Giovanni Guanti

BUSONI E LA NUOVA
MUSICA AMERICANA


in
FERRUCCIO BUSONI
E LA SUA SCUOLA


pp. 19-35


I. AMERIKA
[riassunto]

II. FELDMAN EREDE DI BUSONI
[riassunto]

III. JOHN CAGE LETTORE DI BUSONI
[testo integrale con note, pp. 29-35 ]

Il curatore del sito ringrazia di cuore il dott. Guanti per aver concesso il permesso di pubblicazione di questo testo. Tutti i links sono stati inseriti dal curatore.


I. AMERIKA

Giovanni Guanti inizia il suo saggio precisando che Busoni «trascorse complessivamente quarantanove mesi della sua vita negli Stati Uniti, tra il settembre 1891 e l'aprile 1894 [1891 - 1892 - 1893 - 1894], 31 mesi consecutivi, tra Boston e New York; altri diciotto « ripartiti nelle quattro tournées concertistiche del 1904, 1910, 1911 e 1915.* «Dopo un primo incontro favorevole con il Paese, [Busoni] divenne assai critico nel confronti dell'«american way of lífe», tanto da augurarsi di non dover mai più rimettere piede in quella che, riprendendo una caustica espressione di Heine, amava definire 'la grande stalla della libertà, abitata dal villani dell'uguaglianza' (Heine)».
Dopo alcune inequivocabili citazioni busoniane su questo argomento, Guanti conclude:

Pur riconoscendo i dovuti chiaroscuri presenti in giudizi che altrimenti risulterebbero inficiati dalla loro stessa unilateralità, risulta impossibile minimizzare l'avversione di Busoni per una nazione che, tuttavia, non la ricambiò: perché, assai più dei musicisti europei, furono a nostro avviso proprio quelli americani (e Busoni sarebbe stato,forse il primo a meravigliarsene) i più attenti e fattivi proseliti del radicalismo utopico della sua 'nuova estetica della musica'.
Dimostrare in modo esaustivo questa impegnativa asserzione richiederebbe ben altro spazio che quello di un breve saggio. Tuttavia, a noi interessa soprattutto abbozzare almeno due delle linee lungo le quali potrebbe svilupparsi una futura ricerca complessiva su «Busoni e la Nuova Musica americana»: la prima conduce a Morton Feldman, il quale studiò pianoforte con Vera Maurina Press e composizione con Stefan Wolpe, didatti che risentirono profondamente, sia pure in modi diversi, dell'influenza di Busoni; la seconda a John Cage, la cui poetica spesso si appoggia in modo esplicito e in snodi cruciali all'«Entwurf busoniano».
[p. 21] SU


II. FELDMAN EREDE DI BUSONI

Allievo di Vera Maurina Press, pianista russa molto stimata da Busoni e amica di Skrjabin, Morton Feldman sin da fanciullo, «oltre alla tavolozza timbrica di Skrjabin», ebbe a disposizione «la pienezza incomparabile delle trascrizioni pianistiche busoniane, recepite con questo significativo distinguo: 'She studied with Busoni, and so I played Busoni transcriptions of Bach, and spent more time reading his footnotes than playing'». Le lezioni con la pianista russa furono fondamentali per la sua Weltanschauung musicale: «I was instilled with a sort of vibrant musicality rather then musicianship». Feldman continuò la propria formazione con Riegger (cfr. infra) e con Stefan Wolpe, compositore tedesco naturalizzato americano a partire dal 1944, con il quale spese più tempo «a discettare di estetica della musica e di filosofia che nell'effettivo esercizio compositivo». Wolpe non fu mai accettato da Busoni nella sua Masterklass, pur essendogli stato raccomandato da Georg Schünemann. Ebbe però l'opportunità di assistere alle lezioni del maestro italiano come uditore e per questo motivo «Wolpe resta comunque un importante traít d'union tra la cultura musicale del vecchio e del nuovo mondo [...] e, per Feldman, un altro testimone diretto dell'insegnamento di Busoni (nonché di quello di Webern, col quale Wolpe si perfezionò a Vienna tra il 1933 e il 1934)». Poiché Wolpe fu molto vicino a Wladimir Vogel, fervente estimatore di Skrjabin, «vediamo riapparire la singolare costellazione Busoni-Skrjabin che già Vera Maurina [...] aveva fatto brillare dinanzi agli occhi del giovanissimo Feldman. Anche l'insegnamento di Constantin Wallingford Riegger che si colloca come detto tra quelli di Maurina e di Wolpe, contribuì in maniera determinante ad allontanare Feldman (come del resto Varèse, auspice Busoni) dalla dodecafonia ortodossa con l'impiego di «'frazioni sghembe' del totale cromatico, come come avviene nei 'Four studies on basic rows per pianoforte' del 1936 [...] di Wolpe. Ricordando che le parole di Feldman sull'insegnamento di Vera Maurina («Lei mi raccontò tutto su Busoni»), Guanti così conclude il secondo capitolo del suo saggio:

Mi piace pensare [...] che la frase «Shed tell me everything about Busoni» implichi un suo precocissimo contatto, se non proprio col testo vero e proprio, con lo spirito dell'«Entwurf» busoniano, il cui attacco frontale all'architettonicità della musica coincide con quello contro la simmetria:

'
Musica assoluta' è un gioco formale [...] la musica assoluta è qualcosa di freddo, che fa pensare a leggii ben affineati, al rapporto di tonica e dominante, a sviluppi tematici e code. Sento il secondo violino che si sforza di imitare il primo, più bravo di lui, una quarta sotto; sento una lotta inutile per arrivare là donde si era partiti. Questa musica dovrebbe piuttosto chiamarsi architettonica o simmetrica o ordinata [...]. I legislatori hanno identificato lo spirito, la sensibilità, l'individualità di quei compositori e il loro tempo con la musica simmetrica e [...] l'hanno innalzata alla dignità di emblema, a dogma di fede. [...] In generale i compositori si sono avvicinati alla vera natura della musica soprattutto nei brani di preparazione e di congiunzione (preludi e transizioni), nei quali credettero di trascurare la simmetria e sembrano respirare, senza saperlo, liberamente. [Sguardo lieto, p. 44]

Gettare un ponte ideale tra quest'ultimo passaggio dell' «Entwurf» e la poetica di Feldman risulterà impresa forse non proibitiva se si considera che il maestro americano, seguendo gli espressionisti astratti newyorkesi,

era convinto che per ottenere una visibilità - che comunque si coglierà sempre solo come 'climd dell'artefatto - bisognasse innanzitutto creare situazioni di transizione e dissolvimento. Le categorie determinanti della musica d'arte, come quelle di inìzio e conclusione, perdono senso in tale concezione atmosferica dell'opera. Si comincia una composizione con un 'salto come se si andasse in un altro luogo dove il tempo muta'; per converso non si termina un'opera con un gesto paralinguìstico di chiusura, ma si 'abbandona' semplicemente quel luogo. [Gianmario BORIO, Morton Feldman e l'espressionismo astratto, pp. 120-121]

Esiste un nesso tra la 'visibilità climatica' o 'atmosferíca' di Feldman - ottenuta soprattutto grazie a «situazioni di transizione e díssolvimento» - e il 'libero respirare' della musica in quei brani «di preparazione e di congiunzione (preludi e transizioni)» che, secondo Busoni, dissolvono «nel paesaggistico (contrapposto all'architettonico)» le simmettie troppo scontate? e tra quella sonorità senza tecnica che Busoni riteneva il proprio più significativo contributo alla fisiologia del pianoforte. 35 e il mistero delle «Intersections» feldmaniane, con il loro uso - analogo a quello degli astrattisti puri col colore - di un suono pianistìco svuotato da ogni imitazione ed espressione di affetti?
Certo è che Feldman, allevato musicalmente da discepoli di Busoni e precoce lettore delle sue note crítíche più di ogni altro esponente della Nuova Musica americana potrebbe aver fatto tesoro di intuizioni siffatte:

Ciò che oggi si avvicina all'essenza originaria della musica sono la pausa e la corona. Grandi esecutori e iniprovvisatori sanno usare dì questi mezzi espressivì nella mìsura più alta e più generosa. Il teso silenzio tra due frasi, in tale contesto musica esso stesso, fa presentíre molto più in là che non un suono più definito, sì, ma appunto perciò meno duttile [...]. Glì effetti del pedate sono ancora lungì dall'essere esauriti, perché sono rimasti tuttora schiavi di una teoria armonica gretta e irragionevole: il pedale si tratta come se si volessero ridurre l'aria e l'acqua a forme geometriche. [Sguardo lieto, pp. 62 e 211] SU


