FERRUCCIO BUSONI

STATO DELLA MUSICA IN ITALIA

Musikzustände in Italien. In tre puntate sul quotidiano «Grazer Tagespost» XXXI, 1886, 31 agosto, 3 settembre e 20 ottobre, a firma Ferruccio Benvenuto Busoni. Non piú pubblicato.


I

Quando Lamartine definì l’Italia la «terra dei morti» espresse un giudizio severo ma, per molti versi, anche giusto. Certo di fronte allo splendore passato le condizioni in cui il paese si trovava allora potevano far apparire tutto scolorito e appassito sebbene l’arte italiana potesse vantare anche allora nomi come Rossini, Leopardi, Canova. Oggi invece la definizione del poeta francese dovrebbe sembrare del tutto fuori luogo. Sono i pronipoti di quei morti, quelli che scorrazzano per le strade che portano ai templi dell’arte italiana: ragazzi viziati, maleducati, lasciati a se stessi sin dai primi passi; anche se l’educazione trascurata non è riuscita a soffocare del tutto i germi del loro talento naturale. Così dall’infanzia passano alla giovinezza; sorge in loro il desiderio di formarsi un carattere e capiscono la necessità di acquistare le cognizioni di cui difettano. Privi di una guida adatta, spesso prendono una strada sbagliata e nella scelta e nell’ordinamento dei loro studi procedono senza alcun sistema. Il caso gli fa capitar tra le mani qualche trattato sulle teorie e i principî più spericolati, e vi aderiscono spensieratamente, senza poterne dimostrare la coerenza con una sola prova; trascurano le transizioni, si lasciano sfuggire cose importanti, spesso mancano delle imprescindibili nozioni preliminari. Un ragazzo immaturo di grande intelligenza, di formazione lacunosa, di consapevolezza insufficientemente sviluppata, con una fervida aspirazione a perfezionarsi e che brancola ancora nel buio - ; questo è l’aspetto che ci presenta l’Italia odierna nelle sue tendenze musicali.
Con questo articolo vorrei dare uno schizzo fedele e possibilmente completo di tale aspetto.

* * *

Or sono quarant’anni gli italiani non potevano concepire la musica in nessuna altra forma che non fosse l’opera. Per «concerti» (chiamati allora «accademie musicali») (1) s’intendevano allora, più o meno, esecuzioni di brani d’opera senza orchestra né costumi né scene, e per «virtuoso» («solista di concerto») (1) un individuo che tirava l’arco e soffiava in uno strumento e a cui spettava il compito di far ascoltare motivi d’opera favoriti, arricchiti dei necessari svolazzi e con aggiunte di pezzi di bravura. I concerti si tenevano per lo più negli stessi teatri e singoli virtuosi si presentavano pure in teatro, di solito tra un atto e l’altro.
Sebbene dagli storici l’epoca della vecchia opera italiana si dichiari superata, sebbene la geniale triade Rossini, Donizetti, Bellini (con i suoi satelliti Mercadante, Pacini ecc.) abbia smesso da tempo di creare senza che si sia trovato chi li sostituisca, sarebbe tuttavia completamente errato credere che la vecchia opera sia realmente sepolta e che il pubblico italiano non apprezzi e non ami più le sue melodie. In Italia, più che altrove, il teatro è un’istituzione popolare e nulla può corrispondere più compiutamente alla sensibilità musicale del popolo italiano di quel vecchio stile operistico il quale, sebbene abbia dato parecchie creazioni eccellenti, per natura mira a ottenere l’applauso delle masse.
La situazione dei teatri, inoltre, si oppone a ogni tentativo di progresso. L’impresario annuncia una stagione di tre mesi, in cui si debbono rappresentare tre o quattro opere. I cantanti vengono subito radunati da tutti gli angoli della terra, l’orchestra e il coro accozzati in fretta e furia. In genere il tempo a disposizione fino all’apertura della stagione non è sufficiente per provare un’opera nuova; perciò si mette in programma una delle vecchie opere favorite e così si risparmiano le prove del coro e dell’orchestra e l’impresario è sicuro di riempire il teatro per la serata d’apertura. Per di più i cantanti vogliono essere «presentati» nei loro «cavalli di battaglia» (1) e questi appartengono sempre al vecchio repertorio. Se il primo lancio è riuscito, può avvenire nel caso che l’impresario sia specialmente intraprendente che si arrischi la presentazione di un’opera nuova. Si può essere sicuri che sarà mal preparata, che la messa in scena sarà insufficiente, addirittura risibile, che la prima rappresentazione traballerà in modo pericoloso. L’opera cade oppure resiste per qualche sera; se contiene qualche pezzo popolare, elettrizzante, può ottenere un successo incredibile, si richiedono freneticamente quattro o cinque bis, si tripudia, si tumultua, il maestro è proclamato il «genio atteso da tempo» e trascinato in trionfo in qua e in là. Poco dopo tutto ripiomba nel buio di prima.
[Un caso del genere occorse a Bologna nel 1874. La prima opera di un giovane compositore sconosciuto suscitò manifestazioni di plauso che rasentarono realmente il parossismo. In seguito l’opera fu dichiarata «robaccia» e da allora il compositore è scomparso. È meglio non rammentare ai bolognesi questo episodio. (2)]
Superato il rischio con successo, si cerca di concludere degnamente la stagione «riuscita» con un lavoro di fama salda e sicura: se è andata male, risarcire il pubblico della delusione è un dovere; ad ogni modo è a uno dei maestri della triade che si deve ricorrere di nuovo, e la stagione arriva così alla conclusione con soddisfazione generale. Questa situazione continua e volerla riformare sarebbe fatica inutile. Quando mai gli italiani si dichiarerebbero d’accordo con un teatro di repertorio, con i contratti validi per tre anni? Essi vogliono provare sempre di nuovo l’eccitazione dell’aspettativa emozionante prima di ogni apertura di stagione, vogliono poter idolatrare e fischiare i cantanti a loro piacimento e, nel caso che non piacciono, vogliono poterli cacciare su due piedi; non conoscono costrizioni e perciò non si adatterebbero mai alla disciplina di un teatro regolato, sempre aperto, né vi si sottoporrebbero; non conoscono nemmeno riguardi o pietà e sono capaci di calpestare gli idoli del canto da loro stessi osannati, non appena divengono «sfiatati». Così per il momento tutto resta come prima.

