ROMAN VLAD

BUSONI
L'Approdo Musicale n. 22 -
1966 pp. 7-77


Il 1966, anno del primo centenario della nascita di Ferruccio Busoni, dovrebbe restare nella storia della vita musicale italiana come "l'anno busoniano" in cui lo sforzo concorde delle istituzioni concertistiche, degli Enti lirici, degli studiosi, degli interpreti, dei musicisti italiani tutti dovrebbe finalmente portare a compimento quel processo di ricupero dell'opera busoniana per la cultura, musicale italiana che, oggi come oggi, è ancora ben lungi dall'essere portato a termine. Si tratta di un vero e proprio imperativo storico che si pone, del resto, non solo alla cultura italiana, ma a quella di tutti i paesi civili dell'Occidente. Perché bisogna dirlo e non stancarsi mai di ripeterlo: Busoni è stato uno dei più grandi compositori che l'Italia abbia mai avuto, una delle figure maggiori della storia musicale universale, uno degli artisti che hanno toccato le vette più alte che allo spirito umano sia stato dato raggiungere. Ho ritenuto mio dovere non tralasciare nessuna occasione per recare un contributo, sia pur modesto e frammentario, all'auspicato rilancio busoniano. Perciò ho accettato l'invito dell'Approdo musicale di approntare questo scritto per il numero dedicato a Busoni, pur essendo perfettamente consapevole che la ristrettezza del tempo concesso a tal fine non avrebbe permesso d'integrare, approfondire e completare in modo esauriente e conclusivo i miei precedenti studi su Busoni [1], come avrei desiderato. Bisogna avvertire inoltre che il presente scritto concerne essenzialmente l'attività creatrice di Busoni lasciando, per così dire, tra parentesi quella del sommo pianista. E questo non certo per una sottovalutazione dell'arte interpretativa di Busoni: anzi, chi scrive, ha sempre nutrito la più profonda ammirazione per il peculiare pianismo busoniano preferendone anche gli aspetti problematici e - diciamolo pure -, discutibili, alla pretesa "perfezione" oggettiva di tanti celebrati virtuosi odierni. Per tracciare un profilo della complessa personalità artistica di Busoni bisogna, ovviamente, conferire tutto il dovuto rilievo anche alla sua attività di concertista. Quest'attività è stata comunque ampiamente discussa in passato e forma anche l'oggetto di un saggio specifico incluso nel presente numero. La creatività di Busoni è invece ben lontana dall'essere sufficientemente lumeggiata e messa a fuoco.
Busoni rappresenta come, e in misura forse anche superiore di Liszt o di Mahler, uno dei casi più tipici di un grande compositore la cui affermazione, in quanto tale, fu a lungo oscurata dalla universale celebrità acquistata quale interprete. Così, mentre la sua fama di sommo pianista, lungi dall'essere dimenticata dopo la sua morte, andò eternandosi su di un piano quasi mitico e mentre le sue geniali, seppur discusse, trascrizioni di capolavori bachiani divennero e sono tuttora familiari a tutti gli esecutori e al pubblico d'ogni paese, l'opera del compositore restò praticamente sospinta ai margini della vita musicale pur avendo contribuito in modo decisivo a plasmare il volto della musica del nostro secolo prefigurandone tutti gli essenziali tratti distintivi.
In Germania, dove Busoni aveva svolto gran parte della sua attività e dove egli non era mai stato del tutto dimenticato, si assiste, da qualche anno, ad una certa «Busoni-Renaissance» alla quale ha contribuito non poco la ristampa dello straordinario Entwurf einer neuen Aesthetik der Tonkunst [2] curata da quell'autorevole assertore della capitale importanza dell'opera di Busoni che è Hans Heinz Stuckenschmidt.
In Francia Busoni viene praticamente ignorato o, ciò che può anche essere peggio, radicalmente misconosciuto. Tant'è vero che in un libro, apparso a Parigi nel 1948 [3], il cui autore si proponeva di esaminare tutte le opere musicali ispirate alla leggenda di Faust, il Doktor Faust di Busoni non veniva neppure menzionato, mentre in una Storia della musica scritta nello stesso periodo da uno dei più conosciuti critici francesi [4] Busoni veniva citato di sfuggita e collocato tra compositori come Vincenzo Davico e Piero Coppola! In Inghilterra era stato Edward Dent a sforzarsi di porre in giusta luce l'importanza di Busoni [5]. La sua azione, come quella che svolge tuttora qualche giovane fattivo ed entusiasta come Ronald Stevenson [6], se è valsa ad impedire che la dimenticanza in cui Busoni è caduto in Inghilterra diventasse totale, non è ancora servita a diffonderne realmente l'opera. L'indicazione più precisa circa il reale grado di apprezzamento di cui Busoni gode attualmente sul "mercato" musicale europeo può essere fornita da una lettura dell'opuscolo contenente i cartelloni per l'anno 1966 dei 29 festival che fanno parte dell'Association Européenne des Festivals de Musique. Ebbene: nella pletora dei nomi di compositori grandi e piccoli, appartenenti ad ogni tempo e paese che vi figurano, il nome di Busoni non appare nemmeno una sola volta. L'unico festival importante che ha consacrato a Busoni almeno una parte del suo programma è il Maggio Musicale Fiorentino (programma che, peraltro, non figura nel citato opuscolo dei "Festivals 1966") includendovi, oltre ad una serie di musiche da camera, la rappresentazione dell'opera La sposa sorteggiata che, a più di mezzo secolo dalla sua prima rappresentazione, non era ancora mai comparsa su di un palcoscenico italiano. Anche una parte delle istituzioni musicali delle maggiori città italiane ha preso delle iniziative per commemorare in qualche modo il centenario busoniano. Considerando pure il contributo, davvero sostanziale, che la Radio Italiana dà alla diffusione delle musiche di Busoni, non si può negare che un certo sforzo venga compiuto oggi in Italia per poter portare  avanti il processo di studio, divulgazione e inserimento dell'opera busoniana nella cultura musicale italiana che, avviato fin dal 1921 alla rivista Il Pianoforte mediante la pubblicazione di un numero speciale dedicato a Busoni, aveva ricevuto nuovi impulsi nel 1940 dalla prima edizione italiana (curata da Luigi Dallapiccola e da Guido M. Gatti e presentata da M. Bontempelli) di suoi Scritti e pensieri sulla musica [7] dalla pubblicazione di un nuovo numero monografico de La Rassegna Musicale [8], dalla pubblicazione dei lavori biografici di G. Guerrini [9] e R. Giazotto [10] e del volume delle Lettere alla moglie [11] . Ci sembrerebbe, tuttavia, peccare di eccessivo ottimismo se ci aspettassimo che tutto ciò possa valere effettivamente a far sì che finalmente Busoni venga ad occupare il posto che, secondo la nostra convinzione, gli compete legittimamente nella vita musicale italiana ed internazionale. Il fatto è che le cause che frenarono il diffondersi della musica di Busoni non si identificano, e dunque non si esauriscono, col cessare delle contingenze verificatesi allo scoppio della prima guerra mondiale e al successivo affermarsi del nazismo, come ipotizza Hugo Leichtentritt nel saggio su Busoni pubblicato nel 1945 su The Music Review di Londra. Anzitutto bisogna individuare tali cause lungo l'intero arco della vita del compositore, risalendo fino alle sue stesse origini e considerando le particolari condizioni ambientali in cui egli si formò e svolse la sua attività creatrice, condizioni che contribuirono a determinare la natura particolarissima della sua arte.
Poi bisogna vedere se non siano proprio le più peculiari e più alte qualità intrinseche di quest'arte a renderne così lenta e difficile la diffusione e l'universale apprezzamento.
Converrà dunque in primo luogo riassumere per sommi capi la vita di Busoni.