* Cfr. Marc-André Roberge, «Ferruccio Busoni in the United States», in American Music (Sonneck Society) 13, nº 3 (autunno 1995), pp. 295-332. SU


III. CAGE LETTORE DI BUSONI


Quando, nell'inverno 1949-1950, dopo un concerto alla Carnegie Hall nel corso del quale Dimitri Mitropoulos aveva diretto la Sinfonia op. 21 di Webern, avvenne il fatidico incontro tra Morton Feldman e John Cage, quest'ultimo aveva già espresso le proprie convinzioni estetiche in almeno due esaurienti manifesti: «The Future of Music: Credo» (1937) e «Forerunners of Modern Music» (1949) [0]. Com'è noto, all'obliqua 'lignée' busoniana di Feldman (tramiti Vera Maurina e Stefan Wolpe) Cage può opporre una diretta 'discendenza' da Schönberg: quello con Busoni resta nondimeno un rapporto vivo e fecondo, anche se mediato sul piano strettamente letterario. Si veda, in questo passo quanto consentaneo alla propria poetica Cage senta il maestro italiano:

Se leggiamo quel curioso saggio che Busoni scrisse molto tempo fa - s'intitola Abbozzo di un'estetica della nuova musica e si dovrebbe davvero leggere lui dice - […] parlando dell'eccessiva rigidità della notazione nella nuova musica, che la musica dovrebbe godere di maggiore libertà, e che ciò che l'ha resa rigida è la tendenza verso l'architettura, e che questa tendenza verso l'architettura, ovvero verso la divisione dell'intero in parti, era particolarmente gradita agli accademici, perché era molto facile da insegnare ma che, d'altra parte, non aveva nulla a che fare con l'autentico spirito della musica, ma solo con lo spirito dell'accademia. Quest'ultimo si oppone, infatti, allo spirito della musica, perché la musica è libera da tutte queste costrizioni, dal momento che esiste nell'aria. È un saggio meraviglioso. [1]

La critica di Busoni alla tendenza della musica «verso l'architettura, ovvero verso la divisione dell'intero in parti», è usata da Cage come un vero e proprio piccone per abbattere quel «muro dell'armonia» che Schönberg aveva ritenuto invalicabile dal suo eccentrico allievo americano. Infatti, ben prima che lo zen gli fornisse «ulteriori ragioni per non studiare armonia» [2], Cage - grazie soprattutto a «L'evoluzione della musica a traverso la storia della cadenza perfetta» di Alfredo Casella [3] un testo definito con insolita enfasi «tra i dieci libri da salvare» - sapeva non soltanto che la struttura armonica, in Oriente, è «tradizionalmente sconosciuta, come è sconosciuta da noi nella cultura prerinascimentale», ma anche che trattasi di un «fenomeno occidentale recente» la cui «disintegrazione [...] è nota comunemente come atonalità». Con questo termine, continua Cage,

si intende semplicemente che due elementi necessari della struttura armonica - la cadenza e la modulazione - hanno perso la preminenza. Si sono fatti sempre più ambigui, mentre la loro stessa esistenza in quanto elementi strutturali esige chiarezza (singolarità di riferimento). L'atonalità è il rinnegamento dell'armonia come mezzo strutturale. [4]

L'interesse del giovane Cage per i rumori (che non possono, appunto, né 'cadenzare' né 'modulare' se non in senso traslato) e l'impiego massiccio del suono indeterminato delle percussioni riflettono quindi un bisogno di comporre 'senza punteggiatura', cioè senza segmentare l'opera in 'unità di senso' discrete e reciprocamente relazionabili. E sintomatica appare la sua cordiale antipatia per un maestro come Haydn [5], che non va intesa come uno scatto umorale, essendo al contrario una conseguenza coerente di queste esplicite premesse:

la struttura, nella musica, è la sua divisibilità in parti sempre maggiori, dalle frasi alle lunghe sezioni. [...] La struttura è propriamente controllata dalla mente. L'una e l'altra godono della precisione, della chiarezza, e dell'osservanza delle norme. Mentre la forma richiede soltanto che esista libertà. [6]