II

Tuttavia, dacché nel corso degli ultimi decenni è penetrata in Italia la conoscenza delle riforme wagneriane, s’è avuto un notevole cambiamento nell’orientamento del gusto, e soprattutto i musicisti più giovani hanno imboccato questa strada con zelo, uno zelo anche eccessivo.
Uno spirito rivoluzionario si è impossessato di loro senza che del vero significato di tali riforme essi avessero un concetto esatto; anzi il concetto ch’essi ne hanno è spesso del tutto errato; considerano le locuzioni armoniche e melodiche caratteristiche di Wagner come il nocciolo del suo stile stesso. Quanto vi è di nuovo e peculiare li incanta e li alletta all’imitazione; un allettamento a cui non si oppongono affatto, perché copiano con tutte le loro forze, scambiano le prove della memoria per forza inventiva e trovano la loro soddisfazione nella considerazione mista di stupore e diffidenza in cui vengono tenuti dai musicisti più anziani e «meno colti».
Lo strano è che appunto queste imitazioni difettano di quel senso del bello che è stato sempre considerato privilegio degli italiani. Scimmiottano solo il brutto, stravolgendolo fino alla deformazione: armonie orripilanti, ritmi sforzati, effetti di colore smodati nella strumentazione, questi sono per ora i frutti che ha portato lo studio delle partiture wagneriane. Inoltre questi giovani non sanno liberarsi della vecchia sciatteria, ce l’hanno nel sangue, mentre Wagner lo hanno solo nella testa; inoltre manca loro la necessaria serietà, sono dei cercatori di effetti e non sono capaci di fare a meno di certe tradizionali formule conclusive e progressioni che provocano sfacciatamente l’applauso, di modo che i loro lavori, rappezzati a fatica, finiscono in una variopinta mescolanza di rozza banalità e stravaganza astrusa; la prima soffoca tutto quanto la poesia può avere di delicatamente sentito, la seconda si esibisce senza motivazione e ambedue appaiono frammischiate a caso senza nesso.
La mancanza di una fase di transizione va ricercata nell’educazione dei nostri musicisti. Della preistoria della moderna opera tedesca sanno poco o nulla. Il flauto magico, Fidelio, i romantici sono loro ignoti.
[La ragione per cui queste e altre notevoli opere non si eseguiscono in Italia è da ascriversi in parte al fatto che il dialogo parlato da sempre completamente escluso dal teatro italiano non può essere sostituito sempre e con leggerezza da recitativi aggiunti.] Ritengono Meyerbeer, erroneamente, tedesco («il grande maestro alemanno» -1-) e davanti a quel suo po’ di contrappunto e al suo caratteristico trattamento dell’orchestra fanno tanto di cappello. Anche se la musica di Meyerbeer presenta alcuni punti di contatto con quella di Wagner, essi non sono da cercare solamente in quelle peculiarità; il salto improvviso, senza transizione, ha avuto cattive conseguenze, ha provocato nella natura degli italiani una lacerazione, vi ha seminato l’incoerenza e la contraddizione e ha distrutto in gran parte il senso del bello: in poche parole ne ha rotto l’equilibrio e l’ha privata della serenità e della leggerezza che le sono proprie.
Tutto quanto ho detto fin qui trova conferma nell’opera Mefistofele di Arrigo Boito, un lavoro che ormai anche i tedeschi conoscono e che non sembra tanto condannabile se si pensa che è il primo lavoro di un ventenne ed è stato scritto poco dopo le prime rappresentazioni wagneriane in Italia, (3) cioè in un’epoca in cui gli animi dei giovani si inebriavano delle nuove impressioni e se ne lasciavano influenzare senza troppo riflettere.
Più unitari, anche se meno significativi, sono i lavori teatrali del mio amico e conterraneo Alfredo Catalani (4), che certo si appoggia considerevolmente a Wagner nella condotta armonica e melodica, ma che quanto a forma e strumentazione appartiene ai «moderati». Il suo stile è nobile e i suoi intenti sono seri. Accanto a queste appaiono opere di ogni stile e carattere e parecchie che portano soltanto l’impronta della volgarità e del dilettantismo. Tra le più decorose citiamo il Ruy Blas di Marchetti, il Guarany di Gomes (ispirato all’Africana), la Preziosa di Smareglia, quest’ultima una pericolosa imitazione del Trovatore di Verdi.
Anche la vecchia opera buffa col suo «recitativo parlante» (1) non è ancora morta. Questo tipo di composizione, a cui bisogna riconoscere il merito di una grande vivacità, non possiede più lo spirito spumeggiante di un Pergolesi, di un Cimarosa, di un Rossini, non la grazia dei francesi, né l’«umorismo» dei tedeschi, ha un contenuto musicale miserevole ed è piena di reminiscenze di compositori favoriti: Cagnoni, Usiglio, eccetera.
Come dappertutto, anche in Italia i seguaci della vecchia scuola e di quella nuova si accapigliano. Ma la disputa tra i partiti ha carattere meno aspro che altrove, perché i partigiani della tendenza wagneriana non si propongono di disturbare con questo altri principi che nulla hanno a che fare con l’arte, e perché in fatto di musica sono d’indole tollerante, non esclusivistica, e si battono per conquistare il trono di «maestro» senza atterrare i detentori precedenti.
Che i sostenitori della dottrina wagneriana siano allo stesso tempo i rappresentanti della tendenza classica tedesca è una circostanza singolare e caratteristica, e si spiega con il fatto che anche la musica da concerto e da camera tedesca è uno dei fenomeni nuovi annoverati tra le cosiddette «stramberie moderne».

