IL PORTALE DELL'ARTE DI "RODONI.CH"

MAGDA VON HATTINGBERG
RILKE E BENVENUTA

INIZIO

A sera, per le vie, nelle vetrine dei negozi ornati a festa, sui tradizionali abeti, carichi di gingilli, splendevano candeline colorate, biscotti di pan pepato e stelle d'argento. Girando per la, città mi fermavo a guardare le meraviglie esposte: giocattoli e bambole, magnifica argenteria, borse di pelle, sciarpe di seta e preziose incisioni. Io, per conto mio volevo comprare un libro. Non uno già fissato, ma piuttosto uno che mi sapesse dire e dare qualcosa di ben diverso da quel che avevo sinora provato o letto. In qualche parte di questo mondo doveva pur esserci una voce consolatrice, capace di liberarmi dalla tristezza e dalle pene di un periodo di intime delusioni, che avevo allora appena superato; una voce che sapesse dare a una giovinezza rovinata un senso nuovo, una nuova visione della vita.
Mi recai in una piccola ma bella libreria, di cui conoscevo il proprietario, dicendogli: "Mi dia un libro diverso da tutti gli altri, un libro meraviglioso." Il vecchietto fece un cenno col capo, come per dire di aver capito, senza rispondere, e si avvicinò ad uno dei grandi scaffali scuri e lucidi, ne estrasse un volumetto sottile dalla copertina verde e nera, me lo mise dinanzi e disse: "Eccolo." Aprii la prima pagina e lessi: Rainer Maria Rilke, Storie del buon Dio. "Chi è questo Rainer Maria Rilke?"chiesi. Il mio vecchio amico prese il libro, lo incartò, me lo porse, dicendo con una certa solennità: "È un poeta, un vero poeta unico al mondo; tutto il resto è scritto dentro."
Così mi portai a casa le Storie del buon Dio, passando per le vie della città in festa, rischiarate dalla neve, e il mio passo mi sembrava divenuto più lieto, e mi pareva di portare in mano, quasi consolata dal presentimento di un prossimo miracolo, come la luce di una stella. Lessi, anzi pregai tutta la notte nel libro di Rainer Maria Rilke, di cui poche ore prima non conoscevo neppure il nome. C'era la storia di Michelangelo e quella di Timofei; di Ewald il paralitico e dell'uomo che ricevette una lettera; lessi la storia dei bambini, e della morte che non riusciva a far morire l'amore e che doveva sbocciare come fiore oscuro nel giardino degli amanti. Mi sembrava che tutte le mie sofferenze, da poco superate, fossero molto lontane da me, come un passato ormai svanito. Una sola volta, prima, in un'ora di perplessità, d'intima pena – era allora quasi bambina, – avevo trovato conforto in un libro. Erano state queste parole dell'Aurora: "L'ho trovata, fratelli miei, l'ho trovata la sorgente a cui non si disseta con noi la plebe." La severità di Nietzsche, che abbaglia come una luce troppo chiara, mi era però in quel tempo ancora inaccessibile, alta e lontana. Ma qui, nelle Storie del buon Dio parlava un uomo che, a mio parere, sapeva tutto, anzi: sentiva, e per la prima volta sapeva esprimere l'indicibile ch'è nelle cose, dietro le cose e al di sopra di loro e si sentiva fratello di tutti i dolori e di tutte le gioie, della tenebra smisurata e della luce più alta. E mi pareva che tutto il conforto possibile, tutta la felicità e comprensione inondassero il mio cuore aperto. Dopo questa grandiosa rivelazione, non si doveva iniziare una nuova vita, secondo le immortali parole di Leonardo: "Non torna indietro chi dipende da una stella"?
Una sera, pochi giorni dopo, sedevo sola nella mia camera, mentre accanto gli altri passavano il tempo prendendo il thè con i consueti dolci, e divertendosi con le piccole cose della solita vita quotidiana, in un'atmosfera di pace ed allegria; io però ero interiormente così lontana da loro, come nella solitudine di un grande paesaggio – così presi un foglio di carta e cominciai a scrivere: fu la mia prima lettera a Rainer Maria Rilke. Lo feci senza riflettere, anzi appena mi rendevo conto di scrivere; c'era in me soltanto un gran desiderio di ringraziare, niente altro che di ringraziare. E scrissi: "Caro amico! Le Sue Storie del buon Dio sono dedicate a Ellen Key e in questa meravigliosa dedica Lei dice che nessuna altra donna più di lei avrebbe amato queste Storie, e che perciò il libro le apparteneva. – Sinora non ho mai desiderato di essere altri che me stessa, oggi però vorrei ad ogni costo trasformarmi in Ellen Key, solo per avere questa dedica, anche se sono sicura di amare le Storie del buon Dio come nessun'altra persona a questo mondo."
Scrissi anche che il suo libro mi aveva dato un'infinita consolazione; e, sentendolo così pieno di musica, avrei desiderato esprimergli tutta la mia gioia e la mia gratitudine colla musica, essendo questo il mio elemento vitale e più eloquente di qualsiasi parola. Il pensiero di avere una risposta era talmente lontano da me che dietro la busta misi solo il mio nome senza indirizzo e, non avendo idea di dove Rilke abitasse, inviai la lettera al suo editore; così le parole di una sconosciuta ad un poeta se ne andarono in giro per il mondo.
Dopo una settimana, un mattino d'inverno chiaro e luminoso, mi giunse un espresso da Parigi. Non conoscevo la calligrafia, era una scrittura meravigliosa, piena di fervore e al tempo stesso ferma, leggera e serena. La busta portava un sigillo ovale, verde scuro, ma nessun nome. Non so perché, nell'osservare quella, calligrafia, il cuore mi cominciò a battere forte dalla gioia mentre mi veniva fatto di pensare: Bandiere al vento!
Soltanto dopo un po' mi arrischiai ad aprirla. Vi erano dentro molti fogli, fitti di scrittura, sull'ultimo figurava il nome: leggevo – e quasi non ci volevo credere – la risposta di Rilke, avevo in mano la lettera di Rilke:

Parigi, 26 Gennaio 1914

Mia buona amica,
Mi lasci assumere il Suo tono così ricco: la Sua lettera me lo rende naturale; quale gioia ch'Ella l'abbia scritta e che fortuna inoltre che fosse per Lei difficile trasformarsi addirittura in Ellen Key; questo avrebbe complicato moltissimo ogni cosa. Tanto più che, a partire dalle Storie del buon Dio, siamo rimasti reciprocamente insoddisfatti dei nostri lavori... Ma può darsi che anche a Lei sembri falso o indifferente tutto quello che da allora ho creato; e debbo proprio inoltrare tutto quel che c'è di buono nella Sua lettera all'indirizzo, ormai divenuto molto incerto, di quel giovane che, parecchio tempo fa, e in anni assai strani, ha parlato a caso del buon Dio?
Sinceramente che bisogno ne ha? Non glielo concedo molto volentieri perché mi sembra che allora quel giovane abbia colorito il profilo segnato dal Suo stato d'animo, piuttosto a cuor leggero. Lei gli dà una responsabilità molto superiore a quella che ha! Oh, in fondo, non so dirle niente di lui, può anche darsi che Lei gli dia quel che si merita; una cosa, per lo meno è a mio vantaggio: per quanto lo possa viziare, non potrà mai sentire la Sua musica, io invece sì – e lo spero sinceramente.

E come in sogno continuai a leggere:

...perché, dal momento che era già in viaggio, non è passata d'improvviso anche dalla Spagna meridionale? Come l'avrei accolta! Il mio cuore Le avrebbe innalzato un arco di trionfo dopo l'altro, ove Lei avrebbe visto sfilare in continuazione la Sua musica, perché sarebbe giunta al suo termine soltanto nell'interno di me stesso, dove non ero ancora stato mai.

Non riuscivo ad immaginare che una persona lontana, un estraneo, mi scrivesse come un intimo amico! E leggevo, leggevo:

...pensi, quell'inverno lo passai in una cittadina spagnola, non lontano da Gibilterra; avevo vissuto un poco a Toledo ... Le posso assicurare che era un luogo unico al mondo, come fosse creato dalla nostra immaginazione – eppure esisteva, ogni giorno e ogni incredibile notte. Di quanto una visione, che ci appare, supera la semplice consistenza di una creatura umana, d'altrettanto questa città, questo paesaggio, sorpassa i limiti del paesaggio che conosciamo... Improvvisamente, a Ronda (una cittadina della Spagna meridionale), mi fu chiaro che la mia vista era come sovraccarica; anche là il cielo si presentava in tutta quella magnificenza, le ombre delle nuvole segnavano tanta espressione sul volto della terra. Ah! me ne stavo seduto là con gli occhi quasi sfiniti, come se fossi per diventar cieco a causa di tutte quelle immagini ch'erano – penetrate in me; si doveva forse intendere in futuro il mondo – dato che la successione degli eventi e l'esistenza sono inesauribili – attraverso un altro senso, completamente diverso? La musica, la musica: ecco quello che ci voleva. – Una volta qualcuno suonava nell'alberguccio dove mi trovavo, non vedevo nessuno perché ero nella stanza accanto; e sentivo come il mondo si trasferisse più docilmente in quel meraviglioso elemento (che conoscevo appena ed è sempre stato troppo forte per me); e tutto questo mi dava una felicità lieve, quasi troppo piena, perché il mio udito era nuovo come la pianta dei piedi di un bambino in fasce...

Così scriveva un poeta, che riusciva a sentire la musica più pura; le sue parole erano per me come un canto mai udito e pur noto sin dalla eternità. Mi pareva che quasi mi parlasse direttamente:

...ed ora vivo di nuovo qui senza punta musica, in una intima pena, ancor più intensa... Ma la Sua musica mi si presenta ora come una stagione che un giorno o l'altro arriverà. Se poi, in qualche luogo, non si risolve a venirmi incontro, potrà darsi che mi metta io sul suo cammino, come si va in Sicilia per incontrar la primavera, che nel Nord si attende spesso sgomenti.

Nessuno mi aveva mai parlato così; e non era un sogno: queste pagine meravigliose le tenevo davvero nelle mie mani – e non si trattava di un unico saluto, perché vi era scritto:

...non lasci spengere questo caro e nuovo fuoco

e

...Le sono grato e obbligato
Rainer Maria Rilke.

Sì, era quella la voce consolatrice che mi parlava in tutte le lettere che mi giungevano giornalmente. Era la voce dello spirito della vita che, per essendogli superiore, conosceva profondamente quel ch'è umano; a cui Dio si rivolgeva col "tu", e a cui anche il più profondo dolore non era ignoto. Era come se mi parlasse un'anima che, celata nell'esistenza terrena di una natura umana, sopportava questa vita ma anche la comprendeva e l'accettava senza limitazioni.

...è Domenica, ed io la voglio santificare scrivendo a Lei, che ha ora nelle Sue mani un avvenire così meraviglioso per me, che ha il potere di attirare sopra di me, appena voglia, tempeste, temporali e schiarite, i più violenti sconvolgimenti dell'universo. Amica mia non chiedo quando ciò avverrà – ma avverrà. Non ho mai chiesto nulla, neppure quando, fanciullo sconsolato, fui cacciato nel collegio militare, dove la vita, neanche un unico soffio della mia vita poteva penetrare. Ma poi venne tutto, anzi sin troppo; tutte le pene della vita derivano in fondo dalla sua sovrabbondanza.

E sempre provava nostalgia per quell'elemento speciale ch'era per lui la musica:

Avevo quasi paura della musica, a meno che non risuonasse in una cattedrale, salendo direttamente a Dio, senza sostare in me. – In Egitto mi fu raccontato – e lo capisco – che ai tempi dell'antico impero la musica (così almeno si suppone), fosse proibita; doveva essere eseguita unicamente dinanzi a Dio e solo per lui, come se lui soltanto potesse sopportare la esaltazione e la seduzione della sua dolcezza, come se per ogni essere inferiore fosse mortale. Non lo è infatti, amica mia?... O la musica è forse la resurrezione dei morti? Si muore al limite del suo regno e si risorge in lei splendendo, per non più distruggere? Ma il mio cuore, ha già la forza di morire completamente in lei per poter poi così risorger?... Mi ricordo d'aver immaginato che, in grandi pianure, si potesse divenire un eroe, soltanto perché nelle sere primaverili le nuvole si accavallavano all'orizzonte in cumuli dal profilo ardito, ma poi era anche possibile che un uomo soccombesse, per aver sentito chissà dove nel passare, il suono di un violino, che deviava tutta la sua volontà verso un destino più oscuro. Quando ripenso quanta forza spontanea si sprigioni da un qualsiasi frammento di musica antica, come l'ho udita a volte in Italia o in Spagna, e anche nella Russia meridionale, Beethoven mi par quasi il Dio degli eserciti, che domina tutte le forze e che spalanca gli abissi dei pericoli per gettarvi poi sopra gli archi dei ponti delle sue splendide salvezze...

In queste lettere Rilke rivelava una quasi inesauribile ricchezza, e mi faceva dono di un'altrettanto inesauribile e incomprensibile fiducia:

Prezioso cuore! Come il mio cuore si slancia verso il Suo! – vorrei scriverLe tutte in una volta le lettere di molti anni. Si ricorda? Ci sono al mare mattinate simili, d'una forza serena, in cui tutte le onde vogliono giunger insieme..., non c'è che gioia tra di noi, una gioia limpida; si scorgono i paesetti più lontani e le campane par quasi che si muovano visibilmente per l'aria vibratile... Amica, beata, serena, luminosa, anima incoercibile: il caso ha voluto che fossero vicino al suo cuore, uno dopo l'altro, alcuni miei libri, scritti da me molto tempo fa; chi ero allora e chi sono ora?... Che sarebbe avvenuto se Lei avesse letto invece una mia opera in prosa, in due volumi, in cui pensavo di sfruttare riserve di antiche pene, senza rendermi conto che proprio così avrei dato inizio ai miei dolori, a tempi tremendi? Non che avessi perduta la fede in quel che vi è di più grande, né che fossi scoraggiato – ho certamente proceduto... ma mi pare d'esser semplicemente penetrato in una montagna e, in seguito a continui miracoli contro natura, di aver respirato la pietra, esistendo soltanto nel sasso. Ma poiché non amo i 'miracoli' e godo invece della natura, mi pareva d'essere un mostro nella mia montagna... speravo che qualcuno mi scoprisse con la piccozza, e con lo scalpello mi liberasse e mi posasse su di un prato, al vento, qualcuno che se ne stesse silenzioso, comprendesse tutto e vi fosse realmente; probabilmente avrò gridato tanto che davvero alcuni passanti si misero a tirarmi fuori, ma una volta riportato alla luce, tutto era sbagliato. Non ho pratica degli uomini; infine li pregai di andarsene, e appena allontanati strisciai di nuovo nella mia montagna, perché fuori sprecavo la mia vita senza ricever nulla in compenso, mentre la roccia non mi disperdeva... Questo occorreva dirlo: chi Le scrive somiglia molto più al protagonista di questa fiaba, che non a quel giovane d'un tempo, di cui Lei ha letto volentieri e con commozione alcuni libri. Quest'uomo (nel cui intimo nessuno ha veramente accesso) scriverebbe a tutti di non venire. Ma a Lei (alla Sua insospettata amica, in cui ha la massima fiducia), scrive: Faccia quel che la Sua gioia Le suggerisce, perché non può sbagliare: la forza e lo splendore sono con Lei...

Rilke raccontava in queste lettere tutta la sua vita, sin dagli anni della sua infanzia, a metà felice e a metà inquieta, e sempre me ne riparlava:

...Allora, quando eravamo ancora bambini, si viveva tutto, credo, persino lo spavento  (senza sapere cosa fosse lo spavento), e la gioia (senza sentire che ce n'era una, troppo ricca per i nostri cuori) – e forse l'amore sino in fondo. Compagne di giuoco, non vi ho forse amate? Come mi precipitavo incontro a voi; ed anche voi eravate ansanti e il vostro alito mi giungeva profumato e caldo, come da un campo di trifoglio in piena estate – si stava poi discosti l'uno dall'altro; la palla, lanciata dalle vostre mani, mi portava l'ardore del vostro corpo e insieme della vostra anima. E quando venivate, 'dovevate venire' (e questo fatto sembrava prestabilito miracolosamente in un ordine cosmico, – questa vostra venuta, alle quattro, 'magari anche un po' prima') – come era ben assettata per voi la mia stanza, le mie bambole erano tutte allineate, piene di stupore – come luccicavano le maniglie delle porte... e poi c'erano altre fanciulle, già più grandicelle, cui non s'era badato. Ma una volta erano più silenziose del solito; a tavola, prendendo il caffè si potevano osservare; la più taciturna mi stava di fronte, – com'era bella! – si capiva che i suoi capelli non erano più quelli d'una bambina, curati com'erano prima da mani affettuose ma pur estranee: no, ora erano i suoi capelli..., d'un tratto, chissà perché, ci si domandava se non avesse pianto da poco: ed ecco che subito il cuore, sorvolando tutti i dolci, traboccava verso di lei... Era un impegno preso da una sola parte quello di amare una fanciulla già grande e melanconica; si posava la gota sull'orlo del tavolo là dove lei s'era appoggiata; la si vedeva giungere per la strada, riconoscendola da lontano, in tutti i travestimenti della sua grazia... Oh nobile gioia di servire dei trovadori, come mi penetravi tutta – primo orgoglio cavalleresco, primo rammarico al pensiero ch'ella mai nulla avrebbe saputo: bei sentimenti, indossati uno sull'altro come una corazza su un giustacuore di pallida seta rosa. E, mentre intorno a noi c'era chi si faceva venir le rughe per la fatica di volerci preservare dal più piccolo raffreddore, non vi era in noi un solo punto che non anelasse notte e giorno di morire per lei.

Rilke parlava di tutte le più grandi e le più piccole cose di questa sua infanzia, della casa paterna, della madre, spaventosamente pia, di cui non si peritava di dire, con amarezza, che "pregava come altri bevono il caffè". Quando il figlio era ancor bambino, ella aveva sofferto per molti anni perché era un ragazzo, tanto che fino all'età di sei anni l'aveva vestito come una bimba e chiamato "Sofia". Ancora piccolino l'aveva costretto a spolverare i mobili e fare altri lavori donneschi. Quanti ricordi di questa vita infantile, stranamente ricca ed intima, ho avuto modo così di conoscere:

A volte i ricordi ci giungono da lontano; ieri mattina vidi questo spettacolo: nella mia strada c'era un uomo su una scala a pioli a tingere, imitando il marmo, con quella tranquillità che l'esercizio di un mestiere onesto conferisce, la cornice in legno di un negozio  la scena si svolgeva serenamente e innocentemente sotto gli occhi di tutti. Ma ecco che una bambinetta, attraversata la strada, si ferma sotto l'artista e grida verso l'alto, con la testina pettinata d'allora, piegata 'da una parte come un passerotto: 'Ah! che bellezza, com'è bello!' C'era una così sconcertante ironia nella sua impertinente voce di uccellino, che l'uomo sulla scala deve essersi sentito girare la testa. Io ridevo, ma, una volta al di là della cantonata, mi venne in mente che, circa verso l'età di quella bambina, nell'ambito delle mie considerazioni entrava anche la distinzione tra il marmo vero e le sue imitazioni; non tralasciavo mai, a quei tempi entrando nella sala di una trattoria o in un atrio, di tastare, senza dar nell'occhio, la parete o la colonna a me più vicina, e se l'esame era negativo, mi guardavo bene di rivelarlo, credo anzi che segretamente le confidassi una specie di simpatia... in quei tempi infatti, quanto lontana era l'ironia da un ragazzino come me. Ma chi lo avrebbe potuto comprendere?  Quando penso a mio padre, sono quasi sicuro ora, che non ne sapesse niente, anzi: che non fosse capace di amare; fino all'ultimo provò per me una specie di indicibile tremore affettivo, un sentimento di fronte al quale mi sentivo quasi indifeso e che gli dev'esser costato più dell'amore più sviscerato...

Così ci parlavamo da lontano, e quando gli scrivevo era sempre con profonda riconoscenza; ma che io, che da lui ricevevo doni così preziosi, potessi dargli con le mie lettere gioia e coraggio di vivere, non lo potevo ammettere e da principio non osavo crederlo neppure, ma quel che mi pareva impossibile e che mai mi sarei sognata, doveva pur esser vero se egli mi scriveva:

Cara, vicina al mio cuore, sorella, esisti davvero e Dio ti ha forse mandato a me negli anni della mia pena perché la possa superare? Mi è consentito di sentire il mondo, di respirarne l'aria, con la certezza che tu vi sia, amica mia, come so che Dio è in lui, da quando ho avuto la sicurezza della sua presenza assoluta nella gioia del mio lavoro, come tu nella tua musica?... Questo 'tu' che m'è improvvisamente venuto alle labbra, non mi deve togliere l'appellativo di prima; ti voglio dir tutto, dar tutti i nomi, e convincermi che 'Lei' rappresenta per me vicinanza e lontananza e che 'tu' sei per me un'esperienza aperta e insieme il rifugio contro di lei...