Dalla costrizione che nasce dalle regole della punteggiatura armonica (cadenze di varia natura e perentorietà) nascono quelle forme organizzate architettonicamente che occultano l'autentica musica, la quale, per riprendere le parole di Busoni, già «esiste nell'aria». Andrebbe completamente fuori strada chi - magari dopo aver letto anche quest'altro passo dell'«Entwurf»

Liberiamo la musica dai dogmi architettonici, acustici, estetici [...] facciamo che segua la curva dell'arcobaleno e interrompa a gara con le nubi i raggi del sole; non sia altro che la natura rispecchiata nell'anima umana e da lei riflessa; essa è infatti aria che vibra e va più in là dell'aria; altrettanto universale e completa nell'uomo che nello spazio poiché può ripiegarsi su se stessa e scorrere libera senza diminuire d'intensità. [7]

- ritenesse soltanto una caduta nel luogo comune o un ricorso alla più usurata delle metafore l'insistere di Busoni sul carattere eminentemente 'aereo' e 'atmosferico' della musica. Infatti, ci sembra più corretta quest'altra, ben più articolata, lettura: da un lato, proprio in concomitanza con questo suo volo pindarico Busoni cita E.T.A. Hoffmann, accusandolo tra l'altro (e forse, così facendo, Busoni accusava inconsciamente e per interposta persona se stesso!) di non essere stato, come compositore, all'altezza dei suoi voli di teorico; dall'altro Cage, grazie a un'opera epocale come «4'33"(1952)», è colui che ha ricordato all'intera cultura occidentale che realmente «la musica esiste già nell'aria», purché si sia disposti ad accettare «la musicalizzazione di quel che all'inizio non era musicale». [8]

Quando Busoni depreca l'accezione squisitamente tedesca del concetto di «musikalisch» («Mille mani trattengono l'alato fanciullo e sorvegliano benintenzionate i suoi passi, affinché non voli verso l'alto [... ma] verrà il momento della sua libertà. Quando cesserà d'essere 'musicale'») [9] si colloca, per così dire, sulla cima di un crinale da cui è possibile guardare in ogni direzione. Verso il passato prossimo e remoto, cioè verso la resurrezione della «musica mundana» sotto forma di romantico «Naturlaut» che già in Hoffmann, come si può vedere, appare subordinata agli sviluppi della tecnologia (non a caso la seguente professione di fede compare in un racconto intitolato «Die Automate»):

Non dovrebbe una meccanica superiore cogliere i suoni più propri della natura, scrutare i suoni racchiusi nei corpi più eterogenei e studiarsi poi di fissare questa musica misteriosa in uno strumento, che si uniformi al volere dell'uomo e risponda al suo tocco? Tutti i tentativi per trar fuori melodie da cilindri di metallo o di vetro, da fili di vetro, dal vetro stesso, da verghe di marmo, e di far vibrare e suonare le corde, in modo diverso dall'usuale, mi sembrano per questo degni della più grande considerazione [... nell'«armonicordo»] il suonatore ha in suo potere lo sviluppo, il crescendo e il diminuendo del suono. [...] Forse che la musica che vive dentro di noi è un'altra di quella che è celata, come un profondo mistero, nella natura, e che si svela solo a un intelletto superiore e risuona per mezzo di strumenti, ma soltanto sotto l'impero di una potente magia, di cui noi ci siamo fatti signori? [... «l'arpa atmosferica»] Due grossi fili metallici sono tesi all'aria aperta, a una certa distanza e, fatti vibrare dall'aria, dànno un suono spiccatissimo [...] al fisico geniale si apre ancora un grande campo ... [10]

Ma anche verso un futuro in cui, grazie appunto alle nuove scoperte nel campo organologico, sarà chiaro ormai a tutti che

lo sviluppo della musica naufraga sui nostri strumenti musicali. Gli strumenti sono incatenati alla loro estensione, al loro timbro, alle loro possibilità di esecuzione, e le loro cento catene legano necessariamente anche chi vuol creare. [...] ci scontreremo sempre con le proprietà dei vari clarinetti, tromboni e violini, incapaci di muoversi al di fuori dei loro limiti. [... E con] i manierismi degli strumentisti: il ridondante vibrato del violoncello, l'attacco esitante del corno, l'impacciata asma dell'oboe, la presuntuosa agilità dei clarinetti. [11]