III

Pro e contro il processo evolutivo dell’opera italiana agiscono due potenze, una a favorirlo, l’altra ad ostacolarlo: i due editori Lucca e Ricordi, i quali per quanto possa sembrare grottesco e incredibile tengono per così dire in pugno il destino musicale d’Italia.
La signora Giovannina Lucca, una donna gigantesca con baffi e la tabacchiera sempre in mano, si interessa volentieri ai giovani talenti, i cui lavori la commuovono regolarmente fino alle lacrime e che, nel suo entusiasmo, abbraccia e bacia l’uno dopo l’altro senza tanti complimenti. Secondo le sue intenzioni, è la personificazione della tendenza moderna; dobbiamo a lei una edizione italiana completa dei drammi musicali di Wagner.
Il più freddo Ricordi nel campo dell’opera esclusivamente verdiano - si impegna a fondo a salvaguardare fino all’ultimo il Maestro a cui, detto per inciso, deve personalmente molto, ma anche ad abbattere e schiacciare i protetti della signora Giovannina, cosa che pure per lo più gli riesce, dato che è più forte e più abile. Se dunque un giovane apostolo dell’arte si è dato anima e corpo alla signora Lucca, è senz’altro perduto a meno che colei non si impegni per lui con energia speciale. Il signor Ricordi si appropria di una giovane speranza soltanto se vuole fare un dispetto alla rivale, per poi lasciarla cadere (la giovane speranza) il più presto possibile.
I due dispongono di moltissimi privilegi; per le opere di loro edizione hanno il diritto di scegliere i cantanti e il direttore, e persino di vietarne la rappresentazione se giudicano cantanti e direttori insufficienti. Fu così che l’accorta signora Lucca si servì di questa scusa per vietare l’esecuzione dell’Anello del Nibelungo da parte della Società Wagneriana a Milano, perché la forte tendenza antiwagneriana che domina nel pubblico di quella città le faceva temere, a ragione, un fiasco; che non sarebbe rimasto senza pericolose conseguenze nel resto d’Italia (e quindi per i suoi interessi di editore).
Di fronte a Milano, Bologna si trova in una posizione del tutto opposta: Bologna è una città che sin dai tempi antichi si è acquistata la fama di «dotta» per aver coltivato l’arte e la scienza; e per il momento è la sola che mostri un deciso carattere progressista. Quel che a Bologna è accolto in trionfo deve aspettarsi a Milano una fredda accoglienza. E Bologna è per cosi dire un tribunale di appello per coloro su cui pesa la condanna di Milano. La conferma di ciò si è avuta con le due esecuzioni susseguitesi dappresso del Mefistofele di Boito (prima Milano, poi Bologna), la seconda delle quali, coronata da successo, revocò completamente il triste esito della prima.
Bologna è il centro del movimento musicale rivoluzionario: questa preminenza le verrebbe riconosciuta di sicuro anche ufficialmente, se in Italia ci fossero associazioni wagneriane o società di tipo analogo. Da quando Wagner visitò personalmente Bologna e fu nominato allora cittadino onorario il culto wagneriano è salito a un’altezza considerevole, le sue opere hanno raggiunto persino un certo grado di popolarità. Può accadere di sentir fischiettare motivi wagneriani in istrada.
Malgrado ciò Bologna si trova, per molti lati, al livello del principiante, il cui occhio non esercitato non possiede sufficiente facoltà di giudizio da poter sceverare il buono dall’ottimo. Tutto ciò che è nuovo e che porta un nome tedesco è buttato nello stesso calderone ed è avvenuto che La regina di Saba di Goldmark abbia avuto 26 rappresentazioni di seguito, superando in questo il Lohengrin.
