ANDREA FRANCO


TURANDOT DI PUCCINI
CROCE E DELIZIA DELL’OPERA ITALIANA


© ANDREA FRANCO - ROMA


1. BREVI CENNI D’INTRODUZIONE SULL’OPERA LIRICA

Prima di poter affrontare l’analisi di un’opera importante e meravigliosa quale è la Turandot di Giacomo Puccini, è doveroso dare alcune informazioni preliminari riguardo la storia stessa dell’Opera, fenomeno di costume e cultura che ha attraversato brillantemente oltre quattro secoli di storia.
Ogni grande appassionato è solito pensare all’Opera così come io stesso abitualmente la scrivo, con la O maiuscola, immutabile e sacra, adorabile e intramontabile. Ma come ogni fenomeno di costume che attraversa varie epoche anche l’Opera così come la conosciamo e l’apprezziamo non è sempre stata uguale a sé stessa. È cambiata nella forma come nei contenuti, nella complessità come nella resa teatrale.
Le prime opere documentate risalgono alla fine del sedicesimo secolo, ma se vogliamo fissare una data concreta e in modo altrettanto tangibile fornire dei nomi, l’opera alla quale dobbiamo fare riferimento è la Dafne di Jacopo Peri e Jacopo Corsi, la cui prima rappresentazione risale presumibilmente all’anno 1594. Pietro Bardi, un loro contemporaneo, descriveva con queste parole la semplicità strumentale della rappresentazione: «messa in musica dal Peri con poco numero di suoni, con brevità di scene e in piccola stanza rappresentata.»
Non v’è dubbio che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Basta pensare alle suggestive scenografie della stessa Turandot; ma volendo proporre esempi diversi possiamo citare anche altre illustri opere quali Adriana Lecouvreur, L’elisir d’amore, Norma, Trovatore e altre. Scenografie di grande impatto, ma non solo: anche grande ricercatezza strumentale e coreografica. Opera, quindi, con la maiuscola.
Nella lunga e ricca storia dell’Opera sono moltissimi i compositori che hanno ceduto al fascino della rappresentazione teatrale e che hanno dedicato risorse del proprio estro alla composizione lirica. Compositori tanto dissimili tra loro che solo avvicinare i loro nomi ci può far meglio comprendere la complessità e la varietà del fenomeno: Puccini, Verdi, Mozart, Beethoven, Strauss, Donizetti, Ciaikovskij, Wagner… e la lista potrebbe essere davvero interminabile.
L’Opera nasce in Italia e per molti anni il nostro stesso idioma è stato la lingua dell’Opera. Ogni autore musicava libretti in lingua italiana e solo in un secondo tempo si cimentava anche nella lingua madre (Mozart su tutti). Un poco la volta l’egemonia della nostra lingua comincia a declinare e al giorno d’oggi, seppur la tradizione maggiore parla ancora la nostra lingua, i libretti operistici vengono realizzati nelle più svariate lingue.
Una tradizione forte la nostra che, nonostante viva ultimamente un periodo di apparente declino, abbraccia i più grandi compositori mai esistiti. È difficile trovare una tradizione operistica che possa vantare nomi eccellenti quali Puccini, Verdi, Bellini, Rossini, Donizetti, Mascagni.
Wagner con le sue innovazioni ha saputo dare quella spinta verso una maggiore resa teatrale e ha saputo creare il giusto equilibrio tra musica e testo, tra melodia e dramma, ma il contributo maggiore alla storia dell’Opera è ancora appannaggio dell’Italia.
E non possiamo parlare di Opera se non menzioniamo anche tutti quei meravigliosi interpreti che nel corso dei secoli hanno saputo tradurre magnificamente le emozioni dei compositori, fino a toccarci nel profondo e risvegliare emozioni che in taluni casi addirittura ignoravamo. Direttori d’orchestra, musicisti, cantanti e quanti altri collaborano alla realizzazione maestosa di quello che ogni volta può essere ritenuto un evento vero e proprio. Vedere una rappresentazione è come assistere ogni volta ad una “prima”, con diverse sfumature e un diverso modo di rendere unica l’interpretazione. E un modo diverso di porsi all’ascolto, un po’ spettatore e un po’ partecipe di incalcolabili emozioni tradotte in musica, in Opera.
Sono molti gli interpreti passati alla storia per le loro doti eccelse o per il modo tutto personale di essere personaggio. In questo breve saggio non sarà possibile un’analisi approfondita dei vari timbri e dei vari stili dei grandi protagonisti dell’Opera mondiale, ma è certo che alcuni con le proprie superlative capacità (e ci limitiamo solo agli ultimi decenni) hanno saputo in qualche modo rendere ancora più universale il linguaggio dell’Opera: i tre tenori (Pavarotti, Carreras, Domindo), Maria Callas, Mirella Freni, Leo Nucci, Ruggero Raimondi; fino a interpreti più recenti quali Roberto Alagna (da molti considerato il “quarto tenore”), Angela Gheorghiu, Frank Lopardo, Gino Quilico, Matthew Polenzani. Anche loro hanno fatto la storia dell’Opera e hanno contribuito a diffonderla e allo stesso tempo a portarla fino ai giorni nostri, in un processo ininterrotto di continuità e mutevolezza.