Così mi fu concesso, in ogni sua nuova lettera, di ricevere e custodire devotamente questo dono immenso di un cuore che mi si schiudeva. Seppi degli anni penosi passati nel collegio militare, del primo amore e della prima delusione, del matrimonio, e dell'intima liberazione da questo vincolo, della sua bambina, della sublimazione della grande amicizia con Rodin, del dolore per tutti i malintesi, dei viaggi, del lavoro e della solitudine e dei demoni nascosti nell'intimo della sua natura...

Oh! Se ti parlassi di ciò, Benvenuta; di questa malvagità che mi afferra sino al profondo dell'anima e lungo tutto il corpo! Di questo contorcersi, come di una cosa che vien usata per un fine a cui non è destinata. Benvenuta, tu non puoi immaginarti che senso di orrore mi penetra nell'anima alla vista delle condizioni umane. Salvami anche in questo. Quante volte in questi giorni ti prometto di non lasciar sorgere in me neanche il più piccolo pensiero che non possa confessarti, senza cioè escluderne alcuno, né il più crudele e neppure il più perverso, purché non mi tenti con un qualsiasi cenno d'invito o una qualche suggestione: ché allora viene escluso.

Nella sua sacra e commovente confidenza, mi parlava del suo più intimo segreto, ed io compresi, anzi ebbi il doloroso presentimento che, con tutta la sua nostalgia verso "il prossimo", avrebbe dovuto essere e restare solo; era il suo destino e la sua tragedia di "non poter legare il suo affetto all'umanità", per quanto vivo fosse in lui questo desiderio. Più d'ogni altro ricco di comprensione e generoso nel dar conforto agli altri, egli soffriva di un male senza nome, che esisteva solo in lui e nell'umano corso della sua vita. A volte, però, pensavo che queste mie preoccupazioni erano esagerate, poiché mi arrivavano poi altre lettere illuminate di tutto il sole e di tutta la luce di una giornata primaverile; la sua calligrafia aveva allora un che di alato, di esultante.

Cuor mio, quale purezza, quale chiarezza, quante tempeste nell'anima mia verso di te! Perché è proprio così: i miei pensieri acquistano in te la loro purezza e non ne può esistere uno impuro, perché non può vivere in te. Quella vita dello spirito, per cui lotto da tutti questi inenarrabili anni (capisci: dello spirito, di uno spirito così universale da poter inghiottire tutto in sé senza nulla escludere) questa vita infinita dello spirito mi diventa una realtà in te; e io vi figgo gli occhi come nel paesaggio più innocente... Lo sento: è nella tua natura di potermi comprendere nella mia completezza, tu, maggior cerchio intorno all'infinito cerchio del mio cuore...

Tutto, tutto l'amico mi svelava in queste bellissime lettere – e come sapeva raccontare, con quel suo speciale e lieve umorismo, di sé, di persone e cose:

...Figurati, è venuta una visita (se apro la porta già sono perduto): un pittore, che voleva delle informazioni sopra una nuova casa editrice, una nuova rivista. (Buon, Dio, quante ce ne sono ora e che aspetto hanno!) Insomma, per esser breve: convenimmo che in questi tempi l'arte seguiva un cammino assai strano e che noi ne avevamo percorso un altro; parlandone pareva che invecchiasse; i tempi in cui s'imparava scomparivano all'affollarsi delle novità in un mondo imprevisto. Io no, non invecchiavo, perché non è finito ancora per me il tempo d'imparare. Quando egli invecchiò tanto che gli rimase appena la forza di camminare, mi affrettai a regalargli un libro...

Imparai a conoscere anche il piccolo mondo che lo circondava: la vecchia giornalaia sulla cantonata, la trattoria che frequentava, la femme de ménage colla sua "inesauribile riserva di chiacchiere"; scriveva di tutto con tanta potenza di rappresentazione da credere di aver dinanzi vive persone e cose.

...Ti voglio raccontare anche del mio ufficio postale; fino a lì soltanto posso venirti incontro, poi devo affidare ad altri tutto quel che in questa solitudine trabocca con tanta forza verso dite. Non puoi certo immaginare, come questi uffici sono (come dire) attrezzati, con le loro penne e cartasughe eternamente riadattate; niente va perso in questo ménage; dietro gli sportelli solo donne, e – ragazzini addetti alla posta pneumatica, con lo sguardo sognante ed assente, e la bocca aperta, tanto che vien la tentazione di ficcar subito lì dentro la cartolina arrotolata... Ma a me interessa un altro tipo... I cani non devono entrare; se però se ne possiede uno e si deve lasciarlo fuori, e quello se ne sta seduto con la testa piegata un po' obliquamente, meravigliandosi che il suo padrone lasci uscire tanti falsi padroni prima di ricomparire nella sua assoluta evidenza – allora può avvenire che quel tipo apra un pochino la porta (la porta sacra, oggetto di tante speranze) per far capire al cane che la sua causa non è disperata, poiché egli protegge lì dentro il suo padrone. – Poi rividi quel tipo al suo posto: si tratta di un vecchiuccio striminzito seduto dinanzi a una scrivaniuccia consumata; suppongo che questa creatura non si sia sprecata prima di arrivare a essere sfruttata in questa sua attuale occupazione che consiste nel riassettare la mattina, a modo suo, per così dire, l'ufficio: nel cercare cioè tre o quattro strofinacci, abbandonati da lui in qualche posto e, trovatili e esaminatili severamente con gli occhiali, nell'abbandonarli poi un po' più in là... Più tardi s'addormentò sullo scrittoio, benché nella stanza vi fossero rumori d'ogni sorta e anzi il capoufficio parlasse piuttosto ad alta voce con un signore; questi se ne andò e altre persone anche, io stesso tra di loro; ma nell'uscire mi resi conto, da un richiamo alle mie spalle, che il capoufficio voleva che uno di quei signori ritornasse. In quei casi sì servivano – puoi immaginarti di chi – così, cara, mi voltai: ed eccomi dinanzi il vecchio: cercava assolutamente un signore che non aveva mai veduto. Dal suo punto di vista era otticamente esatto che tutte le persone che gli voltavan le spalle, per due, tre secondi, sembrassero uscite dall'ufficio – come effetti d'una sola causa, avevano tutte la loro origine dall'esistenza dell'ufficio postale. Il vecchietto stette perplesso dinanzi a questa astrazione: istintivamente si ritirò in se stesso, là dove prima aveva ancora goduto tutta la quiete del suo sonno, nel suo intimo: ma era inevitabile che là m'incontrasse; tutti e due ne fummo incantati; senza più esitare, gli cercai subito tra tutte le schiene che sempre più si allontanavano, quella che più verosimilmente veniva ricercata con ragione. Oh Benvenuta! Cosa ti ho mai raccontato?

Se il mondo gli appariva lieve e benevolo, quando era sereno, quanto gli sembrava pieno di spettri quando l'elemento tragico della sua anima si risvegliava in lui e minacciava di soggiogarlo!

...quanti spettri ovunque, Benvenuta... Me ne ero andato una volta tutto il giorno in giro nei dintorni e, tornando a casa la sera tardi, trovai dinanzi alla mia porta sulle scale, una gran quantità di fiori, sciolti, presi in campagna e grandi rami di fior di pesco e di melo; erano la cosa più stupenda che si potesse immaginare..., ma faticai, sfinito, per due ore a sistemarli; nessun vaso era abbastanza alto per quei rami pesanti e ingombranti; quando credevo di esserne venuto a capo ecco che vedevo altri fiori; col mio lume li scoprivo in terra, sulle poltrone, sui libri. Cercai qualche altro vaso e il mio lume mi abbagliò nella fitta oscurità; poi non trovavo più quei fiori, ma altri. Oh! avevano un aspetto così stanco, parevano come svenuti – allora m'inginocchiai, mettendo la mia candela vicino a loro per districarli; alzando lo sguardo l'ombra dei rami sulla parete sembrava levarsi contro di me, come un enorme artiglio. Quando finalmente venni a capo di tutto, ecco che, passandogli accanto, rovesciai l'alto vaso coi rami e un torrente d'acqua si riversò sul pavimento. – Benvenuta, esiste un inferno? – In quelle ore notturne mi parve che un pianto amaro mi si insinuasse in gelidi frammenti nel cuore perché poi li sciogliessi a poco a poco, soltanto col mio più intimo calore. Oh! perdonami, se ti scrivo tutto questo, cara!

Lettere simili mi facevano stare in grandissima pena per la sua salute, per la sua vita. Ma se gli scrivevo tutta preoccupata, di consultare magari un dottore, non ne voleva sapere, anzi era allora lui che mi consolava:

...Non ho paura di certe manifestazioni morbose, perché non voglio coltivarle ma soltanto subirle e superarle. Credo che, se non lo si fraintende e non lo si coccola, non ci sia niente di più caduco dell'elemento morboso, perché desidera solo di non essere, di scomparire appena incontra una manifestazione di forza. – Non mi sono mai potuto intendere sul serio con un medico; è gente che parte da una fondamentale diffidenza per quel che si espone e io sento subito: ecco un intruso sul mio cammino; cosa vuol mettere fra me e la mia natura? E passando sopra di lui, fra questa mia natura e me c'è modo di scambiarsi uno sguardo, oh, così buono e così confidenziale, Benvenuta, come se improvvisamente potessimo intenderci pienamente.

Simili parole mi ridavano speranza e gli scrivevo allora fiduciosa e piena di gioia. Ed egli lo sentiva con tutta l'intensità della sua natura:

Oh! amica vicina, prossima, intima: perché fare ora questo ora quello, vedere persone, leggere lettere di estranei e persino uscire per andare alla mia noiosa piccola trattoria? Oh se Dio mi risparmiasse, avesse riguardo e mi facesse nutrire qui, senza dar nell'occhio, da un corvo; potrei starmene sempre qui seduto, come San Girolamo nel deserto e scriverti! E quando venisse il corvo col suo bel panino tondo e concreto, gli farei un cenno col capo, in modo che un simile uccello mi comprendesse, e gli direi: 'grazie, mettilo costì, per piacere'. – – e... lo dimenticherei, cara, e vivrei, sì, vivrei lo stesso mille volte nella mia fiducia in te. Lo sento: il fatto che tu esisti dovrebbe rappresentare per me già quel ch'è l'aria, il nutrimento..., poiché noi abbiamo quest'unica, nostra gioia, e venne creata da Dio tra le altre cose, sin dall'inizio del mondo, ma nessuno s'è arrischiato ad approfittarne, perché appariva assolutamente inverosimile; così è giunta come nuova dal Paradiso...

Avevo ricevuto un dono immenso: la sua gioia, le sue pene, i suoi giorni difficili e il suo: "salvami anche in questo".
Tutto ciò mi rendeva profondamente felice ma al tempo stesso gravava su di me con tutto il peso di una responsabilità forse insostenibile. Quante volte mi son chiesta: "si può, si deve esercitare una qualche influenza sull'intima natura d'un uomo, ed è possibile salvarlo dagl'impulsi tragici che esistono in lui? Non deve forse ognuno, da sé e in piena solitudine, foggiare il suo proprio e interiore destino? Come potevo presumere in questo caso di compiere un'azione decisiva?" Certo questi pensieri lottavano anche col miraggio di una grande speranza: che fosse tuttavia possibile, per un miracolo, dominare gli elementi oscuri con una fiducia invincibile. – Giunse poi una lettera in cui Rilke parlava ancora della sua incerta salute fisica e morale. Lo avevano consigliato di affidarsi alle cure del professore Freud, il fondatore della psicoanalisi, ma egli si era energicamente rifiutato; e lo capivo anche troppo bene. Avevo incontrato il professor Freud solo due volte, ma la sua personalità, il suo modo di parlare e soprattuto le sue teorie, mi avevano fatto una cattiva impressione, ne avevo anzi sentito ribrezzo. Rilke mi parlò di psicoanalisi e del consiglio di quei tali amici, che lo volevano convertire alle teorie di Freud:

...Che per me non ci fosse nulla di più fatale e mortale che l'espormi alle influenze di una simile cura, anche se ridotta ai minimi termini, mi fu, per fortuna, subito assolutamente chiaro. Quanto più mi si rivelarono gli scopi e i procedimenti della psicoanalisi, tanto più mi convinsi che essa avrebbe agito in senso distruttivo in un'esistenza, che riceveva i suoi più forti impulsi proprio dal fatto che non si conosceva e che, per merito del profondo segreto della sua anima, era continuamente in relazione con tutti i segreti del mondo, e persino con Dio, e ne veniva così misteriosamente e generosamente sostenuta.
Caro cuore, mia cara cara fanciulla, vi è stato un momento in cui mi rivolsi con grida di ripulsa e di scongiuro contro di me, quando mi resi conto di aver insistito troppo nel ricercare (per un attimo), sino in fondo, le origini del mio interiore turbamento; oh, sorella: ho acquistato un nuovo rispetto per il mio intimo, quando mi avvidi che non avevo il diritto di penetrarlo, che l'avrei posseduto soltanto se mi fossi messo, povero come pur sono, steso sulla sua soglia, come l'amante sta umilmente dinanzi al cuore inesplorato dell'amata, su cui non ha alcun diritto, a meno che la dolce innamorata non voglia, per una misteriosa ragione, sortirne. E promisi a me stesso di soffrire ancora molto più di quel che ho sofferto e di lasciarmi sommergere piuttosto dalla mia crescente sofferenza che presumere di voler spiare le forze che nel mio più profondo intimo decidono della mia vita; perché appunto questo è in mio potere: il non voler arginare le segrete forze che esistono in me. – Benvenuta, benvenuta per me fin dall'eternità, m'intendi?...

Quante volte l'amico lontano aveva detto nelle sue lettere che ogni influsso umano gli potrebbe esser fatale, dato che tutta la sua vita era una "accanita lotta nella solitudine" per il suo lavoro! E per quanto quel suo scrivermi sempre più spesso e insistentemente: "Vediamoci! Oh! se tu venissi!" mi rendesse immensamente felice, pure ne restavo insieme spaventata. Mi sembrava impossibile di vedere davvero Rilke, di sentirlo parlare, lui, che mi aveva ridato tutto: il mondo, la vita, l'energia e la gioia, ma che si lamentava anche – e quante volte! – disperatamente della propria esistenza. Questa contraddizione, che riuscivo appena ad afferrare, mi ispirava a volte un gran timore, perché d'un tratto e inaspettatamente, in mezzo !alle sue parole di giubilo, s'affacciava un'ombra che minacciava di distruggere tutto:

...Benvenuta, sorella delle sorelle, quante volte s'insinua in questo sempre più intenso slancio verso di te, il timore, sempre ricorrente, di una insufficenza (il mio timore così profondo dinanzi a te); so infatti di non essere come i giorni dell'anno, che vengono quasi uno dall'altro; può invece accadere che la sovrabbondanza del mio eloquio si muti di colpo nel suo contrario più assoluto, come succede a quel fiume che, inaspettatamente scompare colle sue acque sotto terra – oh cara, quando mi prende questa paura, vorrei subito venire da te in tutta la mia smisurata vastità, e non lo posso, e devo distruggere il fronte delle mie armate, per mandare come messaggero un uomo dopo l'altro, per la "porta stretta" di questi fogli inospitali: è quel che deve sentire chi anela alla eterna beatitudine e sente colle sue preghiere di non giungervi che a intervalli. – Ah, dovrebbe forse morire, per penetrare in tutto il suo splendore, di colpo e interamente, in cielo, che sarebbe quasi scosso da un brivido di paura dinanzi all'impeto della sua anima. Così tu mi sentiresti, ma non ti spaventeresti, perché ti è naturale comprendermi completamente. Oh, mia creatura, e mia sorella, cara, cara fanciulla! Oh non poter passare che dall'ombra, creata dalle tue mani, all'eterna luce, che emana dalla loro musica. Dimmi, se una volta tutto questo sarà detto, se una volta tutto questo si sarà avverato, vivrò allora? Morirò? Non è forse la testimonianza di tutta la mia esistenza che mi diventa una realtà in te? E chi sono io per aver diritto di affidartela, coll'animo agitato, sigillandola poi con il tuo cuore?

Questa invocazione mi parve un sacro comandamento. Non mi ricordo più le parole, so soltanto che gli scrissi che sarebbe una cosa meravigliosa l'attendersi l'un l'altro in una stazione sconosciuta, fra gente indifferente. Accennai a Firenze, Lucerna o Ginevra. – La sua gioia traboccava in questa lettera:

...Ginevra! – Dio mio, Benvenuta, non ho mai visto in questo stato la mia valigia; appena le detti un'occhiata là dov'era, dietro la tenda, quasi mi balenò dinanzi; si sentiva vuota come non era mai stata in vita sua e voleva esser subito riempita, e così ora ho da tenerla ferma davvero, altrimenti un giorno partirà sola e vuota per Ginevra insieme alla coperta da viaggio che vi sta sopra. Prezioso cuore, sarà possibile? magnifico che tu abbia scelto una città in cui non sono ancora stato! Con te vorrei trovarmi prima sempre in luoghi assolutamente nuovi per me, così splendenti nella loro novità come tutto quello che ci capita, sinché anche le località conosciute poco a poco, quasi risuscitate, collo sguardo volto al passato, non trapassino nella nostra, nella nostra felicità.

Nei giorni seguenti – nel frattempo mi era giunto un avviso per cui mi sarei dovuta recare a Berlino per trattare di un concerto – ebbi un sogno molto strano, che si ripeté per tre notti consecutive. Lo misi per iscritto e lo mandai a Rilke nella lettera successiva. Era un sogno su Caronte e la dimora della Morte:
Mi trovavo in una torre grigia, quadrata, circondata da acque oscure e ferme. Tre grandi finestre erano aperte nelle mura di pietra: dall'una si scorgeva il mare, dalla seconda lo sguardo spaziava sulle montagne, e dalla terza invece si volgeva sulla vita dei nostri giorni. Nella quarta parete s'apriva un portone che conduceva in un tenebroso abisso. Caronte, nella sua barca, guardava in silenzio sfilare una processione di uomini, bambini, giovinette e donne che, attraversando il portone, penetravano nell'ignoto; e una volta ch'egli volse la testa, vidi che i suoi occhi erano stelle.
Avevo l'incarico di suonare la campana quando nuove schiere, afflitte e a testa china si avviavano verso l'abisso, – e la campana suonava cupa e sembrava dicesse: "quando, quando?" Guardando da una delle grandi finestre, da quella che dava sul mare, si videro ad un tratto innumerevoli navi che si avvicinavano alla torre. Gli elmi dorati dei guerrieri brillavano nella luce del tramonto; erano venuti da lontano per dare l'assalto alla dimora della Morte. Ma quando furono vicini, un muro spesso e grigio s'innalzò fra loro e la torre il tinnir delle armi e le grida si spensero e il silenzio mortale di prima tornò a regnare.
Ma dinanzi alla finestra che dava sulla vita dei nostri giorni si produsse un movimento. Era una via con molta gente, veicoli e il via vai di una grande città. In mezzo a questa baraonda un bimbo, con nelle braccia una bambola che guardava amorosamente, volle attraversare la strada – ma due grandi cavalli neri, galoppando a corsa sfrenata, lo travolsero. Molta gente corse in suo aiuto, uno lo sollevò – sanguinava da molte ferite; teneva ancora ansiosamente stretta al petto la sua bambola; sulla faccina smorta splendeva però, come un sole, il suo sorriso. – Caronte si era voltato, sembrava avesse dimenticato la sua barca e le schiere dei trapassati – stava alla finestra a guardare, e guardare – e io vidi che dai suoi occhi stellari cadevano lagrime abbondanti.
Di colpo la campana cominciò a suonare da sé; tutti quelli che si erano avviati verso l'abisso risortirono dall'oscuro portone, lieti e beati; e con lo scampanio pieno e solenne, s'innalzò verso il cielo un coro di voci che cantavano: "Ecco, guardate, un bimbo ha redento il mondo!"
Il giorno prima di partire mi giunse la risposta di Rilke, bella e confortante; si chiuse così, con le
Storie del buon Dio, l'anello intorno al nostro inizio, con queste sue parole:

Cara, il tuo sogno, sai cos'è? – la più bella delle Storie del buon Dio; non si trova, è vero, nel mio libro, perché non l'ho scritta; tu l'hai sognata. Ed è questa una grande, magnifica, incomprensibile giustizia.

