FAUST

GISELLA SELDEN-GOTH

FERRUCCIO BUSONI

UN PROFILO

Firenze, Olschki, 1964

pp. 95-110

 

Ora che devo iniziare il capitolo più significativo della vita di Busoni e quindi anche quello più importante di questo piccolo scritto, mi accorgo di esser giunta agli anni i cui ricordi mi assalgono con massima intensità. Gli anni quando a Berlino ed a Zurigo nasceva e prendeva forma il «Dottor Faust»; ed in entrambe le residenze io avevo il privilegio di seguirne da presso la materializzazione e la formulazione, fino ai giorni in cui il poeta-musicista, sempre più accorato, indebolito, devastato dalla malattia, trovava sempre minor forza per portare a termine il lavoro al quale teneva più che alla salute e alla vita. Vi sono due eventi, dei tempi in cui il poema veniva creato che mi sono rimasti nella memoria; mi sia permesso di rievocarli qui.
«Nel primo Natale della guerra scrissi in sei giorni quel che dietro di me crollava in rovina» dice Busoni. «Ora senza pretese letterarie lo presento al mondo in forma di libro, perché prevedo che la realizzazione completa sul palcoscenico occuperà talmente occhi ed orecchi dei presenti, che non rimarrà abbastanza attenzione per la comprensione delle parole. Ma sono fiducioso che non avranno ragione coloro che temono che il testo debba venir sopraffatto dalla musica. Invece credo che i contorni acquisteranno luci ed ombre - cioè effetto plastico - ed in più, colorito, solo così, e quindi conquisteranno le loro giuste proporzioni». [Lettera all'autrice, 20.6.1920]
Il testo del «Dottor Faust» che spingeva l'autore a queste e tante altre meditazioni del medesimo carattere, fu scritto fra il 24-31 dicembre 1914, prima di partire per la quinta volta per l'America; nel 1918 avvenne la prima pubblicazione in una rivista svizzera, ed ancora due anni dopo nella definitiva in forma di libro in Germania, sempre sotto il titolo «Poema per musica». In quel periodo la musica che doveva «sviluppare il testo parlato» aveva appena cominciato ad emergere in vaghe idee dalla fantasia. Busoni, benché egli ci si preparasse con la massima serietà e con un gran senso di responsabilità verso il lavoro da intraprendere. La mia età e la mia maturità indicano che non dovrei ormai esitare ad avviarmi alla mia opera principale e monumentale, verso la quale, in fin dei conti, è diretto tutto quel che ho compiuto fin oggi» scrisse alla moglie già un anno prima di quell'improvviso avvampamento di geniale produttività. Dovevano passare ancora anni perché vi entrasse di mezzo la musica dilatatrice, ma nel frattempo c'era il dramma ad attestare, anche se Busoni non avesse mai scritto altro, un eccezionale talento poetico.
Talento nutrito dallo studio intenso dei migliori esempi della più alta produzione letteraria dell'Occidente, ed anzitutto stimolato ed acceso dall'immagine di Goethe, la cui influenza esercitata su Busoni dai primi anni dell'adoescenza è solo paragonabile a quella dell'altra più grande figura del mondo germanico: Bach. Di questa influenza ascendente, sia sul lato artistico, ma non meno affatto su quello umano di Busoni verrò a parlare in seguito. Qui vorrei ritornare all'accenno fatto sopra, cioè alla rievocazione di due eventi che sono rimasti indelebili nella mia memoria, particolarmente in relazione all'elemento «goethiano» in Busoni.
Una sera nel 1918, quando anche il testo del «Dottor Faust» era ancora completamente sconosciuto, Busoni invitò alcuni amici e discepoli per leggere egli stesso a loro il manoscritto. Si era in pieno tempo di guerra e chi si riuniva in quella modestissima casa a Zurigo, si sentiva oppresso da preoccupazioni personali e snervato in tutte le fibre da quel che si sapeva succedere di ora in ora al di fuori dei confini neutrali. Quando poi - avendo ascoltate le «ottave rime», i dialoghi, le scene fantastiche, il monologo finale nel quale il maestro aveva palesato l'intimo suo essere come non mai prima - a tarda ora ci si separava per scendere le strade notturne verso le nostre abitazioni in città, il mondo era cambiato. Le nostre anime erano strapiene di poesia, commosse fino in fondo di avere assistito al primissimo contatto del lavoro col mondo esteriore, esaltate dall'atmosfera che emanava da questa grande figura.
Avevamo dimenticato che in una distanza nebulosa c'erano la guerra, la miseria, la degradazione umana. E qualcuno di noi, che così bene conoscevamo Goethe e tutto quel che lo riguardava, sembrava potersi identificare per brevi momenti col fedele Eckermann quando lasciava la casa sul Frauenplan di Weimar, dopo aver potuto ascoltare il sommo poeta leggere, discutere, illuminare qualche opera recentemente terminata. Quel che aveva emanato da Busoni quella sera era stato impregnato dallo stesso fervore poetico, dalla stessa convincente umanità delle quali immaginammo fosse infuso il cuore del famulo che in quelle notti doveva certamente sentirsi il più felice essere umano dell'universo.
L'altro avvenimento che mise in rapporto Goethe col nuovo «Dottor Faust», in forma da non poter esser più dignitosa, fu una seconda lettura del poema; stavolta non nell'intimità dell'ambiente privato dell'autore, bensì in uno che dava massimo rilievo all'importanza di un evento letterario. Ero riuscita nel 1920 a combinare con gli organizzatori del «Goethe Tag» - assemblea annuale ripresa dopo la guerra, che riuniva in Weimar nella sua stessa, casa gran numero di scrittori, filologi, professori tedeschi, dedicati allo studio ed al culto di Goethe - una lettura pubblica del poema, ancora non uscito in stampa. Anche qui il lavoro, interpretato da uno dei più insigni attori della scena germanica, e soggetto ad ampie discussioni guidate dal direttore del «Goethe-Haus», fece profonda impressione. Certo non mancavano le voci dei tradizionalisti che risentivano come un sacrilegio il far risuonare versi di un altro «Faust» - in più uno di origine latina - fra quelle pareti consacrate. Anche la nozione di non venir a conoscere che un lavoro incompiuto ed imperfetto finché non intervenisse la musica per illuminare certe situazioni oscure, fare da filo di guida in apparenti labirinti e semplificare pensieri troppo complicati, disturbava parte degli ascoltatori. Ma la risonanza nei migliori circoli intellettuali diede grande soddisfazione a Busoni stesso. Il valore del suo lavoro in pubblico gli appariva giustamente come grande approvazione da parte dei migliori elementi della sua patria adottiva; omaggio reso ad un artista di stirpe straniera, che dominava la lingua di Goethe al punto di poter degnamente farla sentire nel luogo dove costui visse e morì.
L'importanza che Busoni aveva dato all'impresa a Weimar veniva attestata in diverse lettere scritte a me poco dopo l'esito; ne riproduciamo qui alcune sezioni strettamente connesse all'argomento. In risposta alla mia lettera nella quale gli esponevo probabilmente con molti dettagli e con molto entusiasmo il progetto della lettura del «Dottor Faust» egli mi scriveva:
Zürich, 14 maggio 1920

