettante dei sogni. Sly non abbocca, no, e non cade nella illusione; ma l'incontro con Dolly, la bellissima assetata d'amore, lo trascina fatalmente, egli stesso assetato d'amore, fuori dalla realtà, e - ignaro della passione improvvisa suscitata nella donna -lo conduce al suicidio.
Lo sviluppo dato da Forzano e da Wolf-Ferrari al dramma rendendo particolarmente crudele e in qualche momento addirittura disumana la beffa, è già un altro segno di quanto fosse mutato, nel Maestro, il modo di vedere il mondo e la vita. E la musica, dal canto suo, conferma il significato del sintomo, e ci offre, dello spirito di lui, un aspetto che non gli conoscevamo. Attenta, sorvegliata, piena di intenzioni ben concretate e di risorse è, nei tre atti dell'opera, la ricerca delle diverse atmosfere sceniche, taverna, castello, cantina. Ma questa varietà di atmosfere non nuoce affatto alla unità stilistica dello spartito.
Vi sono recitativi di molta espressione, che nulla hanno a che fare con quelli delle opere in crinolina e in parrucca; per esempio, l'entrata di Dolly nel primo atto «Ferma, Giovanna d'Arco delle ostesse»; vi sono i due quadri del castello, imperniati in gran parte su un bello originale motivo popolare di marcia, dal quale Wolf-Ferrari trae effetti varii e sempre appropriati al momento scenico; nell'ultimo atto, il monologo di Sly è una pagina fra le piú patetiche e commosse del Maestro: anche questa, di tutt'altro accento rispetto ai suoi modi consueti di cantar malinconico. Ma alla piena espressione del dolore, alla vera forza drammatica non si può dire che giunga il compositore, neanche in questo episodio finale, così doloroso e drammatico in sé.
Viene allora in mente quello che aveva risposto un giorno a Puccini, che gli domandava (lo racconta Giulio Cogni) perché scrivesse sempre commedie musicali, e indugiasse a misurarsi col dramma: «Perché il dramma mi fa troppo duramente soffrire: e io non so soffrirci dentro». E Puccini, bonariamente: «Col tempo, ci si abitua».
Anch'io, proprio quando studiavo con lui, a Venezia, gli avevo rivolto la stessa domanda. La risposta fu: «Mi no' vago a combater!», e una risatina.
Piú sincero con il discepolo, il quale non poteva incutergli soggezione, che con Puccini. Decisamente, le corde del dolore e del dramma non erano, nella sua cetra, le piú vibranti.
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Ed eccolo ritornare, con La vedova scaltra, con Il campiello, con La dama boba, ai suoi antichi amori, alla sua vera natura, alle crinoline e alle parrucche. Dopo l'evasione, il rientro in famiglia; dopo l'uragano, il sereno; dopo l'ondata di pessimismo (ottimistico), di disperazione, di imprecazione, la riconquista, per sé e per i suoi fedeli, della «pace»: che vuol anche dire, in questo caso, non permettere che il male e il brutto della vita come è penetrino, vadano oltre l'epidermide; vestire una cotta imperforabile che impedisca, alla lama, di colpire profondo.
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Ero da un paio di anni entrato alla Camera dei Deputati; avevo, nel settembre del 1930, organizzato, in collaborazione con Alfredo Casella e con Mario Labroca, e diretto a Venezia il Iº Festival Internazionale di Musica. Non per la prima volta avevo scritto, nell'autunno del 1931, a Wolf-Ferrari, che sapevo in condizioni economiche non brillantissime, domandandogli: a) se fosse proprio ìrrevocabile nella decisione di non aver pìú a che fare con Conservatorî di Musica (fino a che si è giovani, gli dicevo, è ben logico e prudente starne alla larga; anch'io sto facendo così; ma dopo i cinquant'anni, quando ormai si son fatte le ossa e un'altra faccenda. Ed egli di anni, in quel momento, ne aveva cinquantacinque); b) se mi avrebbe permesso e se avrebbe gradito che io muovessi qualche pedina per la sua candidatura all'Accademia Reale, dove Perosi, Mascagni e Giordano lo avrebbero certamente veduto volentieri.