ATTESA

A Berlino abitavo presso la famiglia Delbrück a Grunewald, a cui ero legata da anni da intima amicizia. La loro casa era un asilo d'ogni bella cosa, per tutte le arti, e vi dominava un largo senso di umanità. Già i comodi ambienti, semplici nella larghezza degli agi, davano un'impressione di tranquillità, di gioia e di un fine gusto artistico. Nel salotto della signora Delbrück il posto d'onore spettava al bellissimo bronzo, la Centaura, di Rodin; nello studio del padron di casa c'era il busto di marmo di Federico il Grande scolpito da Schadow. Quadri di famosi pittori, mobili preziosi, ereditati dagli avi, belle suppellettili d'ogni genere e un grande Bechstein a coda, ornavano la casa, che si trovava in un simpatico giardino del viale Hubertus, allora ancora molto tranquillo.
La signora Berta Delbrück, una di quelle rare donne la cui presenza ispirava pace, felicità e senso di sicurezza, fu profondamente contenta quando le parlai di Rilke. Una sera, dopo aver suonato un poco e conversato piacevolmente dopo cena, ci sedemmo alla tavola rotonda del suo salotto; i figli erano andati a dormire e nel silenzio di quella intimità piena di pace, le lessi qualche passo dal Malte Laurids Brigge, che non conosceva. Prima di separarci, aprii la finestra e, mentre dal giardino penetrava un soffio di vento, già quasi primaverile, guardammo le stelle che scintillavano al di sopra degli alberi ancora spogli. E la signora Delbrück mi disse, con quel suo modo di fare affettuoso: "Oh! se Rilke fosse stato oggi da noi! Credo che lui, il solitario, si sarebbe sentito qui come a casa sua." – Compresi allora che non sarei andata a Ginevra ma che avrei pregato Rilke di venir qui. Gli scrissi che sarebbe stato bello incontrarsi in una casa di persone a me care: glie la descrissi con tutto l'amore che le portavo; gli parlai di tutti i sentieri di Grunewald, di passeggiate che avremmo potuto fare in quella primavera appena sbocciata, della quiete dei laghi, del giardino, in cui fiorivano i bucaneve. – Il paesaggio ancora spoglio mi appariva misterioso e bello nel presentimento della prossima visita dell'amico, e la sua risposta fu come un riflesso della mia gioia, della mia speranza subito risorta, in una vita serena di cui forse sarebbe stato ancora possibile salvare la quiete e rinnovarla per l'intervento di forze amiche; con la presenza di un focolare come non ne aveva mai conosciuto uno, con la pace, il silenzio e la fede nelle forze positive della sua natura.

Cara bambina, la tua lettera – ti scrivo questo mentre la sto leggendo, per dirti che è arrivata, per dirti che non la posso leggere tutta in una volta, tanto mi sconvolge il cuore: – là dove scrivi dei fiori, mi son dovuto arrestare, come quando si corre incontro al vento marino e ci par di poterlo respirare tutto nei polmoni, ma d'improvviso non si resiste più – che fare poi dinanzi all'infinito? – Mi sembra proprio di sentire per la prima volta il linguaggio umano; vedi, vedi, io non lo conoscevo che nelle immortali poesie dei grandi e nelle mie in cui lotto per conquistarmelo. Non mi è parso mai così meraviglioso altrove. Oh! Come mi rendi caro il linguaggio umano! Non parliamo forse tra di noi come le stelle alla terra, come la terra alle stelle? Non vi è però il silenzio, il silenzio dell'universo, ma appunto il linguaggio, il linguaggio umano..., sento un impulso così forte verso di te che voglio compiere qualcosa di chiaro, reale e visibile che mi avvicini a te, e sarà di portare questa lettera – in un mattino che va rischiarandosi nel cielo grigio ed indeciso al piccolo ufficio postale, che mi pare così degno di fiducia da quando tu lo conosci un poco.
(Più tardi). Ecco: ho continuato a leggere la tua lettera in uno dei più bei viali di castagni del mondo (oh, chi ha mai sentito a sufficenza cosa ciò voglia dire!) dove passeggio la mattina, muovendomi su e giù, quasi solo – e ho la dolce, continua sensazione che la sua fine non potrà interrompere la vitalità del sentimento e della conoscenza che ho di te; levo lo sguardo ed ecco, ti vedo ovunque, oh beato senso del mondo, che mi aiuterà a penetrare i più alti significati dell'universo, cui ancora non siamo giunti. Oh, è come una polla nel mio cuore, e vicino le è la mia antica sorgente profonda e tetra; ci stia pure! In questi giorni non vi attingerò l'acqua. Ah! non so che mi succede, ci passo accanto un po' intimorito, un cespuglio di rose canine me la nasconde; con che impeto cordiale non spuntano fuori i suoi germogli! – Mi volto, m'inginocchio: la mia polla mi zampilla nelle mani..., ma cosa sto scrivendo mentre ho da parlarti soltanto del luogo, intorno a cui i nostri primi progetti terreni possono mantenersi sospesi in un equilibrio incerto. Potrebbe, anzi può, deve essere qualsiasi luogo che ti piaccia... tu mi hai scritto 'diciotto giorni', e ora sono già meno, e ogni giorno ne cade uno, intero, e tu mi fai sperare di poter attuare qualche altro progetto a noi comune, tutto nostro, che combineremo insieme a Berlino: cara! Tutto questo non posso neanche pensartò ora, l'ho nascosto nel fondo di ogni mio pensiero...

Tutti i giorni percorrevo trasognata le vie di Grunewald, passando dinanzi ai giardini, dove i rosai erano ancora avvolti nella loro veste invernale, e accanto alle ultime chiazze di neve sbocciavano i primi fiori; andavo all'ufficio postale a cui affidavo le mie lettere per Parigi, pensando con cuore tremante: ancora sedici giorni, ancora quattordici, ancora nove...
Poi venne una lettera, così piena di angoscia e disperazione, da sembrar quasi annientar tutto:

...Devo parlarti di tutto quel che di male, di falso, meschino, odioso e spiritualmente grossolano scorgo in me; e specialmente di quest'ultimo: l'elemento grossolano, perché mi sembra che sin dalla prima infanzia ci sia una voce che non riesce a darsi pace che questo elemento esista in me e possa germogliare, così, alla cieca. Sarebbe terribile che una volta tu potessi pensare, anche solo lontanamente, ch'io sia capace d'essere maldestro, rozzo, brutale – e questo in un'atmosfera vibrante ed elevata, ove la brutalità non esiste più, ma appare come uno spettro, e dove ci si fissa stupiti e increduli... Oh! Se ti parlassi di ciò, mia confidente, di questa malvagità che mi afferra sino nel profondo dell'anima e lungo tutto il corpo, di questo contorcersi come di una cosa che vien usata per un fine a cui non è destinata; di questo sentirsi corroso o arrugginito, come un utensile che si metta da parte dove nessuno più lo trova. Immaginati, cuor mio, che tutto ciò gli capiti appunto nel momento in cui si sentiva affilato, diritto, per così dire, proprio a punto... ora poteva venire chi sapeva adoprarlo – oh! l'attesa di un buon utensile; oh! intima presentita gioia nel martello innanzi al primo colpo – ma ecco che l'utensile vien cacciato e portato in tasche oscure, tirato fuori e osservato da occhi curiosi che non sanno quale sia il suo uso; poi adoperato e impugnato male, tanto da ferir le mani alla gente, che allora s'irritò e lo scaraventò in un cantuccio. E lì rimase e gli furono ammonticchiati sopra strani oggetti... Oh Benvenuta! Tu hai angeli intorno a te nella tua musica, tu hai angeli intorno a te nella tua gioia, tu hai angeli intorno a te nella purezza del tuo animo: forse faranno molto per amor tuo. Forse si schierano intorno all'angelo velato dell'utensile e lo esortano.

Erano dunque tornate le ignote forze distruttrici che ogni tanto s'impadronivano di lui, che egli sentiva arrivare, indifeso, quando più intensamente desiderava di esser salvato e difeso da loro. – Non so più quello che allora gli scrissi per consolarlo, la sua risposta traboccava però di nuova speranza:

Oh Benvenuta, ti credo, quando leggo le tue lettere – oh cuore che mi salvi, perché saresti altrimenti venuto? Cara – oh cara, oh influsso che cancella la distanza che ci separa, e che finirà! Quante volte ho sentito su di me il refrigerio di una risoluzione estranea a me. Quante volte non si svolgerà ora una lotta invisibile nell'aria, tra il tuo influsso su di me e un qualche turbamento che sino a me vuol farsi strada. Non solo mi rendi benevola la terra e più d'un paesaggio a me avverso, ma vinci anche nei lontani spazi ciò che mi si oppone. Perché chi non è puro ha inimicizie ovunque e non è mai al sicuro. Soltanto il puro può passare in mezzo ai suoi nemici, e scuoterli .... noi sappiamo d'amarci l'un l'altro sin prima dei tempi della preistoria terrena, sin dall'infanzia precedente ogni età dell'esistenza, ci amiamo sin dall'origine primordiale, come si amerebbero le stelle, se conoscessero il loro splendore – ed ora comprendo anche perché non ho voluto suscitare in me verso dite che i sentimenti della mia più spontanea infanzia, ove cerco i più puri raggi del cuore per orientarli verso di te; cerco una forza, Benvenuta, una forza irresistibile del mio cuore, da cui nascerà la mia forza verso Dio...
Non rimasero che quattro giorni, poi tre – e infine arrivò il telegramma: "Domani. Rainer."

Il giorno prima dell'arrivo di Rilke a Berlino, ero invitata ad una grande riunione. Ci andai soltanto per stordire il mio cuore, irrequieto nell'attesa: infatti, può la pazienza porsi dei limiti, quando si pensa "ancora solo ventiquattr'ore"? Mi ricordo soltanto che a tavola ero seduta accanto ad un grande industriale, che parlava di dazi sui cereali e tasse sul cognac; trovava che la "musica era divertente" – si bevve poi dello spumante e più tardi, quando la gioventù si mise a ballare, una signora mi accompagnò a casa nella sua vettura. Arrivata nella mia camera, andai subito, senza accender la luce, al mio scrittoio. Sì, c'era la lettera, l'ultima lettera di Rilke, prima del nostro incontro; palpai la carta della busta e poi sopra piegai le mani in croce. Se si può pregare senza parole, questo mio muto raccoglimento fu una fervida preghiera di ringraziamento. – Aprii la finestra e respirai l'aria fredda della notte che saliva dall'oscuro giardino addormentato – e nel richiuderla pensai, come in sogno: dei fiori di Rainer?
La stanza, calda e silenziosa, odorava di violette fresche; una mano amica me ne aveva messe un mazzo in un vaso d'argento sulla tavola. Lessi poi al lume di una lampadina, che diffondeva nella stanza appena un lieve chiarore dorato nella penombra, l'ultima lettera di Rilke: ed eccola, misteriosamente legata ai miei pensieri, la risposta al mio fervido desiderio di fiori:

...Hai dei fiori – è un bene che tu me l'abbia descritti, sulla tavola da colazione – i tuoi tulipani gialli, caro cuore – sentivo proprio un gran desiderio di sapere: se hai dei fiori, e quasi stavo per mandarti delle rose per mezzo di Francesca Bruck .... me lo sono negato però, e per diverse ragioni, ma specialmente perché mi dicevo: cosa c'è di me in queste rose, anche se dicessi alla buona Bruck: devono essere di questa e di quella specie, potrebbe averle ed anche non averle; in fondo disporrebbe come la sua ambizione, il suo zelo e la sua curiosità le suggerirebbero, pretendendo poi d'aver fatto tutto seguendo il mio desiderio. E sono allora davvero le mie rose? – – E poi; non sboccia forse tutto per te, oh donna incomprensibile, non sono forse tutti fiori tuoi quel che qui ti scrivo? Non ve n'è uno che tu non abbia fatto fiorire, oh sole, sole del cuore; e quanti ancora che la mia terra non può contenere e tu evochi e chiami alla vita, oh voce radiosa. Che difficoltà per un botanico! Poiché tutti i fiori portano il tuo nome, come potrebbe raccapezzarsi? Sono come le stelle nel cielo, che in verità hanno solo i nomi indicibili del cielo e non quelli che noi diamo loro.

Tenevo tra le mani il dono di queste parole, e non mi pareva di poter sopportare tanta felicità, osavo appena continuare a leggere.
Ma poi le potenze oscure richiesero ancora la mia cara voce consolatrice – e un destino oscuro e pieno di presentimenti fece dir loro:

...ti devo vedere, Benvenuta, con questi occhi impreparati; le mie mani, le mie mani di ieri troveranno un rifugio nelle tue... Dimmi, che si fa il giorno prima di un simile giorno? Come si passa la notte per esser degni del giorno che viene? – Ecco un sogno che mi vizia colla tua immagine, come l'ho avuto stamani al primo albore – tu mi tenevi per mano, in un bosco, un bosco d'alto fusto, coi tronchi disposti in lieve pendio; il suolo era di un verde metallico, per le foglie che crescevano nell'umidità – più in su un albero si levava diritto e, dopo esser salito quietamente e molto in alto, stendeva le braccia della sua corona di rami – al di là, il viottolo continuava a salire ma intorno all'albero era come una nebbia lucente e debolmente dorata, saturata dall'intima vita della foresta..., volevo percorrere quel sentiero ma poi... ci passasti davanti tu, veloce e lieve e là dove eri tu vidi un'altra via; come questa fosse non so più... oh Benvenuta! carissima, vicina, più prossima di tutte, forse, appena mi toccherai ti renderai conto che l'incrinatura è davvero irrimediabile, che ii tocco più puro non può più risuonare perché un destino oscuro e inesorabile pesa in qualche modo sulla volta della campana. Dimmelo allora, cuor mio..., accogli questo pensiero con serietà, con coscienza nel tuo cuore a me sacro...
L'infanzia riposata, la gioventù temprata alla durezza, e l'avvenire intatto: la notte di consacrazione del paggio a cavaliere si trovava precisamente nel punto d'intersecazione delle radiazioni di queste tre forze, perciò i giovinetti ne divenivano robusti, limpidi e promettenti. Dov'è invece la mia infanzia riposata e che aiuto può darmi il mio avvenire da tempo compromesso? – Una cosa vorrei: la notte prima di vederti, Benvenuta, vegliare e pregare, passarla in ginocchio, e digiunar come se mai non avessi dovuto nutrirmi – sostenuto tutto dalla mia attesa, dalla tua presenza imminente...

RAINER.

INCONTRO

Imbruniva di già. Feci a piedi il lungo cammino, come un pellegrino che s'avvia verso un santuario. Passai per cento strade, così almeno mi sembrò, per viali, per un parco, ancora quasi spoglio dall'inverno, vicino al fiume, e poi dinanzi a lunghe file di case; mi correvano davanti tranvai e carrozze, e pedoni mi oltrepassavano come fantasmi. Pensavo: "Marburgerstrasse 4" e non riuscivo a pensare che a questo nome prosaico, e quando alla fine arrivai dinanzi al portone della casa, sulla cui targa, illuminata dalla luce di un riflettore, si leggeva Ospizio dell'Ovest, non potei più andare avanti. Mi sorressi alla maniglia della porta. Solo dopo un po' di tempo suonai chiedendo con voce spenta alla cameriera che aprì il portone, se il signor Rilke era arrivato e se abitava qui. La ragazza, che portava un abito a righe bianche e azzurre e una cuffietta bianca, mi rispose in tono cortesemente preciso."Sì signora, al terzo piano, porta ventiquattro." Salii le ampie scale coperte di tappeti, passando dinanzi a molte porte. Nella casa regnava un silenzio mortale, soltanto le fiammelle del gas, che illuminavano le scale, facevano uno strano rumore, quasi un sibilo – ed ecco la porta numero ventiquattro, ben rischiarata, proprio di faccia alla rampa delle scale. Mi fermai a lungo e soltanto quando mi accorsi che qualcuno dal basso saliva, bussai. Per un istante nessuno rispose, poi sentii: "...Sì?" come una domanda quasi angosciata. Era la voce a me nota da ogni tempo, la cara amata voce ansiosamente attesa – e poi entrai. Vidi, come immersa nella nebbia, una gran stanza. In un angolo vicino alle finestre c'era una lampadina da scrivania col paralume verde, ma nessun altra luce; dinanzi a me stava Rainer Maria, una figura sottile, scura e commovente; due occhi celesti mi guardavano, non avevo mai visto un volto umano così raggiante e spirituale. "Benvenuta – finalmente, finalmente ci sei" disse – ed io pensai che al dolce suono di quella voce si potesse dimenticare tutto e chiudere gli occhi per ascoltare in eterno.
Poi, prendendoci per mano, ci sedemmo sul piccolo divano di velluto verde; ci guardammo ridendo e piangendo.
"Ti stavo scrivendo" disse Rilke "non ho potuto farne a meno, ancora mi sembrava troppo inverosimile vederti apparire qui dentro." Poi tacemmo, come per timore di distruggere quel sogno felice. "Non mi sazio di rimirarti, sì, sei tu, proprio tu, i tuoi capelli immaginavo che fossero castani, ma è giusto che sieno così, d'un biondo scuro" mi diceva egli ed io pensavo: "Non è un essere umano, ma un'apparizione, discesa come per miracolo sulla nostra povera terra e proprio incontro a me." Allora non supponevo che appunto questo pensiero doveva più tardi procurarci un dolore indicibile; tutto era chiaro, luminoso e consacrato da quel silenzio, da tutti i nostri colloqui. Obliammo il tempo; pareva quasi che non ci si fosse ancora scritto alcuna lettera, tante erano le cose che avevamo da dirci; il mondo era per noi come risorto e noi lo misuravamo meravigliati, dimenticando le ore.
Quando me ne andai, Rilke mi accompagnò per un tratto di strada. "Arrivederci a domani" fu il suo saluto e la sua voce era così vibrante di gioia che mi venne fatto di pensare alla mia gioia nel ricevere la sua prima lettera di Parigi .... "Bandiere al vento"...
A casa dormivano già tutti. Attraversai piano il vestibolo oscuro; arrivata in camera mia, mi avvicinai al grande specchio e mi guardai. Mi sembrava di avere un volto nuovo, quasi riconsacrato, da quando i miei occhi terreni avevano contemplato un'anima immortale. Avevo con me la lettera di Rilke, scritta durante il viaggio e terminata nella sua stanza, dopo l'arrivo. L'apersi e la lessi; in fondo c'era una poesia scritta per me:

Ah, passai tra le macchie come il vento
e d'ogni casa fuggivo come un fumo.
Quando altri dei lor usi compiacevansi
restai austero cime un uso forestiero.
Le mie mani penetravan spaventose
nel sigillato altrui destino,
l'effusione moltiplicava tutti:
ed io non potevo che spandermi.

Vedi, anche per contemplare gli astri
t'occorre una piccola base terrena,
ché la fiducia vien sol dalla fede.
Ed ogni bene è una ripetizione.
Ah, la Notte da me nulla pretendeva,
ma quando alle stelle mi volgevo,
contaminato all'Incontaminato,
dov'ero? ed ero qui?

In questo ansioso viaggio fluisce
incontro a me la calda via del cuore tuo?
Poche ore ancora ed io le mani
mie poserò nelle tue;
ah, da quanto non si sono riposate.
Puoi immaginare quanti anni
ormai passo – estraneo tra estranei
ed ora infine tu mi conduci a casa!


[L'originale, inedito, è di proprietà dell'autrice.]

Il mio ultimo pensiero consapevole, prima di addormentarmi, fu questo: se ora venisse la morte, non mi potrebbe distruggere perché porterebbe con sé nell'eternità una vita perfettamente conclusa nello spirito.

REALTÀ

(Dal diario di Berlino)

Grunewaldhaus, Marzo 1914.

