[FRA TRIONFO DELLA TECNICA E FINE DEGLI ASSOLUTI, UNO SGUARDO MENO
TRAGICO SUL SUO PENSIERO È POSSIBILE Heidegger: Dio è morto? Parliamone IL primo
risultato del colloquio svoltosi l'altra sera a Milano su iniziativa della casa
editrice Bompiani per l'uscita della nuova traduzione di un'opera di Martin Heidegger
(Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero) è stato, per dir
così, numerico. Una folla straripante ha riempito il teatro Franco Parenti, in
una sorta di Palavobis filosofico che dovrebbe dar da pensare a chi dice con
sicumera che «con Heidegger non si va da nessuna parte». Magari vedendo in
questo successo di pubblico il segno di una deriva della filosofia verso la
moda, o al massimo un sintomo del clima di disperazione intellettuale in cui,
con molte buone ragioni, sembra che siamo caduti in questa vigilia di guerra.
Se «solo un Dio ormai ci può salvare», come disse il filosofo nella sua ultima
intervista, o addirittura solo Heidegger, stiamo freschi. Sia nella sua grande
opera inaugurale del 1927, Essere e tempo, sia nei suoi scritti più
tardi, Heidegger propone una filosofia che difficilmente si può intendere come
un messaggio di salvezza. Nell'opera del 1927, il tratto costitutivo
dell'esistenza dell'uomo era indicato nella sua mortalità; e «decidersi
anticipatamente per la propria morte» era la sola via, se non per salvarsi dalla
fine, per vivere in modo autentico (libero, autonomo, non prigioniero della
chiacchiera) l'esistenza terrena. In fondo, anche dopo gli svolgimenti che il
pensiero di Heidegger ebbe in seguito, fino all'anno della morte nel 1976, il
problema del senso della sua filosofia rimane legato all'interpretazione di
questa tesi. Anche nel dibattito dell'altra sera, dove - soprattutto da parte
di Giovanni Reale e Franco Volpi - si sono tra l'altro esplorati
filologicamente vari aspetti della biografia intellettuale del filosofo e del
suo stile di scrittura, la questione principale ruotava ancora intorno al senso
da dare al tema della finitezza e della «salvezza» che Heidegger promette o
nega in modo radicale. Allo spirito originariamente «pessimista» di Essere
e tempo si legano le letture che hanno proposto (non solo nel dibattito, ma
nelle loro varie opere) pensatori come Emanuele Severino e Massimo Cacciari.
Il primo, insistendo sul tema della tecnica come destino dell'umanità
contemporanea, che Heidegger ha analizzato lucidamente come esito nichilistico
dell'intera storia occidentale. La cultura dell'Occidente culmina infatti nella
«messa a disposizione» di tutti gli enti nel quadro di una scienza-tecnica che
li manipola e li trasforma, con il rischio conclusivo di rendere anche l'uomo
manipolante un oggetto manipolato. Heidegger - secondo Severino - ci ha messo
lucidamente di fronte a questo destino, ma non ha indicato alcuna via di uscita
utile. Anche per Cacciari la cosa sta così: ma mentre Severino sembra sempre far
intuire che una via di salvezza forse c'è, fuori di Heidegger, in Cacciari la
problematica salvezza stessa consiste nel sostare in modo meditante dentro la
condizione di tragica problematicità che Heidegger ci invita a riconoscere.
