I Miserabili
GIORNALE DI LETTERATURA E MONDO FONDATO DA GIUSEPPE GENNA NEL 2002
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Praz: 'La lezione delle rovine'
di MARIO PRAZ

La teleologia della materia organica è la morte, sicché ogni qualvolta una persona medita sulla sua condizione di creatura, gli si presenta un’immagine delle rovine del tempo: sono parole della conclusione dello studio di Laurence Goldstein su Ruins and Empire, The Evolution of a Theme in Augustan and Ramantic Literature (University of Pittsbourgh, 1977). Il tema dell’opera non è il gusto per le rovine che si sviluppò fin dal periodo barocco, la cui estetica sostitui al principio dell’armonia quello del contrasto, dal quale scaturiva il concetto, l’agudeza, e la categoria del bizzarro, onde si cominciò a introdurre nella pittura di paesaggio la rovina come contrappunto; il tema è bensi quello più antico, il motivo dell’Et in Arcadia ego, della meditazione sulla fine di tutte le cose di questo mondo, che prelude si alla sensibilità romantica, ma risale a più antiche origini.
Già Properzio si lamentava sulle rovine di Veio e sulla defunta grandezza di questa città:

Heu Veii veteres, et vos tum regna fuistis … Nunc intra muros pastoris bucina lenti / Cantat, et in vostris ossibus arva metunt

Ahi antenati di Veio, e voi che un tempo foste re … Ora tra le mura il corno del pastore canta lento, e tra le vostre ossa mietono i campi [IV, 10]