La neve si è sciolta sul prato; quando stamattina presto aprii la mia finestra, l'aria mite della primavera penetrò nella camera, portandosi dietro il profumo delle prime violette. Al di sopra degli alberi del giardino si apriva un limpido cielo mattutino d'un azzurro pallido; e accanto al vialetto sparso di ghiaia, che porta al cancello, erano sbocciati già molti crochi celesti e gialli. Quando, dopo colazione, giunsi in giardino, vidi Rainer dinanzi al cancello; ed era così naturale vederlo là, nel suo mantello grigio e col cappello floscio e scuro, quasi vi fosse venuto già da anni ed anni, ogni mattina, pigiando il bottoncino giallo del campanello e aspettando che gli si aprisse. Sotto il fresco sole di quella chiara mattina primaverile, sembrava più esile e basso che la sera prima, nella sua stanza; i suoi occhi sono di un azzurro eccezionalmente puro; il suo volto allungato sembra splendere di una luce interiore, come se il fuoco della sua anima divampasse e si spengesse nei tratti del suo volto. Le nostre mani si strinsero e ci sorridemmo senza dir parola. Quanta gioia in quel volto e quanta sofferenza! Ogni volta mi vien fatto di pensare che in quegli occhi, in quella bocca, così espressiva e quasi troppo larga, si rivelino e si specchino i destini di tutta un'umanità.
No, non voleva salire; mi chiese se volevo andare a passeggio con lui oppure... e mi guardava timidamente con un'occhiata interrogativa: "...ho trovato una stanza da lavoro, qui vicino, la vorrei prendere in affitto, non puoi immaginarti quant'è bella..."
"Bene, allora andiamo subito a vederla insieme." E scendemmo in fretta per il viale che porta al Bismarckplatz, tanto ci sembrava urgente veder la nuova stanza. "...basta che ci sia ancora, beninteso per me, per quanto non mi meraviglierei se, come succede a volte nei sogni, d'improvviso fosse completamente e definitivamente sparita, bella com'è." – Ma no, c'era ancora e quando vi penetrammo ci sembrò proprio "una stanza – di sogno".
"La chiameremo la stanza di Andersen" dissi incantata, "nessun altro nome è abbastanza bello per lei." Rainer non rispose ma fece solo un cenno d'assenso; tutto felice andava da un mobile all'altro, osservando le chiare e lucide sedie di ciliegio, coperte di damasco celeste pastello, la libreria, con i suoi sportelli di vetro, coperti di seta verde, la scrivania posta di traverso dinanzi all'ampia doppia finestra, le antiche incisioni a colori, in cornici dorate, che pendevano alle pareti, tappezzate di fiorellini a colori delicati. Tutto dava un senso di pulizia; leggere e bianche tendine erano poste alle finestre, e di lì lo sguardo spaziava sugli alberi e oltre, su lontani boschi. In una vetrina si scorgevano allineate tazze dipinte, una teiera, piatti colorati alla Biedermeier ed antichi e bei bicchieri di cristallo; s'era pensato a tutto, persino ai fiori: in un vaso azzurro di vetro scuro, sulla tavola rotonda, v'erano primule e anemoni.
"Oh, poter lavorare qui, legger insieme a te, parlare di tante cose buone e... Rainer tacque, con gli occhi quasi ingranditi dall'attesa, quasi increduli. Compresi: "...e suonare Beethoven, Bach e Schumann e tutto quel ch'è bello."
"L'hai indovinato!" esclamò felice, "ma come farai?"
"Vado da Ibach, un gran negozio pianoforti e chiedo che ti portino su un pianoforte a coda, oggi stesso."
Rainer, che stava alla finestra, mi si avvicinò; si era fatto serio: "Come rendi tutto così semplice, così facile! Tutto procede senza esitazione, come quando si respira, si dorme – e la cosa più strana è che a me sembri naturale. Sappi, che una grande parte del mio essere sfocia continuamente nella meraviglia: guardo attonito le torri, le cattedrali e, senza mai stancarmi, le stelle – e la mia stessa esistenza. Ma tu no, non mi stupisci, anzi chiudo gli occhi in te. – Soltanto: come avvertirti in fretta, della mia incompetenza nella musica?"
"Confida in lei e ascolta; ne sarai pur capace?"
"Se lo sono? Non so – e semmai anche mi riuscisse, forse non mi si crederebbe. Un giorno un mio conoscente mi trascinò ad un concerto importante, cui affluiva molta gente rumorosa; il brusìo continuò e lo sbatter delle porte mi faceva male; – poi fu suonata una Sinfonia di Beethoven, un prodigioso avvenimento si scatenò d'improvviso su tutta quella gente, poco prima così irrequieta, che sedeva ora silenziosa, come se sapesse... Devo aver guardato fissamente dinanzi a me, perché quel conoscente mi disse, nell'intervallo tra un tempo e l'altro; "Ma chiuda dunque gli occhi – e apra gli orecchi!" Quando guardai Rilke, tutta inorridita per la grossolanità che un uomo si era permesso verso di lui, egli continuò: "Non so se ti ho raccontato mai, che solo in chiesa mi sembrava poter sopportar la musica, quando si volge direttamente a Dio, salendo per le volte dei Duomi. Allora si sente ch'essa non si trattiene presso gli uomini ma, scorrendo come un torrente, li attraversa ignorandoli; appartiene solo a Dio e a nessun altro. Dimmi, e tu, hai avuto sin da piccola davvero confidenza con lei, e andavi tra i leoni e gli angeli di questo elemento, sicura che non ti toccassero?"
"Non so che suonare la musica, non parlarne; lo sentirai."
Più tardi andammo in città insieme e poi ci separammo; Rainer per prendere le sue valige ed io per andare da Ibach. Provai diversi pianoforti e ne scelsi uno che mi sembrava il più adatto per la "stanza di Andersen". Mi promisero di portarlo a destinazione nelle prime ore del pomeriggio. A mezzogiorno tornai verso la casa di Grunewald. Passando per il Bismarckplatz levai lo sguardo verso le finestre della stanza di Rainer. Erano aperte, le candide tendine si muovevano leggermente, agitate dal vento, ma non si vedeva nessuno. Abita veramente lassù, vicino a casa mia? Realtà questo sogno? mi domandavo – ma sorridevo poi grata e felice: "...tu non mi stupisci, anzi chiudo gli occhi in te."
Ho passato oggi una giornata meravigliosa, indimenticabile. Il pianoforte a coda è là, nella "stanza di Andersen" messo un po' di traverso dinanzi alla doppia finestra; alla sua destra c'è la scrivania, un po' più al centro della stanza un'ampia poltrona coperta da una bella stoffa. Rilke chiama questo ambiente la trinità del lavoro, riposo e musica. Mi è stato concesso di suonare la prima volta dinanzi a lui! Era un tardo e mite pomeriggio, dopo una lunga pioggia. Quando arrivai la finestra era aperta e la stanza era tutta piena dell'odore di terra bagnata di fresco. Fuori gli alberi germogliavano già, i cespugli nei giardini erano coperti delle prime delicate foglioline verdi. Colmai d'acqua un vasetto da fiori e lo posai sulla scrivania, pieno di mughetti e violette. Rainer, che chiudeva in quel momento una lettera, levò lo sguardo posandomi la mano sul braccio: "Oh, grazie cara, vuoi pazientare un attimo? Sbrigo prima le pratiche quotidiane e gli affari, per esser poi presente." Mi sedetti alla finestra a guardare fuori la luce che svaniva lentamente. Sotto di me cantava un merlo, come soffiando sopra un flauto sonoro e pareva riempire, la stanza, con la sua voce, di un dolce profumo.
Rilke aveva intanto chiuso la cartella e riposto le sue carte. "Ti ricordi", disse, "cosa mi scrivesti una volta sui Maestri Cantori? Che per te il momento più bello è quello in cui si fa buio in teatro e il direttore d'orchestra leva la bacchetta. Non si è perso ancora un suono, tutto è ancora dinanzi a noi; così mi scrivevi. Ah, Benvenuta! Pensare che così siamo stati una volta dinanzi alla nostra vita, dinanzi alla sua pienezza, – ed ora tu suonerai. È mai possibile? Potrà la tua musica disporre un nuovo ordine nel mio mondo interiore, come l'ho sognato tante volte? Dimmi: sono troppo poco modesto?"... Mi ero seduta al pianoforte posando le mani sulla tastiera. Il cuore mi tremava, mi pareva di celebrare un ufficio sacro, rivelando per la prima volta la musica ad un uomo, no, ad un'anima immortale, che l'attendeva.
Poi lo strumento fece udire la sua voce – aveva un tono caldo che saturava la stanza come una luce soave... suonai un tema di Händel, una melodia serena e semplice, poi un'aria di Bach – mi sembrava di non dover spaventare Rainer con la violenza delle note tumultuanti, suonai perciò solo melodie semplici, un piccolo Lied di Schumann, una Pastorale di Scarlatti. E negli intervalli sempre si riudiva il canto del merlo, la voce primaverile di una stagione futura.
Quando il pianoforte tacque s'era fatto già buio. Il merlo non cantava più, ci fu un lungo silenzio. Poi sentii Rainer avvicinarsi in quella quiete, alle mie spalle, e le sue mani sui miei capelli e il suo volto infuocato e inondato di lacrime sulla mia guancia. Non parlammo più; andammo sino a casa, passando, nella sera umida di pioggia, dinanzi a silenziosi giardini. La mia vita ebbe in quell'ora la benedizione d'Iddio; quando ci separammo, Rainer prese fra le sue mani il mio volto e mi baciò in fronte.

***

Rilke è stato da noi nella casa di Grunewald; ha stretto una sincera amicizia con la signora Delbrück, proprio come speravo. Infatti chi potrebbe non amarlo? E chi saprebbe sottrarsi al fascino di quella donna, così eccezionale e materna? Era bello vederli insieme; e Rilke si sentiva tanto a suo agio da noi, che fu subito cordiale e disinvolto anche con gli altri, come se li conoscesse da tempo. C'erano due. dei figli della signora Delbrück, Betti e Teo, alcune giovinette e il figlio maggiore di Ferruccio Busoni, Benni, un giovane di una bellezza raggiante. La signora Delbrück ci raccontò uno stranissimo avvenimento della sua vita, mostrando, in rapporto con questo, un'incisione di Max Klinger che, come diceva, era conosciuta solo da pochi. Fu una serata bella e felice. Rilke non parlò molto, era seduto lontano da me, ma ci sentivamo vicini in un'intima miracolosa comprensione. A volte par che indovini ciò che si pensa, perché risponde spesso a domande neppur formulate, con una prudente naturalezza a lui propria. I bambini gli voglion bene, Betti gli posava ogni tanto la sua piccola mano sui braccio, ed egli le sorrideva, facendola arrossire dalla gioia. Nel congedarsi Benni mi domandò se saremmo andati il martedì a sentire alla Philharmonie il Concerto in mi bemolle maggiore di Beethoven, suonato da Busoni. Avevo già i biglietti per quella serata e dissi a Benni che mi sarebbe piaciuto tanto far conoscere Busoni a Rilke. Benni mi assicurò che suo padre ne sarebbe stato contentissimo, che stimava molto le opere di Rilke, chiamandolo il "musico delle parole".

***

Pomeriggio nella "stanza di Andersen".
Ho portato delle paste e delle mele; poi ho apparecchiato con gusto la tavola e preparato l'acqua per il thè. Rainer si dimostra molto grato per queste attenzioni. "Un uomo non dovrebbe mai sapere come si allestisce un desinare", diceva, quasi per scherzo, ma so che gli costa molta fatica procurarsi tutto da sé.
Parliamo molto del prossimo concerto. Vorrebbe sapere qual è l'aspetto di Busoni, e io gli ho descritto la sua personalità, la sua casa, la sua ammirevole moglie e il periodo che passò a Vienna coi suoi scolari. Rilke è tutto contento di sentirlo suonare; gli è venuto ad un tratto "tanto coraggio per la musica". "Non è molto, ho letto l'Estetica della Musica di Busoni", mi disse, "mi è parsa meravigliosa, anche il suo modo di scrivere in tedesco è veramente perfetto in sé – e straordinario, se si pensa che è un latino."
Gli racconto che nessuno sa interpretare Bach e Beethoven in maniera più "tedesca" di lui e così grandiosamente, ad eccezione forse di Casals, con cui avevo avuto spesso la fortuna di suonare insieme e che è un latino anche lui. Parliamo dei grandi uomini e del loro destino; più tardi Rainer si rammenta di aver pregato la signora Delbrück di scrivere per lui l'episodio che riguarda Klinger. Ho lo scritto già con me. Rainer me lo legge ad alta voce, e così riviviamo nello spirito questo evento eccezionale:
"Amici miei. Vi ho fatto vedere stasera un'incisione di Klinger, che non conoscevate: la figura di un morto avvolta in un lino bianco, tutta distesa su di un letto. Il volto, soffuso di una profonda sublimata pace, vi sembrò come abbandonato in una sacra fiducia nel sonno eterno. Mi avete domandato chi fosse. Era un amico molto intimo di Klinger, un uomo che amava l'arte sopra ogni altra cosa, che si dedicava agli artisti, aiutandoli con tutto il suo fattivo amore per le loro creazioni, ch'egli intuiva con siurezza infallibile in ogni eletto. Klinger, lui ed io ci conoscevamo da diecine di anni; si viaggiava spesso insieme; non passava quasi autunno in cui non ci s'incontrasse in Italia. Una volta ci recammo insieme a Roma e andammo, pochi giorni dopo il nostro arrivo, in gita a Frascati, per passarvi una settimana. Tutti i giorni si saliva fino a Tusculum, da cui si vede scintillare in lontananza, dietro la campagna romana, come un nastro, il mare. Klinger disegnava parecchio, aveva allora in mente un Ulisse – ci faceva leggere ad alta voce Omero; erano giornate felici. La mattina del nostro ritorno a Roma, Klinger e il suo amico, quel giorno più allegro e vivace del solito, si separarono da me, per andare alla loro abitazione, con l'intesa di ritrovarsi nel pomeriggio in casa di Klinger per andare poi a Villa Borghese. Stanca del viaggio per la campagna infuocata dal sole, mi addormentai dopo pranzo, svegliandomi soltanto quando l'orologio sul camino suonò le cinque. In fretta mi misi in cammino; Klinger abitava a distanza di poche contrade soltanto.
Il portone della villetta non era chiuso, salii le scale stupita di trovar tutti gli usci aperti; chiamai, entrai, traversai la prima stanza e d'improvviso, fui presa da una grande angoscia, poiché nessuno mi rispondeva; penetrai nella stanza successiva – e sopra un letto vidi stesa, immobile, una forma umana avvolta in un lino bianco; sul volto, soffuso di una pace sovrumana, aleggiava un sorriso lontano ed estraneo – – era il volto dell'amico che poche ore prima mi aveva salutato lieto e felice. Vidi allora anche Max Klinger. Sedeva immobile con in mano una matita, lo sguardo, come spento dal dolore, fisso sul volto dell'estinto, e disegnava; mi resi conto a poco a poco di quel che era successo, compresi anche la parte di quell'uomo seduto, pietrificato dal dolore che – artista anche in quella circostanza – rendeva al morto l'ultimo onore creando, per mezzo suo, quell'opera commovente che oggi vi ho mostrato."
"Che magnifica fine fu quella dell'amico! Nel suo sonno eterno tutto l'andare e venire, tutte le sofferenze umane non lo toccavano più" disse Rilke commosso. Poi parlò ancora a lungo di uno dei pensieri fondamentali della sua vita: che cioè ogni uomo dovesse morire della morte sua, misurata solo per lui, maturata in lui durante tutta la sua vita: "...A Firenze a Bologna, Venezia e Roma, ovunque, sostavo dinanzi alle lapidi, come uno scolaro della morte, e mi lasciavo educare. In tutti i paesi le cercavo e dinanzi alle tombe dei giovani mi commoveva la loro generosità: avevano trovato il tempo di amare una ragazza senza temere che questo dispendio di forze potesse essere eccessivo per il poco tempo serbato a loro..."
Ieri sera, alla Philharmonie, stavo in pensiero per Rilke; quali sarebbero state le sue reazioni dinanzi a quella gran sala, a tutte quelle persone estranee, e soprattutto alla maniera di suonare di Busoni? Un pianista come lui è sempre un'esperienza nuova e impreveduta. È facile immaginarsi che qualcuno, ascoltandolo, per la prima volta, possa rimaner sbalordito, direi quasi soffocato dalla violenza del suo genio. Quando suona, è sempre il destino che parla, una suprema affermazione, l'elevazione a sfere più alte, grido e silenzio, il fiammeggiar d'ogni vita, una straboccante esultanza e preghiera appassionata. Pensavo: come sopporterà Rilke tutto ciò? La sua scontrosa natura sarà capace di sopportare l'improvviso presentarsi di una simile esperienza? La mia paura fu smentita in maniera meravigliosa, e non so cosa fosse per me più bello: il sentir suonare Busoni o osservare Rilke mentre ascoltava. Pareva quasi che queste due nature, così diverse, si completassero in un perfetto equilibrio, del dare e dell'avere. Una volta, durante un intermezzo orchestrale in cui il pianoforte non suonava, Busoni rivolse lo sguardo su di noi, mi salutò con gli occhi, e squadrò Rilke, come guarda soltanto qualcuno per cui prova uno spontaneo interesse. Non sospettava neppur lontanamente chi mi stesse accanto – Benni non aveva detto nulla, – ma doveva aver intuito subito di trovarsi dinanzi a un uomo eccezionale.
Durante l'Adagio, uno stupido caso, che prima mi inquietò, ebbe poi il più grazioso epilogo; dietro di me sedeva una vecchia signora che si mise, proprio durante uno stupendo pianissimo del pianoforte, a scartocciare clamorosamente delle caramelle e dei cioccolatini; frugava nella sua borsetta di seta e non smise neppure quando mi voltai, guardandola un po' con aria di rimprovero. Nell'intervallo dissi a Rilke: "È proprio incredibile che ci si metta ad armeggiare con della stagnola durante il concerto; che mancanza di riguardo verso l'artista e il pubblico!"
Alla fine del concerto, mentre ondate d'entusiasmo facevano fremere la sala, d'un tratto la vecchia signora appare dinanzi a me, fa un grazioso inchino dicendo: "Le sono veramente molto grata per la lezione che mi ha dato, il mio nome è signora Schultheiss, abito alla Dornbergstrasse al numero sei; la prego di farmi il piacere di venire domani sera a pranzo da me, desidero molto conoscerla; vengono anche d'Albert e Marteau, probabilmente anche Maria von Bunsen ed altra gente interessante." Toccò a me ora scusarmi, ma la vecchia signora m'interruppe quasi subito e ci separammo con un cordiale "arrivederci". L'avrei quasi abbracciata!
Stamani con Rainer nel giardino zoologico.
Abbiamo parlato del concerto; egli ha trovato Busoni superiore a ogni aspettativa e ha detto delle cose magnifiche su Beethoven: "...come ho capito che Beethoven doveva esser solo per creare simile opere! In favore della sua musica gli venne tolto con l'udito l'ultimo interlocutore, perché stormisse ormai come la foresta vergine e dimenticasse ch'era possibile essere un altro, che ode la foresta vergine e ne ha paura..."
Si parlò anche con soddisfazione della signora Schultheiss e delle sue caramelle, che ci procurarono poi il piacere di una così cara conoscenza. Rilke era incantato di questo caso e quando confessai di essermi portata molto scortesemente, quasi s'inquietò: "Mi pare anzi che tutto si sia svolto in maniera giusta e corretta! È come un conto angelico che si pareggia senza resto. Ed è stato bello quando ha fatto il suo nome, quasi invitando, con l'autorità di una vecchia signora, tutta la famiglia a riconoscere il suo torto, a fare ammenda e a chiederti scusa. Credimi, Benvenuta: oh se gli uomini si guardassero sempre così, in faccia direttamente dal fondo più lontano del loro splendore, pieni di gioia o d'ira – uno dopo l'altro finirebbe per dire, spaventato, il proprio nome e per correggersi – ma invece, come si guardano? Ed ecco che allora si sentono scartocciar caramelle e cioccolatini o tutto quel che vi può essere in quelle loro borsette, che molto a proposito, secondo me, vengon chiamate Ridicule!"

***

Caro Rainer, domani, quando verrai a pranzo da noi, non ci sarò. Perdonami, ma devo recarmi la mattina presto a Potsdam e vi resterò probabilmente tutta la giornata; vi è là il Dottor B., con cui devo trattare la serata ad Amburgo; non vuole un concerto di musica moderna, desidera invece che suoni il concerto in sol maggiore di Beethoven. Ho pensato a tutte le sublimi cose che mi dicesti a proposito del grande Maestro e studierò e suonerò ora il concerto con un intendimento completamente nuovo. Rinuncio volentieri a Ciaikovsky, non è che un pezzo di bravura e l'ultimo tempo è tutta una corsa sfrenata, proprio di tipo sarmatico. L'avrei suonato soltanto perché il Dottor B. me lo aveva chiesto, ora però tutto il programma sarà cambiato: da principio l'Ouverture del Coriolano, poi il concerto per pianoforte e alla fine l'Eroica; sarà quindi tutta una serata beethoveniana. Ne parlai ieri con d'Albert, che trova il programma molto bello. Per quanto sia già molto tardi (ossia presto, è passata appena mezzanotte) ti voglio parlare ancora della serata in casa della signora S. (oh se ci fossi stato!). La sua casa è molto bella e al tempo stesso gradevole, ovunque si vedono fiori e alle pareti sono appesi quadri di valore; è un ambiente molto artistico. C'era molta gente. Conobbi più da vicino d'Albert, di cui ti parlerò ancora, Marteau, Lola Kirschner (Osip Schubin) e una bisnipote di Schubert, la signora Geissier. E un altro ancora – ma ora la storia comincia a complicarsi paurosamente e a tutta prima non capirai niente, caro Rainer! Quando stiamo per andare a tavola arriva ancora un imponente signore anziano, un borghese di cui, quando mi vien presentato, non intendo il nome. Il suo posto è proprio di fronte a me; lo guardo e penso: "Se non sapessi con certezza che Wildenbruch è morto, giurerei che mi sta dinanzi." Ad un tratto qualcuno si rivolge a lui, dicendo: "...Le assicuro, signor von Wildenbruch..." Ebbene, che ne dici? Theo mi aveva raccontato, or non è molto, di esser andato con una rappresentanza di studenti, dietro il feretro di Wildenbruch; ed ecco che lo stesso Wildenbruch siede là in carne ed ossa, vien trattato con la massima deferenza, come conviene ad un poeta, e nessuno trova qualcosa di anormale nel fatto ch'egli sia presente. Mi arrischio ad allacciare una conversazione con l'ospite che a tavola mi sta di fronte e scopro ch'egli è un uomo che ha letto molto, che s'interessa di questioni letterarie, è al corrente di tutto, e non nasconde la sua soddisfazione quando sente che ho assistito a una rappresentazione della Rabensteinerin. "Alcune scene sono state rifatte" dice, "e trovo che il lavoro ci ha guadagnato." "Non c'è dubbio", penso, "o sono impazzita o Wildenbruch è risuscitato!" Tornando a casa incontro Theo, ch'era stato al teatro. Invece di rispondere al suo saluto, gli dico: "Theo, ti sei sbagliato, Wildenbruch non è morto." Theo mi guarda trasecolato: "Ma che ti viene in mente? Io stesso sono stato ai suoi funerali."
"Sì, sarà anche possibile", gli rispondo, disperata, "ma in ogni caso stasera ho cenato con lui, egli era tutto contento che conoscessi la Rabensteinerin, e mi ha raccontato di averne rifatto alcune scene." "Dovresti coricarti", mi dice Theo d'un tratto, con una dolcezza che non può fare a meno di colpire, "vado intanto a chiamare la mamma."
La signora Delbrück appare subito dpo, nella sua bella vestaglia color lilla (stava per andare a letto, poverina); le racconto l'accaduto, ascolta attentamente e mi raccomanda alle cure di Edwige, la sua vecchia e fedele cameriera, che non intende scherzi e mi conduce subito in camera mia, come fossi un bambino bizzoso. Poi là mi mette una pezza bagnata nell'acqua fredda sulla fronte, come se fossi gravemente malata! Intanto hanno svegliato con una telefonata la signora Schultheiss che, dapprima ancora tutta insonnolita, poi molto divertita, assicura categoricamente che sono "completamente sana di mente" e che ho preso il generale Ludwig von Wildenbruch, che del resto somiglia al suo defunto fratello come una goccia d'acqua, per il poeta Ernst von Wildenbruch. Abbiamo riso tanto tutti quanti, che mi sono ora così completamente svegliata da non poter andare a dormire; così mi son messa a raccontarti questa storia. Tra poche ore passerò dinanzi alla tua casa, ma tu non ti sarai ancora alzato. Ti saluto mille volte con tutto il cuore e ti dò il mio buon giorno. Il roso che mi hai mandato ier sera, ha tutti i boccioli aperti, sono di un color rosa delicato come il primo riflesso del sole all'alba. Grazie di tutto, caro, buono!...
(Betti ti porterà questa lettera quando va a scuola. È molto fiera di poterti portare qualcosa. Ti accludo le lettere di Beethoven nell'edizione di Kastner, che desideravi).
I Busoni hanno invitato Rainer e me a colazione Domenica.

