Bruno Barilli
di Mario Lavagetto
da Il sorcio nel violino
ed. Einaudi
C'è una specie di sotterranea ragione e di involontaria ironia nel chiedere a Proust - all'autore dell'opera più complessa e monumentale della letteratura moderna - le parole e le indicazioni per definire lo stile di Bruno Barilli di pochi, esili e ripetuti libretti. Il primo dei quali vede la luce nel 1924, è intitolato Delirama e comprende tredici prose, quasi tutte di argomento musicale e le cui origini (come si potrà rilevare dall'appendice genetica di questo volume) derivano in vario modo, e con varie articolazioni, dall'attività pubblicistica che Barilli svolge a partire dal 1916; quasi tutte, inoltre, hanno trovato una forma pressoché definitiva sulle pagine della "Ronda", di cui Barilli è redattore con Cardarelli, Cecchi, Baldini, Spadini, Montano, Bacchelli e Saffi. "Sarebbe stato difficile - riconoscerà in anni più tardi Emilio Cecchi - trovare e mettere insieme scrittori di tendenze più indipendenti". Chiedersi allora quanto Barilli debba alla "Ronda" è certamente legittimo, a patto di non sopravvalutare il problema: in prima approssimazione si potrebbe sostenere che nella poetica del rondismo Barilli trovò, non diversamente da come gli accadde con altri movimenti del Novecento, una specie di legittimazione a coltivare le sue personali propensioni. E in ogni caso è da sottolineare che anche le prose comparse sulla "Ronda", per quanto rigorosamente spogliate da ogni occasionalità giornalistica, conservano tutte - in maniera più o meno esplicita - memoria dell'evento da cui sono nate: raccontano un fatto, uno spettacolo, magari fondendo insieme e rielaborando fatti e spettacoli diversi da cui Barilli ha ricavato a suo tempo le proprie "lastre". Né d'altronde, di fronte a simili fotomontaggi e alla ricerca linguistica molto elaborata che essi comportano, si può dimenticare che Barilli trova in Verdi e nella poetica degli alti e bassi che lo stesso Verdi viene chiamato ad enunciare nel Paese del melodramma, la propria stella fissa: quanto di più lontano insomma dal frammentismo e dalla prosa d'arte sia dato immaginare, quanto di più alieno dalla ricerca della "sinfonia" pura degli strumenti e quanto, viceversa, di più impuro, di più implicato, di più compromesso con gli "ostacoli" che Barilli sia riuscito a escogitare nelle sue ricognizioni. Verdi è per lui, secondo una pagina dei Taccuini, come "la luce [che] deve trovare degli ostacoli lungo la sua strada [...] bucare i corpi, forare le superfici, piegare contro i duri massi che le ostruiscono il cammino [...] lottare tra la massa del fogliame e rompere dentro lacerante o stanca velata" (T, XVIII, 77). Barilli è tutto meno che uno scrittore della prudenza, il suo lessico - lo abbiamo detto - può specchiarsi in se stesso, non è sempre sorvegliato ed è soggetto a lasciare che il significato cada in transitorie ipnosi davanti alla "musica" dei significanti, tanto che la sua attendibilità critica non è da misurarsi mai per episodi, ma sulle sue grandi scoperte, là dove opera, come ha detto Baldini, "una vera e propria rivoluzione [...] nei miti e nei feticci della critica verdiana". Se mai alla "Ronda" e al clima di cui la rivista reca testimonianza, Barilli deve la possibilità di pensare ad un libro esile e premeditatamente discontinuo come Delirama; o meglio: di vedere in tredici prose, unite da sottili legami tematici e da una costante stilistica molto marcata, un "libro".