2. PUCCINI TRA VERDI E WAGNER

Non è possibile parlare dell’Opera di Giacomo Puccini se prima non si fissano alcuni punti chiave che passano attraverso le fatiche compositive e ideologiche di altri due grandi maestri immortali: Giuseppe Verdi e Richard Wagner.
Come più volte accennato, molti sono stati i cambiamenti che dai primi anni del Seicento hanno caratterizzato la storia dell’Opera fino ai nostri giorni.
Per fare un esempio concreto di come l’arte di comporre Opera sia nel tempo mutato possiamo prendere spunto da altri due grandi compositori che davvero non hanno bisogno di presentazioni: Gioacchino Rossini e Giovanni Paisiello.
L’occasione utile per mettere in evidenza il cambiamento radicale è quella del clamoroso insuccesso della prima rappresentazione de Il barbiere di Siviglia di Rossini. Il compositore non nascose di essersi ispirato alla omonima opera del suo predecessore Paisiello ed è proprio partendo da una base comune che riusciamo a mettere in evidenza le differenze stilistiche e tecniche.
La prima differenza può sembrare meno ovvia, ma alla luce di quelli che saranno i cambiamenti che dovranno ancora venire non può certamente essere trascurata.
Siamo all’inizio dell’opera, nel momento della serenata. Senza scendere troppo nei dettagli appare evidente di come la situazione sentimentale sia maggiormente sviluppata nell’opera rossiniana, più approfondita e di più ampio respiro, con un numero quasi doppio di versi. L’Opera diventa sempre più veicolo di emozioni, non solo mero intrattenimento. L’effetto musicale è più legato alla vicenda e comincia quel processo di unione musica-dramma che verrà portato a compimento da Wagner.
Già dalle prime battute Rossini si differenzia da Paisiello, non è più lo stesso modo di fare Opera. Appare evidente a tutti.
Il cambiamento più radicale, quello che probabilmente fu una delle cause dell’insuccesso iniziale, si ha con la rottura di una tradizione della tecnica teatrale. Solitamente il soprano compare in scena in una cavatina, brano allo stesso tempo di presentazione e di omaggio a uno dei ruoli principali. Rossini rompe questo schema e la protagonista femminile irrompe sulla scena con un recitativo, sicuramente meno a effetto seppur più reale. Il pubblico non gradisce e lo manifesta apertamente. Ma oramai lo schema è saltato e un nuovo modo di fare Opera si affaccia prepotentemente all’orizzonte.
Molte cose dovranno ancora mutare (recitativi sempre meno ampi, cavatine meno numerose), ma alcuni cambiamenti sono già avvertibili e inarrestabili.
La rottura maggiore avviene appunto tra Verdi e Wagner, l’uno a cavallo tra due periodi, in continuo sviluppo, l’altro già completamente proiettato nel futuro, così quasi del tutto staccato dalla tradizione.
Nelle prime opere di Verdi il numero delle arie chiuse è ancora preponderante. La narrazione procede a sbalzi, in una successione slegata, ma coerente, di brani. È già capace di suscitare emozioni forti, ma ancora lontano da quella rivoluzione musicale e teatrale che lo caratterizzerà nelle opere della maturità.
Wagner sviluppa da subito una personalissima struttura operistica. A differenza di molti suoi colleghi si interessò molto alla teoria e alla tecnica che stava dietro alla rappresentazione teatrale e scrisse anche alcuni saggi per meglio approfondire le sue teorie.
Partendo dalle teorie filosofiche sull’arte sviluppate da Hegel, sviluppa un complesso sistema di connubio tra testo e musica. Molto spesso il libretto e la partitura procedevano su binari paralleli, quasi narrando sensazioni diverse. Con Wagner la musica è al servizio del dramma e diventa parte di esso. È impossibile scindere le due parti e il dramma si compie quindi nella simbiosi testo-musica, rendendo impossibile un’analisi che precluda una delle due parti. Apparentemente la musica va assumendo un ruolo meno evidente, ma più partecipe.
La scenografia, e la rappresentazione coreografica, assume un ruolo determinante e tutto è curato nei minimi particolari. Il numero dei musicisti aumenta notevolmente e per la prima volta l’orchestra scompare nella fossa, liberando lo spazio visivo dello spettatore, finalmente del tutto immerso nel dramma.
Puccini sviluppa in modo molto personale le innovazioni wagneriane. Naturalmente è molto legato alla tradizione italiana, ma risente di molte influenze che in qualche modo lo attirano senza mai convincerlo del tutto. Risente del verismo, ma in qualche maniera le sue opere si distaccano dal movimento portato avanti da Mascagni, e si dirigono verso sentieri diversi, più indirizzati sul microcosmo della coppia, del quale parleremo, che alla realtà circostante.
È vicino anche all’estetismo dannunziano (e la loro collaborazione fu vicina a realizzarsi), ma l’immobilità estetica dello scrittore mal si combina con la dinamica sentimentale che sviluppa Puccini.
Un compositore fuori dagli schemi e dalle tradizioni, quindi, così particolare da risultare alla fine unico e inimitabile: Puccini, appunto.


3. PUCCINI E LE SUE OPERE

Puccini è indubbiamente uno dei più grandi compositori d’Opera mai esistiti e il suo nome è sinonimo di talento compositivo in tutto il mondo. Se andiamo a contare le sue opere ci rendiamo però conto che la sua produzione è inversamente proporzionale al suo grande successo e talento. Molti potrebbero obiettare che nomi quali La bohème, Tosca, Turandot, Madama Butterfly possono essere più che sufficienti a soddisfare ogni melomane, ma il discorso che attraverso questo dato fondamentale si vuole affrontare è diverso.
Ogni opera è affrontata da Giacomo Puccini con una attenzione e una dedizione che nel mondo della composizione ha ben pochi riscontri. Altri compositori, non meno noti al grande pubblico, hanno prodotto una quantità incredibile di partiture, approfittando di vantaggiosi contratti e lavorando sulla scia di una fama senza confronti. Leggendo lettere e dichiarazioni di compositori o contemporanei possiamo apprendere che alcune opere, che potremmo pensare essere il frutto di mesi di duro lavoro, con il compositore alla ricerca dell’ispirazione e della migliore forma stilistica, sono invece il risultato del frenetico lavoro di poche settimane, a volte pochi giorni.
Per fare un esempio di un’opera di cui abbiamo già accennato possiamo parlare di nuovo de Il barbiere di Siviglia di Rossini. Sembra che il compositore abbia impiegato solamente otto giorni per realizzare centinaia di pagine di partitura. Forse di tempo ce n’è voluto un po’ di più, ma non molto, presumibilmente.
Sarebbe ingenuo pensare che il lavoro di Rossini fosse del tutto originale e scritto di getto così in pochi giorni. In effetti il discorso è molto più complesso, e avendo la possibilità di studiare a fondo la produzione rossiniana ci si rende conto che nella sua celebre opera ci sono non pochi richiami ad arie e brani di altri suoi lavori precedenti. Anche la celebre ouvertüre iniziale sembra appartenesse a un suo lavoro precedente. Una specie di collage, abilmente trasformato in una delle opere più famose mai composte.
Tutta questa frenesia nel comporre non la ritroviamo certo in Giacomo Puccini. Anzi, notiamo una certa riflessione, una cura a volte esasperata sia nella ricerca del tema che della forma. Naturalmente anche Puccini ha spesso attinto a temi melodici preesistenti, soprattutto quando si trattava di dover caratterizzare in modo appropriato una delle sue opere dal gusto esotico (Madama Butterfly, Turandot), però dietro c’è tutta una preparazione atta a integrare nella trama melodica della sua opera questi estratti esotici. Nella Madama Butterfly le note dell’inno nazionale americano non danno l’impressione di essere messe lì a riempire un vuoto, ma caratterizzano l’atmosfera e il personaggio in maniera indiscutibilmente efficace.
Ma per trovare altri compositori dalle sterminate produzioni possiamo menzionare per l’ennesima volta Verdi, Mozart, Donizetti. Artisti di grande livello, non certo frettolosi nel comporre, quantomeno trascurati. Compositori che hanno lavorato con maggiore intensità senza trascurare per questo la forma e un’attenta ricerca tematica. Tutto questo ragionamento serve solo a farci comprendere in modo chiaro quale fosse la partecipazione emotiva di Puccini nella composizione delle sue opere e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Un’attenzione fuori dal normale che ci permettere di distinguere ancora una volta Puccini da tutti gli altri; così unico, così particolare.
Nascono in questo modo personaggi di grande fascino e spessore come Rodolfo e Mimì, Musetta e Marcello, Calaf e Liù, Mario Cavaradossi e Floria Tosca, Pinkerton e Cio-cio-san. E i nomi delle sue opere sono ormai passati alla storia della musica: Le villi, Edgar, Manon Lescaut, La bohème, Tosca, Madama Butterfly, La fanciulla del West, La rondine, Il tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicchi (queste ultime tre ad atto unico, unite sotto il nome de Il trittico), Turandot.
Dodici capolavori è quello che Puccini ha lasciato a tutti gli amanti dell’Opera; dodici stelle tra le quali splende luminosa la meraviglia della sua ultima fatica: Turandot, naturalmente.