Credo sia superfluo sottolineare che nessun compositore meglio di Cage ha saputo accogliere questo invito di Busoni a sbarazzarsi dei pretesi limiti e degli idiomatismi, divenuti maniera e 'seconda natura', degli strumenti; mentre appare meno ovvia la constatazione che l'attacco busoniano alla convenzionalità e all'artificiosità della musica sembra già anticipare quello condotto da Cage. Infatti, nel brevissimo articolo «La nuova teoria dell'armonia» (1911) Busoni, indicando cinque possibili vie di fuga dagli steccati della tradizione, connota sì criticamente la quarta come «l'anarchia, cioè accostare e sovrapporre intervalli arbitrariamente, secondo l'umore e il gusto (Arnold Schönberg ci si prova; sembra però che cominci a muoversi in un circolo chiuso)»; [12] salvo poi prenderne apertamente le difese, come in questa lettera al musicologo Hugo Leichtentritt datata Zurigo, 9 gennaio 1915, dove leggiamo:

Non posso esser d'accordo, in specie, con il Suo concetto di note 'sbagliate': non si è reso conto di quanto meticolosamente uno Schönberg soppesi un intervallo prima di scriverlo? ( - io tento, almeno, di fare altrettanto -). Ogni altra nota lo farebbe soffrire. In musica è impossibile che ci siano suoni 'sbagliati', come non ci possono essere piante, pietre, forme sbagliate in una foresta. Dobbiamo imparare a discernere l'armonia al di fuori dei trattati d'armonia. La nostra meta è raggiungere questo livello, il più elevato che ci sia, il quale, d'altronde, è retto dalla polifonia (che è appunto paragonabile alla foresta). O a lei sembra più bello e più giusto il giardino barocco? La siepe potata? [13]

Quel che va sottolineato, rileggendo Busoni dopo Cage, è che l'affermazione «in musica è impossibile che ci siano suoni sbagliati», più volte ripetuta anche dal maestro americano, si fonda in entrambi i casi su una visione in fondo ancora romantica della natura, intesa come 'armonia' nel senso di plesso onnicomprensivo degli enti e infinita differenziazione dell'UnoTutto:

Ancora non udite nulla, perché tutto risuona. Ora cominciate già a distinguere. Ascoltate, ogni stella ha il suo ritmo e ogni mondo la sua pulsazione. E su ogni stella e in ogni mondo, il cuore di ogni singolo essere vivente batte in modo diverso, e secondo una legge propria. E tutti i battiti si accordano e sono un Unico e un Tutto. Il vostro orecchio interiore diventa più sottile. Sentite i bassi e gli acuti? Sono incommensurabili come lo spazio e infiniti come il numero. Come nastri si stendono da un mondo all'altro scale inimmaginate, ferme eppure continuamente in moto. Ogni suono è il centro di circoli incommensurabili. E ora vi si rivela il timbro! Le sue voci sono innumerevoli [...].Tutte, tutte le melodie, quelle già sentite e quelle mai udite, risuonano contemporaneamente [...]. Ora capite che pianeti e cuori sono un tutto unico e che in nessun luogo ci può essere un ostacolo; che l'infinito vive intero e indiviso nello spirito degli esseri. [14]

Mai - meglio che ne «Il regno della musica. Un poscritto alla nuova estetica» (3 marzo 1910), atto di fede nella «illimitatezza dei suoni» e «nell'armonia polifonica» che echeggia devotamente quello hoffmanniano - Busoni aveva rivelato il suo volto più 'teutonico' e più 'romantico'; né Cage un volto più genuinamente 'yankee', prima che il buddismo zen lo convertisse alla 'rivoluzione interiore', che nel pragmatico «The Future of Music: Credo» (1937), dei suoi primi scritti teorici forse quello più in sintonia con l'«Entwurf» busoniano nel riconoscere che, di tutte le rivoluzioni possibili in campo musicale, la più necessaria, radicale e imprescindibile è quella che concerne i mezzi stessi di produzione del suono.
La sagacia ermeneutica di Cage, abilissimo in questa occasione a tirare Busoni dalla propria parte facendone coincidere il concetto di architettonico con quello di misurabile e quantificabile tout court, è in questo passo evidente:

Le due cose da cui la musica può liberarsi ora sono, dal mio punto di vista, le altezze e i ritmi, perché erano quelli i parametri che potevano essere più facilmente misurati. È difficile misurare [la dichiarazione è datata 1965, alcune cose non sono più vere] la qualità del suono o la struttura degli armonici, ed è anche difficile misurare la dinamica, ma è facile misurare l'altezza; e così se ci sbarazziamo di quelle misurazioni, possiamo muoverci in un campo più ampio di attività. [...] Non c'è nulla riguardo alle scale e al ritmo periodico nell'arte della musica che li renda così eternamente necessari. Sarei piuttosto d'accordo con Busoni, che sostiene che la musica raggiunge la sua vera natura quando è libera da tutte queste necessità fisiche, e quando scriviamo dei ritmi regolari, come dice Busoni, soltanto il rubato può ridare loro vita: possono rivivere soltanto grazie all'irregolarità. [15]

Ma non meno evidente, alla luce delle esperienze più spericolate della Nuova Musica, appare la vastità di vedute di Busoni, il quale, in questo passo che presenta come interconnessi e inscindibili i problemi dell'improvvisazione, delle nuove grafie e dei limiti della notazione, lancia una velata sfida al futuro che forse solo l'America, gravata da una tradizione musicale meno pesante di quella europea, era in grado di raccogliere con la giusta spavalderia:

La notazione, la scrittura di pezzi musicali, è in primo luogo un ingegnoso espediente per fissare un'improvvisazione, sì da poterla far rivivere in un secondo tempo. Ma tra quella e questa corre lo stesso rapporto che tra il ritratto e il modello vivo. L'esecuzione deve sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento. Invece ì legislatori pretendono che l'esecutore riproduca la rigidità dei segni e considerano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si attiene ai segni. Quello che il compositore necessariamente perde della sua ispirazione attraverso i segni, l'esecutore deve ricrearlo attraverso la sua propria intuizione. Per i legislatori appunto i segni sono ciò che più importa, e sempre più importanza acquistano: la musica nuova viene dedotta dai segni antichi - essi significano la musica stessa. Se dipendesse dai legislatori, lo stesso pezzo dovrebbe essere suonato sempre nello stesso movimento a ogni esecuzione, poco importa per opera di chi e in quali circostanze. Ma questo non è possibile; la natura alata ed espansiva del divino fanciullo vi si oppone; essa esige il contrario. [...] Grandi artisti suonano le loro proprie opere in modo sempre differente, le riplasmano secondo l'ispirazione del momento; affrettano e trattengono i tempi - in un modo che non è possibile fissare sulla carta ... [17]


[0] Traduzione italiana («Il futuro della musica: Credo e Precursori della musica moderna») in JOHN CAGE, «Silenzio», antologia da «Silence» e «A Year from Monday» a cura di R. Pedio, Milano, Feltrinelli 1971, pp. 2426 e 3741. SU

[1] RICHARD KOSTELANETZ, «John Cage. Lettera a uno sconosciuto», Roma, Socrates 1996, p. 170. SU

[2] «In diverse occasioni tentai di spiegare a Schönberg che non avevo alcuna sensibilità per l'armonia e lui mi disse che senza una sensibilità per l'armonia avrei sempre incontrato un ostacolo, un muro che non mi sarebbe stato possibile oltrepassare. La mia risposta fu che in quel caso avrei dedicato tutta la mia vita a battere la testa contro quel muro, e probabilmente è proprio ciò che ho continuato a fare da allora. [...] Sebbene fossimo andati meravigliosamente d'accordo per due anni, divenne sempre più chiaro a me, e a Schönberg, che l'armonia era seriamente fondamentale per lui, e per me no. Allora non avevo ancora studiato il buddismo zen e quando, circa dieci o quindici anni dopo, cominciai a farlo, trovai ulteriori ragioni per non studiare armonia. Ma in quegli anni era come se sentissi di sbagliare, quello che mi interessava era il rumore e se l'armonia non mi interessava affatto era proprio perché non aveva nulla da dire sul rumore. Proprio nulla» (ibid., pp. 3334). Sul 'disinteresse per le funzioni armoniche' e sull'armonia intesa come 'sistema sintattico' da parte di Cage cfr. MARTIN ERDMANN, Prima dell'op. 1. Gli anni di apprendistato e di vagabondaggio di Cage, in Itinerari della musica americana, cit., pp. 101102. SU