(Nelle altre elegie di questo libro il poeta celebra la Roma splendidamente sorta dove erano una volta i pastori, ma non prevedeva anche lui che un giorno quel che allora diceva di Veio sarebbe stato detto di Roma?). Venanzio Fortunato nel VI secolo, e l’anonimo autore anglosassone della Città diruta cantarono nei loro versi la rovina delle città e, primo fra gl’italiani, Petrarca trattò il tema delle rovine di Roma che Du Bellay riprese nel Cinquecento. Il carattere patriottico dell’evocazione di Petrarca dette inizio a una tradizione che continuò con Vincenzo da Filicaia e Alessandro Guidi, e trovò eco in Leopardi; e il tema era quello del rimpianto per lo splendore passato e la meditazione sulla caducità delle cose umane; e il poeta arabo Adi Ibn Zaid fu chiamato il poeta delle rovine perché trattò l’eterno soggetto dell’abi sunt qui ante me in mundo fuere [se ne sono andati coloro che prima di me furono nel mondo] sotto l’influsso ascetico del Vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste; un soggetto, infine, di sermone religioso.
E tale ritorna in Thomas Browne:
Sussistere nelle ossa e permanere piramidalmente è un calcolo di durata sbagliato ... Vane ceneri che son ricordate dai posteri solo come emblemi di vanità, antidoti contro l’orgoglio, la vanagloria e i vizi che disennano.
E ritorna nelle famose Notti (1742–45) di Edward Young, nei Pleasures of Meloncholy (Piaceri della malinconia, 1747) di Thomas Warton, che visita le rovine per mortificare il suo amore per le cose terrene e invidia l’eremita che si pasce della vista delle rovine di Persepoli. L’angolazione dello studio del Goldstein (come quella del nostro Giorgio Melchiori nel trattare dei sonetti di Shakespeare in L’uomo e il potere, Einaudi, Torino 1973) è squisitamente politica: studia il sentimento delle rovine come determinante della prassi e della condotta in un periodo di espansione imperiale quale si ebbe in Inghilterra dal Settecento, e in America dall’Ottocento fino ai nostri giorni. Particolare rilievo vien dato all’opera di un poeta minore del Settecento, John Dyer, che in un lungo poema didascalico, The Fleece (Il Vello, 1757) raccomandava una forma perfezionata di pastorizia come cura pei mali sociali o spirituali:
Il pastore s’innalza in eminenza spirituale al di sopra dei ceti privilegiati e perfino al di sopra della regalità, perché il pastore è il vero maestro dei riti dell’atemporale, il vero padrone dei frutti della natura e delle gioie della natura. [Si pensa a simile raccomandazione fatta oggi da George Nelson Page, I figli della scimmia, Virginia Editrice, Roma 1977, e implicitamente da Pietro Citati in I frantumi del mondo, Rizzoli, Milano 1978]. L’architettura e le strutture sociali erette in più delle necessità basilari dell’uomo cadranno in rovina o saranno sostituite; la semplice casa che l’uomo costruisce, i campi e gli animali a cui attende rappresentano le principali risorse sue proprie e del suo paese ... Il corso ruotante del possente Tempo, che atterra l’elevatezza, abbatte la cima dell’olimpo, e innalza l’umile valle. Dov’è la maestà dell’antica Roma? ... Tutto è perduto nella solitudine della rovina, l’orribile macello della guerra, la polvere della vana ambizione.
Dyer venne in Italia e detestò Roma (è vero che ci si buscò la malaria); ne scrisse un poema, The Ruins of Rome: le rovine gl’ispirano il senso della vanità dell’ambizione; a Roma violenza e morte essudano da ogni parte; sbarra gli occhi contemplando la cavea del Colosseo quasi fosse il maelstrom; attraversare questo paesaggio di rovine è come sprofondare nell’orrore del nulla.
Il Tempo che tutto divora qui siede sul suo trono di canute rovine. Il destino dell’Inghilterra è nelle mani degli allevatori di greggi e dei mercanti; e qui il Goldstein vede un influsso della politica whig che voleva scalzare non solo il potere della monarchia, ma anche la manomorta dell’influenza perpetuata attraverso le grandi famiglie. Ma come James Thomson, l’autore delle Stagioni, Dyer professa lealtà a due miti inconciliabili, quello di una pastorale età dell’oro, e quello dell’espansione dell’impero. Finì coll’elogiare le città manifatturiere, Birmingham e Manchester, e colla speranza che, col crescente dominio dell’uomo sulle macchine, si ottenesse il benessere anche dei meno abbienti. Ma lo spettro delle rovine non l’abbandonava; al principio del Vello troviamo allusioni a Stonehenge, al Vesuvio, a Pompei ed Ercolano. Il Tempo, scrive lo Young, simile a Sansone, sradica i pilastri che sostengono il mondo e giace seppellito nelle vaste rovine della natura, e la tenebra di mezzanotte, la tenebra universale regna sovrana.
Ogni momento chiude la tomba di quello che l’ha preceduto, ogni momento è armato di falce.
Per mantenersi in questo clima apocalittico Young copriva le finestre del suo studio e ammucchiava teschi intorno a sé quando meditava o componeva. Questi poeti ‘sepolcrali’, Young e Blair, caldeggiavano il ritiro e l’allontanamento dall’appetitivo mondo di Babilonia, e l’effettuavano sistemandosi in confortevoli parrocchie la cui pastorale economia, squisitamente ritualizzata e convenzionale, non mancava di un valore intrinseco. Il carattere conservativo della letteratura ‘sepolcrale’ deve molto a questo desiderio di essere lasciati in pace. Un carattere conservativo che fece scrivere a Young anche versi che potrebbero figurare in un’antologia dell’imperialismo inglese. L’esempio di Roma e la convinzione che
il superbo impero del commercio s’incammina verso una rapida fine
fecero sì che Oliver Goldsmith considerasse l’espansione coloniale inglese una impresa di estrema follia, e la lezione che la storia romana insegnava a Gibbon era che l’umano progresso
è stato irregolare e vario, infinitamente lento dapprincipio, e procedendo grado a grado con velocità raddoppiata, periodi di laboriosa ascesa sono stati seguiti da un momento di rapido declino.

Anche per Wordsworth le rovine – nel suo caso Stonehenge – sono un emblema della Caduta; la poderosa cerchia di megaliti l’impressiona come il Colosseo aveva terrorizzato Dyer, un luogo di sacrifici umani che serrava le vittime da ogni parte. Stonehenge è l’emblema del folle Leviatano inglese: il poeta paragona quel che si sa e s’intuisce di quei tempi remoti con certi aspetti della società moderna, e con calamità, specialmente quelle derivanti dalla guerra; questi megaliti fanno la civiltà e la violenza entità storiche coeve. Anche Wordsworth pensò di ritirarsi dal tumulto del mondo e dalle rovine della storia tirannica, in un’oasi di tranquillità, Grasmere, e immaginò che Pan lo consolasse:
Sii grato, tu, perché, se empie azioni straziano il mondo, qui c’è la tranquillità.