***

Oggi con Rilke al Grunewald. Abbiamo fatto una lunga passeggiata, passando vicino a piccoli laghi; a Rilke ricorda i quadri di Leistikow, che ha saputo vedere in questo paesaggio spoglio una semplice bellezza. Vediamo un capriolo traversar il sentiero. Fugge appena ci scorge. – – Parliamo poi di caccia. Pensavo che Rilke – come me – fosse un nemico accanito della caccia; per quanto sia il più amorevole amico degli animali, pur la comprende; cioè egli sa quale forza l'atavismo abbia sugli uomini e mi spiega come anche la crudeltà e il desiderio di uccidere sieno, secondo la sua espressione, "radicate profondamente e abitudinarie nella natura umana", solo che molti lottano contro questo impulso o lo lasciano perire, per paura, per comodità o "per Dio sa quali ragioni prossime o lontane", che però altri, a modo loro, lo mantengono in vita, magari soltanto per andare a caccia e uccidere degli animali; lo stimolo della fame, da cui ebbe origine anche nella forma più primitiva ogni specie di caccia, divenne poi a volte un'ambizione di potenza. In India però, la religione vieta di cibarsi di carne. "Centinaia di migliaia, anzi milioni di uomini osservano questo comandamento, che è una legge di amore: di amore verso il loro massimo Dio e verso gli animali, come Sue creature." Gli feci osservare che ogni conversazione con un cacciatore si conclude con una affermazione di amore verso gli animali, in quanto ciascuno dice che l'essenziale non è poi veramente lo sparare, ma piuttosto il godersi l'aria mattutina del bosco, lo spiare e custodire la selvaggina, e che lo sparare è più che altro una specie di dovere; e io gli rispondevo sempre che questo compito si dovrebbe pur lasciàre a quelli che macellano i vitelli, poiché la necessità di tirare non poteva rappresentare ancora un divertimento.
Rilke sorrideva ma i suoi occhi restavano tristi: "Vedi", diceva, "questo 'amore' per gli animali è vero e anche falso; quella gente si sente quasi in dovere di trovarsi delle mezze scuse perché chi ha la sicurezza di esser nel vero? E poi: chi sa ciò ch'è vero? E se c'è qualcuno che lo sa, chi ha poi il coraggio della verità e della crudeltà, o almeno il coraggio di pensare ogni suo pensiero, anche il più spaventoso e il più vile? In fondo quel che importa è soltanto che un tal pensiero non acquisti 'validità', per così dire, nell'animo dell'uomo; che non rappresenti una tentazione, che resti chiuso nei suoi confini e non possa aver mai neppur l'idea di quel che sieno i vestiboli del cuore, le eterne leggi della bontà, della convivenza in purità di cuore colla natura. Ma infine: che ne sappiamo?" concluse sospirando. "Non si svolge forse tutto al di sopra di noi al disopra del nostro più profondo intimo e delle nostre meschinità? Non ha forse tutto nel mondo che ci circonda legge e valore anche senza di noi?"

***

Domenica da Busoni.
Chi ha visto una sola volta questa bella dimora, non la dimentica più. La casa, situata in piazza Vittoria Luisa 11 [Victoria– Luise– Platz], è un edificio come molti altri a Berlino, ma quando si son salite le tre scale e s'è suonato il campanello alla porta d'ingresso, si ha ogni volta una sensazione particolare e sempre piacevole quando si passa dall'oscuro vestibolo nella sala da musica: un vano con due grandi e neri pianoforti Bechstein a coda, uno vicino all'altro. Sopra di loro, sull'ampia parete, su un fondo di velluto verde, un Budda d'oro. Nel vano ad arco della finestra un sedile con guanciali, di faccia un armadio e alcune poltrone. Accanto c'è la biblioteca. Il bellissimo ambiente è tutto rivestito in legno, degli enormi scaffali aperti nelle pareti, raggiungono il soffitto col loro prezioso contenuto: prime edizioni, bellissimi volumi rilegati in pelle, letteratura spagnola, E.T.A. Hoffmann, Balzac, Goethe, Ariosto, Dante: la vita spirituale di tutti i paesi e di tutte le parti del mondo. Sui tavoli ci sono libri nuovi, riviste d'arte, mucchi di giornali. Ecco Busoni che scende dal suo studio, la "Torre", saluta Rilke con quell'affabilità piena di latino rispetto, che ha veramente qualcosa di affascinante.
Quando si danno la mano, è come se due mondi si salutassero: il musicista, ch'è presente e insieme futuro, "un continuo ricominciare". come egli dice di se stesso, e il poeta che spia il passato ("L'infanzia, dove sarà mai andata?"). Busoni, un uomo pieno di fuoco, spiritoso, ottimista, disposto a ridere, ingenuo, superstizioso; invece Rilke timido, chiuso in sé, ricco di una severa e angosciata sapienza della vita, riflessivo e quieto, d'un umorismo che solo a momenti s'illumina; Busoni che allontana da sé tutto quel ch'è appassito e sepolto nel passato, si sente intimamente pieno di gioventù e vive con la gioventù; Rilke che raffigura l'effimero, i poveri, i disprezzati, e conosce il dolore di tutte le creature ed anche la beatitudine di chi supera e crea. Ma questi due uomini così diversi tra di loro, sono uniti dalla coscienza e dal rispetto per la loro vocazione, dalla comprensione di ogni esistenza. E ciò fu manifesto nell'istante in cui si strinsero cordialmente la mano e in questo senso superiore divennero amici.
La signora Busoni ci raggiunse e ci si mise a tavola. Sul desco apparecchiato con cura – la "tavola rotonda, ch'è sempre troppo piccola" – c'erano dei fiori primaverili e calici di cristallo verde. Venne servita la minestra e Busoni, nello spiegare il tovagliolo, disse allegramente: "Oggi avremo un dolce speciale: dei Wuchteln viennesi!" S'era fatto dare a Vienna la ricetta di questo dolce preferito; le cuoche, via via che si succedevano, dovevano imparare a farlo e veniva offerto di preferenza quando c'erano degli ospiti austriaci. Una discussione su Metternich e la grande Alleanza, non portarono pregiudizio al dolce, ch'era squisito, pieno di Powidl, dono di certi amici boemi!
Dopo pranzo si prese– il caffè nella biblioteca; il discorso cadde su Marcel Proust e il suo nuovo libro Du côté de chez Swann. Busoni lo trovava buono, per quanto un po' lungo. Rilke non era pienamente d'accordo: "La seconda parte, nonostante alcune felici trovate, mi sembra quasi noiosa, spesso è soltanto un 'romanzo' uno di quelli che i francesi non possono fare a meno di produrre una volta con un senso, un'altra volta con un altro", diceva. "Solo quei punti, verso la fine, sulla frase nella sonata e sulla musica che risuona qua e là, a intervalli irregolari, sugli innumerevoli tasti dell'universo – solo quei punti appartengono forse a quanto c'è di meglio in tutte quelle, fin troppo fitte, pagine. Certo, ai difetti di questo libro si oppongono cento pregi, che in una scala di toni e semitoni, passano da quel ch'è solo divertente a quel ch'è veramente significativo."
Rilke parlò poi con Busoni della sua
Nuova estetica della musica e s'interessò specialmente delle possibilità sonore di un sistema più ampio formato da quarti di tono; si parlò a lungo di vecchie e nuove teorie, della Brautwahl, dei progetti di Busoni per un'opera e del testo della Turandot. In ultimo, poiché Busoni disse di amare in modo speciale la Piccola marina della raccolta Nuove poesie, Rilke la recitò. La diceva a memoria, con un ardore interiore contenuto, come solo lui sa parlare. Indimenticabili rimarranno per me sempre il suo volto calmo e un po' inclinato, il suono della sua voce, che dava nuova vita alla poesia; i versi ch'erano musica e insieme immagine: "Antico soffio spirante dal mare, vento marino di notte" lo declamò con tanto ardore, che pareva sentire il forte odore del mare e la tempesta notturna" che strappa da lontano lo spazio." E con qual giubilo contenuto si chiude la poesia: "...Oh, come ti sente, un rigoglioso fico, lassù nel chiaro di luna."
Busoni sedeva silenzioso, un po' piegato in avanti, tutto assorto nell'ascoltare... dopo non si parlò che poco e presto ce ne andammo, perché per la sera erano attesi altri ospiti. Due personalità, due mondi si sono compresi l'un l'altro; la signora Busoni disse, accompagnandoci alla porta e salutandoci: "Ferruccio è stato tanto contento!"

***

Rainer, la signora Delbrück ed io, siamo stati oggi dopo pranzo al circolo Lyceum, dove dovevo suonare.
Rainer sedeva, senza attirar l'attenzione di nessuno, e senza esser riconosciuto, tra vecchie signore ("...quelle tre streghe sul divano facevano paura, parevano un gruppo fuggito dal Tartaro...", mi disse poi tutto sconvolto!); si godeva il suo thè e l'«incognito». Venne letto prima, né bene né male, l'Alfiere; una delle streghe disse poi a Rainer: "Sarei curiosa di sapere qual è l'aspetto d'un poeta che ha scritto un simile poema moderno!" Rainer rispose ironicamente, ma dominandosi perfettamente – e in questo lo ammirai moltissimo: "I poeti hanno spesso un aspetto diverso da quello che s'immagina." "Come, lo conosce forse? Dove vive? È giovane?" Ormai non ci fu più chi la tenesse; tre ragazze e una "strega" si sedettero accanto a noi e cominciarono a interrogarci. La signora Delbrück si ringhiottì coraggiosamente il suo riso con un panino gravido ed io riuscii alla fine, con molta fatica, a trasferire la conversazione sui poeti moderni in generale e su Frank Wedekind in particolare. Quando quelle curiose cominciarono ad attaccare quell'argomento, Rilke, si congedò senza farsi notare. In una pausa, fra un discorso e l'altro, la "strega" disse testarda: "Sa, avrei sentito volentieri qualcosa di più su Rilke. Crede lei che il signore che poco fa se n'è andato, conosca il poeta?" Mi alzai, mi congedai e scoccai il dardo: "Sì, conosce Rilke assai bene, perché è lui stesso."

***

Una certa signorina Cecilia Braschi ha inviato a Rilke la sua traduzione italiana dell'Alfiere. Me la lesse nella stanza di Andersen, stando sul sedile della finestra. "Ecco come è la gente", dice, ridendo, di quel suo riso sereno e affettuoso, "traduce Sommerwinde con convolvolo, cui invece corrisponde Windling; pure c'è anche del buono qui – solo ha avuto troppa fretta." Avevo portato la mia copia dell'Alfiere per confrontare diversi punti della traduzione, che secondo me era fatta con molto entusiasmo, ma con troppa poca comprensione per le sottili e delicatissime sfumature nella lingua raffinata di Rilke. Rainer mi parlò della sua traduzione del Centauro, e come per intere settimane e mesi si fosse lasciato penetrare dallo spirito del poema; come avesse studiato il modo di esprimersi di Guerin, per trapiantarne poi lo spirito in lingua tedesca, "quasi come si fa quando si porta un fiore in un terreno lontano, con la preoccupazione che continui a fiorire anche là." Giunse poi la posta del pomeriggio e portò, insieme ad alcune lettere, un pacco da Göttingen. "Vedi", disse Rilke, tutto contento, "là vi sono due persone, marito e moglie, che, da quando mi ricordo, mi serbano un rifugio: una stanza, che non viene abitata da nessuno all'infuori di me; ch'è sempre pronta, persino le mie pantofole di pelle verde, stanno dinanzi all'uscio; non ho che da bussare alla porta, quando voglio, e sono in casa mia." Il pacco di quegli amici conteneva le riproduzioni di alcuni quadri di Magnasco, che Rilke non conosceva e che lo entusiasmarono tanto da farlo rimanere a lungo assorto a contemplarli. Erano due quadri strani: un paesaggio fantastico e un gruppo di monaci in estasi. "Si potrebbe quasi pensare che fossero del Greco" osservò Rilke. Parlando prese un taccuino dalla scrivania e mi lesse poi i suoi appunti sul Greco. Lo pregai di farmeli copiare. Sono annotazioni a metà cancellate "segnate a matita, più guardando che scrivendo", in un catalogo del Prado e infilate nei libro, e si riferiscono alla famosa Crocifissione.
"...Sul cielo sconvolto e cupo, la croce con la pallida, lunga fiamma del Suo corpo, e in alto, sopra di lui l'iscrizione in chiare lettere, più estesa del consueto, come fosse l'elenco senza fine delle sue pene. Maria e Giovanni, rispettivamente a destra e a sinistra, nel quadro, in piedi, volti verso il Cristo, riprendono la linea per sempre segnata dal Suo dolore, incapaci di far di più, – solo Maddalena, quando vede sgorgare a fiotti dai piedi inchiodati, uno sull'altro, il Suo sangue, è presa da un doloroso zelo. Si butta in ginocchio, trattiene il sangue che cola lungo la croce, avvinghiandola con una mano proprio sotto il piede e coll'altra, la sinistra, in basso sul legno: vuol esser la prima e l'ultima a raccoglierlo – ma non le riesce. E quando guarda in alto disperata, tra le oscure fiamme dell'aria, ecco che lo vede sprizzare dalla ferita nel petto e scorrere dalle piaghe delle mani: non vede che il Suo sangue. Ma un angelo ecco si precipita già vicino a lei, volando obliquamente, per aiutarla, mentre due altri angeli appaiono, pallidi come falene, sotto le mani grondanti, in alto, nello spazio tenebroso, gettandosi incontro al sangue, come per abbracciano, affascinati, con le sole mani, e lo raccolgono come fosse una musica..."
Conversazioni profonde sul mondo del genio, sui doni divini e su malintesi – e prima di tornare a casa l'addio più sereno! Rilke aveva dinanzi a sé l'Alfiere e voleva scrivermi la dedica – "...e, se vuoi possiamo far due passi all'aperto, prima che tu vada a casa per la cena." "Purtroppo piove ancora," dissi. "No, no, non piove più, guarda laggiù, un cane va senza ombrello!"
Nella strada bagnata e deserta un cagnolino grigio trotterellava: aveva un musetto nero e si dirigeva dignitosamente verso il giardino che si trova dinanzi alla casa di fronte. Ed ecco pronta la "dedica" per l'Alfiere: "Un cane va senz'ombrello."

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Quest'anno gli alberi e gli arbusti metton presto le foglie; nel cielo trasparente passano nuvole bianche: l'estate sembra prossima e non siamo che a marzo. I passerotti fanno chiasso per le vie e nei giardini cantano i merli, perfino un fringuello si posa a volte sulla banderuola a vento del giardino accanto e prova il suo nuovo canto. Ieri sera rilessi, in una delle lunghe, lunghe lettere di Rainer, la descrizione della primavera in paesi stranieri: "...per tre giorni si sentiva aleggiar nell'aria la primavera, stanotte poi c'era la luna piena che par abbia esteso i limiti dello spazio celeste, da cui veniva un gelo sidereo; oggi tira vento, è nuvolo e il tempo non sa cosa fare – – poi è giunta la tua lettera. Se tu sapessi, Benvenuta, quando arriva una delle tue letterine (bella era quest'ultima, concepita in un solo, comprensivo spirito, come scritta al chiaro di luna; quando tornerà la luna, la voglio leggere alla finestra, nella camera oscurata dalla notte); quando c'è una di queste lettere, vedessi. Benvenuta, come scendo le scale, ansioso, col cuore pieno, traboccante, i denti stretti sul labbro inferiore, come i bambini quando hanno in mano una tazza troppo piena.
Le primavere! ... Prima, quelle di Parigi erano fra le più belle che conoscessi... La primavera in una campagna è leggera, ma in una città invece! Non conosco che due città che ne sono all'altezza, che l'hanno in sé, come se irrompesse da ogni parte, dalle loro livide mura, come se le loro finestre la imprigionassero prima, l'invisibile dea, nei loro vetri e la riversassero poi sul vicino mondo sensibile (Roma la stringe grandiosamente al suo cuore, Roma è commossa, Roma dà una festa in suo onore quando essa giunge dalla campagna, già esausta dalle troppe emozioni: Roma l'accoglie come un padre il figliol prodigo); ma soltanto in due città ho compreso quanto ne fossero penetrate e che non vi era un punto nei loro selciati, nelle facciate delle loro case, nei parapetti, d'un tratto intiepiditi, dei loro ponti, che non avesse imparato segretamente la sua parola, che non la sentisse e che, alla più lieve domanda sospesa nell'aria, non riuscisse subito a ripeterla; e ognuno sapeva dire la sua poesia senza sbagliare: – Mosca, che la ripete, come un contadinello la storia della creazione del mondo, ben imparata a memoria, – e Parigi, Parigi che la getta in ogni raggio di luce come il polline d'ogni amore, e che, sin dai giorni di Abelardo, s'è estasiata, profusa in lei."

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Realtà! I giorni trascorrono in una pace felice, senza desideri, come se la paura dei demoni interiori fosse stata un sogno, un sogno irrequieto prima del buon risveglio, nella certezza di sentirsi al sicuro. Rainer è sereno e allegro, vive in una sicurezza senza ansie. È come se si riposasse davvero, dopo un lungo faticoso viaggio. Anche il suo sguardo è divenuto più limpido e l'espressione del volto più animata. Le ore passate nel bosco, presso ai laghi, nel sole, hanno abbronzato le sue guance. Sa ridere ora di cuore. Ed anche nei discorsi, più seri e gravi è sempre nella vita, senza timori, pieno di una superiore calma. È possibile che rimanga così, mio Dio, è possibile? Non oso pensare al futuro, perché ogni giorno la sua cara, multanime presenza è per me un dono del cielo; è come se uno spirito alto e buono fosse disceso da questo cielo incomprensibile, per render felici noi uomini, a cui è concesso di vederlo; e spesso, soltanto per il solo fatto che esiste, ch'è in questo mondo. Un grande spirito, ma anche un uomo come noi, eppur diverso da noi. Penso spesso a questa apparente contraddizione e cerco di risolverla. Ma quando Rainer appare, ogni contraddizione si risolve per la sua stessa presenza. Se qualcuno mi chiedesse: che specie d'uomo è Rilke? Non potrei rispondere, credo, che così: non è un uomo, è un'apparizione, è un essere di un altro mondo venuto tra di noi. Ch'egli si sia sposato, e abbia una figlia, mi pare incredibile, come se ,un arcangelo subisse il destino degli uomini, poiché, pur essendo in questo mondo, con la sua personalità, ne vive al di fuori, pur riconoscendolo e comprendendolo, come nessun altro, ma appartenendo, per così dire, a un'altra sfera. "Maturare lontano dalla vita, lontano dal tempo," ecco a parer mio il senso della sua esistenza. Non ho visto mai nessuno che, come lui, abbia inteso con lo stesso amore e in ugual misura le cose umili e le più grandi di questa terra, perché nel suo intimo egli è al di sopra del bene e del male, e comprende profondamente il mondo di Dante come la vita d'un maggiolino sopra un filo d'erba; egli sa "penetrare" nelle cose, come forse nessun altro innanzi a lui. Una piccola storiellina che mi raccontò una volta, ne dà una perfetta idea:
"...quante volte ho osservato dal vero uno di quei maggiolini: che si proponeva qualcosa ma non gli riusciva e si provava sempre da capo... Dio lo potrebbe così facilmente aiutare a salire su quello stelo, e non è neanche che Dio non voglia – ma egli sa che il maggiolino si spaventerebbe se venisse aiutato, desisterebbe forse da ogni proposito, pensando: ho una strana sensazione... come se non fossi più un maggiolino. – Perciò Dio si guarda bene dall'intervenire e se ne sta lontano dalla bestiolina. Ma ho l'impressione che ogni volta ch'egli si riprova nella sua ascensione, s'è dimenticato dell'ultima delusione e sconfitta, ha obliato tutto, si pone sempre dinanzi a una impresa nuova, nella più serena disposizione di spirito, e curioso di vedere come l'andrà questa volta."