«Il suo torrente è rinfrescante e, dato il contenuto, nel medesimo tempo anche fruttifero

Io corro qual ruscello
che dalla roccia balza e va;
fra boschi e prati,
scorre spumeggiante
fino all'oceano.

Così canta (alquanto cambiato) il terzo spirito del Dottor Faust. Vorrei aggiungere qualche altro cambiamento. Bisogna rendersi conto che durante il progredire della composizione, il testo ogni tanto viene a spostarsi; il poeta deve dar retta al musicista, altre volte questo assistere quello, ed ecco la ragione perch' io sono il mio proprio librettista. Mi propongo di scrivere al "Dottor Faust" una prefazione che mi sembra indispensabile. Ma non posso dargliela, né ultimarla in tempo. Le "ottave rime" del poeta agli spettatori spiegano come mi sentii attratto dall'argomento, ma intimidito dal monumento goethiano, e come venni a ritornare al teatro di burattini. Lo schema di tale teatrino - ne vidi uno qui due mesi fa - lo sto seguendo abbastanza fedelmente nei due Preludi e nelle scene di Parma. L'intermezzo è di mia invenzione. La duchessa mi serve per iniziare una originale sequenza di idee, e con questo abbandono i burattini. Il fanciullo diventa il simbolo che inizia e rende possibile una soluzione al di fuori dei limiti della commedia e quasi conciliante. Questo essere è generato da un impulso schietto che pone il fondamento del perpetuarsi spirituale dell'individuo, dell'«Eterno Volere», come Faust stesso ultimamente si definisce. Nulla di tutto questo è voluto filosoficamente; l'azione nacque in me da puri concetti poetici. Affidando la parte della guardia di notte a Mefistofele eliminai il «Kasperle» (che regge la parte nel teatrino) come in un primo tempo stavo considerando. La scena nell'osteria e degli studenti è assolutamente di mia idea. L'apparizione di Elena si svolge nel medesimo ambiente anche nel racconto popolare; io la rappresentai come ideale irraggiungibile che Mefistofele fa vedere a Faust per distrarlo dalla importanza significativa insita nel fanciullo. La brevità era necessaria per la musica, perché essa richiede in media tre volte altrettanto tempo quanto il testo parlato. Anche le lacune del poema sono previste per lasciare alla musica dello spazio per riempirle. Un dramma perfetto in se stesso non richiede la musica... La musica è ancora in corso di creazione; posso lavorare solo con interruzioni imposte e quasi con troppa responsabilità. Quel che c'è mi sembra riuscito... L'impresa mi onora e mi rallegra oltremodo... ».

Zürich, 5 giugno, 1920

«Quel che Lei a fatto per me a Weimar - e quanta perseveranza ci voleva per condurlo a fine! - è fra le cose buone, e belle, le azioni piene di affetto; lei risveglia la mia fede negli uomini. E grazie di cuore! - Stamani mi giunse il suo resoconto aspettato con grande impazienza, coi documenti acclusi. Il giornale è meno brutto che non «sperassi», nonostante uno atteggiamento mezzo superiore mezzo indulgente. Lei conosce il mio aforisma: «la gente sente quel che crede non crede quel che sente»... Di recente è venuto a trovarmi quasi giornalmente Jakob Wassermann. Ieri sera ci ha letto una sua novella inedita, un capolavoro da ogni punto di vista, la mia «Sonatina per Natale» che gli suonavo per ringraziarlo, l'ha trovata «assai difficile a comprendersi». Che impressione farà poi il «Dr. Faust»? Ma orchestra e rappresentazione sanno raddolcire molte durezze. Nell'orchestra le dissonanze non si sentono così crudi; sul pianoforte ogni «non-bellezza» si vendica in maniera sfrontata. È questo uno strano fenomeno acustico, perché proprio sul pianoforte il «pedale» dovrebbe dare la patina mitigante. Mi risulta sempre più chiaro che noi della musica non possiamo prender maggior visione quanto forse delle stelle. Possediamo di essa solo una piccola entità, mentre è probabilmente infinita, nel senso della matematica. Onde risulta la mia soddisfatta nostalgia del così-detto creatore: il suo pronto scoraggiamento dopo la felicità di un presupposto progresso... Mi faccia avere in tempo i nomi ed indirizzi dei signori che si sono dedicati al mio testo. Ancora grazie...».