Ed egli mi rispondeva, in data 3 dicembre 1931 (si osservi il ritorno, anche nelle lettere, allo stile giocondo):
[...] Non accetterei, ormai, piú un posto in un Istituto musicale, mi dessero magari un milione: ormai la mia vita è un'altra» e poi: «Levami una curiosità: cosa vuol dire 'infornata' all'Academia?... Sai, da quando tu mi scrivestì la prima volta, dopo la prima sorpresa, mi sento academico (con una c) assoluto: ho conquistato un rispetto dì me stesso strepitoso. Quando rido mi dico: ecco l'academico; quando piango, (non piango quasi mai) mi dico: ecco l'academico; quando scrivo note (tu sai, quella tal mia musica alla vecchia sulla base di tre accordi, 1ª - 4ª - 5ª) mi dico: ma chi piú academico di me? C'è una barba piú lunga della mia? Che scrivessi cosí da giovane, era strano; ma adesso, da vecchio, si capisce: io ero un vecchio nato! Academico fin dalle fasce! Dagli ottan'anni in avanti, oh!, allora si capirà il perché: allora soltanto si vedrà perché ero quell'io già tanti anni prima. Perché sono nato ottantenne e la mia culla era già Academia. Non ti pare?
Insomma tu mi hai messo una pulce, anzi un pulcino (che è piú grande) nell'orecchio; e se non riesci, io, ormai, mi sento ridicolo e dovrò nascondere a tutti, perché non ridano, quel rispetto di me stesso che, ormaì, non mi lascia più. Basta; sarà quel che sarà.
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Conoscevo i nostri polli e passi, assaggi, tentativi furono fatti con la massìma riservatezza. Ma qualche cosa trapelò; ed ecco allora i bassi fondi e gli alti ranghi della cabala musicale nazionale rimettersi in movimento, e risfoderare le vecchie ignobili accuse di antiitalianità, di diserzione; perfino, questa volta, di cittadinanza straniera!
Informato delle manovre subacquee che si annunciavano, mi scriveva:
[...] Il solo fatto che vi siano dei nemici (me li son fatti lo, forse?, e in che modo?), e il modo di battagliare mi leva la voglia... de andar a combater!
Disertore: Bum! Se non sono stato in guerra? Mi son presentato due volte a Zurigo quando chiamarono la mia classe, la prima volta mi pare nel 1916, la seconda qualche anno dopo, non ricordo. So che si constatò: ernia doppia. Una doppiezza che mi delizia ancora. Lascerò per testamento il cinto al miei nemici. Che già, allora, probabilmente non mi servirà più. Probabilmente è il mio nome bilingue che li irrita
[non che li irritasse: li esilarava anzi. Era tanto comodo per la nuova speculazione!] Ma non credo che il nome francese di Chopin abbia mai irritato i polacchi, benché egli vivesse in Francia, paese di suo padre. Il caso e affatto analogo. Esseri come me, misti, o bisognerebbe ammazzarli subito appena nati, o, se si lasciano vivere, lasciarli in pace. Bisogna proprio rinnegare il proprio padre per avere una patria? La mamma italiana mi ha fatto forse ella sola? Non ho io aggiunto il nome di Ferrari da piú di trent'anni al nome di papà per caratterizzarmi giusto?
Allora non c'entrava la politica. C'era in me solamente il sentimento filiale completo. Non ho dimostrato la mia gratìtudine per essere nato in Italia coi Rusteghi, Donne curiose, Vedova scaltra? Chi meno ostrogoto di me? Il mio campo d'armi è l'arte. In tutto il resto non valgo nemmeno uno zero, se questo è pure una cifra. Ricordi papà? Piú innocente di lui...
Che mi lascino in pace. Io ho voluto bene a tutti, male mai. Perché invidiarmi? Non credono che anche io abbia sofferto al mondo? Chi non ha sofferto?
Scrivimi, caro, il tuo pensiero. E cammina adagio in questa faccenda. Sai che non ho fretta, se no non sarei ancora semplice 'cavaliere' da trent'anni. E anche di questo non ne ho colpa: l'ha fatto l'amico Pascolato a mia insaputa.
E poi (e questo fu l'altro siluro lanciatogli contro)... e poi... un semplice compositore di semplici opere giocose! Un musicista contemporaneo esente (almeno nell'apparenza) dal tormento interiore cronico e comunicabile agli ascoltatori! Un tipo semplice e bonario, capace di sorridere, e - tutt'al piú - da battergli una mano sulla spalla, con aria di protezione, come a Goldoni, come a Haydn, e da chiamarlo, anche lui, «papà!». «Papà Goldoni, Papà Haydn, Papà Ermanno!
La nobile campagna dei difensori della patria incolumità riuscí a meraviglia. Perché la candidatura all'Accademia Reale andò a monte, non solo: ma le opere del Wolf-Ferrari, non mai troppo frequenti nei nostri teatri, subirono una nuova eclisse.