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Il Brand di Ibsen al teatro Lessing. È stata una serata penosa. Dopo la rappresentazione si fece un tratto di strada a piedi. Rilke era esausto e come sfinito, parlammo della lotta completamente insensata di quel rovinoso "tutto o nulla" in Brand, che deve portare per forza ad un annientamento interno ed esteriore. "Mancanza d'umiltà" dinanzi alla suprema legge del destino, la definiva Rainer, interpretazione sempre tendenziosa, mai vera comprensione della divinamente imprevedibile logica della vita, di quella vita, che crea anche annientando. "Vedi", diceva, "Ibsen era un uomo di talento, aveva spirito d'osservazione, intelligenza, e quel che vuoi, persino una specie di rispetto della vita, ma gli mancava il dono più grande: il suo cuore non era all'altezza del compito, non aveva né volontà né la bontà necessaria per accettare tutto e si faceva consigliare dal più gelido raziocinio – così venne una interpretazione tendenziosa, un'opinione, e la più accanita difesa di questa 'opinione'. Basta così!" – Passava un taxi, Rilke fece cenno all'autista, salimmo in macchina e rimanemmo silenziosi fino a che non giunsi a casa. Al cancello del giardino ci demmo la buona notte. Al chiarore di un lampione vidi che i suoi occhi erano tornati sereni e calmi. "La cosa più bella stasera era il tuo vestito di seta grigio e lo scialle nero colle stelle d'oro," disse sorridendo, "tutto un cielo stellato ti circondava, e davanti a un simile cielo tutto il male svaniva."

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Ieri Rainer venne da noi; si prese il thè in giardino, all'aperto, al sole. Egli raccontò alla signora Delbriick degli anni passati da giovane a Berlino, che a quell'epoca non aveva assunto ancora quelle spaventose proporzioni gigantesche che ha oggi. "Abitai alcuni anni, che mi sembrarono anzi molti, a Schwargendorf, in una casetta di campagna che si chiamava Villa Waldfrieden (probabilmente da molto tempo non esiste più, inghiottita da tutte quelle case di pietra che le furono costruite poi intorno); e là scrissi le Storie del buon Dio. La mattina presto giravo a piedi nudi nel bosco, completamente deserto, di Dahlem – pensare ch'era ancora possibile farlo allora – per vedere i caprioli!"
Progetti eccitanti s'affacciano, spariscono, ritornano e turbano quasi la felicità di queste giornate tranquille, per la loro incertezza; anche perché danno l'impressione che sarebbe doloroso se non si potessero realizzare; è come se tutto fosse sospeso nell'incertezza. Mi vien fatto di guardare la mia valigia ancor vuota e di pensare a quel che Rainer mi ha detto una volta: "Non puoi immaginarti che soggezione abbia della mia valigia, nonostante la nostra continua consuetudine; a ripensarci, in questi ultimi anni ho imparato a conoscer tutte le sue abitudini, ma lei ignora le mie; già otto giorni prima di partire da un qualsiasi luogo, m'accorgo quale sarà il suo umore e se mi farà confondere. I miei rapporti con lei sono più stretti che con qualunque altro oggetto che mi appartenga, eppure corre tra noi un rapporto direi quasi di rispetto, in cui ho la parte di minor importanza; se le rivolgessi la parola, dovrei darle un titolo onorifico, ma ci facciamo solo dei cenni, io piccoli e molti e lei alcuni grandi, d'ordine generale, che passano al di sopra di me." – No, la mia valigia non ha una storia, è nuova di zecca e, per così dire, è ancora senza alcun destino. Ma credo che, come prima esperienza, le sarà concesso qualcosa di inverosimilmente bello: andremo a Parigi!

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Il pensiero che la "stanza di Andersen" presto non sarà più, è molto triste; una persona estranea, indifferente al suo fascino, l'abiterà, senza sospettare chi prima di lei vi abbia vissuto; le ore che vi passammo, piene di tante conversazioni e di tanta musica, saranno svanite; il pianoforte sarà portato via – – per quanto la mia gioia sia grande, immensa, quando penso al prossimo viaggio, pure mi assale spesso e di colpo una certa paura a ricordare quel che Rilke mi scrisse, in una delle sue prime lettere, su Parigi: "...questa città, in cui la mia sensibilità si è disperatamente consunta e tormentata, mi è divenuta così penosa, che non potrei nemmeno farGliela vedere serenamente, per quanto bella sia nella sua natura unica... "Lo riprenderà l'antica malinconia, la paura della vita, di se stesso, degli uomini? Non ho un'idea chiara di Parigi, né avevo finora avuto il desiderio di andarci, ma ora, solo il pensiero che Rilke vi viva, me la rende ammirabile, degna d'esser amata.
Anche Busoni e la signora Gerda vi andranno, egli suonerà al concerto in abbonamento di Sechiari; e anche il mio caro collega Josef T. sarà a Parigi in quel tempo, di passaggio per la Svizzera. Potrò forse vedere Rodin a Meudon; Rilke mi ha parlato molto di lui. Che Rilke e Rodin, intimi amici una volta, abbiamo dovuto a un certo momento separarsi, era inevitabile, data la loro natura; i loro cammini erano troppo diversi, perché potessero percorrere insieme la stessa strada "che non era mai quella dell'altro". Tuttavia per Rilke la separazione fu molto dolorosa, perché avvenne in mezzo a reciproci malintesi, ed anche il grand ami ne avrà sofferto, benché sembrasse dei due il più duro: "un gran fanciullo e un saggio solitario." Rilke dice che in lui coesistono varie nature, che s'incontrano, lottano tra loro, e che l'arte sua, il suo genio si può comprendere perfettamente solo pensando a questa molteplicità di voci, "che finisce per cantare come una possente orchestra divina." Or non è molto, ci raccontò anche un aneddoto del grande scultore, breve e divertente: Rilke e Rodin facevano insieme lunghe passeggiate nei dintorni di Meudon; camminando e conversando, Rodin si fermava e d'improvviso segnava con la matita qualcosa sui suoi polsini e poi proseguiva. Queste fermate e annotazioni avvenivano spesso durante le passeggiate, e quando i due artisti tornavano a casa, i polsini dello scultore erano pieni zeppi di segni. Rodin li gettava allora in un angolo della camera da letto e si metteva dei polsini nuovi e il giorno dopo anche questi, pieni di segni, andavano a raggiungere gli altri. Guai se la signora Rodin si provava qualche volta a dare a "pulire" quella montagna di biancheria, ammonticchiata confusamente! "Ma, mia cara, che fai – mio Dio, i miei polsini!" gridava irritato e così bisognava lasciarli lì sino a che tutti quegli stranissimi "manoscritti" non venivano messi in ordine e "ricopiati"! Buona parte del libro Le cattedrali della Francia fu buttata giù nel primo abbozzo a questo modo.
Rodin non capiva una parola di tedesco, a sessant'anni aveva letto per la prima volta il Faust, in una traduzione francese – di Rilke non conosce niente, salvo alcune versioni del Malte. Rainer pensa che questa completa unilateralità, che porta a concentrarsi esclusivamente nella propria creazione artistica, sia degna di rispetto, perché significa una completa accettazione del mondo ordinato da Dio, una comprensione e una capacità di rappresentazione di questo mondo, che va dalle sue forme più minute alle più alte vette. Dice che nelle creazioni di Rodin, specialmente nel Pensatore, che si trova dinanzi al Pantheon, si sente la rivelazione di un mondo superiore.

 ***

Ultimo pomeriggio nella "stanza di Andersen"!
Domani vengono a prendere il pianoforte a coda; grazie a Dio, diversi nuovi progetti, che devono ancora esser fissati nei loro particolari, non permettono alla melanconia di prendere il sopravvento.
Partiamo domani, i Busoni non possono andar via che la prossima settimana; Rainer ha proposto di andar prima a Monaco, poi, passando per Innsbruck, a Zurigo, Berna o Basilea, e da lì a Parigi. Ho paura di Parigi, conosco troppo bene il tormento di quegli anni che l'hanno oppresso, ma Rainer mi ha detto una cosa così bella, che ho quasi vergogna del mio timore. Diceva: "Sono così affezionato a quella mia camera, così sospetta sinora, per un nuovo senso di indulgenza che è nato in me da quando vi ho scritto delle lettere, quelle dirette a te; perché credilo Benvenuta, sono il testamento di tutta la mia esistenza, anzi di tutta la vita che mi potrà ancor esser concessa in futuro."
Con queste parole prendo congedo dalla "stanza di Andersen". Il futuro è incerto, e incerto è quel che il destino ci ha riservato, ma la realtà è così ricca, che mi sembra compensare la vita, qualunque sia... "che mi potrà ancora esser concessa in futuro".

RIEPILOGO

Riandando con la memoria a tutto quel ch'è avvenuto, mi pare che il periodo passato a Berlino sia stato uno dei più felici nella vita di Rilke; come se in queste settimane di pace si fosse veramente riposato, senza esser oppresso dai ricordi del passato o dalle preoccupazioni del futuro. Viveva nel presente, nella realtà; rendeva felice i pochi eletti, cui era legato da una intima affinità, colla sua sola presenza, col suo essere, che attirava tutti quelli che avevano il privilegio di vivergli vicino, nella sua sfera vitale. Ma per quanto grande fosse l'amore e la gratitudine che gli venivano tributati, era sempre lui quello che dava di più, con la luce che illuminava in modo miracoloso l'intimo mondo dello spirito, era lui la persona più piena di comprensione, la più benevola. In strano contrasto col suo carattere esteriormente timido, la sua vita interiore partecipava a tutto quel che veniva dal mondo e dagli uomini, ma – da vero aristocratico, nel senso più vasto della parola – rifuggiva anche da ogni forma di volgarità. Non si riesce ad immaginare che in sua presenza qualcuno si sia arrischiato a pronunciare una parola a doppio senso o a raccontare una storiellina equivoca; la levatura spirituale di Rilke avrebbe troncato sul nascere simili impulsi in qualsiasi uomo volgare. A lui si può applicare forse come a nessun altro, il detto di un gran poeta: "odio l'orda, voglio il popolo!" Egli era capace di parlare con commovente simpatia della sua lavandaia, di una vecchia padrona di casa, il cui marito era rimasto vittima di un incidente; di stare una intera notte al capezzale di un vagabondo morente in un miserabile ospedale di un sobborgo di Parigi, per portare a quel reietto della vita, un'ultima luce nella sua misera esistenza. Ma gli occorreva sentire la voce dell'umanità, anche se di un'umanità oppressa e logorata. Solo in questo caso cadevano tutte le barriere convenzionali e ogni distinzione di classe, era allora l'essere umano soltanto che l'interessava e a cui si sentiva legato, per un vasto senso di partecipazione a ogni forma di vita. Rilke andava – in una maniera tutta sua particolare – a cercare l'uomo, come da giovane poeta aveva cercato Dio. E nei suoi viaggi attraverso buona parte del mondo, egli l'aveva trovato in tutti i paesi: in Svezia e in Egitto, in Russia e in Italia. Egli "imparò" a conoscere l'uomo, ne investigò le "infinite variazioni," ma rimase, nonostante tutto, un solitario, perché gli mancò l'eco che cercava. Egli conosceva gli uomini, o credeva di conoscerli, ma gli uomini non conoscevano lui. Accettavano la sua simpatia, la sua presenza, come un'azione benefica, al modo che un malato respira l'aria risanatrice della mattina in montagna; ma ignoravano le sue intime pene, forse perché, anche in un rapporto umano apparentemente stretto, si trovava pur sempre al di sopra di loro, per quel che di estraneo all'umanità c'era in lui; insomma era non come l'amicizia, ma come lo spirito dell'amicizia, non come la consolazione, ma come lo spirito della consolazione, non come l'amore, ma come la nostalgia dell'amore, come lo intendevano loro. Per Rilke e per quelli che hanno vissuto intorno a lui è veramente tragica e commovente la conclusione, a cui giunse, quando mi disse una volta: "Spesso mi perdevo negli uomini, mi davo interamente, senza ricever nulla in cambio – e così avviene che nessuno, ad eccezione di te, è potuto veramente penetrare nel mio intimo." Quando gli feci osservare che gli amici veri non gli mancavano, mi rispose: "Sì, vi sono due specie di amici: gli uni sono persone di cuori, che mi vogliono bene per i libri che ho scritto, vengono a me con delle esigenze pure e io non li debbo deludere. I miei libri però sono come dei canocchiali: se uno vi guarda dentro, un monte di cose gli passano sotto gli occhi, cielo, nubi, oggetti, immagini, in maniera più evidente del solito; ma tutto ciò non sono ancora io. Soltanto tu lo sai. Poi c'è della gente che mi mette una quantità di cose a disposizione: una casa di campagna, un parco, un castello, ove potrei vivere per conto mio, solo, con dei domestici, con cui abbia confidenza e che mi considerino come di famiglia. Ogni volta che ho approfittato di una di queste grandi occasioni, ne è venuto qualcosa di bello, ma quando me ne andavo, mi pareva di averlo in qualche modo sciupato, perché mancava un legame intimo. A lasciarlo andare era come un ramo carico di frutti che scatta via quando lo si è piegatd verso di noi: alla fine si rimane proprio al punto di prima." Gli chiesi allora se non si sentisse soddisfatto di fare già molto per i suoi amici, offrendo loro il dono della sua presenza o della sua attenzione; ma in fondo, egli non lo voleva ammettere: "Fintanto che la loro umanità non mi tocca, li comprendo e mi sono familiari sin nelle loro manifestazioni più crudeli. Ma quando ho verso di loro degli obblighi, mi sento come paralizzato, e non posso far più nulla." Forse occorreva spiegarsi la cosa in questo senso: che gli uomini non lo conoscevano, non lo riconoscevano, perché egli "non li doveva deludere," e manteneva chiusa in sé l'essenza più intima del suo animo; "come il mercante il suo olio di rose".
Durante le nostre passeggiate nel bosco e i pomeriggi nella "stanza di Andersen," si era parlato e riparlato di tutto questo, e così avevo imparato a conoscere quel dualismo che lo spingeva a cercare gli uomini e – ad evitarli, appena li aveva trovati. Durante una delle nostre ultime gite lungo il Wannsee – era una giornata eccezionalmente mite e limpida – ci s'era seduti su di una panca vicino al lago; Rainer si era levato il cappello, il sole primaverile batteva sui suoi capelli castani; col capo chino pareva ascoltasse il lieve mormorio delle onde; un grande uccello volava lentamente sul lago; un profondo silenzio era intorno a noi. D'un tratto prese le mie mani tra le sue e, con uno sguardo pieno di sconfinato amore, mi disse: "Ho mai parlato a qualcuno prima che ci fossi tu? No, caro cuore mio, non so proprio in che modo, in che senso io mi confidassi agli altri. Parlare a te vuoi dire non disperdersi, penetrare in sé, cioè crescere un poco, dove nessuno se ne accorge – un po' come un bimbo che si muove in seno alla madre."
Presi allora la sua destra e vi abbandonai sopra il mio volto. Il mio cuore sino al fondo più nascosto era pieno di una immensa gratitudine che voleva traboccare nella sua anima con una forza superiore a qualunque parola. Tutte le pene che il futuro ci riservava, erano ancora sepolte nel sonno, lontane, ma la mia felicità senza limiti consacrava quest'ora divina con una benedizione imperitura.