Zürich 12 giugno 1920

«...Ho ricevuto col solito piacere la sua lettera ed ho scritto il medesimo giorno ai signori Prof. Prof. Dr. Dr. Dir. Dir. [Il direttore del Goethe Haus, Dr. Hans Wahl e l'attore che leggeva il Poerna, Prof. Heinrich Devrient.] Dai resoconti mi resulta che la critica col suo «quarto di orecchio» aveva pescato la parola «Gretchen» [Nella edizione definitiva del testo Busoni cambiò la parte del «Fratello di Gretchen» in quella del «Fratello della ragazza»] e ne aveva tratto la conseguenza di scoprire innegabili influenze di Goethe. Senza indugiare decisi di eliminare la parola dalle bozze, togliendo in tal modo il terreno solido, sotto i piedi dei signori giudici dell'arte. (Piccolo capitombolo, Mephistopheles sogghigna). Il processo della evocazione è apposta particolareggiato. Bisogna sapere che non e facile voler comandare ai diavoli. Spero che sarà riconoscibile l'Angoscia di Faust (è perché ultimamente cade svenuto). Del resto egli (Faust) traccerà il «cerchio» con una spada e continuerà a tener la spada nella sua destra. È un simbolo che chi congiura, rimane armato contro il pericolo. Nei libri sulla magia questo procedimento viene segnalato come estremamente pericoloso.

