Un tempo, esisteva nel mondo quella qualità atroce,
quell'incomunicabile dono di natura, che Simone Weil chiamava "la
forza". Amava incarnarsi nel volto di Giulio Cesare: nel viso,
stranamente femmineo, di Augusto: nei lineamenti di Napoleone; e trovò
forse la sua ultima incarnazione nella figura massiccia di Stalin. La
forza si proponeva dei fini. Aveva immensi progetti: invadere popoli,
conquistare nazioni, allargare il potere, possedere l'universo,
spostare sempre più lontano i confini dell'orizzonte. Non pensava.
Centinaia di servi, sacerdoti e scrittori, elaboravano idee e filosofie
di ogni specie che giustificavano il suo potere come se fosse voluto da
Dio, anzi lo stesso Dio in terra. Non aveva scrupoli. Non conosceva
sfumature, penombre, mezzi termini, e non le importava di costruire i
propri trionfi sopra mucchi di cadaveri, teste tagliate e fiumi di
sangue. Trovava che nulla era più piacevole di quell'acuto odore di
sangue: nulla più sontuoso di quelle montagne di corpi sacrificati per
lei e ammucchiati ai suoi piedi.
Mentre gli altri uomini si lasciavano trascinare dalle passioni, il
potente era calmo, freddo, distaccato, contemplativo. Dominava le
proprie passioni, impediva al proprio io di esibirsi: rinviava,
pazientava, attendeva, preciso e oggettivo come lo sguardo che la
Stella Polare getta sul mondo. Se conosceva questa calma nella
tempesta, questa freddezza nello scatenamento, se dormiva senza sogni
la vigilia della battaglia che avrebbe deciso il suo destino, egli non
aveva bisogno di combattere. Il potere era già saldo nelle sue mani.
Quando agiva, aveva di fronte centinaia di possibilità che si
contraddicevano a vicenda: migliaia di particolari sui quali ciascuno
degli altri uomini avrebbe posato lo sguardo. Egli non scorgeva queste
possibilità, né questi particolari. Alzava il braccio, dava inizio alla
battaglia, lanciava una parola d'ordine semplicissima, inventava una
formula elementare, che coglieva una minima parte della realtà. Gli
altri uomini si chiedevano: "Come farà a vincere, se non capisce le
cose?". Ma proprio perché non capiva i particolari, il potente sapeva
aprire con la violenza le porte, per gli altri ostinatamente chiuse,
della realtà. Vi entrava, la possedeva, insediandosi come un sovrano in
questo luogo che non capiva.
Quanto gli uomini hanno adorato la forza: quanto hanno amato i loro
principi, tiranni, spietati massacratori. Nessuna qualità ha mai
esercitato più fascino della forza, suscitando una mescolanza
ripugnante di terrore e di attrazione: desiderio di adorare, di venire
schiacciati, umiliati e sacrificati. Tre massacratori come Napoleone,
Hitler e Stalin sono stati idolatrati. In molte città d'Europa vive
ancora qualcuno, che ha pianto tutte le sue lacrime quando Stalin - il
"padre" mite e buono - è stato portato via dalla morte. Alla fine, la
forza ripagava i propri succubi.
Quando il mondo era diventato suo, il potente mutava volto. Come il
sole allo zenit, lasciava cadere sui milioni di sudditi che si
agitavano ai suoi piedi, sui nemici che aveva ucciso, sugli uomini
ancora da nascere che avrebbero continuato ad adorarlo, un sorriso
stranamente amoroso. Nessun sorriso umano era dolce come questo sorriso
nutrito di sangue.
Da cinquant'anni, la forza è quasi scomparsa dal mondo occidentale. Gli
europei e gli americani moderni non l'amano più. Per decine di secoli,
hanno conosciuto i suoi orrori, le sue furie, il suo soffocante
dominio, il suo logorante potere. Ora vorrebbero vivere nel regno della
ragione, dove il commercio, la mediazione, il compromesso, il discorso,
forse l'amore sostituiscono l'urto degli eserciti in battaglia. Nella
società moderna, qualcosa ripugna profondamente alla forza. Le banche,
le industrie, i calcolatori hanno bisogno di essere avvolti e fasciati
dalla pace: tollerano, spesso provocano forme terribili di oppressione,
degenerazioni che soffocano l'animo quanto la più assoluta delle
dittature; ma la realtà della forza - con quell'odore di terra e di
sangue - ripugna alle loro narici delicate. Amano l'irrealtà: la
televisione e i computer ci introducono in un mondo irreale; mentre
nulla è più reale della forza.
Il potere si è diffuso. È immagine televisiva, parola detta o stampata,
libro che finge di essere innocente, partito, sindacato, musica
ripetuta fino all'ossessione, pubblicità, vestito innocentemente
indossato. Tutti ne posseggono una piccola parte; ed è difficile che si
produca quella paurosa concentrazione psicologica di potere, dalla
quale un tempo nasceva la forza. Quando ricorrono alla forza, gli
uomini moderni intervengono tardi, con dubbi e incertezze. Intervengono
con un tale accompagnamento di cautele e di riguardi da rendere
inefficaci le armi; e alla fine, quando tutto o quasi tutto è ormai
perduto, sovente impiegano la forza con un eccesso, che tradisce la
loro cattiva coscienza.