4. GENESI DELLA «TURANDOT»

Parlare del mondo magico della Turandot significa allo stesso tempo attraversare il globo alla ricerca di atmosfere che si intrecciano le une alle altre in una simbiosi perfetta tra le culture più disparate che hanno influenzato l’autore al momento della composizione.
Ascoltando per la prima volta l’ultima opera di Puccini si rimane subito colpiti da quel particolare intreccio di esotismo e drammaticità reso in modo così particolare da musica e personaggi.
La solennità dell’atmosfera è subito evidente dalle prime note e dall’intreccio di melodie con il quale l’autore apre il primo atto, ma personaggi importanti e allo stesso tempo dai nomi un po’ bizzarri lasciano con parecchi dubbi circa le intenzioni del compositore.
Credo che chiunque si affacci per la prima volta nel magico mondo della principessa Turandot possa in qualche maniera rimanere colpito dai nomi poco drammatici di alcuni dei personaggi che le orbitano intorno. Ping, Pang e Pong, i cancellieri della principessa, sono nomi che strappano un sorriso all’ascoltatore italiano, creando un’idea di comicità piuttosto che di solenne drammaticità. L’effetto di sbalordimento passa presto non appena la natura dei tre viene chiarita.
Approfondendo la conoscenza dell’opera e scavando fino alle origini dei personaggi ci rendiamo conto che tutta la struttura, dell’opera e dei personaggi, è la normale conseguenza di un lavoro intenso e mirato a creare l’effetto drammatico proprio della composizione stessa laddove in origine l’effetto tragico era quasi inesistente.
Dobbiamo fare un passo indietro e tornare alle origini di questa storia affascinante.
La Turandot nasce per la prima volta sotto forma di fiaba teatrale scritta da Carlo Gozzi. Appare subito evidente quanto e di quale spessore sia stato il lavoro del compositore allorché si apprestava a trasformare in dramma quella che inizialmente era una fiaba. Personaggi in bilico tra l’esotismo drammatico e la fiaba nostrana nascono appunto dall’esigenza di trasformare personaggi tipici della teatralità comica italiana (le classiche maschere) in strumenti dell’opera tragica.
Anche il personaggio principale subisce un cambiamento non indifferente e assume quei toni cupi e solenni che mai avremmo potuto trovare nell’opera di Carlo Gozzi.
A proporre la realizzazione della fiaba al compositore fu il veneziano Renato Simoni, già giornalista e fortunato scrittore teatrale. L’idea che voleva sviluppare Simoni mirava alla realizzazione di un opera capace di presentare la «inverosimile umanità del fiabesco». Puccini ne fu immediatamente entusiasta e calcolò, la storia gli ha dato ragione, di poter sviluppare a quel modo una forte drammaticità incentrata sul personaggio chiave della principessa.
Alcuni anni prima già un altro compositore, Ferruccio Busoni, aveva musicato con le stesse intenzioni il personaggio della gelida Turandot, ma il risultato non può essere nemmeno lontanamente paragonato a quello ottenuto da Giacomo Puccini. Inoltre, lo stesso Puccini con molta probabilità non conosceva l’opera di Busoni e non poteva né esserne stato influenzato, né averne in alcun modo elaborato i concetti e gli espedienti teatrali.
Un lavoro intenso, quindi, che inizia ancora prima della partitura, laddove si deve lavorare su un testo preesistente che poco ha di drammatico, almeno nel senso inteso da Puccini e dai suoi stretti collaboratori.
Al momento di iniziare il lavoro vero e proprio si riformò quel terzetto inscindibile che già con successo aveva collaborato alla realizzazione di opere storiche quali La bohème, Tosca e Madama Butterfly. Puccini quindi volle come suoi collaboratori i soliti Renato Simoni, il quale si occupava di sviluppare la trama, e Giuseppe Adami, sapiente versificatore.
I successi delle precedenti collaborazioni facevano ben sperare e i tre non delusero certo le aspettative. Puccini iniziò a lavorare febbrilmente al suo capolavoro e già dopo poco tempo riteneva indegno tutto ciò che aveva prodotto precedentemente.
Oramai era completamente assorbito dal mondo orientale della sua ultima composizione e nulla riusciva a distoglierlo dal suo lavoro.
Quando iniziò a comporre la Turandot Puccini non era certo più giovane e una malattia minava le sue forze. I collaboratori e l’editore stesso cercarono di dissuaderlo dal lavorare troppo, cercando di suggerire un riposo ristoratore.
Ma ormai la vita e le energie del compositore erano strettamente legate alle vicende dei suoi ultimi personaggi: il principe Calaf, Turandot la gelida e la piccola Liù, il cui destino era drammaticamente legato a quello del celebre compositore.
La prima rappresentazione della Turandot avvenne al Teatro alla scala di Milano, il 26 aprile 1926, due anni dopo la morte di Giacomo Puccini, grazie anche alla collaborazione del maestro Franco Alfano il quale lavorò sugli appunti di Puccini per portare a compimento l’opera ultima del grande compositore.


5. LA TRAMA

Atto primo. È il tramonto a Pechino, in un non meglio precisato “tempo delle favole”. Lungo gli spalti delle mura della città, che brilla in lontananza, una lugubre sequenza di pali con infissi i teschi dei pretendenti sconfitti dalla principessa Turandot. Gli spalti sono interrotti da un loggiato e da un grande gong di bronzo, il cui suono sancisce l’inizio della sfida tra la principessa e i suoi pretendenti. Tre rintocchi, tre enigmi.
Come è abitudine di Puccini siamo subito accompagnati nel vivo dell’azione, senza introduzioni strumentali (ouverture o sinfonie). Un mandarino recita le regole della prova che i pretendenti dovranno superare: la principessa Turandot andrà in sposa a chi saprà sciogliere i tre enigmi che lei stessa proporrà; il pretendente sconfitto sarà accompagnato al patibolo, dal boia.
Il principe di Persia è stato sconfitto dagli indovinelli della principessa e attende insieme al popolo il momento in cui salirà sul patibolo per pagare la sconfitta con la propria vita. In un’atmosfera tesa si attende il sorgere della luna.
La folla si dirige verso la reggia invocando a gran voce il carnefice. Nella calca viene travolto il vecchio Timur, re tartaro in esilio, aiutato dalla piccola schiava Liù. La ragazza chiede aiuto e nella folla i due ritrovano il principe Calaf, figlio di Timur, che entrambi credevano morto da tempo.
Si intuisce subito del forte affetto che la piccola Liù prova verso il principe, il quale un giorno nel proprio palazzo le aveva sorriso, conquistandola con quel semplice gesto e inducendola ad affiancare il vecchio Timur nelle sofferenze della vecchiaia e dell’esilio.
La luna viene invocata dal popolo con evidenti accenni al suo ruolo di portatrice di morte: faccia pallida, testa mozza. La morte del principe di Persia è ormai vicina e il corteo avanza verso il patibolo dove presto giungerà anche il carnefice. Una schiera di ragazzi intona la melodia “là sui monti dell’est”, composta su un tema originale cinese che Puccini affiancherà nel corso dell’opera alla presenza fascinosa della principessa.
L’atmosfera del tramonto si trasforma un poco alla volta e con il sorgere della luna tutto viene ammantato da una tenue luce argentea. La luna è sorta.
Turandot appare sul loggiato e un raggio di luna la illumina, evidenziandone il tartareo splendore. Intanto la folla ha smesso di incitare il carnefice e di evocare il sorgere della luna. Ora tutti chiedono la grazia del principe di Persia, respinta con decisione dalla crudele Turandot.
La musica accompagna la scena con toni lamentosi e solenni allo stesso tempo e il coro che chiama “principessa, principessa”, implorando la grazia, raggiunge toni di incredibile fascino ed emotività.
Proprio nel momento in cui la luna illumina Turandot, il principe Calaf la vede per la prima volta e ne rimane subitaneamente affascinato. Ormai anche lui è prigioniero del fascino della principessa e deciso più che mai a tentare la sorte.
Avanza verso il gong per lanciare la sua sfida, ma molti cercano di dissuaderlo. Dapprima tenta il padre, implorandolo di rimanere al suo fianco dopo tanti anni di sofferta lontananza.
Tenta anche la piccola Liù, cercando di convincerlo con il suo amore, rimasto segreto per tanti anni.
Ma sono proprio i cancellieri della crudele a cercare con più insistenza di fare cambiare proposito al giovane. Iniziano con la descrizione delle efferate violenze che si compiono a palazzo ("Qui si strozza! Si sgozza! Si trivella…"), per poi passare a un poco convincente ridimensionamento della bella principessa ("se la spogli nuda, è carne, carne cruda…") per concludere con le molteplici alternative che la vita riserva a ognuno di loro.
Nulla serve a dissuadere il giovane Calaf, nemmeno l’ultimo estremo tentativo della piccola schiava Liù ("signore, ascolta") che antipica la meravigliosa aria finale del primo atto ("non piangere, Liù"), prima che la musica esploda nell’ultima sequenza in cui si intrecciano le emozioni di tutti i personaggi, in un finale esplosivo e avvolgente, nel quale il principe Calaf suona il gong e dichiara apertamente di voler sfidare la sorte, rischiando la propria vita con gli enigmi di Turandot.