Osservi anche, per piacere, come Faust, deluso dopo aver sentito la sesta voce, esce dal cerchio e così non rimane più protetto. Dopo di questo la settima voce si fa sentire senza esser stata evocata ed egli non le sa più resistere. Il piccolo libro abbonda in simili tratti logici. Nel teatro delle marionette gli studenti rimangono invisibili. Ce ne sono due: solo di questi si parla. Kasperle figura da guardia di notte. A me sembrava che Mephistopheles fosse adatto per prendere questa parte. Ci sarebbero ancora diversi commenti da fare... Voglia per piacere conservare queste ed anche le preliminarie annotazioni perché potranno servirmi per una prefazione che ho l'intenzione di scrivere. Tutto sommato mi pare che l'impresa, per la quale ho da ringraziare il Suo zelo amichevole, non sia rimasta infruttuosa. Tutto vuole aver tempo. La mia «Estetica» fu pubblicata nel 1906 e letta non prima del1916. Ma un bel giorno tutto trova il suo posto. Speriamo quindi anche il suo aff.mo...».
Senza dubbio - e posso affermarlo tanto più perché Busoni me ne fece ripetutamente accenno - egli si sentiva incoraggiato ad intraprendere un «Faust» lirico dalla frase che Goethe rivolse un giorno, a Eckermann, parlando di una possibile composizione musicale della sua tragedia: «Dovrebbe esser uno che avesse vissuto in Italia, così che sapesse amalgamare la sua natura tedesca con maniera e guisa italiane...». Un'altra volta Goethe osservò sullo stesso argomento: «La musica per il Faust dovrebbe essere scritta nello stile del "Don Giovanni"; Mozart avrebbe dovuto comporla... ». La facoltà di Busoni di entusiasmarsi era senza limiti; un brano sinfonico di Mozart, una poesia di Goethe sapeva commuoverlo fin alle lacrime. È più che naturale che sentisse l'effetto di queste frasi. Le leggeva e rileggeva, fino ad essere persuaso che era egli stesso il predestinato a cui toccava il compito di realizzare il vago desiderio del poeta. Musicare «Faust» - se non la grande tragedia dei tedeschi, ma pure UN «Faust», - chi poteva esser scelto a farlo se non colui nel quale l'unione degli elementi germanici e latini era avvenuta con intensità singolare? Eppure egli si sentiva combattuto dal contrasto di quei medesimi elementi: e se ci mettiamo ad esaminare senza preconcetti le interminabili discussioni se Busoni fosse o non fosse stato un «buon italiano», la risposta conclusiva ce la dà il suo ultimo lavoro.
Egli era tedesco, pervaso dalla eterna nostalgia del tedesco per l'Italia, nostalgia che non gli dava mai pace. Nel suo più intimo sentiva la discordia così difficile da appianarsi, discordia della binazionalità che si opponeva alla somma sublimazione della sua forza creativa. Verso Faust, l'eterna incarnazione del dubbio umano e del desiderio di raggiungere la perfezione, lo spingevano i propri conflitti spirituali; le parole di Goethe gli risuonavano come appello da un mondo sommerso al quale era doveroso rispondere. Così vi fuggiva col presentimento che forse, mercé la rianimazione della figura Goethiana con la musica, potesse trovare la vera destinazione della sua propria natura bifocale. Con tutto questo l'opera «Dottor Faust» non è minimamente la raffigurazione musicale di quel personaggio Goethiano. Non è una composizione aggiunta alla lunga fila di lavori musicali ispirati dalle due parti della tragedia, fila che va dai modesti tentativi dei Principi Radziwill fin alla grandiosa visione della VIII. Sinfonia di Gustav Mahler. A quelle strofe poetiche che sono sempre state e rimarranno per sempre una fonte inesauribile di stimolo per il musicista, Busoni non si è neanche avvicinato.
Non era facile compito il voler offrire al mondo germanico un altro «Faust»; ma il semi-latino ebbe il coraggio per affrontarlo. Nel «Prologo» da recitarsi prima della «Sinfonia» che precede l'alzarsi del sipario, egli illustra in perfetta ottava rima il nascere e crescere del suo concetto poetico; spiega come il soggetto lo attirasse, e come decise di ritornare al teatro delle marionette dopo essersi sentito intimidito dalla grande tragedia. Egli alza riverente lo sguardo al sommo poeta:
Nessun Maestro pari vien al Mago,
E canto umano cede al Divino.