[3] Cfr. ALFPEDO CASELLA, «L'evoluzione della musica a traverso la storia della cadenza perfetta, London, J. & W. Chester 1924 (edizione trilingue: italiano, francese, inglese; nuova edizione ampliata a cura di C.E. Rubbra, ivi, 1964). Datato 1919, anche se dato alle stampe qualche anno più tardi, il testo di Casella è menzionato in J. CAGE, «Silenzio», cit., p. 38. SU

[4] Idem. SU

[5] «Le sue cadenze sono impossibili. Se si ha, come me, sempre meno interesse per la punteggiatura», cfr. R. KOSTELANETZ, «John Cage. Lettera a uno sconosciuto», cit., p. 75. SU

[6] CAGE, «Silenzio», cit., p. 37. SU

[7] F. BUSONI, «Abbozzo di una nuova estetica della musica», cit., p. 69. SU

[8] J. CAGE, «Per gli uccelli, Conversazioni con Daniel Charles», traduzione italiana di W. Marchetti, Milano, Multhipla 1977, p. 32. SU

[9] BUSONI, «Abbozzo...», cit., p. 55.
48 ERNEST THEODOR AMADEUS HOFFMANN, «L'automa» (1811), in «I fedeli di San Serapione», traduzione italiana di R. Spaini, Roma, Gherardo Casini 1957, pp. 392394. SU

[10] F. BUSONI, «Abbozzo...», cit., pp. 6061. SU

[11] F. BUSONI, «La nuova teoria dell'armonia», in Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, cit., pp. 8889. SU

[12] F. BUSONI, Lettere, con il carteggio BusoniSchönberg, cit., p. 314. Cfr. anche PIETRO GIZZI, «Simbolo, espressione e costruzione in Ferruccío Busoni», «Musica/Realtà», VI/ 16, 1985,
pp. 167ss. SU

[13] F. Busoni, «Lettere alla moglie», cit., pp. 148149. SU

[14] R. KOSTELANETZ, John Cage. Lettera a uno sconosciuto, cit., p. 270. SU

[15] F. BUSONI, Abbozzo, cit., pp. 5052. SU


Howard Slater    
THE MOST IMPORTANT FLAW
AN EVOCATION OF MORTON FELDMAN

Vincent Barras
UNE INTERPRÉTATION DE LA MUSIQUE
DE MORTON FELDMAN


SU

Laurent Feneyrou
BIOGRAPHIE

MORTON FELDMAN PAGE

Gianmario Borio
MORTON FELDMAN
E L'ESPRESSIONISMO ASTRATTO
La costruzione di tempo e suono
nelle miniature pianistiche degli
anni Cinquanta e Sessanta

FELDMAN AND BECKETT

DISCOGRAFIA

Veniero Rizzardi
ON MORTON FELDMAN'S
«FLUTE AND ORCHESTRA»

[saggio in italiano]