La vita e l'arte

Come ebbe a precisare lo stesso Busoni [12], egli nacque il 1º aprile 1866 a Empoli da Ferdinando Busoni [13] eccellente clarinettista, e da Anna Weiss, triestina di padre tedesco, ottima pianista «nella linea di Thalberg», che avviò la sua educazione musicale. A Trieste, dove la famiglia risiedette tra il 1871 e 1878, Busoni cominciò fin dal 1873 a suonare in pubblico. Nel 1876 colse un significativo successo a Vienna consacrato da impegnativi articoli di Hanslick e Ambros. Stabilitosi a Graz, Busoni (il quale aveva già ricevuto nel 1876 e 1877 sporadiche lezioni di composizione da J. E. Habert e consigli da Goldmark [14], ebbe per maestro Wilhelm Mayer [15] sotto la cui guida scrisse una Messa per sei voci a cappella. Nel frattempo Busoni aveva già pubblicato le sue prime composizioni (2 Ave Maria op. 1 e 2 e i 5 Pezzi op. 3 per pianoforte) scritte tra il 1874 e il 1879.
A sedici anni, dopo una serie di trionfi concertistici, la Filarmonica di Bologna lo nominò accademico pianista e gli conferì il diploma di composizione. Nel 1883, grazie ad una raccomandazione di A. Boito, L. Mancinelli diresse al Comunale di Bologna la cantata per soli, coro e orchestra, Il sabato del villaggio (sulle parole di Leopardi) [16] . A Vienna conobbe Rubinstein e Brahms (al quale dedicò i suoi Studi per pianoforte op. 16 e 17). Trasferitosi a Lipsia nel 1886 (Brahms l'aveva raccomandato a Carl Reinecke) vi ebbe occasione di avvicinare Ciajkowsky, Grieg, Delius e Mahler. Per intercessione di Hugo
Reimann, ricevette nel 1889, la cattedra di pianoforte a Helsingfors dove conobbe Sibelius. Vinto col Konzertstück op. 31 per pianoforte e orchestra il "Premio Rubinstein", ebbe nel 1890 una cattedra al Conservatorio di Mosca. Qui conobbe e sposò Gerda Sjostrand [*], figlia di uno scultore svedese. Un soggiorno in America dove, tra il 1891 e 1894, insegnò al New England Conservatory di Boston, rinsaldò la sua rinomanza internazionale come pianista. Nel 1894 si stabilì a Berlino continuando a risiedervi stabilmente sino alla morte con le interruzioni dovute ai giri concertistici, a impegni per corsi di perfezionamento a Weimar (1902-1903), Vienna (1908) e Basilea (1910) e infine all'accettazione della direzione del Conservatorio di Bologna (1913) e allo scoppio della prima guerra mondiale. Legato com'era sia all'Italia che alla Germania, Busoni si ritirò nel 1915 nella neutrale Svizzera soggiornando tra il 1915 e 1920 a Zurigo. Fin dal 1902 Busoni aveva cominciato a dirigere l'Orchestra Filarmonica di Berlino includendo nei programmi dei suoi concerti, la cui serie si protrasse fino al 1909, musiche modernissime tra cui opere di Bartók e Schoenberg. Intanto con la II Sonata per violino e pianoforte op. 36a (pubblicata nel 1901) Busoni sentì d'aver trovato «in un senso ideale la propria strada come compositore». Privatamente Busoni considerava questo lavoro come il suo «Opus uno» per cui il Concerto per pianoforte (1903-1904) e la Suite orchestrale "Turandot" venivano a configurarsi per lui come le sue "vere e proprie opere due e tre", pur essendo stampate rispettivamente come Opus XXXIX e Opus 41. Busoni dava queste precisazioni in uno scritto intitolato Bemerkungen über die Reihenfolge der Opuszahlen meiner Werke (Osservationi sulla successione dei numeri d'opera dei miei lavori) che risale al 1908 [17]. In questo articolo assai importante (sul quale ci soffermiamo, anche perché esso non è incluso nel volume italiano degli Scritti e pensieri sulla musica di Busoni) Busoni riferisce d'aver composto molto da bambino e d'aver pubblicato cose in modo prematuro. Mal consigliato e privo d'esperienza, non numerò le sue musiche nell'ordine della loro pubblicazione, ma in quello della loro composizione. Successe così che le opere dal numero 30 al numero 40 fossero stampate mentre quelle contrassegnate con i numeri da 15 al 29 erano ancora inedite, con l'eccezione del Preludio e Fuga in stile libero op. 21 (pubblicato nel 1880) e della Gavotta op. 25 (pubblicata ugualmente nel 1880). Quando Busoni ebbe circa 17-18 anni, egli aveva non solo pubblicato le opere da 1 a 14 e da 30 a 40, come egli annota nello scritto in questione, ma anche un Opus 61 (Minuetto capriccioso per pianoforte, scritto nel 1879-1880) e persino un Opus 70 (Gavotta per pianoforte del 1880). I numeri d'opera 15 (Due Lieder da Byron per canto e pianoforte), 16 (Sei studi per pianoforte dedicati a Brahms) e 17 (Studio in forma di variazioni ugualmente per pianoforte e ugualmente dedicato a Brahms) furono stampati negli anni 1883-1884 da Albert Guttmann a Vienna. Queste ultime tre composizioni sono le prime opere che Busoni considerava non più appartenenti al suo periodo infantile, ma a quello della gioventù, dell'incipiente maturità. Egli pensò, allora, di sistematizzare la numerazione delle sue opere e con i Zwei altdeutsche Lieder op. 18 (Due Lieder su antichi testi tedeschi) per canto e pianoforte pubblicati dall'editore Kistner a Lipsia, intraprese di colmare i numeri mancanti nel suo catalogo, arrivando a realizzare questo intento nel 1890 con la I Sonata op. 29 per violino e pianoforte. Riconsiderando i lavori del suo periodo "infantile", e particolarmente quelli contraddistinti con i numeri da 30 a 40, Busoni si avvide dello scarto qualitativo che l'evolversi della sua arte aveva ingenerato tra questi ultimi lavori e le musiche composte e pubblicate più tardi, ma che, per le ragioni su esposte, portavano i numeri d'opera da venti a trenta. Non volendo che le musiche "infantili" potessero apparire come poste al seguito di quelle più mature, Busoni pensò di ovviare a questo possibile inconveniente scrivendo una nuova serie di opere distinte dal numero trenta e da quelli successivi, ma con l'aggiunta di una "a". Solo le composizioni giovanili intitolate rispettivamente 24 Préludes op. 37 per pianoforte (1879-1881) e Le Quattro Stagioni op. 40, quattro poesie liriche di Dall'Ongaro per voci maschili e orchestra (1882) furono considerate da Busoni «di sufficiente valore » per non aver bisogno d'una sostituzione. Per l'opera 39 (il Concerto per pianoforte, orchestra e coro) Busoni usò l'indicazione in cifre romane invece che arabe. Dall'opera 41 (la «Turandot»-Suite) la numerazione avrebbe potuto poi procedere regolarmente. La confusione di questa numerazione plurima, fu aumentata però notevolmente dal fatto che, non sappiamo per qual genere di errori, il numero 25 figura accanto a due lavori, e precisamente accanto alla Gavotta per pianoforte del 1878 e accanto alla Suite Sinfonica del 1888 (dedicata a Hans Richter) [18]. Così anche il numero 38 ricorre due volte nel catalogo: una prima volta esso contraddistingue il Lied der Klage (Canto del lamento) su parole di O. von Kapff (scritto nel 1878 e pubblicato l'anno dopo a Vienna) e una seconda volta designa la Lustspielouverture (Ouverture per una commedia) per orchestra, composta nel 1897 e rivista nel 1904. In questo secondo caso, il fatto che invece del numero d'opera 38a sia stato usato il solo 38 deve ascriversi ad una dimenticanza o ad un mero errore materiale. Comunque sia, il pasticcio di queste numerazioni era tale the Busoni preferì pubblicare le Elegie per pianoforte e buona parte delle sue composizioni successive senza numeri d'opera. Dalla Berceuse élégiaque (1910) in poi, alla quale diede il numero d'opera 42, egli tornò però a numerare sporadicamente talune musiche lasciando altre senza numeri d'opera, secondo un criterio che ci sfugge, ma che non è da mettersi certamente in relazione con l'importanza che Busoni doveva attribuire alle opere in questione, giacché furono pubblicate senza numero d'opera non solo quel singolarissimo capolavoro che è la Fantasia contrappunfistica, e le preziosissime Sonatine per pianoforte, ma anche le quattro opere teatrali alle quali Busoni attribuiva indubbiamente un'importanza capitale nel quadro d'insieme della sua creatività. La prima di queste opere, Die Brautwahl (La sposa sorteggiata) risale agli anni 1906-1911, cioè al primo periodo berlinese di Busoni, che resta segnato anche e soprattutto dalla stesura del rivoluzionario Saggio di una nuova estetica musicale (1906). La seconda e la terza opera, cioè Arlecchino e Turandot, furono compiute durante il soggiorno svizzero.
Negli anni della prima guerra mondiale Busoni scrisse anche il libretto per il Doktor Faust e ne iniziò la composizione. Tornato a Berlino nel 1920, Busoni, oltre a tenere la "Meisterklasse" di composizione presso la Akademie der Künste (a Berlino ebbe come allievi Kurt Weill [19] e Wladimir Vogel), si dedicò principalmente al compimento del Doktor Faust che tuttavia non poté condurre a termine (fu il suo discepolo Philipp Jarnach a completare l'opera dopo la morte di Busoni) come non era stato in grado di realizzare un desiderio lungamente accarezzato: tornare in Italia con autorità e poteri sufficienti per mettersi alla testa del movimento che mirava al rinnovamento della musica italiana. Ed è questo il momento per fissare l'attenzione sul rapporto tra Busoni e l'Italia. La duplice origine etnica, la formazione culturale ricevuta, le innate qualità artistiche ed intellettuali: tutto sembrava predestinare Busoni all'ideale adempimento del compito storico che imponeva alla musica italiana nei primi decenni del nostro secolo il ripristino di una prassi strumentale condizionata al ricupero della tradizione preottocentesca e la successiva assimilazione dei portati formali delle nuove tendenze che erano andate maturando nell'Europa centrale, più ancora che in Russia o in Francia. Nel momento in cui Busoni iniziava la sua attività creatrice l'ambiente italiano non era però sufficientemente maturo per offrire le condizioni indispensabili allo sviluppo di una personalità come la sua e per metterne a frutto successivamente le chiaroveggenti innovazioni. Bisognava che musicisti come Martucci e Sgambati [20], appartenenti ad una fase di transizione della storia musicale italiana, dissodassero il terreno prima che la generazione di Casella e Malipiero fosse in grado di iniziarne la moderna bonifica. Nel frattempo però Busoni, sentendosi incompreso in Italia e seguendo anche una sua spontanea inclinazione, aveva fatto della Germania la sua patria d'elezione. Ciononostante egli continuò a considerarsi italiano [21] e serbò un non celato disappunto per essere praticamente segregato dalla vita musicale italiana. Il fallito tentativo di tornare in Italia alla vigilia della prima guerra mondiale per dirigere il Conservatorio bolognese, ne costituisce una quasi patetica riprova. Lo scoppio del conflitto lo mise poi davanti ad un dilemma: tornando in Germania, sarebbe stato considerato come italiano, e dunque nemico; in Italia, per contro, sarebbe stato guardato come un indesiderabile germanofilo. Non volendo rinnegare né il paese natio né la patria d'elezione, non gli restò che rifugiarsi in terra neutrale. Circostanze del genere verificatesi in un momento cruciale della sua carriera, non poterono mancare di turbarne lo svolgimento. Poi, come scrive il Leichtentritt:

[...] quando egli tornò finalmente nella sua vecchia, prediletta abitazione berlinese nel 1919 [**], altri quattro anni d'inflazione e l'inizio della fatale malattia posero nuove e difficilmente sormontabili barriere. Pochi anni dopo la sua morte, la grande depressione mondiale e il sorgere del potere nazista in Germania, seguiti dalla seconda guerra mondiale, distrussero completamente le basi sulle quali poggiava il credo artistico di Busoni e ridussero ad un minimo le possibilità del suo successo universale come artista creatore.

Ma come è già stato osservato tali contingenze non sarebbero state di per sé sufficienti a provocare la vera e propria eclissi che l'opera di Busoni subì per tanto tempo minacciando di rendere vana la predizione che il compositore aveva formulato nell'epilogo del Doktor Faust: «l'opera genererà una scuola che continuerà a maturare durante decenni». Per cui è l'opera stessa e la sua poetica che bisogna esaminare per trovarvi le ragioni profonde del suo lungo isolamento.

Il periodo « infantile»

Busoni stesso ha tracciato in varie occasioni il proprio itinerario stilistico precisandone particolarmente quelle tappe essenziali che egli considerava d'importanza decisiva per la sua formazione. Così, ad esempio, in una lettera scritta alla moglie in data 2 agosto 1907 [22] Busoni scrive, tra l'altro:

[...] nel mio gusto musicale ho superato prima di tutto Schumann e Mendelssohn, ho misconosciuto Liszt, poi l'ho adorato, poi l'ho ammirato più pacatamente; sono stato ostile a Wagner, l'ho guardato poi con stupefazione e infine mi sono scostato da lui, da buon latino, mi sono lasciato sopraffare da Berlioz e - cosa tra le più difficili - ho imparato a distinguere il buon Beethoven da quello cattivo; da ultimo ho scoperto per conto mio i francesi moderni e poi li ho lasciati perdere quando sono diventati popolari troppo in fretta per il mio gusto; e infine mi sono avvicinato spiritualmente ai vecchi maestri del teatro italiano. Queste sono metamorfosi che comprendono un periodo di vent'anni. Per tutti questi vent'anni è restata immutabile nella mia considerazione, come un faro in mezzo al mare tempestoso, la partitura del Figaro. Ma quando, or è una settimana, me la sono riletta, vi ho intravisto per la prima volta delle debolezze umane...

Ci si potrà stupire che in quest'elenco dei compositori sotto il cui segno si svolse principalmente la fase propedeutica della carriera di Busoni manchi proprio il nome di Giovanni Sebastiano Bach, cioè del compositore che più d'ogni altro l'influenzò durante tutta la sua vita. Il fatto è che in quella lettera alla moglie Busoni intendeva esemplificare «la labilità dell'agire umano» citando i successivi superamenti operati dal proprio gusto e dalla propria esperienza creativa, superamenti e ridimensionamenti che non si arrestavano nemmeno davanti all'arte di Mozart, pur così profondamente ammirata e amata [23] e pur considerata da Busoni come simbolo della perfezione («Egli è il numero perfetto, la somma tratta...»)
Bach invece è fuori d'ogni contingenza, d'ogni mutamento di prospettiva e di valutazione. La sua atte è un punto di partenza e resta sempre un punto di riferimento esplicito od implicito, palese od occulto, ma comunque costantemente reale per la musica di Busoni. Non per nulla egli inizia la prefazione [24] alla monumentale edizione delle opere di Bach asserendo che «Bach permane anche oggi come punto centrale tra il passato e il presente della creatività musicale [25].
Verso nessun altro artista Busoni sentiva una così profonda affinità elettiva come quella che egli provava nei confronti di Giovanni Sebastiano Bach. L'immedesimazione con l'arte di Bach, che Busoni raggiunge in virtù di una vera e propria congenialità dandone testimonianza non solo nelle numerose, magistrali trascrizioni di opere bachiane, ma anche nelle sue musiche originali, arriva a volta ad un grado tale da giustificare pienamente quanto affermava Gino Tagliapietra nella Prefazione della ristampa di alcuni lavori giovanili di Busoni per le Edizioni Ricordi:

[...] Già in questi primi lavori di Busoni si scorgono i tratti fondamentali del suo carattere artistico, che fu del tutto antitetico alla tendenza eminentemente romantica del secolo scorso. Nessun rappresentante del romanticismo, nemmeno Liszt, per il quale Busoni aveva una sconfinata venerazione, lascia tracce nella sensibilità del nostro autore. Il suo spirito e la sua passione istintivamente vanno a G. S. Bach, nel quale egli, ancor giovanissimo, sentiva risonare pienamente la propria personalità musicale proclive alla investigazione e alla risoluzione di problemi di polifonia contrappuntistica e di architettura musicale. Per i romantici Bach fu oggetto di studio e di ammirazione; in Busoni, Bach sembra addirittura rivivere e - se possibile - ingigantire ancora con mezzi rinnovati e con altrettanta potenza costruttiva.

Tutto ciò è tanto vero da farci considerare come non del tutto assurda e incredibile la voce secondo la quale Busoni si sarebbe sentito a volte come una reincarnazione dello spirito di Bach.
Per Busoni, Bach non costituirà dunque l'oggetto di uno di quei più o meno intellettualistici "ritorni" di cui si farà tanto parlare nel primo dopoguerra, ma formerà il punto di partenza, la base stessa dello sviluppo della propria arte. Lo spontaneo accostamento di Busoni a Bath non darà luogo a fenomeni identificabili con quelli che caratterizzeranno il "neo-classicismo" di Hindemith, Strawinsky e di tanti altri compositori del Novecento, anche se ne anticipa molte virtualità ed apparenze: il suo istintivo riconoscersi in Bach sta ad indicare invece la fondamentale disposizione di Busoni e la sua tendenza originaria verso quello che, in età matura, egli stesso teorizzerà coniando il concetto di "junge Klassizität", di una "giovane", nuova, classicità. Tendenza questa che nel quadro d'insieme del suo divenire stilistico e spirituale, bilancerà dialetticamente la tendenza contrapposta indirizzata nel senso di un continuo superamento di ogni convenzione formale, di ogni istituzione normativa e persino di ogni limitazione strumentale. Con postulati del genere, Busoni avrebbe contribuito all'affermarsi della poetica espressionista pur rifiutandone successivamente le conseguenze esasperate. Anche il ricorso di Busoni a Bach non si configura mai in termini conservatori e tanto meno regressivi e di conseguenza non dà mai luogo ad arcaismi del genere di quelli che costellano tanta parte della produzione neoclassicistica. I modi in cui si definiscono i rapporti di Busoni con il retaggio di Bach e in generale con i portati della tradizione si precisano, come s'è detto, fin dai suoi primi lavori giovanili. Nella sua Autorecensione [26], scritta a Berlino nel febbraio del 1912, Busoni riferisce:

Fin dalla più tenera infanzia ho suonato musica di Bach e mi sono esercitato nel contrappunto. In quell'epoca era diventata per me una mania ed effettivamente in ognuna delle mie opere giovanili si trova almeno un fugato.