L'antica favola rumoreggiava continuamente nella sua fantasia come lo aveva fatto in quella di Goethe giovane, e prima di avviarsi al lavoro, studiava a fondo tutte le versioni del mito, i racconti popolari, le forme drammatizzate del «Faust», fin agli antichi libri di magia e di stregoneria. Mentre scriveva, cercava scrupolosamente di evitare ogni reminiscenza delle parole di Goethe, vedi ad esempio quella eliminazione del nome di Gretchen, di cui parla una delle lettere riprodotte di sopra.
Continua Busoni nella sua lettera a me del 28 giugno 1920: «Il 'tempo' del dramma musicato viene determinato dalla composizione, come anche le pause, gli intervalli, e questo è il problema più scabroso del palcoscenico...». La voglia di cimentarsi con questi problemi scabrosi era diventata con gli anni quasi una ossessione per Busoni. Finiva con scrivere anche libretti da esser musicati dai suoi amici e discepoli, come la pantomima «Das Wandbild» (Il ritratto) per lo svizzero Othmar Schoeck e il mito eroico-idillico «Die Götterbraut» (La fidanzata degli Dei) per l'americano Louis T. Gruenberg. Invece è interessante ricordare in questa relazione la sola volta che Busoni maturo si sentiva indotto a comporre testi non suoi; e naturalmente furono poesie di Goethe, dell'unico che dall'esterno sapesse avviare il flusso nella sua musica. Accenno ai due bei canti per baritono, purtroppo poco conosciuti, «Lied des Unmuts» (Canto del malumore) dal «West-Oestlicher Divan», e il «Flohlied» (Canto della pulce) del Mefistofele, liriche di alto valore e di ispirazione poetica. È questo uno dei rarissimi casi in cui Busoni si è espresso nella forma del «Lied»; devo ancora citare qui uno dei suoi giudizi alquanto discutibili: «Il 'Lied' artistico è un buffo 'busto di figura' che sembra esser stretta nei laccioli del ritmo poetico» [Lettera all'autrice del 23 novembre 1918].
In generale scriveva con gusto e passione: «Lo scrivere mi riesce infinitamente più facile del comporre, forse perché ne sono meno capace» [ibidem] ed aveva una straordinaria sensitività per le sfumature della lingua sia poetica sia di prosa. Sensitività accoppiata ad una tendenza di criticare acutamente - e talvolta con poca indulgenza - molto di quel che gli si presentava di scritti contemporanei su argomenti musicali: «Io so annusare la volgarita anche da un solo comma, quando lo vedo in iscritto» soleva dire.
Abbiamo esaminato i tre libretti precedenti, diversi fra loro, ma ciascuno in sé ottimo esempio di alta cultura letteraria e di una profonda conoscenza sia delle relazioni fra testo e musica, sia degli effetti che ne risultano sul palcoscenico. Li abbiamo riconosciuti da scritti nei quali l'autore munito da un perfetto dominio della lingua tedesca, sa evitare le trivialità prevalenti per lo più nei libretti d'opera di tutti i tempi, e attingere una dizione minutamente curata. La sua prosodia è sempre esemplare e mentre scrive per la voce umana, ogni sua parola del primo abbozzo gli riesce già coerente con la futura interpretazione musicale. Ma gli argomenti dell'Hoffmann e del Gozzi davano origine solo a rielaborazioni di opere letterarie la cui fisionomia originale fu poco toccata; «Arlecchino» invece è una burlesca in forma di raccolta aforismi. Tra questi tre e il «Dottor Faust» c'è un mondo che distingue colui che poeteggia dal poeta. Il Dottor Faust è un poema non solo «per musica», come modestamente dice il titolo, bensì un lavoro di eminente valore letterario, degno di venire aggiunto alla serie delle interpretazioni dell'antico mito anche senza tener conto di quella musicale.
La ristrettezza di questo piccolo volume non permette che una analisi se non limitatissima di questa opera monumentale. Tenterò di riassumere brevemente il contenuto e la costruzione del poema. Il «Prologo», del quale è gia stata fatta menzione, ne è la parte più «Goethiana»; evoca le strofe della «Zueignung», è nato nell'atmosfera e nei metri dell'immortale proemio. Secondo le usanze dell'antico teatro italiano dovrebbe venir recitato davanti al sipario ancora chiuso. Le undici stanze accennano al proseguimento della concezione del lavoro e contengono gli ultimi pensieri di Busoni sulla sua arte:
La Musica si rifiuta al volgare,
Etere è 'l corpo, il timbro nostalgia,
e trova patria nel miracolo.