***
Nell'agosto del 1932, scusandosi di non poter venire a Venezia per assistere, nel 2º Festival di musica, alla prima assoluta di un suo nuovo Concerto per oboe, mi scriveva: «... terzo motivo» (della rinuncia) «sono a corto di palanche: questo mese, per esempio, colla mia arte ho guadagnato marchi due e venticinque pfennighe. Sono alquanto pochi».
E nel marzo del 1933: «Avrei gran voglia di vederti, di parlarti. Ma, ora, anche la cortezza dei denari mi inibisce il viaggiare... e le esecuzioni diminuiscono in modo superbo. In Italia, quest'anno, un solo teatro: la Vedova a Bologna. Peccato non esser morti, perché da morti si spende assai meno per il mantenimento. Rido? Non so. Ma è certo che anche a star seri seri non si diventa piú allegri».
Eccolo, l'uomo dalla cotta imperforabile.
Qualche mese dopo, peraltro, forse per eccesso di uso, questa cotta imperforabile già logora nel riso amaro della lettera del marzo, mostra una falla. Il 23 maggio dello stesso 1933 mi scriveva tra l'altro: «... ho deciso di passare l'inverno prossimo in Italia. A Roma? A Milano? Forse un po' qua e un po' là. Arrischierò i miei ultimi risparmi per amore del 'mondo'. Vedrò allora. Possibile che mi si lasci morir di fame? Sarebbe troppo onore: vorrebbe dire che sono un artista sul serio e che veramente ho il solo torto di essere ancora vivo. Infatti il predominio dei morti (e che morti!!) nei programmi di tutti i teatri d'opera in tutto il mondo (ora assai piccolo) è enorme e va crescendo man mano che s'ggiungono morti che se lo meritino, p. es. Puccini. I vivi che si eseguiscono sono certo meno dei 10%; e tra questi, molti solo per darla ad intendere. Oramai non si distingue più un successo da un fiasco di stima: il successo significa 6 esecuzioni e 1/2; il fiasco, 4 e 1/2 [*]. Bisogna morire per forza, per vedere. Prima, non si vede. Beati i direttori d'orchestra che non possono dirigere che vivi, mai dopo morti; non c'è che chi la musica la crea, non c'è che chi accresce il patrimonio, mettiamo, d'una nazione, (certamente quello del mondo) che può, e anzi deve, essere eseguito morto. Evviva! Come i gamberi, che acquistano il cinabro cardinalizio... quando sono cotti! Ciao. Scrivimi, sai? E veniamoci incontro. Ci farà bene.
È stato invitato al Maggio Fiorentino. Il lavoro in corso, i denari pochi, impossibile. «E poi, scrive, ci vuole il colletto, forse il frac, e chi sa che spese ecc. ecc. (Ti raccomando di considerare gli eccetera di questa lettera, che significano l'inesprimibile). Tì scrivo queste righe proprio dopo aver riletto le tue care parole a mio riguardo nel tuo Rinnovamento musicale italiano [**]. Le rileggo ogni volta che mi dico 'poverino' e mi voglio dare una carezza».
E qui, dentro la cotta imperforabile, c'è il puer aeternus.
Piú tardi, verso la fine di un'altra lettera, il sorriso si spegne nella malinconia: «Coraggio. Sai, caro, io vorrei ridere un poco con te, con qualche raro e buon amico: ridere di cuore, allegramente; perché nel momento in cui si ride di cuore, il mondo (quello brutto) non esiste piú. Mentre ora, per esempio, che non rido, finisco col chiederti perché, attualmente, mi, si mette da parte?».
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Gli anni passavano, era già vicino alla sessantina, ma la delicatezza dell'uomo, la sua discrezione, quello che si dice a Venezia intraducibilmente «il riguardo» che aveva anche per le amicizie piú antiche, rimanevano quelli di sempre. Ecco il preambolo della lettera 14 agosto 1934, con la quale manda a me un suo amico, che oggi è anche mio amico. In poche righeme traccia un ritratto spirituale che, a chi conosca il soggetto - a Venezia sono molti a conoscerlo - non può che apparire dei piú perspicaci.