Una simile fiducia non sembra avere accompagnato in maniera costante Barilli, anche se Il sorcio nel violino nel 1926 e la seconda edizione di Delirama nel 1944 paiono basarsi sullo stesso criterio genericamente antologico. Ma basta scorrere gli indici di questi libri e poi anche quelli del Paese del melodramma e del Verdi (già in bozze nel 1946 e mai pubblicato) per rendersi conto che il problema è più complesso. Chi vorrà a questo punto rifarsi alle tabelle, approntate da Luisa Avellini e da Andrea Cristiani e pubblicate alle pp. 7 sg., 49 sg., 292 sgg., vedrà quanto fitto e intricato sia il passaggio dall'uno all'altro dei volumi di argomento musicale; e se poi cercherà di precisare (servendosi delle appendici genetiche) il modo in cui lavorava Barilli e seguirà l'itinerario compiuto dai singoli nuclei che si aggregano gli uni con gli altri o si decantano o tornano nuovamente a disgregarsi e a produrre - intorno a sé - "corone" differenziate, potrà avere la sensazione di trovarsi di fronte a una specie di pioggia di frammenti, che vengono di volta in volta attratti o respinti da diversi campi magnetici.
Un simile modo di lavorare, una simile spregiudicata riutilizzazione di immagini, di frasi, di interi periodi, che vengono innestati su qualsiasi altro tronco, può apparire, soprattutto per quanto riguarda l'attività giornalistica di Barilli, come un espediente di routine: se è vero che un articolo deve avere la capacità di rotolare su se stesso (cfr. T, LXVII, 140), questo non pregiudica la possibilità di costruirlo con materiali di varia provenienza e di avviare il suo movimento di rotazione con una o più spinte esterne. Che le cose stiano anche così non ci sono dubbi: Barilli, che teorizza la pigrizia come forma particolare dell'energia creativa (cfr. T, LX, 140), è pigro, specula su se stesso, cerca di estrarre il massimo profitto da ognuna delle sue invenzioni. Ma una simile interpretazione appare, nel momento stesso in cui la si enuncia, lacunosa e riduttiva soprattutto se riportata ai libri: qui i conti divengono immediatamente meno semplici. Si può pensare certo che Barilli utilizzi alcuni frammenti esemplari confidando poi nella loro potenziale vitalità, nella loro forza di produrre testo - ritratto o racconto o libro che sia - ma resta poi da spiegare quella specie di caparbio e misterioso accanimento ad utilizzare ripetutamente alcune carte fisse e, nello stesso tempo, a servirsi di un "mazzo" relativamente povero, se paragonato al complesso dell'attività critica di Barilli, tanto che si ha quasi l'impressione di assistere ai tentativi ripetuti di risolvere un gioco di pazienza, di cui non conosciamo le regole e che, pure, ad alcune regole sotterranee sembra attenersi, dal momento che le stesse figure vengono giocate e rigiocate e inserite, di volta in volta, in universi modificati.
Quella impressione si fa anche più netta, quando, leggendo i Taccuini, vediamo affiorare tutta una serie di indici progettuali, di libri ipotetici che Barilli edifica e poi lascia cadere, mettendo alla prova, nelle varie circostanze, il suo spirito di calcolo e di combinazione, come se fosse impegnato nella soluzione di un enigma, nell'abbattimento di un ostacolo che gli si presenta davanti periodicamente e non si lascia aggirare. E se talvolta un titolo come Piombo e argento - che riaffiora in diverse occasioni - può far pensare a una specie di accettazione pragmatica e astrutturale del doppio binario di scrittura, con il libro collocato al culmine di un processo lento e laborioso di raffinazione alchemica, altrove l'intreccio sembra più complesso, la soluzione più sfuggente; il calcolo e il successo - più che a un passaggio stilistico o a una modificazione dei "registri" - paiono allora affidati alla riuscita degli incastri, a un sofisticato sistema di corrispondenze interne, di simmetrie cercate o distrutte. Insomma, in una simile prospettiva, seguendo Barilli tra i libri scritti e quelli soltanto pensati, si finisce col vedere crescere davanti a sé e prendere forma una fisionomia inquietante e delusa, quella di uno scrittore che cerca ripetutamente di scrivere lo stesso libro e che, ripetutamente, se lo vede sfuggire tra le mani perché non riesce a disegnarne la pianta.