Il «Prologo» parla dei tre tipi che dall'infanzia avevano incantato Busoni col loro carattere diabolico-soprannaturale, di Merlin, di Don Giovanni e di Faust, e del teatro di marionette, larva che originò la farfalla dell'opera. Le prime due scene si allacciano strettamente a quelle dell'antico testo: nello studio di Faust appaiono i tre studenti di Cracovia che misteriosamente gli porgono in regalo l'anelato libro di magia «Clavis Astartis Magica»; insieme con la chiave e col documento di proprietà, lo consegnano nelle sue mani rabbrividite e spariscono. Il dono enigmatico deve avverarsi nella cupa ora della mezzanotte. Faust traccia il cerchio magico; lo studio si riempie della presenza degli spiriti, le cui voci si alzano da sette fiamme vacillanti sotto le buie arcate. Domande e risposte si intercorrono; nessuna delle anime vagheggianti nel fuoco sa sedare il suo febbrile desiderio di potere, cognizione e libertà. Una dopo l'altra le fiamme si spengono; dopo sparita la sesta, Faust scoraggiato esce dal cerchio. In quel momento divampa chiaramente una settima fiamma mai scongiurata, ed essa, «veloce come il pensiero», promette l'adempimento d'ogni suo voto; ed appare Mefistofele.

«Libera me!» gli dice Faust,

Fammi cinger il mondo,
l'oriente e 'l mezzodì che mi chiamano
Fammi comprender l'agire umano
ed accrescerlo in modo impensato.
Dammi 'l genio
ed anche le sue pene,
ch'io felice sia quanto nessun altro,
così mi servirai fin al compimento, e poi:
Chiedi tu!

I vincoli demoniaci si sono stretti intorno all'uomo insaziabile, vien concluso il patto fatale, firmato colla penna portata da un sinistro corvo nel becco. Da fuori risuonano dal Duomo le campane festive e cori giubilanti irrompono con un glorioso Alleluja di Pasqua, mentre Faust si estrae tremante dalle vene l'inchiostro sanguinoso e si lascia strappare da Mefistofele il foglio. Mentre cade privo di sensi, il sole mattutino inonda la scena e Mefistofele trionfante sprofonda col suo ricatto prezioso.