Atto secondo. Quadro primo. Dopo le emozioni travolgenti di tutto il primo atto, questo quadro primo che apre il secondo atto è una sorta di intermezzo, atto a presentare in modo accurato i tre ministri della principessa e a immergere con maggior dovizia l’ascoltatore nel fatato mondo pechinese, finora ancora astratto e distante.
Ping, Pang e Pong si alternano in un terzetto che li umanizza un poco alla volta. I tre ministri stanno ripassando i protocolli sia del rito funebre sia di quello nuziale, non sapendo quale dovranno celebrare al sorgere della nuova alba.
Mentre sono intenti nel loro lavoro si lasciano andare ai ricordi del tempo passato, quando ancora la crudeltà della gelida principessa era da venire. E mentre divagano si estraniano dalla realtà, immaginando la resa della bella carnefice e la preparazione del rito matrimoniale e della alcova per la prima notte d’amore. Ma il tempo stringe e i tre riprendono celermente i preparativi per il nuovo rito degli enigmi.
Quadro secondo. La scena torna nel vivo e il rito degli enigmi è ormai imminente. La corte imperiale è pronta sui gradini della reggia. Un coro solenne accompagna in scena la bella principessa affiancata dall’esile e stanco padre, l’imperatore Altoum.
Netta è la contrapposizione dei due personaggi tenorili, quando il vecchio imperatore, con voce debole e implorante, chiede al giovane di rinunciare alla inutile prova ("basta sangue, giovine và") e Calaf risponde seccamente per tre volte consecutive, con forza e vigore giovanile, di aver ormai preso la decisione finale ("figlio del cielo, io chiedo d’affrontar la prova").
Il rito ha finalmente inizio. La cantilena iniziale ripete le regole della prova e tutti attendono che sia la principessa a prendere parola. La donna spiega le ragioni di quel macabro rituale ("in questa reggia or son mill’anni e mille") poi inizia a proporre i tre enigmi.
Calaf risponde in modo corretto tutte e tre le volte (speranza, sangue, Turandot, soluzioni strettamente legate alla simbologia dell’opera) e finalmente per la prima volta dopo tanti anni la bella Turandot è sconfitta.
La principessa non accetta il risultato e si rivolge al padre rivendicando la propria sacralità e minacciando Calaf con tutto il suo odio ("non sono tua!"). Le sue suppliche sono vane poiché il padre ribadisce che è il rito a essere sacro e in quanto tale deve essere rispettato ("è sacro il giuramento").
La possibilità di salvezza per la principessa arriva proprio dalla generosità di Calaf e dalle sue parole che ci accompagnano verso la chiusura del secondo atto, anticipando la celebre aria “nessun dorma” del terzo: "il mio nome non sai, dimmi il mio nome, dimmi il mio nome prima dell’alba e all’alba morirò!"

Atto terzo. Quadro primo. Gli araldi diffondo per tutta la città di Pechino il volere della principessa. Nessun dorma in Pechino, e ognuno si adoperi a scoprire il nome dello straniero.
Il principe Calaf attende impaziente l’arrivo della nuova alba e il momento in cui Turandot sarà sua. È il momento della classica aria tenorile pucciniana con uno splendido “nessun dorma” di grande impatto e slancio.
In molti si avvicinano al principe cercando di convincerlo a pronunciare il suo nome, ma il rifiuto di Calaf è sempre secco e deciso. Irrompono quindi in scena un gruppo di uomini che trascinano Timur e Liù, credendo di poter strappare loro il nome dello straniero.
Ancora una volta è la piccola Liù a prendere il ruolo di protagonista. È fermamente decisa a difendere il suo signore e affronta con decisione la principessa, sopporta le torture e infine si suicida come estremo sacrificio d’amore.
Con la morte della piccola Liù termina il lavoro del maestro Puccini. L’ultima parte dell’opera è completata come già accennato da Franco Alfano sulla base di appunti lasciati dal compositore.
La folla si allontana e per la prima volta Calaf e Turandot rimangono da soli. Calaf è ancora convinto di poter conquistare la bella principessa e con impeto si getta verso di lei, baciandola.
Inizia così il crollo finale della crudele principessa che scopre per la prima volta emozioni tanto forti e incontrollabili. Calaf comprende di aver finalmente sgelato il freddo cuore della rivale e poco prima dell’alba sussurra il proprio nome, consegnando il proprio destino nelle mani di Turandot.
Quadro secondo. È la scena conclusiva, in realtà molto breve. L’alba è ormai giunta e la principessa conosce il nome dello straniero. Accompagnata dal padre e dai dignitari di corte Turandot si presenta al popolo dichiarando di conoscere il nome del principe ignoto. Tutti attendono la rivelazione e tra lo stupore del popolo la principessa dichiara a tutti il nome bramato: Amore.
Il dolore e la tragedia è finalmente alle spalle e l’opera si chiude con un coro di giubilo.