A qualcuno potrà sembrare che in questa luce Barilli finisca per assomigliare un po' troppo a un personaggio fittizio, magari a un personaggio di Borges, costruito senza troppi scrupoli e con illecite intenzionalità ermeneutiche. Ma, a parte il fatto che le nostre letture si svolgono sempre all'ombra di "fantasmi retroattivi" e che inutilmente cercheremmo di scollare quei fantasmi dalle pagine in cui finiscono per infiltrarsi, non c'è dubbio che a quel personaggio vada riconosciuto il ruolo di un analogon: costruito appunto, e fittizio, ma di cui bisognerà poi vedere - come ci ha suggerito Max Black - se ricade su se stesso o se, viceversa, ci consente di gettare una nuova luce sui problemi. E allora rimettiamoci alle sue spalle, alle spalle di questo "autore senza libro" e che pure tenta ripetutamente di edificarne uno: risulterà subito evidente, consultando ancora le appendici genetiche, che "fare il libro" per Barilli sembra ridursi a una pura e semplice attività di montaggio e di combinazione. Per il libro - senza lo stimolo dell'occasione immediata, dell'evento teatrale o della cosa vista - Barilli non riesce materialmente a scrivere; corregge magari, ma si tratta di correzioni di dettaglio: gli incastri vengono cercati a forza facendo ruotare gli stessi pezzi, spostandone la collocazione, introducendo - al caso - piccoli tasselli. Ma basterà "rivoltare" il tessuto così composto, basterà leggere un indice diverso per scoprire le cuciture.
Una conferma viene - io credo, e clamorosa - anche dal libro più strutturato di Barilli, da quello in cui più intensa e percettibile si fa la sua volontà architettonica: Il paese del melodramma. Barilli, quando lo mette insieme, ha un'idea molto precisa: quella di disegnare una specie di mappa fantastica del melodramma italiano nell'Ottocento. Verdi sarà il perno intorno a cui dovranno disporsi tutte le altre regioni, anche quelle disegnate oltre i confini italiani; e Verdi ruoterà a sua volta intorno a quella che, per Barilli, è la sua opera più esemplare e rappresentativa, più bruciante, più moderna, tanto da apparirgli in una nota (con il Wozzeck) una possibile pietra di paragone per il programma surrealista di André Breton: Il Trovatore (cfr. T, LX, 115). E non basta: perché sullo sfondo, alle spalle di Verdi, potrà disporre Parma e la sua campagna, alleando così al suo mestiere di ascoltatore anche il suo talento autobiografico e l'occhio che ha esercitato nei viaggi. Ma "ben altra, e più profonda - continuava Walter Benjamin quando ho smesso di citarlo - è l'ispirazione che porta a rappresentare una città nella prospettiva di un nativo. E l'ispirazione che si sposta nel tempo e non nello spazio. Il libro di viaggi scritto dal nativo avrà sempre affinità col libro di memorie: non invano egli ha vissuto in quel luogo la sua infanzia". E altrove: "smarrirsi in una città, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare". Chi legge la prima parte del Paese del melodramma ha nettissimo il senso di trovarsi davanti agli esiti e alle circonlocuzioni di un simile, geniale smarrimento: ci si muove tra ombre, immagini leggendarie, si procede senza meta, all'interno di un "labirinto", che - come ha osservato Szondi commentando Benjamin - è "nello spazio ciò che nel tempo è il ricordo". Poi, di colpo, quella specie di atmosfera incantata si rompe e la struttura resta al di sotto del progetto: al disordine guidato e apparente tiene dietro una serie di quadri discontinui, magari splendidi, ma che appaiono, nel loro insieme, come i residui di quel progetto che avevamo intravisto o che è stato sommerso o che non è riuscito ad affiorare. Ma è allora che alle nostre impressioni di lettura giunge perentoria, e in parte sorprendente, la garanzia delle fonti reperite (per il secondo volume di questa edizione delle opere) da Luisa Viola: anche la prima parte del Paese del melodramma è nata sulle colonne dei giornali ed è stata ottenuta attraverso una serie di collages più o meno abili e mimetizzati; anche il Commiato, con cui Barilli cerca di chiudere il libro e di imporgli il sigillo di una struttura unitaria e risolta, non è che l'iniziale e identico asterisco di due articoli comparsi nel 1927 (il primo sul "Tevere" e il secondo sulla "Nazione"). Il libro sfugge così ancora una volta tra le maglie che la sapienza combinatoria di Barilli ha tentato di intessere: resta perpetuamente "a venire", è l'opera incompiuta iscritta nel destino di uno scrittore che la insegue con accanimento e che pure, di fronte ad essa, appare paralizzato e come incapace di produrre scrittura e di ricavare da sé i materiali necessari alla costruzione.