A questo riguardo appare quanto mai significativo il titolo di Contrappunto dato ad un brano che, insieme ad un Minuetto, un Capriccio, una Invenzione, uno Studio e un Presto (pezzi composti tra il 1873 e il 1875) fa parte di una inedita Suite per pianoforte che il decenne Busoni suonò nel concerto dato a Vienna nel 1876 al quale si è già accennato.
Non staremo ad analizzare ora tutta la copiosissima produzione di quel periodo che lo stesso Busoni qualificava come «infantile». Un'analisi del genere eccederebbe ovviamente i limiti di questo scritto. Essa andrebbe comunque fatta - ed in un modo non supefficiale - per delineare più esattamente le premesse di alcuni tra gli sviluppi più sorprendenti che l'arte di Busoni conoscerà nella fase più virulenta e rivoluzionaria del suo sviluppo. Lo studio delle musiche di questo periodo permetterà di constatare che vi si trovano non pochi brani veramente deliziosi la cui immaturità non si manifesta quasi mai sul piano della tecnica. La scrittura testimonia infatti d'una agguerrita padronanza dei mezzi grammaticali e delle risorse strumentali che portano a volte a risultati stupefacenti. Immature appaiono semmai le premesse e le implicazioni spirituali di tali musiche e talvolta il gusto che presiede alla loro concezione e formulazione. Anche in brani come le Bagatelle op. 28 per violino e pianoforte (pubblicate nel i888), che rasentano in qualche punto una banalità salottiera, non mancano però dei tratti squisiti. Si pensi solo al divertente effetto caricaturale dell'irrisolto accordo di tredicesima nella decima battuta della II Bagatella intitolata Kleiner Mohrentanz (Piccola danza di negretti) e articolato In drolliger Weise (In modo buffo) in un Veloce ritmo di danza. O si tenga presente la spiritosa citazione, alla fine della III Bagatella, Wiener Tantweise (Melodia ballabile viennese) dello stesso «Gassenhauer» viennese O du lieber Augustin che Arnold Schönberg citerà anch'esso vent'anni più tardi nel secondo tempo del suo II Quartetto op. 10. Nella quarta ed ultima delle Bagatelle, Kosakenritt (Cavalcata di Cosacchi), su di un canto popolare russo, si riscontra (alla lettera N, battuta 19 e segg.) addirittura un passo politonale in cui il violino continua a suonare in la minore, mentre il pianoforte alterna in ostinati tremoli gli accordi di tonica e di dominante di re minore. Solo dopo dieci misure l'omogeneità tonale del brano si ristabilisce per incrinarsi però ancora una volta prima della cadenza finale. In passi come questi, si verifica un salto di qualità che riscatta di colpo, rendendola fantastica, la "leggerezza" dell'assunto di tali brani; leggerezza che, qui, si giustifica, forse, anche per il fatto che il giovane Busoni dedicava le Bagatelle ad un bambino di sette anni, quell'Egon Petri, che doveva diventare uno degli allievi preferiti di Busoni [27]. Laddove prevale l'influsso di Bach, ogni slittamento di gusto è comunque evitato a priori. Di questi brani ne ricorderemo soltanto uno: la Gavotta op. 25 (quella del 1878) perché ci sembra che in essa si possa trovare una significativa indicazione circa il modo in cui Busoni saprà valersi del retaggio di Bach.
Nella Gavotta egli opera un deciso allargamento dell'impalcatura tonale della tradizionale forma di suite, nel senso che, invece di articolare le sezioni del pezzo sulla base del rapporto tra le funzioni di tonica e di dominante della stessa tonalità, Busoni tende tale rapporto annodandolo tra tonalità differenti, cioè, nel caso presente, tra le tonalità di fa maggiore e di la bemolle maggiore. E così anche nelle sue opere più mature e ardite Busoni cercherà di conquistare nuovi mondi sonori non mediante una netta frattura col passato, ma in virtù di un organico e graduale trapasso dello spazio strutturato da schemi tonali di sette note a quello in cui, per dirla con le sue stesse parole, «l'ottava non consiste più di sette, ma di dodici suoni». In quest'ordine di idee è quanto mai significativo che per esemplificare concretamente un sistema di notazione senza alterazioni, adeguato ad una scrittura totalmente cromatica, Busoni sceglierà la Fantasia cromatica di Bach riscontrandovi le implicazioni e le premesse dei nuovi sviluppi che egli stesso perseguiva [28].
Alcuni di questi sviluppi si trovano prefigurati in nuce nei 24 Preludi per pianoforte op. 3 composti tra il 1879 e il 1881 e che, come abbiamo già scritto, sono tra quei lavori del suo periodo giovanile che Busoni riteneva degni di portare il loro numero d'opera e che pertanto non sentì necessario sostituire. Le qualità di alcuni di questi Preludi sono tali da rendere quasi incredibile il fatto che essi abbiano potuto essere composti da un ragazzo tra il suo tredicesimo e quindicesimo anno di età. L'importanza dei Preludi apparve del resto palese fin dalla loro pubblicazione nel 1882, tant'è vero che il critico triestino Luigi Cimoso (al quale i Preludi sono dedicati) ne pubblicò una particolareggiata analisi su Arte di Bologna asserendo che con quelle composizioni Busoni «non era più una speranza, per l'Italia, ma una gloria». Com'è inevitabile, non mancano nei Preludi influssi di vario genere, primo fra tutti quello di Chopin i cui Preludi hanno fornito indiscutibilmente il modello formale per i Preludi del giovane Busoni. A Bach riportano chiaramente il Preludio n. 7 (in carattere di Giga), il Preludio n. 19 e molti particolari contrappuntistici degli altri brani. A Schubert fa pensare il «dolce e tranquillo» terzo Preludio; a Mendelssohn il quinto; a Schumann il diciassettesimo. Ma quale precedente invocare per lo stupendo secondo Preludio? Per trovargli dei paragoni bisogna saltare la fine del secolo diciannovesimo, l'inizio del ventesimo, la prima guerra mondiale, per arrivare al diatonicismo dolcemente dissonante del Casella intento a dar vita ad un neoclassicismo prettamente italiano da contrapporre a quello d'oltralpe.
Il canto «portato ... con espressione» di questo Preludio busoniano ha il sapore campestre di un'antica melodia da zampogna popolare senza essere popolaresca, d'indole profondamente italiana senza rientrare in un particolare ambito folkloristico. Lo sostiene una figura ostinata nel basso le cui quinte e quarte vuote intridono l'intero tessuto armonico del brano, ingenerando sovente quei tenerissimi attriti diatonici che, oltre all'armonia caselliana, preannunciano in qualche punto anche quella di Ravel. Se tali preannunci potrebbero essere considerati, qui, alla stregua di virtualità accidentali, nel quindicesimo Preludio (Andantino sostenuto) l'anticipazione dell'atmosfera armonica considerata come peculiare di Ravel, assume la più reale ed incontrovertibile evidenza. Il brano, è vero, inizia in un modo che ricorda insieme il diciassettesimo Preludio (in re bemolle) di Chopin e la nota melodia di Siebel nel Faust di Gounod. Ma dopo sedici battute Gounod e Chopin scompaiono e sembra d'un tratto di trovarsi nel bel mezzo d'una delle incantevoli musiche del Ravel di Ma mere l'Oie. Qualche sfumatura raveliana si può scorgere anche nel Preludio in mi maggiore (n. 9) senza arrivare però a far velo al clima italiano del brano. Qui, il «carattere campestre» viene esplicitamente indicato dal compositore e nonostante la designazione di tempo Allegretto vivace e con brio una punta di arcadica malinconia affiora tra il danzante movimento dei saltellanti bassi. Malinconia che non arriva peraltro ad assumere la struggente acutezza di sentimento che pervade il secondo Preludio. Qui il rapporto di Busoni con la patria italiana si prospetta per la prima volta in quei termini elegiaci che d'ora in poi lo caratterizzeranno quasi sempre, tant'è vero che persino esprimendosi per bocca del suo «Arlecchino», arcitaliano, Busoni non saprà ridere se non in modo doloroso [29].
Prima di chiudere il capitolo delle musiche della prima gioventù di Busoni, resta ancora da accennare all'altra opera appartenente a questo periodo alla quale, come s'è detto prima, egli mostrava di tenere anche in età matura. Ed è quanto mai significativo che anche quest'ultima opera sia di carattere italiano, anzi presenti un assunto esplicitamente italiano. Parliamo di Le quattro stagioni op. 40 o, come suona il titolo originale, Primavera, Estate, Autunno, Inverno, 4 poesie liriche poste in musica per assoli e coro d'uomini con accompagnamento d'orchestra o pianoforte. Scritta ad Empoli nel luglio del 1882, quest'opera è ricca di squisiti particolari, pur non presentando anticipazioni sorprendenti sul tipo di quelle che abbiamo messo in rilievo in alcuni Preludi. I versi della Primavera («nel primo giorno di calen di maggio...») sono intonati con incantevole lievità d'accenti e grazia melodica. L'Estate («Dal giorno che ti vidi e che ti amai») riceve un certo calore sensuale (quel calore che Busoni eviterà del tutto nelle sue musiche mature) da un raffinato sfaccettamento dissonante delle armonie. L'Autunno («Chi mi dice onde vien la rondinella ...») acquista un suo fascino particolare dall'apparente spontaneità con la quale Busoni articola un discorso nell'asimmetrico ritmo di cinque quarti. (Una prova della predilezione busoniana per questo modulo ritmico s'era già avuta nel Preludio n. 13 dove il suo uso aveva permesso a Busoni di sviluppare da una delle più normali clausole cadenzali settecentesche un discorso del tutto inconsueto e originale). L'Inverno («Tu mi se' nato, o fiorellin' d'amore») conclude Le quattro stagioni con qualche accento più drammatico che non vale però ad incrinare la mediterranea serenità e la dolcezza poetica di quest'opera che meriterebbe, forse, d'essere tratta dall'oblio e portata a conoscenza del pubblico d'oggi. Non pensiamo di poter dire la stessa cosa della maggior parte degli altri lavori giovanili, per quanto ci interesserebbe moltissimo poter ascoltarli tutti, se non altro per ragioni di concreta documentazione. Un'interesse che oltrepassa quello meramente documentario potrebbe essere rappresentato dal II Quartetto op. 29 (composto tra il 1886 e il 1887 e pubblicato nel 1889) e forse anche dalla Suite sinfonica op. 25, pubblicata nel 1888, ma composta quando Busoni aveva diciott'anni. A questo suo primo lavoro sinfonico Busoni, per un certo tempo, teneva moltissimo, tant'è vero che le difficoltà per farlo pubblicare ed eseguire furono sentite da Busoni come «una tragedia la quale l'amareggiò per anni» [30]. È vero che, eseguita finalmente a Helsingfors nel 1889, la Suite ottenne un lusinghiero successo di critica [31] ma si trattò di un successo del tutto effimero. Un successo di risonanza internazionale, la cui eco non era destinata a spegnersi subito, arrise invece al primo dei lavori di Busoni sulla soglia del periodo in cui egli stesso cominciò a considerarsi «adulto» (nelle citate Osservazioni sulla successione dei numeri d'opera dei miei lavori, Busoni lo colloca infatti all'inizio del suo «Mannesalter »). Ci riferiamo al Konzertstück (Introduzione e Allegro) op. 31 a per pianoforte e orchestra composto a Helsingfors nel 1890 e pubblicato nel 1892 con dedica ad Anton Rubinstein. Nello stesso anno 1890, come si è già detto, Busoni vinse a Mosca, con questo Pezzo da concerto e con la I Sonata op. 29 per violino e pianoforte, il concorso Rubinstein, la cui giuria era presieduta dallo stesso pianista e compositore russo. Tra parentesi sia detto che, mentre l'influsso del pianismo di Rubinstein su quello di Busoni è stato sufficientemente messo in rilievo, quello del compositore Rubinstein, oggi quasi del tutto dimenticato, sullo sviluppo della creatività busoniana, anche se non fu certamente né duraturo né decisivo, meriterebbe tuttavia d'essere messo a fuoco per spiegare quelle che, in retrospettiva, ci appaiono come certe sporadiche cadute e deviazioni di Busoni dalla strada maestra del suo divenire stilistico. Così il Konzertstück, dopo un ardito e fantasioso inizio (il motivo d'esordio con le sue settime discendenti e le impennate melodiche su accordi di nona, sembra quanto mai promettente), procede sui binari di un pianismo convenzionale, anche se molto brillante, per causa, forse, d'una inconsapevole concessione al gusto di Rubinstein, il quale, non per nulla, trovò il lavoro di suo pieno gradimento. Anche in questa composizione non mancano tuttavia le impronte geniali di Busoni. Per convincersene basti pensare soltanto alla Cadenza solistica nell'Allegro, concepita come un vertiginoso fugato.
Con un fugato comincia anche il lavoro immediatamente successivo di Busoni, il Symphonisches Tongedicht op. 32a concepito nel 1888-1889 come Fantasia da concerto per pianoforte e orchestra e riplasmato come Poema sinfonico per orchestra nel 1893. Osserva il Giazotto [32]:

Ma se muta il titolo il carattere di Fantasia è sempre presente. Non è un suggerimento letterario a determinare il poema, come in questi stessi anni sta accadendo per Strauss...; e perché Busoni abbia chiamata a quel modo la composizione resta un mistero. Forse il suo ansioso bisogno di sperimentare, di saggiate, di abbracciare, è a spingerlo a quel titolo: titolo che si riduce, tuttavia, a una semplice indicazione di forma.

Ora potrebbe darsi che Busoni abbia concepito quest'opera senza alcun preventivo «suggerimento letterario». Fatto sta però, che egli ha sentito il bisogno di premettere alla partitura del poema non uno, ma due motti letterari: il primo tratto da una poesia di Nikolaus Lenau («Ob du, ein Sokrates den Schierlingsbecher...») in cui vengono proclamate la aleatorietà e la vanità totali di ogni esistenza ed azione, sia che i soggetti ne siano saggi filosofi, sublimi eroi o indifferenziati infusori; il secondo è dato dai seguenti versi di Giacomo Leopardi:

[...] Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria.

La duplicità delle determinanti culturali dell'arte busoniana riferibili nel contempo all'ambiente italiano ed a quello tedesco trova qui un'esplicitazione che, di per sé, potrebbe venire assunta a motto della configurazione ideale di quest'arte. Senonché, la presenza di elementi latini e germanici non porta, qui, a quella dicotomia e a quella contrapposizione dialettica che caratterizzeranno l'operare di Busoni nel periodo della sua piena maturità. Al contrario, i due motti appaiono scelti per affermare una convergenza di significati, una analogia di motivi poetici, un'apparenza d'identità nel modo di sentire la vita e la sua problematicità. Sembra quasi che Busoni abbia avvertito il bisogno di suffragare con un duplice sostegno letterario l'espressione di un pessimismo, di un «Weltschmerr» da «fin de siècle», di cui egli si era immedesimato in modo più estrinsecamente intellettuale che intimamente convinto e legato ad una sua reale disposizione d'animo e di temperamento. Non è che tra le premesse dell'arte matura di Busoni non abbia posto quella concernente la fondamentale problematicità della situazione umana. Anzi: sarà proprio questa la costante premessa maggiore di tutta la sua futura creatività. Ma l'autentico orizzonte interiore della musica di Busoni potrà delinearsi solo in virtù del superamento di quell'ambito entro il quale si estrinsecano le normali risultanze affettive dell'esperienza umana. Superamento che avverrà sia nella direzione d'una sublimazione metafisica, sia in quella d'una evasione nelle parentesi del puro divertimento. Nel Symphonisches Tongedicht Busoni mira invece ad una espressione estroversa della sofferenza esistenziale e del dolore umano che non è certamente nelle sue corde. Logicamente anche i mezzi formali di cui egli si vale a tal fine non possono rientrare tra gli stilemi atti a configurare quello che egli stesso chiamava il suo «volto proprio».
Il cromatismo e la scrittura sinfonica di stampo postwagneriano che informano il Symphonisches Tongedicht dovranno venir eliminati nel proseguimento dell'itinerario stilistico di Busoni. Non si può dire però che l'uso che Busoni ne fa nel Poema sinfonico sia del tutto negativo. Lo slancio precorritore di Busoni non manca di manifestarsi neanche qui, e precisamente nei passi in cui la complessità cromatica viene portata ad un livello assai vicino a quello che Schönberg raggiungerà nella Verklärte Nacht, in Pelléas et Mélisande e in altre musiche composte nei primi anni del Novecento. L'emancipazione dal postwagnerismo avviene rapidamente nelle opere composte tra il 1894 e il 1898. Se ne avvertono dei chiari sintomi già nella Seconda Suite per orchestra op. 34a che porta il sottotitolo tedesco Geharnischte Suite cioè Suite corazzata ovvero Suite in armatura. Sulla copertina della partitura pubblicata nel 1905 a Lipsia si può vedere l'immagine di un cavaliere nordico in bella armatura medioevale. I titoli dei quattro movimenti di cui consta la Suite ne precisano vieppiù l'assunto immaginifico: Introduzione - Danza di Guerra - Epitaffio - Assalto. L'intero lavoro porta la dedica «Ai Leskowiti a Helsingfors (1889)».
Quest'ultima data non deve peraltro essere interpretata come l'anno di composizione della Suite (Busoni la scrisse nel 1895 e ne pubblicò un'edizione rielaborata nel 1903), ma va riferita al periodo trascorso a Helsingfors che Busoni vuol ricordare con questa dedica [33].
Per «Leskowiti» Busoni intendeva gli appartenenti alla stretta cerchia di giovani amici ed allievi che frequentavano la sua casa a Helsingfors dove, appunto, nel 1889 egli aveva assunto la cattedra di pianoforte dell'Istituto Musicale Wagelius. Con sé il ventitreenne Busoni teneva un magnifico ed enorme cane di razza Terranova e di nome Lesko: donde l'attributo scherzoso affibbiato ai frequentatori della sua casa. A quattro di questi sono dedicati i singoli tempi della Suite. A Jean Sibelius, allora ventiquattrenne e agli inizi della sua carriera, è dedicato il Preludio. Si tratta di un brano che presenta due sezioni (con le relative riprese variate). La prima sezione è un Allegro moderato e deciso (che poi diventerà sempre più Vivace e Furioso) e che, con la sua drammatica fanfara iniziale crea subito un clima eroico, da epopea nazionale. La seconda sezione, Più lento, è di carattere contrastante, cioè «dolce» ed «espressivo». Il secondo movimento, Danza di guerra, è dedicato ad Adolf Paul. Iniziando in un tempo designato come Allegro risoluto, questa danza pirrica segue una curva dinamica ascendente senza flessioni di sorta: il movimento si fa via via più Vivace, Agitato, Animato fino al Presto che termina con un ulteriore accelerando. Una curva contraria viene seguita dal terzo movimento, Epitaffio, dedicato al compositore e direttore finlandese Armas Jaenerfelt, di tre anni più giovane di Busoni, del quale fu allievo per il pianoforte. Il tempo di questa marcia funebre, inizialmente indicato come Andante grave, finisce in modo Molto tranquillo e Appena udibile. D'un sol getto e in un solo slancio di snoda l'Allegro impetuoso, l'Assalto finale, dedicato a Eero Jaenerfelt. La ricomparsa e l'ulteriore sviluppo di motivi precedentemente uditi esplicita la struttura ciclica della Suite e, fungendo da epica ricapitolazione narrativa della vicenda sonora, vale ad esplicitare il «programma» immaginifico al quale alludono i titoli dei singoli movimenti. Il distacco di Busoni dalla forma del poema sinfonico non avviene dunque bruscamente e d'un sol tratto dal momento che all'esplicito Tongedicht egli fa seguire un'opera che il titolo Suite qualifica come musica assoluta, mentre i sottotitoli dei singoli tempi l'indiziano come una specie di poema sinfonico latente.