Questa scena è ideata come «Preludio»; fra essa e l'azione principale è intercalato l'«Intermezzo» desolato, tristissima visione fra velami scuri, secondo l'autore, un brano ombratile ed irreale che interrompe con cupa rigidità il flusso serrato della narrazione. È la scena nella Cattedrale ove davanti al crocifisso il «Fratello della ragazza» implora l'aiuto della giustizia divina per potersi vendicare del seduttore della sorella corrotta e morta. Faust lo uccide, spinto da Mefistofele, il cui potere sinistro si accresce con ogni peccato commesso. Il sipario cala mentre un raggio di luna illumina il cadavere abbandonato sul suolo profanato.

L'«Azione principale» è divisa in tre quadri. Il primo si svolge alla Corte di Parma, ove Faust appare, accompagnato da Mefistofele impersonato dall'araldo. I suoi artifici magici affascinano la Duchessa; essa segue colui che la chiama con mille voci seducenti a godersi le infinite voluttà del mondo. La scena cambia in quella del secondo quadro, della taverna di Wittemberg. Un anno è passato, e fra i canti clamorosi degli studenti che lo festeggiano da Maestro, Faust rivive i ricordi del suo ultimo amore, della donna di cui ha perso le tracce. Irrompe Mefistofele in veste di corriere, e gli butta davanti ai piedi l'ultimo saluto della Duchessa morta, il cadavere del suo bambino neonato. Gli studenti fuggono atterriti; il piccolo corpicino si trasforma in una fiamma, che salendo prende forme umane. Elena, eternamente bella e radiosa, sorge davanti agli occhi stupefatti di Faust, che vorrebbe afferrare l'ideale sognato in un abbraccio appassionato; ma fra le sue braccia il fantasma si scioglie in fumo evanescente. Ancora il deluso spera di trovare significato e scopo della sua vita nell'accedere ad una attività utile all'umanità; ma si avvicina il destino fatale. Compaiono un'altra volta i tre studenti di Cracovia per annuziare lo scadere del termine e per chiedere la restituzione del dono magico.

Faust coraggiosamente si appresta al cammino verso l'annientamento. Nel terzo ed ultimo quadro lo troviamo sulla strada notturna, sepolta dalla neve. Risuonano le campane del Duomo, si ode il ritornello ammonitore della guardia di notte, la schiera degli studenti ripassa un'altra volta, cantando gioiosamente. Appaiono visioni spettrali; la Duchessa morta pone nelle braccia di Faust il suo figlio lattante, il Soldato gli impedisce d'entrare nel luogo sacro, il volto del Cristo sul Crocifisso ai cui piedi egli vuol prosternarsi, si tramuta nella luce della lanterna della guardia di notte poi in quello di Elena. Faust ha saputo ormai che per lui non c'è più salvezza. Intorno al cadavere del bambino traccia un'altra volta il cerchio magico ed alza verso il cielo la sua invocazione della generazione futura. Morituro si sa unito ad essa, ed immortale nell'incarnarsi attraverso le epoche nelle esistenze dell'avvenire.

A te lego la mia vita
[dice al sangue del suo sangue]
che trapassi
dalla radice interrata
al fiore che sboccia puro
dal tuo essere che sarà...
Ciò che guastai
ripara tu, ciò che neglessi
ricrea tu,
così mi metto
fuori di legge,
racchiudo in una
le epoche tutte,
e mi unisco
a voi, posteri!
Io Faust
eterno volere!

E mentre l'ultimo ritornello del guardiano annunzia la mezzanotte e Faust si spenge, dal cerchio che rinchiudeva il cadaverino sorge un adolescente nudo, con un ramo fiorito nella destra. Colle braccia alzate si avvia silenziosamente verso la città notturna, immersa nella neve. «Sarebbe successo una sciagura a quest'uomo?» domanda misteriosamente il guardiano che ora porta la sembianza di Mefistofele. Alza la lanterna per illuminare il viso pacato dell'estinto, si carica la salma sulle spalle ed esce lentamente.