Quando, nell'immediato dopoguerra, Barilli tenterà la carta Verdi, non farà che riproporre Il paese del melodramma con alcune non trascurabili integrazioni. Ma allora sarà dileguata anche l'altra segreta possibilità di chiudere il proprio destino creativo in un organismoesemplare, possibilità che egli aveva continuato a nutrire dentro di sé e a cui aveva dedicato - lo sappiamo - i voti e le attese più fervide: la sua terza opera in musica.

A più riprese, negli ultimi Taccuini, Barilli indica il 1943 come una data cruciale, come l'inizio della sua parabola discendente: il motivo di una simile e ripetuta indicazione resta tuttavia enigmatico fino al Taccuino LXVII, che copre l'ultimo anno della sua vita. È allora che, rivolgendosi a un ignoto interlocutore, Barilli racconta: ".... nel 1915 ho scritto la mia seconda opera Emiral - E lì mi sono fermato (c'era la guerra) - Adesso una pausa di 28 anni.
Nel 1943 decisi di liberarmi del giornalismo e della critica per dedicarmi esclusivamente alla composizione di una terza opera. Comprai un pianoforte nuovo, molta carta da partitura - affittai una stanza a Siena (Anche allora c'era la guerra).
La mia stanza si trovò incastrata fra i due eserciti, gli alleati e i tedeschi, in più le cascarono addosso i partigiani e i repubblichini in conclusione scomparvero il pianoforte, la carta da partitura, e anche la stanza con tutte le mie robe. Così scomparve ancora prima di nascere la mia terza opera. In quei giorni ero venuto [a] Roma per liquidare la mia posizione di critico giornalista ecc. - ma prima che lo facessi io, me la fecero gli altri questa liquidazione a Roma - Degradazione depredato vilipeso messo al bando - spogliato cestinato e buttato nudo sulla pubblica strada - Era l'inverno - mi domanderete "Ma chi è stato?" Erano in tanti che non ho visto più nessuno. Quindi niente più composizione e musica nella mia ultima vita. Dopo la guerra, si spiegò su di me, scoppiando con la sua spregevole [illeggibile] conflagrazione la guerra civile che dura sino ad oggi" (T, LXVII, 10-11). Nella nostra prospettiva di lettori sarebbe senza dubbio un errore sopravvalutare questa data e drammatizzarla oltre miisura: la pubblicazione, anche parziale, dei Taccuini dimostrerà, oltre ogni dubbio, che esiste, come ci aveva detto D'Amico, una linea continua tra il primo e l'ultimo Barilli. Si vedrà allora che l'"Orfeo in pantofole" è un "costume" di vecchia data e che appare già negli anni '25-26; allo stesso modo si troveranno aforismi, note, riflessioni, epigrammi che più tardi verranno ricopiati alla lettera o con piccolissime varianti, tanto che la fisionomia della vecchiaia potrà sembrare, in alcuni casi, come il risultato di una previsione "lunga".