Una tappa importante del cammino che porta Busoni alla conquista del proprio, peculiare mondo sonoro viene segnata dal Concerto per violino e orchestra op. 35a (composto negli anni 1896-1897) che precede immediatamente la Seconda Sonata per violino e pianoforte e può venir considerato pertanto come l'opera che conclude definitivamente il periodo giovanile di Busoni. È vero che vi si riscontrano ancora tracce degli influssi inevitabili dei grandi modelli costituiti dai Concerti violinistici di Beethoven e Brahms. I tratti personali dell'arte di Busoni vi risaltano ciò non di meno in modo evidente, soprattutto laddove ogni residuo velo di «intenzionale pathos» romanfico - come lo definisce lo stesso Busoni in un'indicazione apposta sulla partitura - viene spazzato da una fresca ventata di solare brio mediterraneo e di umorismo arlecchinesco. Anche l'impostazione costruttiva e il taglio formale dell'opera si discostano arditamente dagli schemi tradizionali. La trama del Concerto si svolge senza alcuna soluzione di continuità conglobando una serie di episodi improntati ad una grande coerenza tematica, ma riferibili solo in modo assai vago ai consueti movimenti di cui constano le opere classiche di questo genere. Il Concerto inizia con una breve introduzione orchestrale (Allegro moderato) in cui legni e corni, poggiando su di un fisso pedale degli archi, espongono in modo dolcissimo il tema principale del Concerto. Subito dopo il violino solista fa il suo ingresso sostenuto per slanciarsi successivamente in arabeschi sempre più veloci e più aerei fino a raggiungere il registro acuto in cui si dispiega melodicamente il tema esposto in precedenza. Un passo di transizione il cui tempo varia passando dall'Allegro ad un Quasi adagio e dove il solista è tenuto a suonare, appunto, «con pathos intenzionale», porta ad un secondo gruppo tematico. Gemessen, mit Humor cioè Misurato con spirito umoristico. Qui, Busoni anticipa un altro aspetto di Casella e precisamente del Casella burlesco, «bourru» come lo definisce Massimo Mila [34]. L'umorismo burlesco che viene considerato come tipico di Casella ha le sue radici nel Falstaff di Verdi. Busoni ebbe occasione di ascoltare il capolavoro verdiano nel 1893 [***] e ne ricevette un'impressione indelebile e decisiva per il suo futuro sviluppo. Crediamo di non andare errati se attribuiamo il precisarsi delle caratteristiche italiane della musica di Busoni al benefico influsso dell'ultimo Verdi. Nel Concerto per violino l'aspetto mediterraneo risalta vieppiù nel successivo episodio Scherzoso, che, attraverso un ulteriore Animando, assume l'andamento di un saltarello e di una tarantella nel cui bel mezzo si preannuncia invece nel modo più inaspettato il motivo per quarte che aprirà, dieci anni più tardi la Sinfonia da camera di Schönberg. Dopo questa nuova folgorante affermazione del genio profetico di Busoni, il discorso riprende un andamento più consueto, ma tosto un episodio Quasi andante reca un altro preannuncio, prefigurando l'atteggiamento pensoso di certi bassi di passacaglie barocche del tardo Casella. La vicenda sonora conosce ancora una drammatizzazione in un episodio Poco agitato, finché le movenze delle tarantelle e dei saltarelli napoletani prevalgono definitivamente nell'Allegro impetuoso. Un passo Alla marcia pomposo, umoristico, introduce nel finale una caricaturale nota arlecchinesca che si scioglie nella perorazione nel brio «scatenato» («ausgelassen»: così indica Busoni in tedesco) di un vero fuoco di artificio. Sarà Alfredo Casella a raccogliere nella Giara, nella Scarlattiana e in qualcun'altra delle sue opere più meditate e nello stesso tempo più giocose e felici, i frutti delle straordinarie intuizioni che Busoni aveva profuso in questo luminoso finale del suo Concerto per violino.

La « Seconda Sonata» per violino e pianoforte

Arriviamo così alla Seconda Sonata in mi minore op. 36a per violino e pianoforte con la quale soltanto, come abbiamo già accennato, Busoni riteneva di «aver trovato la sua propria strada come compositore». Quest'opinione di Busoni, che abbiamo trovato nelle Osservazioni sull'ordine di successione dei numeri d'opera dei miei lavori [35], si trova ribadita anche in altri scritti di Busoni come ad esempio nella lettera inviata alla moglie da Lipsia in data 4 settembre 1905 [36], lettera importante per il fatto che egli vi riassume sinteticamente la strada percorsa fino a quel momento:

[...] Ho ricapitolato tra me e me l'origine del mio gruppetto di lavori e i diversi stadi per cui sono dovuto passare. Nel farlo mi sono ricordato che l'epoca del Secondo Quartetto è stata terribile. Il primo tempo è rimasto incompiuto per più d'un anno e non avevo né il coraggio, né l'ispirazione per continuare... il compito era troppo grande per me; solo l'anno dopo m'ero maturato un po' e lo potei portare a termine con un grande sforzo di volontà. E l'epoca così malsicura del Poema sinfonico! - No, la mia esistenza di compositore comincia in realtà appena con la (Seconda) Sonata per violino...

Ora è quanto mai significativo che questa scoperta di se stesso da parte di Busoni sia avvenuta sotto il segno decisivo di Giovanni Sebastiano Bach. Vent'anni più tardi, cioè nel 1918, Busoni intitolerà la sua Quinta Sonatina per pianoforte Sonatina brevis in Signo Johanni Sebastiani Magni. Un titolo analogo avrebbe potuto darlo alla II Sonata per violino e pianoforte anche se, a differenza della Sonatina brevis, la Sonata non parte da uno spunto bachiano, ma s'incammina indirizzandosi verso la mèta rappresentata dal mondo di Bach. Raggiungendo questa mèta nella sua parte finale, l'opera si trasfigura realizzando il proprio assunto spirituale. Questa parte finale è costituita da una serie di Variazioni sul canto corale di Bach Wie wohl ist mir, o Freund der Seele, wenn ich in deiner Liebe ruh (Come mi sento bene, o amico dell'anima, quando riposo nel tuo amore). Bisognerebbe procedere ad una particolareggiata analisi strutturale di ogni singolo motivo dei primi movimenti della Sonata, del modo in cui tali motivi vengono messi in giuoco, sviluppati e connessi, per mostrare come ogni elemento costitutivo della trama sonora di questi movimenti appare concepito in vista della convergenza e dello sbocco nel finale bachiano. Ed è in questo finale che si può riscontrare per la prima volta la riprova del fatto che Busoni riesce a raggiungere più facilmente il traguardo ideale della sua musica ed a cogliere un «raggio dell'eterno sole musica» attingendo «qualche cosa dall'infinito che circonda l'umanità» per dirla con le sue stesse parole [37], proprio là dove egli fruisce della musica di Bach, non per darne quelle magistrali trascrizioni, vere ricreazioni che contribuiranno tanto a renderlo celebre, ma per prolungarne in un certo senso i significati costruendovi intorno i suoi edifici e le sue aure sonore, nelle quali il religioso misticismo di Bach si muta in una magica, rarefatta atmosfera trascendente, in occulte visioni ultraterrene. Per ottenere questi straordinari trapassi stilistici e immaginifici, bastano spesso a Busoni dei mezzi in apparenza semplicissimi: una deviazione modale, uno slittamento modulatorio, una lieve alterazione cromatica degli intervalli, un impercettibile sfasamento ritmico, la mutazione d'una funzione armonica: sono di questo genere gli stilemi che permettono a Busoni di realizzare le sue stupefacenti, quanto legittime appropriazioni di Bach ed a concretare il suo stile personale, originalissimo.
La preponderanza qualitativa delle Variazioni sul resto della Sonata riceverà una particolare evidenza quando, nel 1916, Busoni le staccherà dal contesto e ne darà una nuova versione per due pianoforti sotto il titolo Improvisation über das bachsches Chorallied «Wie wohl ist mir, o Freund der Seele». La sostituzione della qualifica di «variazioni» con quella di «improvvisazione» ci sembra quanto mai significativa in quanto sta a sottolineare il carattere di spontanea immediatezza intuitiva dell'atto di «appropriazione» della materia musicale bachiana da parte di Busoni. Nella dedica al Marchese Silvio della Valle di Casanova, Busoni precisa:

Le nuove possibilità e limitazioni che risultarono dal ricorso ad un secondo pianoforte ed alla rinuncia al violino, i mutati mezzi d'espressione e l'animo cambiato che mi erano stati offerti nel frattempo da sedici anni di vita trascorsa, fecero sì, che il lavoro iniziato come qualcosa di subordinato si costituì come composizione quasi del tutto indipendente.