6. MICROCOSMO DI COPPIA PUCCINIANO

Nei capitoli precedenti di questo breve saggio sulla Turandot e Puccini abbiamo più volte accennato alle particolarità che distinguono il compositore toscano dai suoi altrettanto celebri colleghi.
Analizzando a fondo i lavori di Puccini possiamo a questo punto approfondire un altro concetto di non trascurabile importanza qualora si cerchi di analizzare con puntuale efficacia i personaggi che prendono vita dalle sue opere.
Molto spesso siamo abituati a ricercare una tradizionale struttura sia nella trama che nei personaggi di un’opera. Puccini rompe anche questi consueti schemi che la tradizione ci ha abituato a dare per scontati.
Naturalmente non è intenzione di questo saggio generalizzare la struttura delle opere in un semplice schema ripetuto nel tempo dai vari compositori, ma si cerca solo di accentuare in questa maniera quello che sotto molti aspetti può essere definito “microcosmo di coppia pucciniano”, e per l’appunto limitato alle opere di Giacomo Puccini.
Molto spesso le opere sviluppano la propria trama ripartendo ruoli e emozioni su più personaggi, ricorrendo spesso a un triangolo di protagonisti che nella maggior parte delle occasioni è rappresentato tenore, soprano e baritono/basso o altro. Naturalmente questa è una semplice generalizzazione poiché sono molte le opere che non seguono questo schema.
Molti, tra i meno esperti, sono soliti credere che i ruoli del tenore e del soprano ricoprono sempre le parti principali in un opera, ma possiamo portare molti esempi a smentita di questo ragionamento (Don Giovanni su tutte).
Comunque è facile ritrovare uno schema tripartito di protagonisti dove almeno uno dei personaggi è l’elemento di disturbo. Per chiarire è possibile portare qualche illustre esempio: La traviata (Violetta, soprano, Alfredo, tenore, Père Germont, baritono), L’elisir d’amore (Adina, soprano, Nemorino, tenore, Belcore, basso), Adriana Lecouvreur (Adriana, soprano, Maurizio, tenore, la principessa, soprano).
È per l’appunto questo lo schema al quale sfuggono gran parte delle opere pucciniane. Anche quando è possibile individuare un terzo elemento (il barone Scarpia nella Tosca), quello che banalmente abbiamo chiamato di disturbo, questi orbita solitamente intorno alla coppia centrale, sulla quale Puccini indirizza tutti i propri sforzi emotivi e drammatici.
Celebre è addirittura il caso de La Bohème nella quale tutto il mondo circostante sembra ruotare intorno a una doppia coppia di protagonisti, due fantastici microcosmi: Rodolfo e Mimì, Marcello e Musetta. Certo è che il ruolo della prima coppia è nettamente preponderante, ma è tramite questi personaggi che Puccini ci presenta l’indisciplinato mondo della scapigliatura.
Il discorso è portato all’esasperazione nella Madama Butterfly, opera nel quale questo microcosmo di coppia addirittura si restringe e a larghi tratti comprende solamente la protagonista femminile, la giovane sventurata cio-cio-san, tramite la quale conosciamo un mondo intero fatto di amarezze e discriminazioni.
Nelle opere degli altri compositori il mondo circostante e i protagonisti interagiscono e insieme danno vita a un mondo intero. In Puccini l’intero mondo è racchiuso in pochi personaggi chiave, veicoli di emozioni e ideologie. Personaggi caratterizzati a tinte forti ai quali non è possibile rimanere indifferenti, nel bene come nel male.
È grazie a questo microcosmo di coppia che Puccini riesce a calamitare l’attenzione dello spettatore, a strapparlo alla propria realtà per gettarlo completamente in quella di un Mario Cavaradossi o di una Floria Tosca.
È grazie a tutto ciò che riusciamo a calarci nei panni del giovane e temerario principe Calaf, nel suo folle e illogico amore, così testardo e apparentemente senza logica. Dobbiamo astrarci dal mondo circostante e fare nostre le emozioni dei personaggi, così da accettarli e viverli allo stesso tempo con la stessa forza che sprigionano.
Accettiamo così il sacrificio della piccola Liù e sembra normale che la principessa Turandot possa all’improvviso amare lo spregiudicato Calaf.
Tutti insieme attendiamo così che arrivi una nuova alba, per scoprire se è portatrice di morte o d’amore. E ci sembra di sentire ancora la voce squillante del principe che ne invoca l’arrivo:

…dilegua oh notte, tramontate stelle,
tramontate stelle…e all’alba vincerò,
vincerò, vincerò!


7. TURANDOT E TOSCA A CONFRONTO

Dopo aver compreso l’importanza del personaggio nell’Opera pucciniana, soprattutto di quello femminile, credo sia possibile approfondire a fondo il personaggio della gelida principessa mettendolo a confronto con un altro celebre soprano pucciniano: Floria Tosca.
Ciò che pare più evidente è l’atteggiamento che i due personaggi assumono nei riguardi dell’amore.
Turandot, gelida e distaccata, lo teme e cerca di evitare ogni coinvolgimento sentimentale, rendendo sacra la sua stessa situazione di gelida vendicatrice.
Tosca, rubando parole al principe Calaf, è ardente d’amore, gelosa del suo uomo e pronta a difenderlo nel momento del bisogno.
E proprio queste posizioni così distanti porteranno a finali dall’esito contrastante, in un intreccio di destini che in qualche maniera disattende le prime aspettative dello spettatore.
Calaf riuscirà a sconfiggere la bella principessa che alla fine si lascerà andare ai così temuti sentimenti amorosi; la dolce Tosca non sarà in grado di salvare il suo Mario Cavaradossi e troverà lei stessa la morte in un crescendo di tragicità e dolore.
È diversa anche la presenza delle due protagoniste all’interno dell’opera.
Tosca è protagonista già dopo pochi minuti del primo atto e sono celebri i suoi duetti con il pittore Mario Cavaradossi. Impariamo subito ad amare questa gioiosa cantante lirica (il personaggio Tosca è anche lei soprano) e ci commoviamo scoprendo la gelosia che la lega all’uomo della sua vita. Immaginiamo i suoi occhi neri (celebrati in una splendida aria) e li scopriamo pieni di vita, intensi e innamorati. Tosca è presente in modo uniforme in tutti e tre gli atti dell’opera e in qualche modo è il personaggio che ci accompagna in maniera più uniforme fino alla conclusione.
Turandot nel corso della vicenda ha una crescita graduale. Compare solo a primo atto avanzato e addirittura non pronuncia una sola parola prima del secondo atto, calamitando l’attenzione col solo fascino della sua presenza. Con la sua sfacciata sacralità vive la storia da sopra un piedistallo e rimane distaccata dagli altri personaggi. Nella Turandot è come se ci fossero due storie separate, quella della principessa (ma di questo parleremo in seguito) e quella di tutti gli altri personaggi che, più umani e più vicini al nostro modo di intendere e vivere la vita, muovono i loro passi, quasi fossero una sorta di scenografia mobile, ruotando intorno alla irreale figura femminile della protagonista.
Due personaggi così dissimili, Tosca e Turandot, ma allo stesso tempo così affascinanti. In modi diversi riescono a raggiungere lo spettatore coinvolgendolo più di quanto ci si attenderebbe da una finzione teatrale.
Se ci riferiamo a Floria Tosca può sembrare normale. È un personaggio meno fiabesco e più confrontabile al nostro mondo (ricordo che la storia è ambientata a Roma nell’anno 1800). Lo spettatore può facilmente fare propri i sentimenti della bella soprano.
Meno ovvio è che la stessa cosa avvenga con un personaggio anomalo come la gelida principessa della Turandot. Innanzitutto per l’ambientazione esotica e astrattamente reale. In secondo luogo per il carattere ostile e gelido della protagonista, il quale dovrebbe favorire l’allontanamento di ogni buon sentimento. Avviene invece il contrario. Ognuno si aspetta che il principe Calaf riesca a risolvere gli enigmi, non tanto per la posta in gioco, che è la vita, ma soprattutto per l’affascinante difficoltà di un amore improbabile, del quale però non si riesce a dubitare neanche dopo la morte della piccola Liù tra atroci sofferenze.
Tutti aspettano di veder capitolare Turandot. Tutti attendono quell’amore che con tanto accanimento vuole tenere lontano da sé. Alla fine dell’opera rimane un senso di stordimento e sembra strano poterlo affermare, ma la morte della piccola schiava sembra lontana e poco importante. Turandot e Calaf, con il loro ardente amore, sono il centro del mondo. Tutto il resto ruota intorno.
Sembra appunto un’altra delle anomalie alle quali il nostro Puccini ci ha abituato. Il più volte citato microcosmo di coppia si completa solamente negli ultimi minuti dopo aver oscillato più volte tra un particolarissimo terzetto di personaggi: Calaf, Liù e Turandot.
Tosca e Turandot ci appaiono quanto mai personaggi dissimili e protagonisti di due ere/mondi diversi, del tutto inavvicinabili. La maestria di Puccini è quella di trasportarci ogni volta in mondi diversi (ricordiamo ancora una volta Madama Butterfly e La fanciulla del West) e darci emozioni proprie delle più disparate realtà, sia nella Roma del diciannovesimo secolo che in una immaginaria e fiabesca Pechino.
Ogni volta un viaggio nel tempo e nello spazio, sempre meravigliosamente vivo e, nei limiti della finzione scenica, reale.