Eppure quella data, ripetutamente e ossessivamente sottolineata da Barilli, è davvero fondamentale e apre l'ultima stagione, quella che si deposita in forma di nebulosa negli ultimi otto Taccuini (dal LX al LXVII) e che si delinea poi come costellazione fermissima nei Capricci di vegliardo.
I quali ultimi, è il caso di dirlo, rappresentano certo un eccezionale e drammatico esercizio di stile, ma finiscono coll'apparire, a chi conosca l'intero "continente della vecchiaia", come un esito dove la misura e l'equilibrio sono stati ottenuti a scapito dell'intensità e dove è andata smarrita la nota più tragica e sconvolgente dei Taccuini, e del loro corso farraginoso, e cioè il passare del tempo scandito dai successivi compleanni e dal restringersi progressivo del campo visuale, dal fissarsi del diario intorno a pochi punti obbligati, a pochi temi battenti.
Dunque: 1943. Barilli cerca di spogliarsi di quel guscio che - lo abbiamo visto si era costruito subito dopo Emiral. Vuole scrivere la sua terza opera, riportare alla luce il compositore. Circostanze esterne - sostiene - glielo impediscono. Continua a scrivere sui Taccuini che assumono, a partire da questo momento, un ritmo temporale più definito, che continuano a essere ricettacolo di tutto (appunti, conti della spesa, inventari della biancheria, giudizi critici, ecc. ecc.) ma che hanno un tono sempre più privato e accolgono querele, lamentazioni, invettive, bilanci in rosso, recriminazioni. Orfeo in pantofole o Giobbe: sono queste le ultime parti di Barilli, quelle in cui torna più ripetutamente in scena, per parlare sommesso e ironico oppure per declamare se stesso e la propria miseria. Non c'è, in quanto dico, ombra di giudizio: è solo che anche qui, quando sfiora il diario intimo, Barilli ha bisogno di qualche mediazione tra sé e la sua voce, tra sé e la sua scrittura. Il ventaglio dei temi, lo dicevo, si chiude progressivamente e tende a restringersi all'osservatorio stesso di cui parla Barilli.
"La chambre de Giobbe. Ma chambre. La misère. J'y ai fai les racines. La chambre de Proust - les papiers sur le planchit - les savates le desordre accumulé" (T, LXVII, 180). In realtà più che alla camera foderata di sughero, in cui lentamente e instancabilmente viene edificata la Recherche, si può pensare a un rifugio ben più disertato e miserevole. Perché se Proust è senza dubbio presente all'immaginazione di Barilli e il suo nome è uno dei pochi a galleggiare in taccuini spogli di cultura letteraria, è altrettanto indubbio che le famiglie di appartenenza sono diverse: lontanissima quella di Barilli da ogni forma di dedizione esclusiva e invece precaria, invece dissipatrice e momentanea come quella che trova nel nipote di Rameau il suo prototipo: c'è in lui la stessa eccedenza di talento e la stessa indisciplina; il suo genio - reale e vorace -vive alla giornata ed egli chiude la sua esistenza nella disperazione e nell'incuria, in mezzo ai topi e agli scarafaggi, nel fetore del proprio corpo: "la sudiceria c'est un refuge, la protection de ma pureté, de ma vieillesse refractaire dans mon odeur de carapace" (T, LXIV, 5). "Non ho più sicurezza, né autonomia sperduto in un baratro, in una selva, in una gora di nera incertezza. Tutto il coraggio crolla" (T, LXVII, 43).
E allora se il diario è, come ha detto Maurice Blanchot, un mezzo per sfuggire alla solitudine che aggredisce lo scrittore attraverso la sua opera, in questo diario - scritto oltre ogni opera possibile - esplode una tremenda e funebre solitudine esistenziale ed è forse qui, in queste pagine approssimative e necessariamente incompiute, in cui affiorano progetti, in cui si sommano i materiali più disparati - che alternano l'indirizzo o il numero di telefono al grido ossessionante - è qui che Barilli ha depositato la propria immagine più autentica e sinistra.