In quasi trent'anni da che ci conosciamo. scriveva il Maestro, non ti ho mai presentato nessuno, per cui potrei sperare di non aver disposizione vera di seccatore. Ma per non esser troppo pedante faccio un'eccezione e ti presento il Professore Alessandro Vardanega, mio giovane amico quasi veneziano. (È nato, invece, a Possagno). Egli ti verrà a trovare. Abbi la bontà di riceverlo con la stessa bontà che avresti per me, e di agevolargli il presenziare alle manifestazioni del tuo Festival veneziano. Egli è corrispondente di vari giornali. Avrai poco tempo per intrattenerti con lui ed è peccato; perché è persona di una interiorità, molto ricca, forte e sincera, benché sia un po' rude e tutt'altro che uomo di mondo. È un po' complicato; ma appunto per questo, avendo avuto tempo di conoscerlo bene e di capirlo, mi ha sempre interessato e sono in rapporto epistolare con lui da gran tempo... È onestissimo.
Somiglia? Per quello che posso dirne io, è perfetto.
Proprio a questo Alessandro Vardanega il Wolf-Ferrari indirizzava, nel 1938, una delle lettere piú amare che di lui io conosca. Una vera protesta contro la città che, dopo avergli dato i natali, invece di gloriarsene e di circondarlo di materno calore, lo aveva osteggiato e amareggiato giovane direttore - del Benedetto Marcello; e adesso, piú che sessantenne e malato, ancora lo tormentava ostentandogli indifferenza e stolida incomprensione. Ma non è giusto dire «città»; bisogna dire quei quattro o cinque collitorti e snobs che - sfaccendati frequentatori di ritrovi mondani o cattivi nostromi della caravella musicale - per invidia presuntuosa e per ignoranza si mettono regolarmente contro i «costruttori».
Così scriveva dunque il Wolf-Ferrari al Vardanega in data 5,marzo 1938:
Carissimo, benché faccia dispiacere d'essere in rotta con la propria città che si ama, quando si è trattati come fui io, non c'è più scelta.
Dunque quando seppi che per la inaugurazione della nuova «Fenice» non si sentì il «dovere» di fare Il Campiello, stetti zitto finché credevo che si facessero solo opere di morti; ma allorché seppi che c'era un vivo, essendo a Roma andai alla Direzione del Teatro e protestai formalmente. Poco dopo mi pervenne una lettera gentile del nostro podestà, che si scusava... come poteva, e a cui io risposi che per carità non si scusasse lui, che so benissimo aveva troppo da fare per non essere costretto a fidarsi dei tecnici incaricati per la Fenice. Che se mi avessero scritto costoro, avrei risposto in ben altro modo e precisamente cosí: Che non si trattava di un Maestro qualsiasi e di una Città qualsiasi, ma di un Maestro e di una Città che avevano fra loro rapporti specialissimi d'amore, avendo io scritto opere goldoniane, inni a Venezia, dappertutto applaudite e amate; l'ultima delle quali eseguita trionfalmente a Roma, e a Milano, in Germania 57 volte e recentemente in città vicine a Venezia, cioè Verona e Trieste, ma a Venezia no. Ora si inaugura la Fenice nuova e non si sente il dovere di fare il Campiello? Questo non è una semplice dimenticanza che io possa scusare, ma un affronto sanguinoso che non dimenticherò mai; e se, come mi si scrive, in seguito si faranno opere mie, facciano pure; ma ormai è un'altra cosa: si trattava del simbolo a cui tenevo. Esecuzioni a me non mancano. Finché ci saranno quelle persone alla testa, non metterò mai piú piede su quel palcoscenico.
Del resto ho 62 anni: non ci vorrà mezzo secolo perché Venezia mi deva onorare da morto, se non l'ha fatto da vivo.
Così scrissi. E ne sono contento. Il podestà non mi rispose e lo capisco...».
Anche l'ultima lettera che ricevetti io da Wolf-Ferrari è del 1938, e reca la data del 12 novembre. La penultima è del 30 giugno dello stesso anno.
Parla, tra l'altro, de La dama boba, tratta dalla commedia di Lope de Vega, librettista Mario Ghisalberti.
Quest'opera, composta quasi per incarico del Teatro alla Scala, e destinata alla stagione 1938-39, era stata all'ultimo momento omessa dal cartellone, perché non condotta a termine nel tempo fissato.
La faccenda Mataloni-Boba - mi scriveva il Maestro in questa lettera del 30 giugno - è ormai accomodata. Gli scrissi calmo calmo, convincendolo che mi aveva fatto un dispiacere troppo grande e che io, in condizioni simili, mai avrei recato a lui. Recedette subito: e l'opera si farà il 4 gennaio... Evidentemente, egli non credeva piu che avrei finito l'opera in tempo (causa la mia malattia) ed aveva fatto il cartellone senza di me. La notizia della mia guarigione non gli riuscí comoda e cosí aveva preferito, invece di tornare al primo proposito, (perché era un anno che mi aveva chiesto quest'opera) di non rifare il cartellone.