8. LA PICCOLA LIÙ, FULCRO DELL’OPERA

Dopo tanto parlare siamo finalmente giunti al personaggio chiave di tutta l’opera, non a caso il più caro allo stesso Giacomo Puccini.
Fino a questo momento abbiamo presentato il fantastico mondo della Pechino pucciniana in modo che apparisse evidente il carattere fiabesco dell’opera, a partire dalle origini teatrali del Gozzi, fino al carattere stereotipato dei personaggi, così incentrati su pochi sentimenti, soprattutto amore e odio, ma così incredibilmente focosi e vivi.
Tutto questo caratterizzare in modo così netto non avrebbe lo stesso risultato drammatico se a riequilibrare il tutto non intervenisse un personaggio più “umano” quale la piccola Liù.
Insieme al padre di Calaf, Timur, e all’imperatore, Altoum, i quali ricoprono un ruolo nettamente secondario, è l’unica che cerca di portare razionalità e buon senso laddove sembra ci sia solo follia rabbiosa.
Se ci fermiamo a riflettere sul personaggio del principe ignoto ci renderemo subito conto di quanto sia improbabile un amore come il suo, nato all’istante e già pronto a sacrificarsi nella morte. La storia ci coinvolge e la finzione, della quale siamo sempre consapevoli nonostante la completa immersione nell’opera, stempera i nostri dubbi. Il sacrificio al quale si presta Calaf sembra la normale conseguenza del suo amore.
Altrettanto possiamo dire della principessa di morte, la crudele Turandot, così immersa nel suo ruolo di atroce mietitrice che fa apparire improbabile e remota la possibilità di un lieto fine.
In mezzo a questi eccessi spicca la dolcezza passionale e l’umanità di una schiava, di nascita e d’amore, legata a un gesto semplice e spontaneo: un sorriso.
È Liù che lega i due protagonisti di questa inverosimile storia d’amore, dapprima cercando di salvare la vita del proprio padrone, poi trovando le parole giuste per fronteggiare colei che tutti temevano, in una commovente e lacrimevole spiegazione sul significato dell’amore.
Non è un caso che in passato molti dei più grandi soprano abbiano deciso di interpretare Liù anziché Turandot. Un personaggio di sicuro più coinvolgente e umano che permette anche una vasta possibilità di sfumature e che non lascia impassibile lo spettatore. Un personaggio di colore, da primadonna.
Ma a parte la particolarità del personaggio in quanto veicolo d’emozioni, il personaggio di Liù è, insieme a Calaf e in parte ai tre ministri, il personaggio che teatralmente ha la parte più sviluppata, in contrapposizione alla staticità della principessa che in qualche maniera vuole rappresentare anche la staticità di sentimenti.
Un personaggio completo che reclama quindi un ruolo di assoluto protagonista. Senza la piccola Liù non sarebbe esistita l’affascinante atmosfera dell’altrimenti fatiscente Pechino e il lavoro di Puccini non avrebbe trovato quegli sbocchi drammatici che la caratterizzano così intensamente.
Più volte vediamo il principe Calaf esporre il suo lato più umano proprio in contrapposizione al sincero e disinteressato amore della schiava. Nel primo atto quando con tenera passione chiede alla donna di rimanere al fianco del vecchio padre, solo sulla strada dell’esilio, e nel momento drammatico della morte di lei, allorché per la prima volta il principe inveisce contro gli artefici di quelle sofferenze, minacciando atroce vendetta.
La stessa Turandot rimane colpita dal modo in cui la donna affronta le sofferenze imposte dall’amore e per la prima volta emerge il dubbio in una donna che mai aveva saputo guardare dentro di sé. In punto di morte è Liù che assesta il primo colpo alle certezze della principessa, facendola vacillare.
Liù quindi può a tutti gli effetti essere definita il fulcro della Turandot, la forza motrice dell’intera opera.
Possiamo comprendere allora perché lo stesso compositore avesse un debole per questo meraviglioso personaggio. Puccini ha caratterizzato sempre personaggi dalle tinte molto forti, passionali e coinvolgenti. La piccola Liù è forse il personaggio che risalta maggiormente, sia per le proprie qualità intrinseche, sia per il mondo nel quale è proiettato che ne favorisce e amplifica lo splendore.
Liù quindi, nonostante l’aggettivo con il quale la si apostrofa, non è piccola, ma superbamente grande. Un personaggio immenso.