Anche solo da questo riassunto più che superficiale dovrebbe risultare l'estrema idoneità del testo per l'elaborazione musicale. Dal punto di vista teatrale è ricca di situazioni ideali per esser messe in musica, proprio di quelle che l'autore nei suoi scritti giudica indispensabili per costruirne un buon libretto d'opera. La declamazione delle voci e parti dialogate fa riconoscere già a prima vista al lettore esperto le armonie latenti e l'alzarsi e l'abbassarsi della così rattenuto e spiritualizzata tessitura melodica Busoniana. Dal punto di vista letterario il testo è prodotto altamente romantico, di carattere assai più affine a quello della «Brautwahl» che non a quelli delle due brevi «Commedie». Ma nel suo insieme stupendo segna una nuova tappa nel cammino del compositore-poeta, che sembrava aver voluto dare con questa opera unica nel suo genere un tipo di nuovo «Gesamtkunstwerk»; «cercando il nuovo, anelando allo sconosciuto», fino davvero al suo ultimo respiro.

Meno ancora dell'analisi letteraria sarebbe possibile intraprenderne entro questi limiti una della musica. Tanto meno quanto, a quel che pare, in Italia uno spartito che permetterebbe di rinfrescare dopo tanto tempo i ricordi di qualche esecuzione sporadica, sembra irreperibile. Di tali ricordi, vivamente impressionanti ed indimenticabili rimangono la grande Introduzione Sinfonica «Vespri di Pasqua e germogliare primaverile»; la spettrale apparizione dei tre studenti, la notte lugubre della evocazione degli spiriti la cui visione fiammeggiante si risolve nella esultanza dei cori pasquali. Poi il sinistro «Intermezzo» intorno al quale fremono i possenti suoni dell'organo della Cattedrale, la brillante ed agitata festa a Parma, ove riconosciamo la musica del «Cortège» come nell'intermezzo sinfonico che separa questo primo quadro dal secondo, quell'altra musica trascendentalmente bella della «Sarabande». Dai canti baldanzosi degli studenti, dalle loro discussioni sulle due forme dei culti cristiani si sviluppano ingegnosi cori doppi che elaborano in una fuga virtuosa motivi contorti del «Te Deum» e dell'antico inno Luterano «Eine feste Burg ist unser Gott». Ed infine la fluttuante apparizione di Elena e la notte nevosa con la sua atmosfera così profondamente mistica... Quando Faust disperato si prosterna davanti al Crocifisso era giunto il momento che tolse la penna per sempre dalla mano di chi scriveva.

Il resto - appena più di due mesi di debolezza crescente, dovuta alla uremia che si sviluppava acuta da uno stato cronico - è stato l'addio rassegnato al lavoro di un uomo deluso ed amareggiato di non averlo potuto portare a termine. Come per Mozart: il «Requiem», per Puccini la «Turandot», per Bartok il «Concerto per viola», e per lo stesso Bach l'«Arte della Fuga», anche questa vita compiuta significava un capolavoro non compiuto. Come per gli altri, anche per Busoni uno dei fedeli discepoli, da molti anni familiarizzato colle intenzioni, lo stile, i progetti del suo Maestro, intraprese a finire le ultime scene dell'opera. Il compositore di origine franco-spagnola, Philipp Jarnach, dagli anni di Zurigo in poi «famulus» devoto e collaboratore perfettamente penetrato nelle intenzioni del suo Maestro, specialmente nel «Dottor Faust» di cui aveva copiato e rivisto le pagine da principio, dopo vinti molti scrupoli consentì a terminarlo.

Si trattava di costruire l'ultima scena impiegando quanto possibile materiale musicale estratto dalla parte completata; non c'erano abbozzi da esser rifiniti o strumentati, perché Busoni elaborava ogni battuta scritta fino al punto che a lui sembrava la perfetta. Così per Jarnach erano rimasti da musicare l'ultima evocazione, l'apparizione del «fanciullo», precursore del futuro e il misterioso sparire del Guardiano di notte. La composizione dell'esito finale è fatta da mano esperta e in modo da mantenere intatta l'atmosfera del poema senza romperne l'incanto. Dobbiamo rimanere contenti e grati che l'opera sia stata salvata da uno che amava e venerava colui che l'aveva creata. Più amaramente di tutto il «Dottor Faust», rimasto frammento ci rammenta quanto abbiamo perso mentre stava per esser compiuto.



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