Christian Tarting
LA MUSIQUE MONOCHROME
DE MORTON FELDMAN



Wilfrid Mellers
WALLINGFORD RIEGGER

MUSIC IN A NEW FOUND LAND
pp. 122-124

In Europe, Schoenbergian atonality started from Wagner's disintegration of harmonic stability, dissolving chromatic passion into independent polyphonic lines. The "freedom" which the music sought was at bottom an attempt to achieve a mystical liberation of the Self; and Schoenberg, an Austrian Jew, was a fundamentally religious composer without a faith-as is manifest in the central work in his career, the opera «Moses und Aron». Perhaps there is an allegorical quality in the fact that Schoenberg should have ended his life in the United States; certainly we have observed that some American composers-Ruggles consistently, Ives in his transcendental moments, Carter in his later work-have employed "free" atonality as part of their attempt to express a peculiarly American, anti-traditional mystical experience. While these composers have, however, affinities with Schoenberg in that they associated atonality with linear and rhythmic freedom, they did not follow him into a consistent use of serial technique as a new principle of order, superseding the harmonic and tonal order of the pre-Wagnerian past.
For Schoenberg, the twelve-note row became analogous to the search for a faith; it was the Law, comparable with the medieval cantus firmus or the Hindoo raga-the Word from which all the permutations of human experience derive sustenance and, indeed, life itself. This would seem to apply still more to Schoenberg's more uncompromisingly serial successor, Webern: who habitually set religious and mystical texts and who might well have said, with the Scandinavian serialist Valen, that for the twelve-note composer the row was God's will. It is hardly surprising that the American composer, fanatically democratic, was reluctant to accept such an a priori conception of order; for him-as we have seen-his "mysticism" became synonymous with his freedom. So the first American composer to make consistent use of serial technique employed it in a manner radically different from, even diametrically opposed to, that of Schoenberg. That he did so is the measure of his integrity: which makes his best music, crude though it may seem compared with Schoenberg, still powerfully disturbing.
Wallingford Riegger was born in Albany, Georgia, in 1885, though his family moved to New York in 1899, and Riegger's music is related more to the big city than to the South. Presumably of German descent, he studied in Berlin; and his early works stemmed from the traditions of German romanticism, especially from Bralmis and Reger. It is interesting that these early pieces, notably the Piano Trio Of 1919-20, show nothing of the lyrical-visionary quality of the early works of Schoenberg. Riegger had not yet discovered what, as an American composer, he had to do with his Teutonic materials: so that these pieces, though often powerful and always professional, are somewhat characterless. When, in the late twenties, Riegger finally settled in New York, two things happened which helped him to discover his true direction. One was that he met the pioneers of the "modern movement" in America-Ives, Ruggles, Var&se and Henry Cowell. Recognizing a spiritual kinship with them, he threw in his lot with theirs and devoted an immense amount of time and energy to the PanAmerican Association of Composers. The other event was his introduction to the art of Martha Graham, "through whom I was drawn into a new sphere of creative activity: writing for the modern dance. I had not been impressed with the prettiness of the ballet, so alien to the American scene, but so generously patronized. The modern dance, b~4ig vital and expressive-and an American product-fascinated nie".
These two impulses worked together to free Rieggers music from its retrospective German romanticism. The wilder music of Ives, Ruggles and Varèse revealed to Riegger that his romanticism, if it were to spring from the whole man, heart and nerves and sinews, must acquire a fiercely febrile intensity rather than an elegiac poignancy: while the influence of dance rhythm revealed that this intensity mvolved the release of kinetic energy. This is why Riegger's first "advanced" compositions are so different in efect from those of Ruggles or Ives. There is no "religious" continuity, no winging abundance; instead, the chromaticism splinters the lines into fragments, and only the dynamism of the driving rhythm thrusts the music forwards. In the famous or infitmous Study in Sonority for ten violins (or any multiple thereof), which, appearing in 1929, was the first work of Riegger to create a sensation both of approval and of disapproval, the most traditionally lyrical of all instruments is driven to frenzy by its inability to sing, while it is simultaneously sustained and assaulted by the metrical pulse of Time. Despite their Germanic rather than FrancoRussian roots, the technique and the experience have affinities with those of the early experimental works of Copland, another composer of the big city. But whereas Copland, as we have seen, accepts frustration and wrests from it a kind of strength, even peace, Riegger finds that frustration generates fury: a secundal tension that becomes at the climax almost insupportable. The lid blows off the savagery within the American wilderness; and this is true whether the music affects us as !iorrid or as grotesque.
Something similar happens in one of the earliest of Riegger's works to employ serial technique-Dichotomy (1932), originally for chamber orchestra but later rescored for full orchestra. Whereas Schoenberg's rows are not usually apprehensible as themes, but exist to give an inner unity to the apparently amorphous teiture, Riegger's rows have recognizable identity and their various permutations arc labelled as such in the score. Since the melodic rows arc combined with metrical rhythms of extreme violence, it almost seems as though the rows are present to prevent the music from going mad. Unstably chromatic though they may be, nervously jittery and angular in line, they must be heard as themes, intermittently recurrent, because if they cannot impose order on the chaos of chromatic dissonance and the ferocious assault of metrical Time, nothing can; they are the human will's desperately stammered assertiveness-certainly not, in Riegger's universe, the will of God. [...]