LAURETO RODONI

UN «DOKTOR FAUST» MAGISTRALE

Premetto che dal punto di vista scenografico e drammaturgico il Doktor Faust allestito da Jossi Wieler e Sergio Morabito è il migliore che abbia mai visto finora, superiore per pertinenza busoniana e pregnanza concettuale anche al pur mirabile allestimento salisburghese diretto da Peter Mussbach.

Quando lo spettatore entra in teatro si trova subito dinanzi alla scena (concepita da
Anna Viebrock, ideatrice anche dei bei costumi) che non muterà, se non negli arredi, durante tutto lo svolgimento dell’opera: l’abitazione di Faust, squallida e disordinata, ma in cui sono palesi sia il lacerato fervore spirituale e lo sfrenato desiderio di ricerca di chi vi lavora (fogli sparsi, libri, fascicoli ammonticchiati…), sia la sua "degenerazione" intellettuale (un piccolo, malridotto televisore che sembra avere quale unico scopo, non di collegare Faust con il mondo esterno, bensì di distogliere la psiche da una situazione di intollerabile tensione interiore e artistica) e il suo degrado fisico (le casse di bevande alcooliche che fungono anche da supporto del letto, collocato proprio dinanzi alla scrivania).
Lo studio si troverà quindi, nel corso dell’opera, a diretto contatto con i raffinati arredi d’epoca della scena parmense e questi ultimi con i tavolacci e le panchine della scena della Taverna di Wittemberg: veri e propri ossimori scenografici che permettono di interpretare la vicenda, inequivocabilmente autobiografica, anche in chiave onirica (non per caso il letto è in primissimo piano) o come esperienza interiore del protagonista-compositore.

Vicenda che è calata con inesorabile coerenza nei tempi nostri. A esempio i tre studenti di Cracovia sono contattati via Internet da Wagner, il famulus di Faust, e il loro arrivo è confermato per mezzo del cellulare. La loro inspiegabile sparizione è in realtà concordata con Wagner.
Ogni altro aspetto magico-esoterico è volutamente espunto dal team di regia. Un altro esempio: il passaggio dalla notte al giorno durante la scena delle "evocazioni" di Salomone, di Sansone ecc. è antifrasticamente una semplice accensione delle luci(-stelle) dello spazio scenico (Faust chiede meno luce per i suoi «esperimenti soprannaturali»: in realtà la luce diviene accecante).

Inoltre questi personaggi biblici non appaiono affatto: Faust e la Duchessa si dilettano forse a dipingerli e a fare dei collage, a "creare", insomma, anche se in maniera caricaturale e senza che lo spettatore veda i risultati delle loro opere.

Tutt’altro che esoteriche, in precedenza, anche le apparizioni dei dèmoni evocati da Faust (Lucifero, Asmodus, Megäros…); e di certo privo di magici poteri Mefistofele, segaligno personaggio, squallido e viscido, che illude Faust e lo trascina definitivamente sulla via della perdizione.

Faust è un intellettuale squattrinato, nevrotico, dedito all’alcool, fisicamente male in arnese: un fallito, insomma. Dopo la meravigliosa Symphonia iniziale, vertice sinfonico busoniano, eliminate dai registi Wieler e Morabito le Parole del Poeta e prima che cominci l’opera vera e propria, l'esasperato Dottore recita con fastidio e malcelata rabbia:

Maledizione! Non vi è alcuna grazia?
Sei dunque inesorabile?
Proprio ora che l’Opera giunge al suo completamento!

Si tratta dei primi versi non musicati da Busoni (ma da Jarnach nel 1924-1925 e negli anni ’80 da Beaumont), collocati subito dopo quelli che anticipano la sua afasia creativa e che sono cantati, secondo le indicazioni del libretto, dinanzi a un Crocefisso, cinicamente deformato dal Maligno (ma anche questo oggetto sacro è stato eliminato dal team di regia):

Oh, pregare, pregare! Dove trovare le parole?
Esse danzano nel mio cervello come formule magiche.
Oh, pregare, lasciatemi pregare!
Voglio di nuovo poterti guardare con rispetto.

«Proprio ora che l’Opera giunge al suo completamento», recita dunque Faust: ‘Opera’ intesa come compimento della vicenda terrena di Faust ma anche di Busoni stesso (attraverso il Doktor Faust appunto, suo testamento spirituale: "la scuola che dall’opera è sgorgata maturerà feconda nei decenni" declama il Poeta dopo la morte di Faust). Si ha come l’impressione che Faust-Busoni stia dettando il finale dell’opera al famulus Wagner-Jarnach che lo scrive su un computer portatile.

Ma improvvisamente, dopo la parola-chiave "vollendet" (completata) riferito a "Werk" (Opera) inizia il Prologo I, che interrompe il lavoro di creazione ormai giunto all’inaridimento e all’afasia: vi è ancora una possibilità, l’extrema ratio, per Faust di concludere l’opera: l’intervento, l’aiuto del Demonio.

Quando alla fine, ciclicamente, prima di essere colto da un fatale attacco cardiaco, egli recita di nuovo i versi:

Maledizione! Non vi è alcuna grazia?
Sei dunque inesorabile?
Proprio ora che l’Opera giunge al suo completamento!


con voce soffocata, non c’è più Wagner che lo sta ascoltando: l’ex famulus ha usurpato la cattedra del Magister all'Università: triste vittoria della mediocrità sul Genio. E forse l’imprecazione non è più rivolta al Crocefisso, ma a Mefistofele che lo ha illuso. Faust è solo e muore solo e la sua Morte è cinicamente constatata da Mefistofele stesso travestito da Guardiano notturno: «Fu forse quest'uomo vittima d'una sventura?», come previsto dal libretto.
L’opera è quindi narrazione di un fallimento del rapporto con il Demonio; d’altra parte la narrazione stessa è nel contempo l'opera d’arte musicale, in forma di frammento, incompiuta, che Faust-Busoni ha composto.