È indiscutibile però che vi regna una reale comprensione per Wagner, fatto che trova conferma nelle rappresentazioni wagneriane che vi hanno avuto luogo. La più bella impressione che ho avuto del Lohengrin è stata certo quella riportata a Bologna, quando ho sentito questo dramma musicale in lingua italiana al Teatro Comunale (uno dei più belli d’Italia). È singolare quanto acquista, in questa lingua sonora, una musica pur tanto tedesca nella concezione, quanto risalto ne ottiene il contenuto melodico, quanto questa lingua riesce ad attenuarne certe durezze, a smorzare certe asperità, senza che alcuna morbidezza si insinui a pregiudicare la maschia individualità germanica.
Con la rapidità di comprensione caratteristica degli italiani, i nostri cantanti si sono adattati ben presto al nuovo stile e trovano il tono giusto, senza possedere la benché minima conoscenza del modo di cantare dei loro modelli tedeschi. La graduale decadenza della vecchia opera porta con sé la decadenza dell’arte canora italiana. Già Verdi ha cominciato a usare violenza alla voce umana; e certo la decadenza non verrà arrestata dal tipo di canto richiesto da Wagner, il cui punto di forza è la declamazione; in compenso i nostri cantanti odierni migliorano la loro formazione di musicisti e attori. Anche le orchestre di teatro mostrano, per forza di cose, un considerevole progresso e sono all’altezza di qualsiasi compito gli si presenti. Non mancano nemmeno giovani direttori energici e capaci di reggere le briglie, che hanno portato più di una istituzione al livello d’efficienza oggi richiesto.
Questa all’incirca è, nel suo complesso, la situazione dell’opera italiana, a cui manca oggi soprattutto potenza creativa. Che ogni anno appaiano lavori teatrali a dozzine, che tutta la gioventù musicale abbia la fissazione dell’opera e si metta all’impresa senza nozioni e lavoro preliminari e partorisca i più tragici mostri e aborti, non è ancora una prova dell’esistenza di una potenza creativa, della fioritura del teatro musicale. Persuaso di ciò, l’editore Sonzogno ha bandito un concorso per la migliore opera in un atto, a cui potevano partecipare soltanto compositori che non avevano ancora mai scritto per il teatro o i cui lavori non erano ancora stati rappresentati in pubblico. La composizione vincente doveva ricevere un premio di 2000 lire e venir rappresentata al teatro Dal Verme di Milano. Vinse il premio un lavoro molto mediocre, che ebbe però successo all’esecuzione. Questa decisione ebbe come conseguenza che uno dei bocciati, mosso dal suo orgoglio offeso e dalla giusta consapevolezza del suo valore, fece rappresentare la sua opera «eliminata» in un teatro più grande a dispetto della giuria. La «vox populi» si espresse vivacemente in suo favore ed egli riportò una netta vittoria sul premiato. Se, attenendosi al proverbio, si vuol riconoscere nella «vox populi» anche la «vox dei», si dovrebbe credere, in base al giudizio espresso da quella, che finalmente sia sorta la «potenza creativa» che mancava. Il giovane, un toscano, si chiama Puccini e la sua opera porta il titolo Le Villi. (5)
Da parecchio tempo, ma finora invano, si aspetta con impazienza la comparsa di un Nerone di Boito, la sua seconda opera, a cui sta lavorando da quasi vent’anni; si sussurra anche di un avvenimento imminente, la nascita, a quanto si dice, di un nuovo Otello, ancora avvolto in tenebre leggendarie: l’ultima opera di Verdi. Si dica quel che si vuole del Vecchio, una cosa è certa: quando egli morirà, se nel frattempo la situazione non sarà mutata, in Italia su cui fondare speranze per la sopravvivenza dell’opera, assolutamente nessuno!