Una volta pubblicato questo diario della vecchiaia apparirà, io credo, come una testimonianza conturbante e getterà una luce nuova, più intensa e più livida non solo sui capricci, ma su tutto l'itinerario che ho cercato sommariamente di ricostruire.
La voce di Barilli è, in queste pagine, singolarmente spezzata. Comeè sua consuetudine, nei Taccuini mescola l'italiano e il francese, due lingue di cui - in anni lontani - aveva definito le caratteristiche: le mescola nella stessa pagina, ma anche nello stesso appunto, nella stessa frase dove di colpo lascia rigalleggiare una parola "altra". E se a volte abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un ripiego, altre volte l'intenzionalità è netta e sembra inseguire effetti minimi, ma significativi, di straniamento. Inoltre, in queste pagine della vecchiaia si assiste al collaudo di una forma parzialmente inedita di registrazione: Barilli procede per istantanee rapidissime, riduce in briciole il testo e lo frantuma con una serie di lineette molto ravvicinate e martellanti che mettono la scrittura diaristica al riparo da ogni "chirurgia grammaticale" e che, in simile contesto, rappresentano l'equivalente funzionale dei puntini di sospensione per la mimesi del linguaggio parlato.
"Vagabondo in se stesso" (T, LXV, 56), Barilli sembra non preoccuparsi di altro che di lasciare cadere alle proprie spalle una serie di parole, che costituiscono poi la sua "traccia" e il cui "disordine" diventa (anche con premeditazione) una specie di contromarca dell'autenticità. E se l'asintattismo, così frequente negli ultimi Taccuini, può derivare dalla stanchezza della mano, dall'opacità, dalla miseria e forse anche dall'uso di stupefacenti, è poi vero che Barilli finisce per trovarvi un sussidio: lo "razionalizza" in qualche modo, e se ne serve come di un espediente stilistico, anche se non sempre appare in grado di difenderne l'efficienza. Certo è che tra frammenti impossibili, lampi, frasi interrotte, ripetizioni il "tremolio del tempo" si rappresenta, a volte, in maniera meravigliosa e rappresenta il passare degli anni e l'avvicinarsi della morte, quasi "dietro la lingua", tra i rumori di fondo che spesso si sovrappongono alla registrazione. È allora che il passato (verso cui Barilli si è rivolto sporadicamente) riemerge sotto forma di schegge vertiginose e deliranti. "J'ai soif, une soif terrible d'écouter le chant de mon opera" (T, LVII, 46). Torna la figura di Danitza, la cui lontananza è ormai insopportabile (T, LXVII, 70). "L'amore - scrive nell'anno della morte - è quello di dare tutto di sé e della propria vita e del proprio avvenire perdere tutto - e di cercare per liberarsi di questo impegno del cuore inutilmente durante quarant'anni, senza fine, fino alla morte - questo è amore - e odio insieme" (T, LXVII, 64).
Torna anche, attraverso le ombre di una mente "che è come un vetro smerigliato" (T, LXVI, 57), la figura, in precedenza solo accennata, del padre con cui Barilli si identifica e di cui (poco prima di morire) descrive la fine, facendone così una specie di Bergotte, il luogo di un oroscopo senza scampo: "Je suis, sur piace, comme mon père jadis a mon age - Et comme etait-il? Ce n'etait plus lui - c'était un rien de lui même - presque sans bouger - presque sans tourner l'oeil [...] ne parlait plus. Il ne dressait pas son regard - pour ne pas voir - une casquette sur la téte - assis et courbé vers la terre - on aurait dit qu'il n'ecoutait plus - et ne regardait pas pour manque de vie [...] Au contraire c'était la luciditée atroce - et la revelation impitoiable de la veritée - ultime - splendide, comme dans l'ipnose - de la veritée vraie - inebranlable - le fond réel brulant dans tous les cas de sa vie - le figures - les voix - le long de son passé - avec une actualitée decouverte (scoperchiata)" (T, LXVII,110-111).


MARIO LAVAGETTO