Per colui che, come chi scrive, considera il Doktor Faust un vertice della produzione operistica di ogni tempo, un capolavoro assoluto, inquietante e profetico non meno della
Lulu di Alban Berg, ascoltare l'opera in forma di frammento è un'esperienza intellettuale straordinaria: in effetti, con tutto il rispetto per lo spettacolare ma un po' enfatico finale di Jarnach e per il più filologico ma fascinoso finale di Beaumont, la monumentale partitura è del tutto autosufficiente e il finale tronco voluto da Morabito e Wieler è uno tra i più terrificanti di tutta la storia dell'opera poiché testimonia la ferale afasia creativa dell’Artista che nemmeno con un patto con il Diavolo riesce a «guarire».

Come ebbi a scrivere a proposito di Lulu, anche Doktor Faust è una sorta di «Requiem laico» per l'umanità intera, concepito in un'epoca tra le più buie della storia (durante e dopo la Grande Guerra). In questa prospettiva assumono una valenza straordinaria le parole che Ferruccio Busoni scrisse pochi mesi prima di morire, proprio in relazione all'impossibilità di completare l'ultima scena dell'opera («che ora si confondeva» - come scrisse Sergio Sablich - «con il significato ultimo della vita e della morte»):
«Credo che anche un corpo senza vita possa gettare luce verso l'alto.»

Il cast di questo notevole allestimento è direi nel complesso di ottimo livello e coeso. Straordinaria dal punto di vista scenico e musicale la performance di
Gerd Grochowski che ha padroneggiato la paurosa tessitura della parte di Faust con estrema, disarmante disinvoltura e con fraseggio sempre pertinente e variatissimo, a seconda delle mutevoli situazioni in cui il personaggio-chiave della vicenda si trovava ad agire. Una voce dal bel timbro baritonale e possente, tanto che mai il fortissimo orchestrale è riuscito a sopraffarla.

Eva-Maria Westbroek è forse la migliore Duchessa di Parma che mi sia stato dato di ascoltare sia dal vivo sia in registrazione discografica. Le numerose subdole difficoltà sparse in partitura sono state brillantemente superate, senza che lo spettatore percepisse forzature, sforzi, suoni sgradevoli. Timbro bellissimo e presenza scenica notevole, sia nella scena delle "evocazioni", sia nell’ultimo drammaticissimo incontro con Faust: un ruolo, questo della Duchessa, che riveste un’importanza strategica nella drammaturgia di quest’opera e che quindi, se ben interpretato, dà ulteriore spessore a tutto l’allestimento.


Jürgen Müller, presentatosi in condizioni fisiche molto precarie, non ha deluso; ha anzi impersonato in modo molto convincente Mefistofele, un ruolo tenorile che presenta una tessitura quasi sempre acuta e che quindi è di estremo impegno vocale. Degni di lode anche Johannes Martin Kränzle nel ruolo del fratello di Margherita e tutto il restante numeroso cast, da Attila Jun (Wagner), a Nils Olsson (duca di Parma), da Alois Riedel (Megäros) a Matthias Hölle (Zerimonienmeister) e così via. Eccellenti il Chor e l’Extrachor diretti da Michael Alber.

Lothar Zagrosek è uno specialista raffinato della musica di questo periodo e lo ha dimostrato chiaramente, per esempio, nelle memorabili registrazioni DECCA di composizioni vietate durante il periodo nazista. La sua lettura della complessissima partitura di Busoni, che esige un lavoro immane di tipo stilistico, è di un rigore filologico che lascia sbigottiti: alcuna concessione ai turgori del tardo-romanticismo, alle Stimmungen mahleriane, all’espressionismo musicale (si pensi per esempio alla antitetica seppur affascinante edizione DG diretta da Ferdinand Leitner), aborriti da Busoni che aveva chiaramente espresso queste avversioni nei suoi scritti - saggi, articoli, lettere - e raccomandato l'approccio «anti-romantico» e assolutamente NON «post-wagneriano» alla sua opera). Idee chiarissime dunque da parte di Zagrosek di chi sia stato Ferruccio Busoni nella storia della musica: un isolato, di una originalità sconcertante sia sul piano dell'orchestrazione sia su quello tonale-armonico; una originalità che inquietava Giuseppe Sinopoli, il quale poco prima di morire stava studiando, con malcelata soggezione, proprio questa partitura. In un memorabile colloquio telefonico, l’insigne musicista mi disse che il trattamento spinto dell’armonia nel Doktor Faust, quasi sempre ai limiti della tonalità, era più dirompente dell’atonalità stessa. Un aspetto che lo lasciava letteralmente interdetto, perché in quella fase dello studio ciò era per lui incomprensibile.

Una concertazione sulla base delle indicazioni busoniane non poteva non avere conseguenze anche sul piano timbrico, con asprezze, impasti sonori inauditi, suggestivi e conturbanti nel contempo. Da questo punto di vista Zagrosek è ancora più radicale di Nagano, e la sua interpretazione è un capolavoro e uno degli omaggi più calorosi e importanti alla musica di Busoni.

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