In un primo tempo, come è noto, Wordsworth aveva accolto con entusiasmo gl’inizi della Rivoluzione francese, scusandone anche gli eccessi, come quelli d’un fanciullo sfrenato (e pensa a Ercole pargolo che strozza i serpenti). Volney, nelle Rovine (1791), nello spirito dell’illuminismo aveva opposto alla demolizione della Bastiglia, simbolo dei tiranni, la nuova piramide che il popolo avrebbe costruito, la piramide ideale di una giusta legislazione. Ma Wordsworth s’accorse poi che la Rivoluzione, come il flagello delle locuste, impersonava il principio dell’espansione infinita e finiva con l’adottare il modello imperiale che aveva prima deposto. Il poeta sogna (nel Prelude) d’incontrare un arabo che reca una pietra e una conchiglia; quando il sognatore si accosta la conchiglia all’orecchio, ode un messaggio che pronostica la distruzione dei figli della terra per un imminente diluvio: una visione apocalittica alla maniera di quelle dei poeti sepolcrali. Di più in più nel corso degli anni Wordsworth fu affascinato dalle moli monumentali, costruzioni simboliche investite, nella loro funzione di rovine, di una virtù didattica di memento mori. Le rovine di Lowther però lo fanno pensare alle tramontate glorie d’Inghilterra e sospirare:
D’ora in ora si gonfia il torrente democratico,
un verso che ci ricorda la famosa frase del Piacere di d’Annunzio,
il grigio diluvio democratico odierno che molte belle cose e rare sommerge miseramente,
a proposito della decadenza dell’aristocrazia romana (non che d’Annunzio in questo caso plagiasse Wordsworth).
È soprattutto la distruzione della verginità del Nuovo Mondo che conferì un’eccezionale intensità alla visione dei cicli della storia, presentata in una serie di cinque quadri (completata nel 1836) di Thomas Cole, emulo americano di John Martin, il pittore apocalittico inglese. La prima scena rappresenta lo Stato selvaggio in tutta la sua freschezza di mondo appena emerso dal caos, la seconda l’Epoca arcadica o pastorale con la sua serenità, la terza scena l’Apogeo dell’impero con templi, palazzi e colonnati che quasi nascondono la montagna all’orizzonte che è il punto di riferimento di tutta la serie, come la luna lo è nei due ultimi quadri della famoia serie Passato e presente del vittoriano Augustus Egg che rappresenta la rovina d’una famiglia per l’adulterio della moglie (si noti che in tutto l’Ottocento furono frequenti anche nella narrativa le storie di una famiglia nel tempo, dai Rougon–Macquart ai Buddenbrooks). Infine la Distruzione dell’impero e la Desolazione dell’impero con la natura che riprende il sopravvento sulle rovine. La transizione dalla fase arcadica a quella della gloria imperiale era osservata con malinconia dal Tocqueville (Democrazia in America, Cappelli, Rocca San Casciano 1962):
È quest’idea di distruzione, questo concetto di prossimo e inevitabile cambiamento che a nostro parere dà un carattere così originale e una bellezza così commovente alle solitudini americane. Le si contemplano con un piacere velato di malinconia. In un certo senso ci si affretta ad ammirarle. L’idea di questa grandiosità naturale e selvaggia destinata a perire si mescola con le superbe immagini che la marcia della civiltà fa sorgere. Ci si sente orgogliosi di essere uomini, e al tempo stesso si prova non so che rimpianto pel potere che DIo ci ha dato sopra la natura. L’anima è agitata tra questi sentimenti contrari. Ma tutte queste impressioni che riceve sono buone e lasciano un segno profondo.

Ma il poeta Bryant nel 1865 ammoniva circa l’Utility of trees (Utilità degli alberi), e inseriva una poesia in cui un indiano, lamentando lo scempio delle foreste secolari, concludeva:
Ma io scorgo un pauroso segno a cui gli occhi dell’uomo bianco son ciechi: anche la sua razza potrà svanire da qui come la mia e non lasciar traccia, salvo sparse rovine e bianche pietre sui morti.

[Scritto nel 1978, ora in Studi e svaghi inglesi, Garzanti, Milano 1983, vol. II, pp. 178–182]




Pubblicato da Giuseppe Genna , il Sabato 19 Marzo 2005

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