VIAGGIO

Theo e Betti Delbrück erano venuti alla stazione e avevano portato, come regalo d'addio, un bel cestino da viaggio pieno di cose buone. "I fiori appassiscono, e così abbiamo pensato che il signor Rilke avrebbe preferito delle mele e dei dolci; se il cestino è peso, è perché in cima vi sono i saluti della mamma", dissero i ragazzi. Ridevano, chiacchieravano e parlavano di quando ci si sarebbe riveduti, tanto per non farci venire la melanconia; anche Rainer era allegro e riposato. Scherzava con Betti e la incaricò di salutare la banderuola a vento e Presto e Tulli, i due cani del giardino accanto. – Quando il treno uscì dalla stazione e i fazzolettini agitati dei ragazzi scomparvero e Berlino s'immerse a poco a poco nella biancastra e umida nebbiolina che velava il sole del mattino, un nuovo mondo si schiuse ai nostri occhi. Rilke conosceva tutte le città da cui si passava, e parlava di viaggi e avventure. Bamberga, Norimberga, la meravigliosa cittadina di Gunzenhausen, con le sue antichissime case e le mura della città, che sembrava spuntare da un quadro del tempo di Dürer, comparirono e scomparirono. Aveva cominciato a piovere, l'aria era umida e fresca, ma si andava verso il meridione, incontro ad una primavera più mite.
Si fece colazione nella vettura-ristorante e Rainer si divertì molto a sentirsi chiamare "eccellenza" dal cameriere. "Forse lo fa perché, tra l'omelette e l'arrosto di vitello ho fatto cader una parolina sull'ambasciata tedesca a Copenhagen. Lo credi?" Era allegro come un ragazzo e non mi maravigliai quando una bimba, ch'era salita colla madre poco prima di Monaco nel nostro scompartimento, andò difilato da Rilke presentandosi così: "Io mi chiamo Lotti e tu?" "È lo zio che conosce Gesù Bambino," dissi io "e Biancaneve, il signor Baum e il buon Dio." La bimba finì per accucciarsi sulle mie ginocchia, mentre Rainer le raccontava la vicenda del ditale, dalle sue Storie del buon Dio: non era la narrazione letterale, ma fedele al suo senso in tutti i particolari, solo con alcune varianti improvvisate, per esempio di come al ditale fosse capitato di diventare il buon Dio. La bimba ascoltava estasiata, e quando ebbe finito la madre disse a Rilke: "La ringrazio molto, signore, sarebbe bene che questa novella fosse scritta; l'ha inventata adesso? Allora lei è quasi un poeta!" "Crede?" rispose Rilke con un sorriso ambiguo; ma la signora gli confermò, con tono rassicurante: "Sì, dovrebbe mettersi a fare lo scrittore e inventare fiabe per i fanciulli."
Il treno entrò, dopo poco, nella grande e rumorosa volta della stazione centrale di Monaco; la bimba e la madre scomparvero nella confusa folla colle valige, la borsa e due bambole; i facchini correvano lungo il treno: vennero scaricati i bagagli; ci trovammo d'un tratto sperduti in mezzo a gente, che rideva, s'accalcava e si salutava. Ma poi venne a salvarci il portiere dell'albergo che caricò il bagaglio su di un carretto, dicendo: "Buona sera, signor dottore!" La prima tappa del nostro viaggio era raggiunta.
Rainer stava all'albergo Marienbad, io a Nymphenburg, da mia sorella Maria, che non avevo visto da molto tempo e con cui volevo stare insieme parecchio in quei pochi giorni. Così, durante il nostro soggiorno a Monaco, vidi solo due volte Rainer da mia sorella Maria e poi quando ci si trovava insieme in città, per fare qualche spesa di viaggio. Egli era tutto soddisfatto che anche a me piacesse "molto" fermarsi a guardare le vetrine; mi regalò dell'acqua di Colonia e un bel cuscino da viaggio e si divertì a vedere che non riuscivo a staccarmi da una incantevole profumeria. "Tu non compri le saponette, le cogli, come si coglie la frutta degli alberi" disse stupito, vedendo come mi sceglievo le saponette e mi facevo rinvoltare le più belle, di color viola pallido, verde e giallo chiaro, colla carta velina, per sistemarle in una scatola. Nella sala da thè vicino al Hoftheater incontrammo poi un vecchio amico comune, l'editore Hugo Bruckmann; ci si mise in tre ad uno dei tanti tavolini, apparecchiati con cura e illuminati da lampade portabili con paralumi gialli, e si bevve uno squisito thè in fragili tazzine cinesi. Bruckmann, una persona fine e intelligente, si rallegrò tanto di aver incontrato Rilke, che stimava molto; i due si abbandonarono ai ricordi del passato; Rilke parlò di Toistoi e confessò di aver imparato soltanto da lui e in Russia 'a gustare veramente il thè. Tolstoj preparava questa bevanda nazionale sempre da sé "con un rito quasi sacro" ; e non dovevan mai mancare sulla tavola limoni freschi. Bruckmann osservò in tono scherzoso, come anche tra le nature più opposte esista sempre qualcosa in comune; così Tolstoj e Balzac erano d'accordo in quel che si riferiva a "una bevanda preparata con amore".
"Sì," disse Rilke, diventando tutto serio, "in qualche luogo, in una sfera più alta, la grandezza è la stessa in tutti gli uomini grandi. Solo il modo di ospitarla in sé e di darle, con un atto creativo, una forma, di farla diventare un'immagine, è così infinitamente diverso, che noi appena ne abbiamo un'idea. Tolstoi era fanatico e inesorabile, Balzac si sentiva al di sopra degli avvenimenti e dei pareri. Tolstoi era un contadino, o credeva di esserlo, aveva bisogno del 'male' o della bruttezza per combatterla; a monsieur Balzac invece questo non occorreva. Tolstoi assaliva, direi quasi, il 'male', Balzac invece, per così dire, lo 'distribuiva'; monsieur de Balzac, l'aristocratico, faceva venire una delle sue creature, Vautrin o qualche altro della sua innumerevole tribù: prendeva il 'male' e, come un creatore generoso, con due dita lo donava, porgendolo al di là della tavola; monsieur de Balzac non sapeva che farsene del 'male', Vautrin sì; Balzac ne disponeva, ecco tutto. Il caffè 'preparato con amore' diffondeva il suo aroma, si poteva continuare a scrivere."
Quest'ora passata in compagnia di Bruckmann concluse il nostro soggiorno a Monaco; il giorno dopo riprendemmo il viaggio.
Ero felice di rivedere il Tirolo, mio paese nativo; Innsbruck, la catena montuosa settentrionale, il piccolo castello sul fiume, dove la mia cara nonna aveva passato l'infanzia e la giovinezza. – Rilke non amava a quei tempi i monti, diceva che creavano dei "paesaggi esagerati", i ghiacciai gli parevano mostruosi e per la Svizzera provava quasi una angosciata repulsione.
"Forse imparerò a comprendere le montagne, ma per ora non esiste nessun rapporto tra di noi!" diceva. E gli eventi gli dettero ragione.
A Innsbruck faceva caldo e c'era molta polvere; lo scirocco, soffiando da mezzogiorno, spazzava la città, rendendo l'aria pesante e il paesaggio troppo limpido e crudo. La mattina andammo in tram sino a Hall, per visitare quella bellissima città antica. Ma le montagne si ergevano vicine e quasi minacciose sopra le case; il cielo splendeva d'un azzurro come quello della genziana, c'era un'afa nell'aria, come se stesse per venire un temporale; si respirava a mala pena. Rilke mi parve d'un tratto così esausto e sofferente, che gli domandai preoccupata se non fosse meglio ritornare a Innsbruck. Sì, disse, voleva tornare, ma non permise di accompagnarlo, voleva che facessi visita, come infatti m'ero proposta, a una mia amica; e, prima di tornare a casa, sarei potuta magari passare un momento dalla sua pensione, per sentire come stava. Così partì solo; ma io non ero tranquilla e fui quasi contenta di non trovare in casa la mia amica, perché era partita; così mi affrettai, dopo una rapida colazione, a prendere il treno del pomeriggio.
Rainer era nella sua camera, disteso, tutto vestito, sul divano e io mi spaventai fino nel profondo del cuore: con gli occhi chiusi, il volto di un grigio smorto, la fronte sconvolta dallo spasimo, sembrava un moribondo. "Ah, Dieu merci," disse piano, quando entrai, ma era più un gemito che una parola quello che sentii. Mi chinai sgomenta su di lui. Parlava in francese, ciò che gli capitava di rado. "Ça fait si mal," disse, e si mise la mano sugli occhi. No, non voleva un medico, chiedeva solo un po' di refrigerio sulla fronte e sugli occhi. Così sedetti per ore e ore accanto a lui, facendogli degli impacchi freddi, cambiando di continuo i panni bagnati; mi avevano portato del ghiaccio, e delle gocce di valeriana, che egli prese volentieri; più tardi gli potei dare una tazza di tè, infine s'addormentò.
A poco a poco sul suo volto esangue un po' di colore era tornato; ora riposava tranquillo, in abbandono, liberato dal dolore; com'era commovente quel volto calmo, quasi d'un ragazzo! Posai la piccola lampada sul pavimento dietro il divano, perché risvegliandosi egli non fosse disturbato dalla luce, e detti l'incarico alla cameriera, sempre premurosa e gentile, di tornare a vederlo ancora e di badare ad ogni rumore e al campanello. Mi promise perfino di chiamarmi al telefono, se fosse stato necessario; infine tornai al mio albergo, passando, nella notte, per le strade deserte della città. La preoccupazione per Rainer però non mi fece riposare. Provai a leggere, e intanto guardavo continuamente e ansiosamente il piccolo apparecchio telefonico sul mio comodino, temendo che da un momento all'altro si mettesse a suonare per comunicarmi una notizia terribile; oggi avevo pur visto per la prima volta le forze distruttrici che minacciavano l'esistenza esteriore di Rilke. Tutto questo non poteva forse ripercuotersi anche nel suo animo, suscitando ancora quelle spaventose depressioni, di cui aveva sofferto così penosamente in tutti quegli anni?
Così passò la notte. Soltanto quando verso l'alba un temporale interruppe l'insopportabile tensione ch'era nell'atmosfera, una pioggia prolungata e benefica schiarì e rinfrescò l'aria e portò il riposo.
Seguirono giornate piovose e fredde; le nubi, abbassandosi grevi, nascondevano le montagne. L'acqua grondava e gocciolava dai tetti e dagli alberi; si gelava.
Rilke si era rimesso abbastanza per poter continuare il viaggio; così lasciammo Innsbruck due giorni dopo, di mattina, traversando il piovoso e grigio Tirolo, per la Svizzera. Verso Arlberg venne la schiarita e nel pomeriggio il lago di Zurigo si presentò a noi splendente nel sole.
Aveva davvero ragione Goethe, quando, nel presentimento della gioia e per l'impazienza di vedere la Città Eterna, aveva percorso in furia l'Italia, senza riuscire ad interessarsi seriamente, se non per Roma. Con il pensiero eravamo già in Francia. Così Zurigo, Winterthur e Basilea divennero solo stazioni di passaggio per noi, per quanto le giornate fossero belle e animate: la gita sul lago in battello, una giratina in montagna, panorami bellissimi, quadri del primo Böcklin nel museo di Basilea, il Cavaliere nel Duomo, la vista sul Reno dalla terrazza dei "Tre mori"; sì, ma in lontananza Parigi attendeva, Parigi in primavera! Si poteva fare a meno, nella nostra impazienza, di correrle incontro?
A Basilea rischiammo quasi di perdere il treno. Ero seduta sulla terrazza ove s'usa far colazione nell'albergo dei "Tre mori" aspettando Rilke, che mi dieva venir a prendere con un taxi, per andare alla stazione. Era già tardi quando egli giunse finalmente, ansimando un poco, e quando fummo seduti nella vettura, mi disse che la colpa era tutta della saponetta!
"La saponetta?"
"Sì, pensa, l'avevo comprata ieri, un po' distratto e senza badar troppo a quel che m'incartavano in un negozietto. Quando l'ebbi posata sul mio lavamano, mi accorsi ch'era tutt'altro che fine, perché sapeva di muschio e non l'avrei potuta davvero adoprare. Ma non potevo neanche buttarla via senz'altro, se ne sarebbe avuto troppo a male. Allora la rinvoltai accuratamente in una carta verde, la legai con un nastrino d'argento – e la nascosi dietro il davanzale della finestra. La cameriera mi pareva proprio un tipo capace di trovar la saponetta di suo gusto – e così tutto era accomodato." Raccontava questa scenetta con un umorismo delicato e amorevole e si capiva subito quanto fosse naturale per il suo temperamento l'esser, in certo modo, "pieno di riguardi" anche verso le cose inanimate; tanto che non mi venne punto da ridere, come forse egli s'era aspettato. Ma la storia divenne veramente comica quando, mentre ci s'era accomodati nello scompartimento, il cameriere dell'albergo porse a Rainer le sue valigie dal finestrino – e un piccolo involtino verde legato con un nastrino d'argento, dicendo, tutto fiero del suo francese: "Monsieur a oublié ce petit paquet dans sa chambre, il était auprés du [sic] fenêtre." La mancia abbondante che ricevette lo estasiò addirittura, poi il treno partì – ed ecco Rilke di nuovo in possesso della sua saponetta! Certo l'avrà conservata ancora un poco "per non offenderla".
Presto ci lasciammo dietro le spalle la Svizzera per inoltrarci sempre più nella Francia: un paesaggio dolce e ridente si schiuse alla nostra vista: pareva una terra incantata. Tra le betulle, verdeggianti nella primavera lungo piccoli corsi d'acqua, si vedevano pascolare dei buoi di un grigio chiaro; senza muoversi, seguivano attoniti il treno, coi loro grandi occhi tranquilli; poi in lontananza apparivano le torri d'una città, il treno vi passava correndo dinanzi; dalla soglia di una casa solitaria, sul confine di un bosco, un bimbo accennava un saluto colla mano; al di sopra di tutto s'inarcava un cielo appena velato, d'un azzurro argenteo, che diffondeva una soffice luce su tutto il paesaggio.
Ma io, sulle ali della mia impazienza, bruciavo le tappe, superando le distanze, e non fui contenta se non quando, all'ora del tramonto, il treno entrò nella Gare de l'Est di Parigi.
Mi si presentò dinanzi una stazione ampia, molto sporca e brutta; una folla confusa ondeggiava in ogni senso; si sentiva chiamare i facchini; i fischi assordanti dei treni in partenza s'incrociavano fitti nell'aria, carica di fumo; eccoci ora in una brutta piazza davanti alla stazione; delle strade enormi si diramavano in tutte le direzioni; ovunque rumore e sporcizia.
La prima impressione di questa città, che con tanta impazienza avevo anelato di vedere, fu così opprimente, che mi venne fatto di pensare come sarebbe bello salire subito in treno per andarmene ovunque ci fosse un po' di quiete: in montagna, al mare, pur di allontanarsi da tutto quel frastuono e traffico, da quelle brutte casone allineate nelle strade che sembrano perdersi nell'infinito.
Nella piazza stazionavano dei taxi, delle carrozze e dei piccolissimi omnibus, che subito mi piacquero molto. Nell'interno di queste deliziose e simpatiche vetture c'erano dei sedili di felpa rossa, e tra i due finestrini un piccolo specchio ornato di fiori freschi. Si prese una di queste comodissime vetture; un ometto, che pareva un allegro gnomo, issò con destrezza le valige sul tetto, porgendoci borse e ombrelli nell'interno della vettura e saltò poi a cassetta accanto al cocchiere; la porta venne chiusa con un colpo e il grasso cavallo sauro si mise a un placido trotto. Dal Boulevard St. Sébastien, passando dinanzi ad un imponente arco di trionfo, la nostra vettura, voltando, cominciò a infilarsi in un groviglio di viuzze. Leggevo: rue de l'Echiguier, rue Bergère, rue Feyau; dappertutto si vedevano individui dall'aria equivoca, giovanotti, ragazze sedute davanti alle numerose bettole che davan sulla strada; si sentiva urlare e cantare; giovani giornalai passavano gridando i nomi dei quotidiani serali; nelle botteghe, aperte anch'esse sulla via, si vendeva pesce, carne, pane, grappa, verdura, vestiti vecchi, parrucche e stivali. Avrò certo guardato Rainer trasecolata, perché mi disse, col suo benevolo sorriso: "Passa presto, poi avrai da guardare da tutte e due le parti..." E già la vettura, voltando dalla Place de la Bourse entrava nella rue du Louvre – ed eccolo il mondo incantato: Notre Dame, il giardino delle Tuileries, il Louvre, i ponti, il fiume: Parigi, come un sogno soave, chiuso dalla cornice dei finestrini, dolcemente sospeso nell'azzurro profumato del crepuscolo incipiente, irreale e insieme noto da tempo immemorabile. Mi vennero le lacrime agli occhi, ci tenemmo stretti per la mano e Rainer disse: "Sì, eccola!" Poi la vettura passò sul Pont du Carrousel fermandosi al Quai Voltaire; Rainer, sempre così caro e premuroso, aveva pensato a tutto e ordinato una camera per me; mi disse di salire un momento per riavermi un poco e – se era possibile – di ritornare presto giù per la cena. Mi avrebbe atteso nella sala da pranzo, per mostrarmi dopo cena anche il suo studio, la sua dimora.
La mia camera, al secondo piano, era grande e cordiale e così splendidamente arredata, che mi ci attardai un poco; sopra un bel camino antico era appeso un grande specchio stile Luigi XVI. Le candele erano accese in due grandi candelabri fitti di luci, e davanti al camino, sopra un tappeto rosso-scuro c'era un gran vaso di vetro azzurro cupo pieno di anemoni fioriti di ogni colore immaginabile. Le finestre eran velate da tendine a grandi fiorami; se si aprivano appena, la Senna e la città, splendente delle sue luci, si presentava ai miei sguardi; Parigi, Parigi in primavera "...bella com'è, nella sua natura unica".

PARIGI

(Dal diario)

Occorre forse cercar di fissare i periodi e gli avvenimenti, che ci sembrano irreali, nei loro particolari, perché, con l'andar del tempo, non corrano il pericolo di restar sepolti nell'intimo dell'anima, come un'immagine di sogno che – divenuta inconsistente nella vita quotidiana – si dilegua come la nebbia mattutina su di una vasta distesa d'acque.
Berlino era stata il presente tranquillo e felice; Parigi è il futuro incerto e trepidante: l'ho appena presentita, non so ancora nulla della sua vera essenza, ma sento che si corre il rischio di perdersi, di cederle; in lei prendono forma altri ignoti destini; tutto accoglie in sé: la felicità e la disperazione, il dolore e la gioia.
Il mio alberghetto è straordinariamente simpatico e cordiale; Rainer dice che non è frequentato di solito da forestieri, ma quasi esclusivamente da nobili di campagna e da famiglie della buona borghesia di provincia. Ho così l'occasione di conoscere subito un aspetto della vita francese.
Madame la propriétaire insieme a sua sorella, Mademoiselle sa soeur, due signore anziane, dirigono l'albergo; oltre al portiere, ci sono due camerieri, un
facchino e quattro cameriere. Questo ce lo raccontò Monsieur Alphonse mentre, in giacchetta bianca e grembiule, ci serviva a tavola. Come antipasto, prima della minestra, con mia gran sorpresa, vennero servite delle arance e dei frutti tropicali; è l'uso di tutte le trattorie parigine.
Rilke propose di andare subito dopo cena al suo studio, il viaggio non l'aveva punto stancato; e così presto ci si mise in cammino. Quando si uscì dall'albergo era già buio; una lieve brezza muoveva gli alberi sul Quai, i lampioni dei ponti riflettevano la loro luce nella Senna; ma, per quanto fosse già sera inoltrata, il cielo splendeva ancora nell'ultimo lieve chiarore del giorno che moriva. Rainer osservò: "Vedrai, qui la luce è differente da quella di altri paesi, non par che illumini le case, i ponti, i giardini, ma che invece le case, i ponti, i giardini, e tutto il paesaggio splendano da sé, come per un'intima luce." C'era un bel tratto di strada per arrivare alla rue Campagne première: si aveva a prendere la ferrovia sotterranea? Preferivo andare a piedi e in realtà anche lui lo desiderava. "Nevvero" continuò Rainer, "è una sensazione meravigliosa quella di andare in giro per una città la prima volta, sentire che si passeggia a caso, lasciarsi saturare d'ogni cosa, come se fosse stata creata in quel momento: piazze, case, e gruppi d'alberi dietro le cancellate dei giardini; tutte cose che non s'eran mai viste e che pur eran sempre esistite, quasi fossero in attesa; come quella casa, quella stanza ove le tue lettere, quelle lettere così eternamente tue, già da tempo si sentono a loro agio, e dove ti ho scritto tutte le mie." Si andava con la mano nella mano per le strade; a volte chiudevo gli occhi per lasciarmi guidare pensando che anche a Berlino ero andata una prima volta a casa di Rainer, ma senza averlo mai visto prima; ora però camminava al mio fianco e la sua cara e profonda voce mi parlava. Ecco, s'era fermato: aprii gli occhi e vidi che eravamo giunti in una stradicciola dinanzi a un casamento grigio, a parecchi piani. Rainer suonò il campanello, dopo un po' di tempo la portinaia venne ad aprire ed esclamò, tutta contenta di rivederlo: "Voilà, Monsieur Rilke!" Con un mozzicone di candela, che la vecchia ci aveva dato, ci facemmo luce per le scale, passando davanti a molte porte d'un verde chiaro e salendo fin quasi sotto al tetto. Poi Rainer aprì; accese la luce: s'era in un vasto ambiente, in cui un'intera parte era occupata da una finestra gigantesca. Avvolsi con uno sguardo affettuoso e riconoscente tutto quel che già m'era noto dai racconti dell'amico: la scrivania di Rodin, il leggio, i libri alle pareti, lo stemma dei Rilke in cornice, al muro, la lampada con il paralume verde sul tavolo, la tenda dinanzi all'alto scaffale. Rilke mi posò un braccio sulle spalle e mi guidò verso la finestra. Al di sopra di oscuri e silenziosi giardini, si levava, nella penombra della sera, il profilo incerto della cupola del Duomo degli Invalidi; qua e là, tra i tronchi degli alberi, trapelava qualche luce di una casa lontana. C'era una gran quiete, s'udiva soltanto, di quando in quando e come di lontano, lo strepito delle carrozze e le trombe degli automobili del grande e rumoroso Boulevard Raspail. Qui dentro tutto era quieto e bello e in questo silenzio la voce consolatrice, per me più cara, mi diceva: "Lo senti, come ora vivo, come vivo in te, come vivo una nuova vita dello spirito, grazie al miracolo della tua presenza, e che in te ho trovato un rifugio? Tu sentirai, e non potrai altrimenti, Benvenuta, ovunque tu ti trovi, questa esaltazione del mio animo, questa devozione di tutto il mio essere per te."
In seguito mi misi a girar per la stanza; e non potei trattenermi dal toccare, come per benedirli con le mie mani, tutti gli oggetti che vi si trovavano: il calamaio, la cartella, il leggio, la poltrona, la piccola icona con l'immagine di Cristo, d'argento brunito. – Infine tornati all'albergo, Rainer mi accompagnò fino alla porta di casa. Arrivata in camera aprii la finestra e lo vidi mentre mi faceva ancora un cenno d'addio, poi la sua esile figura scomparve nell'oscurità.
Piove, l'aria sa di terra bagnata; per quanto non sieno che le dieci, non si vede anima viva per le strade; la luce dei lampioni si riverbera sull'asfalto bagnato, mentre le ombre delle cime degli alberi, agitati dal vento, si muovono oscillando; qua e là tra le nubi fuggenti, brilla qualche stella, la Senna scorre sotto la mia finestra, le sue onde veloci mormorano lievi. Oh misteriosa notturna città di primavera! – Nella mia bella camera, il mazzo degli anemoni splende sul tappeto rosso. Com'è piena di benedizioni la vita! Il mio cuore ne è ricolmo.
Buona notte, mio caro, caro Rainer. Grazie!
Ecco passata la prima giornata a Parigi. Era stata straricca di belle esperienze. Bello fu già il risveglio nella camera semioscura, bella la sensazione di felicità nel sentirmi qui.
L'orologio di bronzo sul camino suonò le sei; va proprio bene e suona tre volte al giorno l'«Air Louis XIII». Corsi nel bagno vicino a prepararmi e poi soltanto andai alla finestra per tirar su le persiane avvolgibili.
Il sole, che doveva essersi levato da poco, illuminava il cielo mattutino e il rosso riflesso dei suoi primi raggi veniva specchiato dal fiume mentre sotto le arcate ancora oscure dei ponti, le acque s'affrettavano a scorrere. Com'è meravigliosa questa città nelle prime ore del mattino! Gli alberi hanno già delle tenere foglioline; il Quai è ancora silenzioso e deserto, non c'è che un ortolano che strascica per la via il suo carretto carico di cavolfiori, insalata e carote, gridando allegramente: "Chou-fleur, mes dames, de la salade, chou-fleur..." – Ma non ha fortuna, tutti dormono ancora. Anche sull'altra sponda le finestre hanno quasi ovunque le tendine a pieghe, ancora abbassate. Le casse dei Bouquinistes sul Quai sognano ancora Racine, Lafontaine, Musset e gli altri famosi scrittori, di cui contengono le preziose opere; un piccolo bassotto biondiccio svolta nella strada, accompagnato da una domestica con una sporta infilata nel braccio e dentro due bocce di latte e un gran pane bianco; poi la via torna deserta.
Non mi riusciva più di rimanere in camera; m'infilai il mantello e il cappello e scesi. Monsieur Alphonse passava in quel momento con un mucchio di tovaglioli dall'office: "Così mattiniera, Madame? Vuole il caffè? È pronto."
No, volevo solo far due passi prima di colazione; il premuroso e buon Alphonse osservò che a quell'ora faceva ancora fresco e bisognava coprirsi. Non volli andare, passando sul Pont Carrousel, sino al giardino delle Tuileries, già tutto splendente nel sole, perché desideravo veder tutto insieme a Rilke. Così passeggiai un po' nei pressi dell'albergo, passando dalla rue des Sts. Pères e giungendo sino al Quartier Saint- Germain. Là assistetti a una scenetta graziosa e divertente, che non può capitare in nessun'altra metropoli fuori che a Parigi.
Da un vicoletto – laterale – mi pare si chiamasse rue Perrouet – giunse un ragazzo di circa dieci anni con un branco di capre. Andava a piedi nudi e con un bastoncino in mano dirigeva il suo piccolo gregge, lento ad obbedire. – La cosa più curiosa fu però che da tutte le vecchie case e casupole vennero fuori delle donne con secchi o bricchi per farsi mungere il latte delle capre nella strada... Una bambina anzi si strascinava dietro due grandi vasi di terraglia, pieni di latte appena munto, per un portone in un cortile, tutto verde di piante, dove un vecchietto stava seduto al sole della mattina con una papalina turchina sui capelli bianchi come la neve.
Dinanzi a delle bottegucce, ancora chiuse, stavano chiacchierando alcune donne, aspettando il loro turno, si salutavano e si scambiavano due parole da lontano da ogni parte spirava un senso di pace e gentilezza in quell'aureo mattino e quando, dopo una lunga camminata, ritrovai, felice ed anche affannata, il mio albergo, seppi che Rilke aveva mandato un ragazzo e sul mio tavolo, accanto a un mazzo di deliziose rose color pesca, c'era un bigliettino:
"Buon giorno, cara, spero che tu abbia riposato bene! Vogliamo far colazione insieme all'una e andar poi per la città? Ti prego, mandami per mezzo del ragazzo un rigo. Ci si può fidare di lui, ha poi il più bel nome estivo che un giardiniere come lui possa augurarsi: si chiama Juin!"
Nel pomeriggio il cielo s'era rannuvolato e così facemmo solo una giratina sotto la pioggia: passando per la rue de Rivoli, attraverso la magnifica Place de la Concorde, sino alla chiesa della Madeleine, dalla cui scalinata si ha una stupenda vista sull'ampia rue Royale fino all'altra sponda del fiume. Se poi, salita la scalinata così larga, si sosta sotto le colonne del portico, riparati dal cornicione, si può rendersi conto del gran traffico di questa città tumultuosa. Da tutte le parti sbucano automobili in corsa, una fiumana di gente affolla l'ampia via. Oggi si notava un ondeggiar continuo d'ombrelli in moto; ma nonostante il cattivo tempo si sentiva nell'aria la gioia di vivere, un'atmosfera gioiosa che si stendeva sulle strade e su tutta la città.
Sotto le logge all'aperto dei caffè sedeva gente vestita elegantemente che conversava vivacemente; notai solo volti sereni e felici. I camerieri in giacca bianca, coi vassoi strapieni, ascoltavano con l'aria più serena di questo mondo le diverse ordinazioni dei clienti. Era come se tutte queste persone, spesso di condizioni molto diverse fra di loro, s'incontrassero in un'atmosfera di reciproco rispetto e di cortesia.
Nella «Brasserie viennoise» accanto all'Opera, bevemmo uno squisito caffè austriaco (
mancava Busoni per gustarlo!) con delle paste dal nome "Indiani con panna", che ci fecero venir in mente le storie della nostra fanciullezza. Rilke parlò dei compleanni della sua infanzia, e dei suoi dolci preferiti, io del mio primo balocco, di cui mi ricordavo perfettamente. Era un calessino marrone con le ruote dorate e un cavallo bianco. Rilke fu preso come da un doloroso incanto: "Mio Dio," disse "non avrà per caso avuto anche delle lanterne? Quanto ardentemente ho sempre desiderato un calessino; ma ormai è troppo tardi!" concluse sospirando. – Per Rilke "infanzia" è una parola magica, non si stanca mai di inseguire coi ricordi questa età "ricca di lacrime e di gioie", come un dono prezioso che s'è ricevuto un giorno e posseduto, senza saperlo, e che s'è perduto prima di sapere cosa fosse.
Nel pomeriggio, su nello studio, egli mi fece vedere il piccolo e sbiadito ritratto giovanile di suo padre: "Questo delicato daguerrotipo a colori è stato fatto rapidamente per sua madre, quando, appena diciassettenne e ancora iscritto al penultimo anno del corpo dei cadetti, si arruolò per la Campagna in Italia." Era un ritrattino deliziosamente antiquato e dev'esser molto caro a Rainer: "Non sembra forse di guardare con gli occhi di sua madre, una volta per tutte, quel bel volto giovanile, serio, appena lievemente inclinato al sorriso, in cui si legge un presentimento di un avvenimento sconosciuto e pieno di ardimento? Quand'ero bambino lo scoprii una volta tra le carte di mio padre, poi scomparve per molti anni, a nulla valeva il richiederlo. – Un giorno però lo ritrovai tra i fogli lasciati da lui, incorniciato in questo vecchio velluto d'un rosso sbiadito – e subito mi resi conto, nel riconoscerlo, quanto la sua immagine mi fosse rimasta impressa nel cuore."
C'erano sempre nuove storie dei nostri primi anni di conoscenza e Rilke non se ne stancava mai: "Benvenuta, cos'era dunque? Cos'era quell'ardore, quello stupore, quella continua incapacità di fare diversamente, quella profonda luminosa sensazione delle lacrime che salgono agli occhi? In Sant'Agostino lessi: "dove sarà andata?" Sarà ancora in noi, l'infanzia, che non aveva dove andare, se si allontanava da noi? Forse è scomparsa troppo profondamente in noi, che ci siamo rivolti poi verso le cose del mondo – ed eccoci qua, con i nostri volti segnati da uno spirito che ci rende estranei l'un l'altro, a domandarci: cos'era?"
Quando fu sera, non volendo cenare in una trattoria tra gente estranea, per non turbare la felice atmosfera di pace in noi, andai a comprare l'occorrente per la cena in una bottega vicina; mentre Rilke preparava il thè io apparecchiavo la tavola con le belle tazze e i piatti della vetrina.
Dopo cena Rainer mi lesse in piedi, dal leggio, le sue versioni dei sonetti di Michelangelo. Il suo volto calmo, un po' chino, i morbidi capelli catani, e la linea pura del profilo si stagliava sullo sfondo della tenda, d'un verde tenero. Credo di non aver mai udito legger così bene, né aver sentito mai qualcosa di più bello del sonetto a Vittoria Colonna. Si dimentica completamente che la poesia è stata scritta originariamente in un'altra lingua. È aria sonora, armonia divina.
Rainer mi accompagnò sino all'albergo e alla porta mi diede un pacchetto, "da aprirsi su", mi disse. Era Il carteggio di Goethe con una bambina in una bella e antica legatura in pelle. Sulla prima pagina erano scritti via via i nomi dei successivi proprietari del libro, e sotto al suo Rainer aveva segnato ora il mio. Con quanto amore sa far dei regali!