Dove quel «quasi» si riferisce ai superstiti legami con la versione originaria, mentre l'attributo «indipendente» è giustificato soprattutto dal fatto che nell'Improvvisazione vengono applicati alcuni dei nuovi procedimenti formali scaturiti dalle sconvolgenti esperienze compositive che Busoni avrà compiuto nel frattempo. Tali esperienze non si riscontrano peraltro nella già citata Lustspielouverture op. 38 pubblicata nel 1904, ma concepita in realtà nel 1897, poco prima cioè della composizione della II Sonata per violino e pianoforte. Nel confronto di quest'ultima, la Lustspielouverture viene ad integrare quell'alternativa dialettica che, d'ora in poi, ricorrerà con costante frequenza nella creatività di Busoni manifestandosi nell'avvicendamento di opere in cui volta per volta vengono a porsi in primo piano gli aspetti germanici o quelli latini della sua natura (egli stesso designerà questi ultimi aspetti di preferenza con termini desunti dall'aggettivo «romantisch»).
Rispetto all'indole spesso tormentata e alla nascita il più delle volte sofferta delle opere prevalentemente germaniche di Busoni, le sue musiche nate in un clima mediterraneo non solo appaiono per lo più dotate di quelle qualità di «leggerezza, eleganza, spiritualità» che alcuni critici avevano giustamente riscontrato già nelle sue opere giovanili [38], ma sbocciano con una naturalezza e con una virtuale assenza di sforzo che possono valere come valide testimonianze dei più profondi e schietti impulsi del temperamento musicale di Busoni.
In una lettera inviata alla moglie da Berlino in data ii luglio 1897 Busoni parla del modo in cui compose la Lustspielouverture d'un sol getto:

Questa notte mi è capitato una cosa veramente straordinaria; mi sono messo a tavolino dopo mezzanotte e ho scritto fino alla mattina, componendo una Ouverture dal principio alla fine tutta di fila. Naturalmente non vi è nulla di definitivo e dovrò ancora lavorare molto a questo pezzo. Ma non è un cattivo pezzo, è molto scorrevole, di uno stile quasi mozartiano...

Effettivamente Busoni continuò a lavorare molto a quest'Ouverture immaginata in modo così felice, tant'è vero che, dopo averne approntato una prima stesura, la rivide, dandone una versione definitiva nel 1904.
L'Ouverture è costruita come un libero tempo di Sonata. L'iniziale tempo «alla breve» Allegro molto, dopo un episodio in cui il discorso prosegue vieppiù Vivacemente, subisce un rallentamento nella parte centrale (Un poco misuratamente che diventa poi Tranquillo e «delicatissimo») per riprendere tutta la sua foga nella perorazione conclusiva. Circa il titolo del brano bisogna dire che la sua abituale traduzione italiana Ouverture giocosa, se corrisponde perfettamente al clima espressivo del brano, non corrisponde tuttavia al significato del titolo tedesco che, tradotto alla lettera, dovrebbe suonare in italiano «Ouverture da commedia» o «per una commedia », ed implica evidentemente un, sia pur astratto, assunto teatrale. Infatti, lo Stuckenschmidt, parla di quest'Ouverture come di un «esercizio stilistico quasi scenico» nell'ambito della musica assoluta. Egli vi riscontra inoltre giustamente dei tratti rossiniani. La conquista di quella serenità che Busoni postulava alla fine della sua vita, vi appare già un fatto compiuto. Non bisogna tralasciare di ricordare, anche in quest'ordine d'idee, l'impressione decisiva che Busoni aveva ricevuto ascoltando a Berlino, nel 1893 [***], per la prima volta il Falstaff di Verdi.

 

(l R. VLAD: Destino di Bgconi in «Modernità e tradizione della musica contemporanea». Ed. Einaudi,

 

Torino, 1955. Cfr. anche gli articoli su Busoni in « The Score», n. 7, Londra, dicembre 1952 C in « La Ras­

 

segna Musicale », n. , Anno XXIII, Roma, aprile &953.

 

(2) F. Busoi: Entwurf einer neve,, Aestbetife tier Tonkansi; i' edizione 5chmidl, Trieste, '907; 2 edizione

 

Thsel verh, Lipsia, ixo; New Aisgabe mit einetn Nacbwort von H. H. Stuckensthmidt, Insel­Verlag‑Zweigstelle Wiesbaden, 1954.

fl) Gut FERCHATJT.T: Faust, Larousse, Parigi, 1948.

 

() R. DuMEsNu: Histoire de la mun1que contenp'oraine en France. a volumi, Librairie Arniand Collo, Parigi,

 

1949. Cfr. le pagg. 83 e 84 del 10 vol.

 

(5) B. J. DENT: Ferruccio BusonL A biograpb,y. Oxford University Press, Londra, 1933.

 

(4) (Yr. It conferenza di RONALD SmvnisoN: Busoni e la Gran Bretagna, riprodotta nel volume unico

 

in occasione del « Festival musicale Busoni », 1958 (Editrice Caparrino, Empoli, 1960).


(') I passi di questo libro al quali ci riferiremo nel corso del presente scritto, sono tratti dall'edizione stampata nel 1954 dalle Edizioni Ricordi, Milano.

(I) Finalmente anche l'importanza dell'insegnamento busoniano a Kurt Weill comincia ad essere messa in un giusto risalto. Così si può leggere nella presentazione di Roberto Leydi al disco Kurt real 1900‑1933: « Nel 1921 (Weill) tornò a Berlino e divenne allievo privato di Ferruccio Busoni. L'influenza del grande maestro italiano hi decisiva per la formazione di Weill. Fu Busoni con il suo insegnamento così libero e antidogmatico, a determinare un nuovo indirizzo stilistico e morale in Weill, a porre le premesse di quell'azione di rinnovamento del teatro musicale the si manifesterà poi, in modo così personale dopo l'incontro con Brecht ».

 

(2) Al fine di puntualizzare l'aspetto particolare dell'argomento che stiamo trattando, bisognerebbe approfondire l'indagine concernente i rapporti tra Busoni e gli altri musicisti italiani del suo tempo. Un certo contributo a tale approfondimento potrebbe essere recato dalla conoscenza delle lettere che Busoni scambiava con i suoi colleghi italiani e the sono tuttora inedite. Di queste lettere ci vogliamo limitare a citare a reo' d'esempio le seguenti frasi indirizzate a Giovanni S'gambati da Berlino in data 12 giugno 1902, in un momento cioè in cui Busoni stava preparando il ciclo di concerti di cui avremo ancora a riparlare; e... Non ho pure dimenticato le belle speranze the Ella svegliò in me e the riguardano la di lei venuta a Berlino per i miei concerti orchestrali. Questi sono ormai determinatamente fissati ed il primo deve aver luogo il o ottobre. Come musicista e come italiano non so immaginare nulla di più distinto e di più adatto, che l'inaugurazione del ciclo con una di lei Sinfonia medita ed in presenza dell'illustre autore... ». ‑


 

() « La Rassegna Musicale», n. , Anno XXIII, Roma, aprile 1953.

 

(3) GUIDO GUERR,NI: Ferruccio Busoni, la vita, la figura, l'opera. Ed. Monsalvato, Firenze, 1944.

 

(4) Rno GIAZ0TT0: Busoni, la vita nell'opera. S. A. Editrice Genio, Milano, 1947­

 

(6) FERRUCCIO BusoNI: Lettere alla moglie, a cura di F. Schnapp, traduzione e prefazione di L. Dalla­

 

piccola. Ed. Ricordi, Milano, 1955.


(') Cfr. Zwei asetobiographitche Fragmenle in: «Ole Musik », Anno XXII, n. i, ottobre 1929 (inclusi nel volume lVesen und Eistheit der Musi/e, nuova edizione a cura di Joachirn Hermann, Max Hesses verlag, Berlin.Halensee und Wundsiedel, 1956). Ii primo di questi Due frammenti è scritto in tedesco, il secondo in italiano. Cfr. Frammenti autobiografici nel libro citato alla nota 7. pag. 105.