9. L’ATMOSFERA DELLA «TURANDOT»

Abbiamo già discusso abbondantemente dei personaggi e dell’ambientazione della Turandot, ma se è vero che la storia avviene in una fiabesca Pechino, è anche vero che si deve respirare una reale atmosfera orientale in modo da poter aprire il nostro animo a una non meglio precisata realtà esotica.
Come abbiamo già avuto modo di anticipare nei primi capitoli Puccini riesce a rielaborare alcune melodie tipiche dell’oriente e a farle parte integrante della sua opera. Ma se a volte è facile individuare queste melodie altre volte dobbiamo accontentarci di assorbire l’esotismo attraverso gli espedienti musicali proposti dall’autore, capace di creare con la musica atmosfere così particolari da sembrare veramente appartenenti a un’altra cultura.
Una volta che Puccini ci ha accompagnato dentro questa particolare realtà esotica rimane difficile alienarsi da tale mondo e avvertirne la lontananza.
Ogni opera di Giacomo Puccini è frutto di una continuità melodica che cattura l’ascoltatore dalla prima nota e lo lascia solo al termine dell’atto, concedendo un breve momento di distacco. Una vibrazione continua capace di ipnotizzare chiunque sia all’ascolto, immergendolo a fondo nel mondo creato per lui.
Le varie melodie si susseguono senza soluzione di continuità in un alternarsi fluido di alti e bassi, ma senza sciogliere, neppure nei momenti di minore intensità strumentale, il legame particolare creato con lo spettatore.
Non ci sono chiuse nette, come già anticipato quando parlavamo di Verdi, e una volta trovato il registro adeguato il maestro riesce tenere in vita l’effetto creato, concedendosi una chiusa a effetto solo nel finale.
Ma la componente musicale da sola non può supportare un intero impianto intento a ricreare un esotismo così ben marcato, non in un’opera lirica, almeno.
È a questo punto che intervengono personaggi chiave che danno spessore sia alla narrazione che colore all’ambientazione. I personaggi chiave di questo effetto orientale sono perlopiù i tre ministri: Ping, Pang e Pong.
Già abbiamo detto di come possano risultare strani i nomi di questi tre personaggi e abbiamo sottolineato il fatto che sostituiscono personaggi tipici della cultura italiana quali Tartaglia, Pantalone, Truffaldino e Brighella. Nella trasposizione in opera lirica il loro numero è ridotto a tre e i nomi scelti servono a garantire quel carattere orientale che poteva dare una maggiore resa esotica.
Inoltre ai tre ministri viene associata la maggior parte delle melodie originali cinesi in modo che l’effetto non sia conseguenza solo del loro nome.
Durante il primo atto appare poco evidente questa caratterizzazione musicale, ma all’apertura del secondo atto ci rendiamo conto che Puccini ci sta un poco alla volta immergendo in quel fantastico mondo immaginario.
I tre ministri descrivono la loro vita con nostalgiche melodie e si abbandonano ai ricordi di un’esistenza più felice. Forse per la prima volta ci rendiamo conto dell’ambientazione orientale. Infatti nel primo atto le emozioni si susseguono a tale ritmo e con tale intensità che l’ascoltatore viene trascinato inconsapevole verso l’esplosivo finale. È solo con il secondo atto, prima che il rito inizi, che abbiamo qualche minuto per allentare la tensione e riflettere.
Nella Turandot ogni personaggio gioca un ruolo ben preciso e nulla è lasciato al caso. In questo modo quelli che nel primo atto sembravano i ministri della morte ora ci appaiono sotto una luce diversa, più morbida e umana. Insieme alla piccola Liù riescono a creare intorno ai due personaggi principali una specie di morbido cuscinetto e ammortizzano i duri contrasti emotivi dei due protagonisti.
Non raggiungono il coinvolgimento né lo spessore emotivo della schiava Liù, ma senza il loro intervento l’atmosfera dell’intera opera risulterebbe più opaca e meno efficace.
In una storia ambientata in un mondo fiabesco è importante che l’ascoltatore possa percepire in modo evidente la lontananza e il distacco dal proprio mondo. Solo così è possibile accettare tutte le incongruenze che inevitabilmente si presentano (come già accennato, per esempio, riguardo al carattere stereotipato di Calaf e la principessa) e allo stesso tempo sentirsi partecipi delle vicende.
I tre ministri, quindi, oltre a svolgere un importante ruolo di collegamento tra le varie parti, come la stessa Liù, danno un significativo colore esotico all’ambientazione, ricoprendo un ruolo indispensabile per l’intera struttura dell’opera.


10. LA TRASFORMAZIONE DELLA PRINCIPESSA TURANDOT

Più volte parlando dell’ultima opera di Puccini abbiamo sottolineato il fatto che sotto certi aspetti le anomalie e le rotture con la tradizione precedente sono innumerevoli.
In questo capitolo affronteremo un aspetto che in modo del tutto particolare mette in evidenza un altro aspetto molto singolare della Turandot.
Abbiamo accennato in precedenza alla trasformazione della gelida principessa, e l’abbiamo messa in relazione prima alla piccola Liù, poi ne abbiamo sottolineato la particolare singolarità quando abbiamo accennato alla forte caratterizzazione del personaggio, così statico, rigidamente sacrale, eppure così repentino nel suo cambiamento finale.
Ebbene, i mutamenti emotivi che coinvolgono la bella principessa possono in qualche modo essere estrapolati dal contesto e messi in evidenza come una trama nella trama.
In effetti, l’evento più marcato che caratterizza l’intera opera è proprio lo sgelamento cui è soggetta la principessa. Se volessimo concentrare la nostra attenzione solo su di lei potremmo osservare un processo che dall’inizio del secondo atto (momento in cui entra realmente in scena Turandot) fino al termine del terzo atto porta a una totale e graduale (seppur con qualche sbalzo) trasformazione del personaggio.
Il personaggio da cui è tratta la principessa, e qui ci riferiamo sempre all’originale di Carlo Gozzi, non era ammantato della tragicità della Turandot pucciniana. Per rendere efficace il personaggio Puccini ha dovuto compiere un lungo lavoro di caratterizzazione. Nel finale dell’opera in parte ha volto lo stesso processo, però seguendo la via contraria, in modo da restituire alla principessa parte di quell’umanità che aveva sottratto.
Ma per raggiungere l’obiettivo prefissato il compositore non ha lavorato solo sul personaggio. La trasformazione non sarebbe stata così evidente ed efficace se non fosse stata supportata da alcuni elementi significativi sin dall’inizio dell’opera.
Il processo che porta alla progressiva umanizzazione della protagonista è reso evidente da una serie di contrapposizioni che appaiono in modo chiaro sin dall’inizio: tramonto e alba, luna e sole, amore e odio, crudeltà e asservimento. Ma questi opposti si potrebbero contare all’infinito in un’opera come la Turandot: vita e morte, vittoria e sconfitta, freddo e caldo. Tutti questi elementi rendono evidente il contrasto che dilania la stessa Turandot, la quale, alla nuova alba, illuminata dalla luce del sole, si scopre umana e ardente d’amore.
Turandot quindi potrebbe essere elevata a trama stessa dell’opera, e in effetti tutto ruota intorno alla sua figura, così statica fisicamente, ma fluida e controversa nell’intimo. Puccini riesce a condurci oltre l’aspetto formale di un personaggio idealizzato e senza banalizzare ci rende partecipi delle sue più intime controversie.
Un lavoro più complesso di quello che può sembrare a un primo ascolto, la Turandot. Un’opera che nasce da una fiaba e che sa portare in alto con efficacia le emozioni più forti e instabili dell’uomo, in una sequenza ininterrotta di trasformazioni e un alternarsi continuo di odio e amore, paura e gioia.


11. ARIE CELEBRI

Fino a ora abbiamo analizzato l’opera nel suo complesso, soffermandoci perlopiù all’analisi dei personaggi e agli espedienti di Puccini per creare l’atmosfera generale. Ma i momenti che rimangono impressi nella memoria generale sono quelli delle grandi arie cantate dai protagonisti principali.
Come abbiamo già avuto modo di dire in Puccini non troviamo le cosiddette cavatine, momenti in cui un personaggio, isolato dal contesto generale si esibiva nel proprio pezzo, ma questi momenti particolarmente melodici sono inseriti in modo organico nel contesto generale dell’opera.
Le arie principali, quelle più famose per l’appunto, sono generalmente interpretate dai protagonisti della storia (non a caso molte della arie sono per tenore e soprano) e a volte può essere significativo fare un’analisi di questo dato per renderci effettivamente conto della particolare importanza data dal compositore al ruolo stesso.
Senza soffermaci ancora a citare Puccini, è possibile menzionare numerose e famosissime arie dei più significativi personaggi dell’opera: Di quella pira (Trovatore, Verdi), Casta diva (Norma, Bellini), La donna è mobile (Rigoletto, Verdi), Una furtiva lagrima (L’elisir d’amore, Donizetti).
Anche nella Turandot troviamo arie di altissimo livello (forse il Nessun dorma è l’aria più famosa a livello mondiale) e a sottolineare il discorso fin qui portato avanti è interessante notare che i personaggi coinvolti sono sempre gli stessi: Liù, Calaf, Turandot.
La prima aria importante che troviamo è proprio per la voce della piccola Liù, questo a evidenziare ancora una volta il ruolo di particolare importanza ricoperto dalla giovane schiava. Calaf ha deciso di affrontare gli enigmi della principessa. Nessuno riesce a dissuaderlo. Ci prova ancora una vola Liù con una commovente preghiera:

Signore, ascolta! Ah, signore, ascolta!
Liù non regge più, si spezza il cuor!
Ahimè, quanto cammino col tuo nome nell'anima,
col nome tuo sulle labbra!
Ma se il tuo destino doman sarà deciso,
noi morrem sulla strada dell'esilio.
Ei perderà suo figlio, io l'ombra d'un sorriso.
Liù non regge più! Ah!