Paradossalmente, giacché Heidegger è famoso (e famigerato) per la frase sulla
scienza che «non pensa», uno sguardo meno tragico sul suo pensiero è venuto da
un filosofo della scienza, Giulio Girello, che ha mostrato, richiamando i
colloqui tra Heidegger e Werner Heisenberg, quanto vicine siano certe tesi
heideggeriane alle prospettive aperte dalla fisica quantistica. Giorello si è
anche richiamato allo scritto heideggeriano del 1946, la cosiddetta Lettera
sull´umanismo, per mostrare che nella critica là proposta della idea occidentale
di uomo (come soggetto che si realizza nel dominare gli oggetti fuori di lui)
c'è anche una possibile apertura verso nuove forme di esistenza rese possibili,
o necessarie, dagli sviluppi di scienza e tecnica. Insomma, come ha sostenuto
anche chi scrive, in Heidegger non c'è salvezza solo se lo si guarda dal punto
di vista della tradizione umanistica e metafisica che proviene dai Greci e
culmina nell'idea dell´«oltreuomo» di Nietzsche. Si sa che Heidegger ha
dedicato molti dei suoi corsi universitari degli anni Trenta allo studio
dell'opera di Nietzsche. E la tesi di quest'ultimo sul nichilismo (Dio è morto,
non ci sono più assoluti e certezze ultime) come conclusione «logica» del corso
del pensiero e della civiltà dell'Occidente (che Heidegger chiama la «terra del
tramonto», in cui l'essere stesso declina e si disfa) è anche la tesi di
Heidegger. Il quale però, in modo più esplicito di Nietzsche, vede proprio nel
mondo della tecnica, che dissolve l'oggettività delle cose in manipolabilità
universale, anche l'inizio di un'epoca in cui il compito dell'uomo non sarà più
tanto quello di adeguarsi all'essere come dato obiettivo, bensì nel
trasformarlo liberamente in collaborazione e dialogo con gli altri umani.
Insomma: nel mondo del nichilismo non ci sono più assoluti, e anche limiti
«naturali» insuperabili - che, come già aveva visto Marx, sono solo invenzioni
ideologiche di coloro che vogliono comandare in loro nome; ci sono però gli
altri, che sono, come ciascuno di noi, «progetti gettati», aperture sul mondo,
con i quali dobbiamo accordarci perché se no anche il nostro individuale
discorso non avrebbe senso. Un verso di Hoelderlin che Heidegger cita spesso
suona: «da quando siamo un dialogo». Non per niente uno dei pensatori che più
coerentemente hanno sviluppato l'insegnamento di Heidegger è stato Hans Georg
Gadamer, più volte evocato nel corso del dibattito milanese, il teorico
dell'ermeneutica, ossia di una filosofia che riconosce come costitutivo
dell'essere stesso il dialogo tra individui, generazioni, culture diverse. La
premessa che rende possibile una filosofia come l'ermeneutica è proprio il
nichilismo nel senso di Nietzsche e di Heidegger: la fine degli assoluti intesi
come dati oggettivi che l'uomo può solo riconoscere e cercare di rispettare anche
come norme. Ma, come ha insegnato già Hume, non ha senso trarre una norma da
un fatto (Sei uomo, dunque devi essere uomo. E perché? Se lo sono, lo sono già;
se no, perché dovrei esserlo?). Far consistere la verità nel dialogo tra
«progetti» ci evita intanto, per lo meno, di arrogarci il diritto di uccidere
altri (anche noi stessi) in nome della verità. E poi corrisponde all'esperienza
della scienza-tecnica del nostro tempo: che costruisce i propri esperimenti,
produce le sue macchine, fino alla comunicazione elettronica che non ha più il
senso «meccanico» per cui la filosofia ha diffidato per tanto tempo delle
macchine; siamo arrivati alla realtà virtuale, o anche solo all'Auditel: gli
ascoltatori possono anche far pesare le loro reazioni, persino Goebbels, per
parlare alla radio, oggi dovrebbe fare i conti con gli sponsor, la pubblicità,
i gusti (non infinitamente manipolabili) del pubblico. Il mondo dove la tecnica
può non avere solo il senso oppressivo che vi vede Severino è quello che
Heidegger descrisse profeticamente in un saggio del 1938 (compreso nel volume
ora ritradotto presso Bompiani, ma disponibile in italiano già da molti anni,
nella versione, secondo noi più leggibile, di Pietro Chiodi), intitolato L´epoca
dell´immagine del mondo. È la scienza stessa, dice là Heidegger, che con il suo
continuo specializzarsi rende impossibile mantenere una immagine unitaria del
mondo; e accompagnandosi alle lotte di potere (tra discipline, tra Stati,
industrie, gruppi sociali), dalle quali non sono affatto indipendenti, le
immagini del mondo vengono in conflitto tra di loro e rendono il mondo come
tale «incalcolabile». È in questo mondo che diventa, fortunatamente,
impossibile pensare l'essere come dato una volta per tutte, e si impara a
pensarlo invece come dialogo, conversazione, accordo. Non è poi tanto poco.