 

(2) Come riferisce Busoni, sembra che la famiglia paterna fosse originaria della Corsica.

 

(2) Nella conferenza citata alla nota 4, pag. 9, lo Stevenson parla di un certo influsso che, anche più tardi, Goidmark avrebbe esercitato su Busoni mettendo a confronto due motivi dell'opera Merlin (che Karl Goldmark scrisse nel 1886) con alcune figure sonore del Konicer/stuck op. 3' a, della Finnische Ba/lade op. 33 b, della Sonatina in diem Nativi/ali: Chris/i e persino della Sonatina Seconda e del Do/e/or Faust di Busoni. Si tratta peraltro di coincidenze tematiche la cui importanza non ci sembra che debba venir esagerata e che si spiegano tenendo presente che nel ,888 Busoni pubblicò (Ediz. Lucca) una Fantasia da concerto su « Merlin » (Kontert‑Fan/asie uber Merlin) e nel 1889 approntò e pubblicò lo spartito della stessa opera di Goldmark.

 

(4) Alla memoria di questo suo apprezzatissimo maestro Busoni dedicò un commosso necrologio (Nachruf für Dr. 1V. Mayer in «Ailgerneine Musikzeitung », Berlino, febbraio '898, riprodotto anche nel volume citato alla nota i di questa pagina, iVesen und Binheit de,­Musi/e, pag. '91).

 

(5) Si legga a questo proposito l'articolo: ~go Boi/o, In memoriam che Busoni scrisse nel giugno 1918 per la « Neue Zorcher Zeitung ». L'articolo è incluso nel volume citato alla nota i di questa pagina (pag. 198), la traduzione italiana si trova nel volume citato alla nota i della pag. io (pag. 6y).

 


(') Il testo originale è riprodotto nel volume citato alla nota i della pag. ii, (pag. tos).

C') La Suite Sinfonica del 1888 comprende i seguenti tempi: Preludio, Cavo/ta, Giga, Intermetto lento, Alla breve. Busoni trascrisse questa Gavotta per pianoforte e la pubblicò come brano staccato nello stesso anno ,888. Questa Gavotta non è però identica con la Cavo/fa (contrassegnata ugualmente con numero di opera zy) composta nel 1778 e pubblicata nel xS8o. Nel Catalogo delle composizioni originali che si trova nell'edizione italiana degli Scritti busoniani (vedi nota i della pag. to) ci si imbatte addirittura in un terzo «opus z ». Infatti, tra le musiche per canto e pianoforte (pag. 169) vi figurano Zwei Cesdnge op. 25 (op. 31). Nel Iverk­verzeicbnis compilato dal curatore del volume tedesco (cfr. nota i della pag. ii) questi Due Canti sono elen‑cati senza nessun numero d'opera. In realtà l'editore Schntidl di Trieste le aveva stampate con la chiara indicazione « Op. 31, n. i » e « Op. 31, n. z ». Nel catalogo italiano anche la ballata per contralto e pianoforte Des Sangers Fluch (su testo di L. Uhland) viene elencata con un numero d'opera sbagliato e cioè 30, mentre in realtà porta il numero d'opera 39. Il catalogo tedesco la dà per medita: chi scrive possiede invece una copia d'una edizione che Busoni fece fare, a Vienna, a spese proprie ( Selbstverlag »). Si tratta peraltro di un brano non privo d'intèresse che, alla pari di altri lavori vocali del periodo giovanile di Busoni, testimonia della sua incredibile precocità.

 

(1) Le testimonianze al riguardo sono innumerevoli. Basti ricordare in quest'ordine di idee alcune frasi tratte dalla lettera scritta a Guido M. Gatti da Berlino in data 13 giugno 1923 C contenente un accorato monito a quei compositori italiani che, ignorando «il nostro genio Monteverdi » e sorridendo « negligentemente di quell'altro genio semi‑latino: Mozart », se non imitavano Schoenberg, imitavano lo Strauss e scirniottavano Debussy. «Io mi sento più italiano di loro e non mi stanco di combattere per la noi/ra causa», esclama Busoni.


(') Op. cit, pag. ioG.

 

(2) Si leggano i Mozar/‑Aphorinnen e gli articoli Zion Don‑Juan‑Junildum e Motar/s Libre//is, inclusi

 

nel volume di cui alla nota i della pag. x i.

 

(3) .Loc. cii., pag. 145.

U) Scritta a Zurigo nell'ottobre del 1915­

 

(1) Cfr. la Seibs/‑Rezension nel volume citato, pag. 76.


(2) La. cit., pag. '35.


(') Loc. cit., pag. 72.

(1) II piccolo Petri suonava queste Bagatelle con suo padre che era un noto violinista.


(1) Cfr. F. BUSON!: Versuch einer organischen Klavier.Notenscbrjft (Saggio di una notazione organica per pianoforte) Breitkopf & Hartel, Lipsia, 1910 (Inclusa, come appendice al VII volume della Bach‑Busoni Ausgabe).(') Cfr. la nota i della pag. 64.


(» Così sostiene il Dent (Mc. cii).

(2) Ii Ginotto (op. cit., pag. $6), cita a questo proposito un articolo apparso il 20 febbraio 1889 sul giornale «Nya Pressen» di Helsingfors.(') Op. cit., pag. 96.

(1) L'ambiente finlandese si riflette direttamente in Finniandische Folksweisen 0. 27 per pianoforte a 4 mani (1889), Fimtiscbe Ba/lade op. 33 b, KulIaselle, 10 Variazioni su un tema popolare finnico per violoncello e pianoforte (1891).

(I) Cfr. MASSIMO MILA: CenI'anni di musica moderna. Rosa e Ballo Editori, Milano, 1944, pag. 215.


(') Ii testo originale è riprodotto nel volume citato alla nota i, pag. xi (pag. 1o8).

 

(2) Op. cit., pag. 83.


) Ch. la critica citata alla nota z a pag. 17.

vedi nota i pag. 30.


C') Op. cit., g. 246.

2) Nella prima senta Busoni suonava il Concerto in te minore di Bach, il Concerto in la maggiore di Mozart, il Quarto Concerto di Beethoven e il Concerto in si minore di ilunimel. Nella seconda senta eseguiva il Quinto Concerto di Beethoven, il Concerto in fa minore di Weber, la lVanderer‑Fanta.rie di Schubert (trascritta da Liszt) e il Concerto in mi minore di Chopin. Il terzo programma comprendeva il Concerto in sol minore di Mendelssohn, il Concerto in la minore di Schumann, il Concerto in fa minore di Henselt. L'ultima serata comprendeva il Concerto in mi bemolle maggiore di Rubinstein, quello in re minore di Brahms e il Secondo Concerto (in la maggiore) di Liszt.

 

C') Op. cit, pag. .

» ce. G:tzono: op. cit., pag. 112.

 

(2) I versi utilizzati da Busoni sono i seguenti:

 

« Hebt u der ewigen Kraft cure ilerzen / FUhlet euch Allah nah' / Schaut seine Tat! / Wechseln im Erdenlicht Freuden und Schmerzen / Ruhig Her stehen die Pfeiler der Welt. / Tausend und abermals tausende / Jahre so ruhig wie jetzt in dei Kraft, / Bhitzen gediegen mit Glanz und mit Festigkeit / di Unverwùstlichkett stellen sie dai! / Herzen ergluheten. 1­lerzen erkalteten / Spielend umwechselten Leben und Tod / Abet in ruhigem flatten sie dehnten sich / herrlich und kràftiglich / fruh so wie spat. / Hebt zu dei ewigen }Craft cure Herzen / FUhlet euch Allah nah', / Schaut seine Tat / Vollends belebet 1st / Jetzo die tote Welt. / Preisend die Gottlichkeit, / Schweigt das Gedicht I

 

(e Alzate i vostri cuori verso la Forza Eterna / Sentitevi vicini ad Allah / Guardate la sua opera! / Nella luce terrestre cambiano gioie e dolori / Tranquillamente stanno qui i pilastri del mondo, / Mille e ancora migliaia d'anni / con la forza tranquilla di ora / resistenti ai lampi con lucente fermezza / essi rappresentano l'indistruttibilità! / Cuori s'infiammarono, cuori si raggelarono / Giuocando si alternavano vita e m

orte Ma in calma attesa essi si estendevano / splendidamente e gagliardamente / mattina e sera. / Alzate i vostri cuori verso la Forza Eterna / Sentitevi vicini ad Allah / Guardate la sua opera! / Interamente animato è ora il morto mondo. 1 Lodando la divinità, 1 tace la poesia! »).


O) Pag. 7 della partitura.

 

(2) Pag. 65 della partitura. (3) Ed. A: Leduc, Parigi, 1944, pag. 52. (4) Cfr. R. VLAD: Modernità e tradizione nella musica contemporanea. Pagg. 227228.

(1) Nel volume citato alla nota i della pag. i' (pag. 9z).

<') Incluso anche il volume citato alla nota i della pag. ii (pag. 41).

 (1) Id. pag. 61.

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