(1) In italiano nel testo.
(2) Si tratta evidentemente de I Goti di Stefano Gobatti, che però andarono in scena non nel ‘74 ma il 30 novembre 1873. Ebbero alla prima cinquantadue chiamate e procurarono all’autore la cittadinanza onoraria di Bologna.
(3) In realtà Boito, nato il 24 febbraio 1842, quando dette la prima versione del Mefistofele (Scala, 5 marzo 1868), non poteva aver ascoltato alcuna opera di Wagner (per la prima volta eseguito in Italia a Bologna nel 1871, col Lohengrin), e aveva ventisei, non venti anni; trentatré ne aveva poi quando ne dette la versione seconda (Bologna, 4 ottobre 1875), la sola nota a Busoni e a noi.
(4) Conterraneo in quanto toscano. Catalani era di Lucca, Busoni di Empoli.
(5) Il racconto di Busoni non è informatissimo. Alla sua prima edizione il Concorso Sonzogno (che avrebbe raggiunto fama mondiale col trionfo di Cavalleria rusticana, Roma 1890) vide la vittoria non di «un lavoro molto mediocre» ma di due, La fata del Nord di Guglielmo Zuelli e Anna e Gualberto di Luigi Mapelli; che furono rappresentati, non al Dal Verme, ma al Manzoni, il 4 maggio 1884. Al Dal Verme furono invece rappresentate Le Villi (bocciate a quel concorso), il 31 maggio di quell’anno, per una sottoscrizione sollecitata da ammiratori del giovane Puccini (era nato nel 1858), fra i quali Boito. Quanto all’atteggiamento del Busoni di allora verso Puccini è sintomatico quel ch’egli scrisse al padre, dalla Finlandia, l’11 maggio 1889: «Mi prendo a consiglio di finir l’opera, alla quale mi dedico con tutte le mie forze. Puccini non lo temo». (Cfr. Roberto Wis, Terra boreale, Helsinki, Verner Södeström Osakeyhtiö, 1969, pag. 155). Era dunque Puccini l’«uomo da battere», eppure Busoni non poteva allora conoscerne che Le Villi perché la sua seconda opera, Edgar, era andata in scena appena pochi giorni avanti quella lettera, precisamente il 21 aprile 1889, alla Scala e senza successo, mentre Busoni si trovava in Finlandia.