Se la Francia e l'Inghilterra avessero obbligato Mussolini ad
abbandonare l'Etiopia, se avessero salvato la democrazia spagnola, se
avessero impedito a Hitler di annettere Austria e Cecoslovacchia, -
l'Europa non avrebbe conosciuto il disastro. Questa storia si è
ripetuta senza fine nel dopoguerra: in Vietnam, in Ruanda, in
Jugoslavia, dove l'Occidente ha inviato i suoi aerei con molti anni di
ritardo. Il risultato di queste inquietudini, paure, cautele,
improvvisi furori sono state ondate di terrificante violenza.
Qualcuno ci dice: "Rinunciate alla forza", ripetendo agli uomini che si
odiano la parola del Vangelo. Certo, la parola del Vangelo deve essere
continuamente proclamata e ripetuta: la forza deve essere negata, la
violenza deve essere maledetta, nella speranza che il mondo si raccolga
alla fine nella nuova Gerusalemme celeste, attorno all'albero della
vita. Non dobbiamo mai dimenticare che Cristo sta per giungere: la
storia, che crediamo una cosa semplicemente umana, è divorata
dall'imminenza divina.
Ma il regno di Dio scenderà in terra soltanto alla fine dei tempi:
prima di allora non conosceremo l'albero della vita. Se vogliamo
anticiparlo, realizzando completamente e totalmente il regno di Dio,
costruiremo soltanto l'edificio del Male Assoluto, come ci hanno
dimostrato tutti i tempi e i paesi. Intanto, mentre viviamo in questo
tempo intermediario, dobbiamo accontentarci di mete limitate. Se gli
uomini non si amano tra loro, possiamo indurli (talvolta costringerli)
a tollerarsi a vicenda, vivendo gli uni accanto agli altri come
coinquilini se non come fratelli. Non è possibile rinunciare alla
forza. Altrimenti, sempre nuovi assassini offenderanno i loro cittadini
e i loro vicini: costruiranno le loro montagne di teste tagliate: si
bagneranno nel sangue, in nome di ideologie sempre diverse e tutte
eguali, perché "lo smunto assassinio" sa assumere tutti i nomi.
Giunti alla fine del ventesimo secolo, mi chiedo se in futuro potremo
usare la forza con più saggezza che in passato. È soltanto un'utopia
infantile? La forza non è che brutalità scatenata, alla quale è
necessario sottometterci? Non ci resta che essere succubi e complici?
Penso che sia possibile usarla e domarla. Ormai è una qualità del
passato: noi non la amiamo, siamo lontanissimi da lei e dalle sue
seduzioni, detestiamo i grandi tiranni e massacratori, non proviamo
nessuna soggezione psicologica occulta verso di loro. Proprio per
questo possiamo studiarla, reimpararla, riapprenderla, come si tenta di
apprendere una virtù spirituale. È una specie di esercizio ascetico: il
più difficile degli esercizi. Lo compiamo contro noi stessi: odiamo la
forza mentre la usiamo, esecriamo noi stessi che assumiamo le sue
apparenze; non ricorriamo a lei per imporre il nostro dominio, ma
soltanto per evitare mali più terribili. Compiamo ogni azione come un
sacrificio, del quale siamo le prime vittime.
Simone Weil visitò la Germania giovanissima, l'anno prima che Hitler
prendesse il potere. Mentre l'Europa era cieca e confusa, mentre
nessuno capiva quali drammi e orrori si andavano preparando, lei -
quasi sola - comprese cosa avrebbe travolto la Germania di Weimar.
Negli anni successivi, commise un errore, di cui si sentì colpevole per
il resto della vita. Diventò pacifista. Pensava che qualsiasi male,
persino Hitler, sarebbe stato preferibile alla guerra. Ma poi espiò
quest'errore; e via via che si avvicinava sempre più al suo Dio
sconosciuto, venerando ciò che è puro, i Vangeli, l'Antigone, Platone,
la Baghavadgita, la musica gregoriana, - la sua conoscenza dei
meccanismi della forza diventò perfetta. Sapeva che era necessario
usare tutta la forza contro Hitler: senza limiti, né compromessi; e
sacrificò se stessa alla necessità tremenda del suo compito.
Possiamo imparare da quest'Antigone dei tempi moderni. Qualcuno ha già
cominciato, come Emma Bonino o Barbara Spinelli che ci ricorda
inflessibilmente i doveri dell'Europa mentre guarda i quadri di Vermeer
e gli angeli medioevali. Dobbiamo esercitarci, stoicamente,
freddamente, a impiegare la forza che non amiamo. Se vogliamo usarla,
dobbiamo domare le nostre passioni: impedire al nostro ego di
offuscarci lo sguardo: cancellare idee, interessi, sentimenti e
fantasticherie che ci turbano l'animo: cercare di conoscere le diverse
situazioni storiche, con lucidità e precisione assoluta; sapere che
l'azione deve essere rara, ma non conoscere rinvii e compromessi. Solo
allora, essa potrà scendere come un angelo dell'Apocalisse e
cauterizzare il male e la ferita.
(7 aprile 1999) |
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