Che vuoi? Se morivo, gli risparmiavo una fatica. Chi sa? Forse ne risparmiavo anch'io. Ma vivo voleritieri, ad onta dei miei 62 anni. Non è colpa mia. Tutto ciò che vive, lo fo volentieri.
Poi venne la seconda guerra mondiale, la nuova zona di silenzio epistolare, il suo ritorno in Svizzera dalla Germania, la disfatta e la occupazione, da est e da ovest, da sud e da nord, non soltanto dell'Italia, ma dell'intera Europa. Venne, ancora col bugiardo nome di Pace, il nuovo armistizio tempolaresco, nel quale tutti fummo invischiati.
Cessato il fragore delle armi, Ermanno Wolf-Ferrari potè rientrare - ammalatissimo ormai -in Italia, nella sua Venezia.
A Venezia mi recai a trovarlo una volta, due volte, sempre che potei. E sempre ebbi la sinistra impressione di dirgli, lasciandolo, «addio».
Ritrovata, col ritorno all'autore prediletto e filosofia aiutando, la pace sorridente e comunicativa dell'età piú giovanile, Egli, l'«addio» alla sua città e ai concittadini - anche agli immeritevoli - lo aveva dato già da una dozzina d'anni, nell'ultima sua opera goldoniana; nello squisito, tenero, giocondissimo «Campiello»:

Bondí, Venezia cara,
Bondí, Venezia mia,
Veneziani, zioria.






NOTE

[*] In questo dopoguerra, le cose sono state ulteriormente perfezionate. Non piú le recite 61/2 per il successo, e le 41/2 per il fiasco di stima. Ma, a regola fissa e inderogabile, «il numero (delle recite, cioè, in questo caso, l'ingiustizia) è uguale per tutti». Successo, fiasco di stima, o damigiana, questo numero, fissato preventivamente nei calendarti, prescinde completamente dall'esito; e, per le opere nuovissime o nuove dei compositori contemporanei italiani viventi non supera mai, in alcuni pochi teatri, le quattro, nei piú le tre, mentre spetta ad un Ente dell'Italia centrale l'immarcescibile gloria di aver ridotto a due i troppo cospicui e generosi numeri di cui sopra.
In tal modo, si può esser ben certi che nessuno capisce niente; e che non v'è opera-capolavoro, o autore-genio (posto che esistano), che possa emergere sulla massa delle mediocrità, e affermarsi inequivocabilmente e durevolmente, ottenere la sua giusta divulgazione, entrare nel repertorio corrente, e vivere, insomma, la vita scenica a cui ha diritto.
Due, tre, quattro recite nel migliore dei casi.
Le due, tre, quattro lirette di elemosina che il taccagno «elargisce» al seccatore postulante. E non possono essere cinque o dieci, queste lirette: perché i seccatori postulanti sono molti, moltissimi, e l'uno vale l'altro, e tutti insieme valgono zero. E bisogna dunque accontentarli tutti, ciascuno al suo turno, per ordine alfabetico; senza essere costretti a render meno magro il mucchietto degli spiccioli riservato - nei lussuosi bilanci degli Enti Lirici - all'arte nazionale contemporanea; e senza essere obbligati ad alleggerire il sacro intangibile grasso fondo riservato, nei bilanci medesimi, alle esumazioni inutili e ai clamorosi «lanci» di autoni non qualificati di teatro e di opere non nate per il teatro.
Il maggior numero dei soprintendenti dei nostri grandi Enti Lirici - manchino essi della capacità oppure della volontà di distinguere e vagliare il grano dal loglio, l'opera vitale e valida dall'aborto - non sembrano animati da altro desiderio, che quello di perpetuare la confusione e il marasma attuali, da essi medesimi provocati; sembrano non perseguire altro scopo, se non quello di convincere Pubblico e Stampa, Magnati e Proletari, Dio e Popolo, che di Teatro Lirico Contemporaneo italiano non ve n'è piú.
Tutto finito con Puccini, con Cavalleria rusticana di Mascagni e con Andrea Chénier di Giordano.

[**] A. LUALDI, Il rinnovamento musicale italiano, Treves ed., Milano, 1931, pagg. 40-42 e 58-60.