Una preghiera dolce e malinconica, ancora in ricordo di quel sorriso del suo signore, lontano nel tempo. Ma Calaf è ormai deciso e cerca di alleviare il dolore della giovane, chiedendole di rimanere a fianco del padre, che dopo la sua morte non avrà più nessuno al mondo:

Non piangere, Liù!
Se in un lontano giorno io t'ho sorriso,
per quel sorriso, dolce mia fanciulla, m'ascolta:
il tuo signore sarà domani, forse solo al mondo…
Non lo lasciare, portalo via con te!
[…]
Dell'esilio addolcisci a lui le strade!
Questo, o mia povera Liù,
al tuo piccolo cuore che non cade,
chiede colui che non sorride più!

E il primo atto termina con un intreccio di emozioni cantate a più voci da tutti i personaggi entrati in scena. Un finale maestoso e memorabile quanto un’aria famosa, con gli spettatori senza fiato e travolti dalla potenza emotiva della musica.
Il secondo atto si apre, come precedentemente detto, con il terzetto dei tre ministri, ma il momento cruciale inizia quando entra in scena l’imperatore, con lo splendido coro di giubilo d’accompagno e successivamente quando prende la parola Turandot. Con il modo che la caratterizza la principessa inizia in modo freddo, ma un poco alla volta le splendide melodie del suo canto ipnotizzano e la fredda staticità della gelida conquista anche lo spettatore:

In questa reggia, or son mill'anni e mille,
un grido disperato risonò.
E quel grido, traverso stirpe e stirpe
qui nell'anima mia si rifugiò!
Principessa Lou-Ling, ava dolce e serena
che regnavi nel tuo cupo silenzio
in gioia pura, e sfidasti inflessibile e sicura
l'aspro dominio, oggi rivivi in me!
[…]
Pure nel tempo che ciascun ricorda,
fu sgomento e terrore e rombo d'armi.
Il regno vinto! E Lou-Ling,
la mia ava, trascinata da un uomo come te,
come te straniero, là nella notte atroce
dove si spense la sua fresca voce!
[…]
O Principi, che a lunghe carovane
d'ogni parte del mondo qui venite
a gettar la vostra sorte,
io vendico su voi, su voi quella purezza,
quel grido e quella morte!
Mai nessun m'avrà!
L'orror di che l'uccise vivo nel cuor mi sta!
No, no! Mai nessun m'avrà!
Ah, rinasce in me l'orgoglio di tanta purità!
Straniero! Non tentar la fortuna!
Gli enigmi sono tre, la morte è una!

In un crescendo senza fine la principessa arriva al termine della sua storia e alla sua voce sia affianca il calore esuberante di Calaf:

Gli enigmi sono tre, una è la vita!

I due uniscono le voci e si raggiunge la meraviglia quando insieme ripetono l’ultimo verso, l’una sottolineando l’aspetto macabro, l’altro l’ottimismo.
Gli indovinelli della principessa chiudono in parte il secondo atto. Turandot è sconfitta dall’ignoto straniero ma non si rassegna. Puccini anticipa a questo punto la sua più celebre aria e lo fa sempre tramite Calaf:

Tre enigmi m'hai proposto, e tre ne sciolsi.
Uno soltanto a te ne proporrò:
Il mio nome non sai. Dimmi il mio nome.
Dimmi il mio nome prima dell'alba, e all'alba morirò

Trionfalmente arriviamo al terzo atto dell’opera. Il momento della trasformazione della principessa è vicino, ma per il momento è ancora intenzionata a scagliare contro il principe ignoto la propria ira. Vuole conoscere il nome dello straniero e ha ordinato che "nessun dorma in Pechino". Tutti devono impegnarsi per scoprire quel nome. Calaf osserva tutto con fare distaccato, sicuro della propria vittoria:

Nessun dorma! Nessun dorma!
Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza guardi le stelle
che tremano d'amore e di speranza...
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà…
Ed il mio bacio scioglierà
il silenzio che ti fa mia.
[…]
Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
All'alba vincerò! Vincerò!

E così si procede verso la fine. C’è ancora tempo per intensi duetti e momenti di alta tensione drammatica. Lo spettatore soffrirà per la morte della piccola Liù ("Tu che di gel sei cinta, da tanta fiamma vinta, l'amerai anche tu!") e patirà nei momenti finali vedendo crollare la bella principessa, in un susseguirsi di duetti e leitmotiv ricorrenti, fino al finale gioioso, pure questo anomalo e fonte di tante discussioni.


12. UN FINALE ANOMALO

Puccini non terminò mai la sua opera. A chi si interessava alle sue precarie condizioni di salute diceva di non preoccuparsi: il suo destino era legato a quello della piccola Liù.
E con la morte della piccola Liù anche il maestro morì. Il lungo lavoro svolto attorno ai personaggi, soprattutto riguardo alla protagonista, avevano esaurito le ultime energie del compositore, il quale non aveva trovato ancora lo spunto definitivo per le ultime scene, quelle cruciali della trasformazione.
Lasciò molti appunti e una traccia melodica sulla quale lavorò il maestro Franco Alfano, completando con molta coerenza il lavoro iniziato dal grande Puccini.
Rimangono molti dubbi legati al finale anomalo dell’opera. Non solo dal punto di vista strumentale e melodico, ma anche riguardo al finale stesso, così insolitamente a lieto fine. Puccini lavorando alla Turandot si allontanò molto dal suo filone tradizionale, realistico e passionale, quindi un finale diverso potrebbe essere la conseguenza di approccio particolare. Rimangono però molti dubbi, che non siamo in grado di sciogliere in questa sede.
Molti non apprezzarono il lavoro svolto da Alfano e lo stesso Arturo Toscanini, nel 1926 in occasione della “prima”, interruppe l’esecuzione alla morte della piccola Liù.
Mi sono permesso quindi di rubare un verso alla Traviata di Verdi definendo la Turandot “croce e delizia” dell’Opera italiana. Per molti aspetti quest’opera segna un punto di arrivo dell’intera tradizione operistica italiana. Dopo Puccini non ci saranno più compositori in grado di portare avanti in modo appropriato la tradizione italiana. Quello che verrà dopo (a livello internazionale) risentirà dell’influenza di un’opera che, seppur ritenuta da molti incompleta, ha fatto la storia della musica lirica mondiale. Un punto di arrivo, quindi, ma anche un punto di partenza.
Un’opera contraddittoria, che con tutte le sue particolarità riesce sempre a calamitare attenzione. Ma, soprattutto, riesce sempre a dare emozioni forti, a prescindere dal finale, che non rovina affatto l’intero impianto.
Molti hanno disprezzato il lavoro di Alfano, ma molti altri, tra cui il sottoscritto, ammirano il coraggio del giovane compositore, in grado di prendere tra le mani il più grande capolavoro della lirica novecentesca e consegnarlo alla storia.
Un ruolo difficile il suo, che lo ha relegato a compositore di secondo livello, conosciuto perlopiù per il suo lavoro sulla Turandot di Puccini che per i proprio lavori.
Franco Alfano visse, ed è relegato tuttora, all’ombra della Turandot, così come la piccola Liù visse all’ombra di un sorriso.