 ***

Ieri con Rilke al giardino del Lussemburgo.
Quante delle Nuove Poesie non sono state scritte in questo giardino e quante volte non è andato su e giù per questi viali e si è seduto sopra una di queste panchine a seguire i giuochi dei bambini, che facevano navigare le loro barchette sul laghetto: "...Oh infanzia, immagini sfuggenti, dove siete?"
Questi alberi e queste spiazzate erbose, questi laghetti e viali danno l'impressione di una felice fusione tra la natura e lo stile più raffinato dell'arte del giardinaggio. Si vorrebbe quasi credere di aver giuocato qui nella nostra infanzia, mentre gli adulti, – studenti e dottori dai volti severi – sedevano con uno o più libri, sulle panchine studiando e fumando, oppure passeggiavano pci viali discutendo animatamente tra di loro. Questa è infatti la prerogativa di Parigi nei confronti delle altre città: pare cioè d'esserci già stati una volta da fanciulli, in sogno o in un'altra vita. In questo senso si può esser felici qui e dimenticare che accanto alla documentazione della grandezza di generazioni passate s'incontrano ancora testimoni di pietra di una storia delle più sanguinose.
Rilke mi raccontò, mentre dal giardino del Lussemburgo si andava, traversando il Boulevard St. Michel, verso Notre Dame, la storia di questa cattedrale, la cui costruzione venne iniziata già nel dodicesimo secolo; la si ornò di statue, quadri e di vetrate dipinte; ogni secolo vi aggiunse qualcosa, sinché al tempo del cosiddetto neo-classicismo si fraintese e si rinnegò l'elevato senso dello stile gotico. In nome d'un "ideale" la chiesa venne spogliata dei suoi ornamenti, gli altari furono demoliti, la maggior parte delle statue distrutte e nel 1793 fu celebrata nella chiesa, profanata, divenuta il "Temple de l'être supréme", la festa della Dea Ragione.
Poi l'edificio fu adibito a magazzino per cereali e legumi e soltanto al principio del secolo decimonono venne restituito al culto.
"A quel tempo non sembrava più una cattedrale" disse Rilke "era una povera cosa, umiliata, perseguitata, calpestata; ma, nonostante tutto, quelle offese non eran riuscite a distruggere la sua fiera anima – e le sofferenze di tanti anni la rendono ancor più venerabile. Non dobbiamo amarla per la sua nascosta grandezza, che cela in sé tanti destini superati?"
Nell'entrare nella grande navata si nota subito che tutti gli ornamenti dell'interno della chiesa sono nuovi. Antichi sono soltanto i magnifici rosoni sopra i portali, una soave Madonna trecentesca sopra la Porte du Cloître e una storia in bassorilievo nel coro, di Jehan Bouteiller. Ma le proporzioni dell'edificio, la facciata, le arditissime arcate dei pilastri, la galleria reale, l'intera struttura della costruzione, è rimasta intatta ed è straordinariamente bella. Rainer propone di venire a sentire una Domenica la Messa solenne, che si celebra qui in uno stile severo, certo secondo una tradizione più che secolare. Una Messa cantata con accompagnamento di strumenti o d'organo, come la si ascolta in altre chiese, a Notre Dame non esiste.
I Busoni, che avevano annunciato il loro arrivo, non sono venuti. Li abbiamo aspettati da Foyot sino alle tre, Rilke aveva ordinato uno squisito menu. A Parigi, città dei grandi contrasti, si arriva a capire ciò che veramente significhi Brillat-Savarin! Già la maniera di cucinare una specie di frittatine, le famose crèpes, nella stessa sala da pranzo, su tavolini girevoli, sotto gli occhi dei clienti, è deliziosa. Penso che, chi non è stato mai qui, non ha neppure un'idea dell'incanto irresistibile degli hors d'oeuvres parigini!
Il pranzo in due fu però ugualmente allegro, nonostante che avessimo aspettato tanto i Busoni e si fosse delusi di non vederli arrivare. Rainer poi, trovò un compenso all'attesa delusa: "Andiamo a Versailles." Gli domandai se strada facendo si potesse fare una visita a Rodin. Sapevo che Rilke e Rodin s'erano in qualche modo riconciliati e che, per quanto si vedessero molto di rado, s'era riallacciata fra loro una relazione pacatamente amichevole. Ma Rodin non si trovava allora nella sua casa di campagna e neppure a Parigi.
"Sai dov'è? In qualche parte della Francia meridionale a far visita a Renoir, che gl'insegna a dipingere! Questi due vecchi imparano sul serio ancora l'uno dall'altro. Renoir, a dire il vero, riesce appena a tenere in mano il pennello e se lo fa perciò legare al polso; tuttavia lavora ancora e dà lezioni a Rodin che, in compenso gl'insegna a modellare. Non è straordinaria questa vittoria dello spirito sul corpo, che guida questi due amici, nonostante la loro età, a sempre nuove mete?"
Ci avviammo verso la riva. Il battello attendeva già al Quai, e vi salì poca gente; ci sedemmo in coperta, al sole. Poi il vaporetto della Senna cominciò a discendere la corrente, lungo case e giardini, sobborghi e fabbriche e presto raggiunse la campagna. A Meudon si scese e, passando su prati e dinanzi a case di campagna e giardini, si salì alla "Villa des Brillants". Rodin ha raffigurato questa bella campagna, i dintorni della sua casa, l'ampia veduta su S. Cloud e Sèvres, il fiume e il paesaggio lontano, che svanisce nella luce, con tanta potenza espressiva, nel suo libro Le Cattedrali francesi, che mi pareva quasi di rivedere quel che da tempo avevo conosciuto e mi era già caro e familiare.
Rilke ha ragione: qui la luce ha uno splendore dolce e celestiale, cambia continuamente; a volte lievi ombre chiare di luminose nubi oscillano sulla vasta campagna e la Senna brilla argentea; a volte il sale illumina in pieno il verde primaverile dei campi geminati, gli alberi da frutto carichi di bocci; la lontananza si vela di vapori bluastri, mentre dei bambini dai vestitini multicolori camminano per sentieri luminosi, come fiorellini vaganti. – Ma la casa di Rodin è desolata e poco accogliente, il giardino trascurato. Ha un aspetto triste in mezzo a tutta quella campagna fiorente. Rilke mi dice che Rodin non vi abita mai d'inverno; la casa non si può riscaldare, perché l'impianto a aria calda, con i tubi che sboccano nelle stanze, è così difettoso, che la maggior parte degli ambienti è inabitabile per le correnti d'aria.
Rodin non ha una compagna che si prende cura di lui, non ha veri amici che gli rendono piacevole la vita domestica. Rilke pensa ch'egli frequenti ora solo gente da poco, che lo sfrutta: "Tu forse potresti essergli di grande aiuto, con la tua musica; ma ormai non è mai solo, c'è sempre gente intorno a lui che lo sfrutta solo ai suoi fini. Prima era come un simbolo della sua vita, quando accoglieva ogni suo ospite con il saluto: "Avete lavorato bene?" – ma ora non lavora che per guadagnare dei soldi per ogni specie di gente!"
Vorrei che non fossimo venuti a Meudon! I racconti di Rilke, la casa stessa, l'impressione complessiva, tutto era così sconsolante: umana debolezza e genio, uniti in una grande natura di creatore, che invecchia solo e infelice.
S'era tutti e due un po' tristi quando più tardi scendemmo a Versailles e d'un tratto i saloni di gala di Luigi XIV, e anche la famosa Galerie des glaces, non m'interessarono più, mentre invece volevo vedere la scalinata della Orangerie. Quando le fummo dinanzi, mi convinsi che nessuno aveva inteso e saputo esprimere meglio di Rilke lo spirito e la bellezza di questa costruzione, nei versi:

...E così sola, tra le balaustre
che sin da principio si piegano,
sale la scalinata – lenta e per graza di Dio,
verso il cielo e non altrove...

Il parco di Versailles è incantevole, specialmente il Parterre d'Eau dinanzi al castello e, come a contrasto, la solitaria e verde distesa del bosco; in grandi stagni si specchiano tronchi centenari, le cui cime, piegandosi le une verso le altre, formano come dei grandi archi gotici. In fondo ai viali, rivestiti di verde primaverile, si vedono scintillare altri specchi d'acqua, qua e là si offrono allo sguardo inaspettate prospettive su prati e radure di boschi, segnate da abeti; i più grandi contrasti, come siepi e mura di fronde matematicamente disposte e potate formano, con la natura più spontanea, un tutto armonioso.
Vagammo così per ore e ore sotto il mite sole pomeridiano, dimenticando la triste casa di Rodin, e sulla via del ritorno visitammo ancora i due graziosi palazzetti del Trianon, con la celebre vasca di marmo rosa e le aiuole di tulipani in fiore.
Si prese il thè all'albergo Trianon. È arredato tutto con "mobili di stile": antichi e pesanti candelabri, poltrone in bianco e oro ricoperte di broccato d'un rosso vinato, tappeti autentici, rosso scuri. Alle pareti, tapezzate di seta, quadri,a olio francesi e incisioni colorate.
Domestici, silenziosi e pratici, servivano il thè, d'un colore oro scuro, insieme ad un incredibile varietà di panini e 'petits fours'. La lunga passeggiata ci aveva ridato l'allegria e stuzzicato l'appetito, e così il vassoio d'argento, colmo di leccornie, rimase presto vuoto, con grande, seppure silenziosa, maraviglia dei camerieri e con nostro divertimento.
Rilke sa esser allegro come un ragazzo. I suoi occhi chiari splendono allora di una luce infantile, dimentica tutto il peso che così spesso l'opprime e si abbandona a un'allegria spensierata, che ha qualcosa di travolgente. Mi parlò di Ellen Key e della sua lite con un vetturino danese, che in ultimo sarebbe giunto a vie di fatto, se Rilke non gli avesse levato senz'altro la frusta di mano: "Ma la buona Ellen si inviperì allora tutta contro di me, dicendo ch'era troppo voler limitare una persona, in questo caso il vetturino, nella libera esplicazione dei suoi atti. Mi scusai naturalmente, aggiungendo che se questa era proprio la sua volontà, mi pentivo ora quasi d'averla privata, con il mio aiuto, della sua punizione; ma a questo punto s'accordò contro di me con il vetturino e, mettendogli in mano una buona mancia, risalì nella vettura e se ne andò senza salutarmi."
Egli riuscì a fare di questo piccolo episodio, per la maniera con cui lo raccontò, una storiella di grazia e comicità insuperabili; quando osservai che Ellen Key non sarebbe riuscita purtroppo più simpatica, se trattava gli amici così, mi rispose sorridendo: "Come già ti dissi una volta, siamo appunto reciprocamente molto poco soddisfatti delle nostre azioni e anche delle nostre prerogative umane; tuttavia rimane in noi pur sempre una specie di ricordo dei tempi in cui – a volte – s'era ancora della stessa opinione. E questo ci permette qualche amorevole sgarberia."
Il sole era tramontato; era ormai tempo di andare alla stazione. Si passò per una lunga strada dritta, che sbocca dopo un dolce giuoco di scesa e di salita, nella rue de Paris. Alla luce di tutti quei lampioni sembrava un arco d'una costellazione. Rilke la chiama il ponte sospeso. Prima che arrivasse il treno guardammo le fotografie nella sala d'aspetto: Peau Orléans, Chartres; magnifiche chiese, pittoresche vecchie strade. Si vorrebbe andar dappertutto!
A casa trovai un telegramma della signora Busoni che diceva: Arrivato! Doveva esserci stato anche monsieur Juin, perché nel vaso bleu c'erano delle rose boraccine. Il loro profumo delicato si univa alla gioia di sapere che i Busoni erano arrivati! Lo dissi subito a Rilke, quando lo raggiunsi nella sala da pranzo e insieme si lesse il programma della serata di Busoni nel "Journal des Debats".
Il concerto in abbonamento Sechiari ha luogo nel Palais des Fétes e vi partecipa anche un violinista. Avrei preferito ascoltare soltanto Busoni, ma i parigini amano "la varietà" nei concerti. Purtroppo!
Rilke mi ricordò che i concerti qui, come a Londra, cominciano alle quattro del pomeriggio; ci si va in abito da passeggio; gli uomini tengono il cappello in capo e ne gl'intervalli si passeggia per la galleria e per i corridoi.

***

Le giornate sono piene di sole e calde. Tutto è in fiore. Per le vie ci si vede offrire tuberose, violette di Parma, mimose e grandi garofani profumati, dallo stelo lunghissimo. Dei nontiscordardime occhieggiano luminosi in cestini tondi di vimini, e viole del pensiero e giacinti, d'un intenso viola cupo insieme a violacciocche, d'un rosso rame e d'un giallo oro, fanno bella mostra di sé: una vera orgia di colori. Nelle chiese gli altari sono ornati di gigli freschi; dinanzi alle immagini dei santi stanno inginocchiate giovinette in raccolta preghiera. Il sentimento religioso cattolico sembra radicato profondamente nel popolo vero e proprio di questa città, nota per la sua mondanità e frivolezza.
Ho visto molto, girando per la città: la torre di St. Jacques, la più bella costruzione della sua specie; palazzi del tempo del Re Sole e la St. Chapelle con le sue vetrate famose. Rilke dice che le vetrate della cattedrale di Chartres son ancor più belle, ma io non riesco ad immaginare che ve ne siano più magnifiche di queste, che sono unite tra di loro da sottili colonne. Sopra l'altare maggiore si possono ammirare, nella volta e nel coro, archi acuti e lavori di intaglio – e com'è delizioso il rosone, fratello minore dei due rosoni di Notre Dame, ma più delicato! Hanno sopravvissuto alle tempeste delle guerre e delle rivoluzioni, come il pensiero immortale di una grande civiltà.
Ritornando a casa presi i biglietti per il concerto e all'ingresso dell'albergo trovai Rilke.
"D'Annunzio sarà oggi da Busoni" mi disse, "ma non so se avrai voglia di vederlo."
No, non desideravo far nuove conoscenze qui, e Rilke lo capiva perfettamente. Ma qualcosa gli pesava ancora sul cuore: "Se vedi per caso una giovinetta – durante il concerto, voglio dire – che mi saluta e che mi parla, ti prego, sii buona con lei."
"Oh! Volentieri, chi è?"
"È Marta, mi è difficile spiegarti chi sia, è meglio tu la veda da te. È una povera creatura, molto giovane, di sentimenti molto fini, e intelligentissima, sensibilissima a tutto ciò ch'è bello; si può proprio dire: un cuore puro in un corpo avvilito da un mestiere spregevole e odioso."
A casa mia non s'era parlato mai di certe donne; la nostra educazione, estremamente rigida, non ci aveva fatto nemmeno sospettare l'esistenza di tali creature; ed anche quando mia sorella ed io fummo ormai grandi, si sentiva soltanto per caso parlare di "ragazze cadute", un'espressione che, all'età di sedici e diciotto anni, non si comprendeva ancora bene ma che ci pareva orribile e suscitava in noi grandissima pietà.
Fu Rilke che mi fece conoscere per la prima volta la storia di una di quelle povere creature, una storia in verità assai triste.
Una nobil donna tedesca, la signora Wendl, si era interessata a Marta, l'aveva tolta da una casa-malfamata; ma gl'istinti ciechi e malvagi della ragazza la facevano sempre sortire da un'atmosfera di vita ordinata. "Ora vive con un russo, che la picchia" raccontava Rilke "è disperata, ma nonostante ciò, non riesce a staccarsene. Viene a volte da me e si fa prestar dei libri. Coltiva dei fiori, è affezionata ai suoi uccellini addomesticati – l'ho portata nei Musei e le ho dato buoni libri da leggere; la sua gratitudine infantile è commovente. Non puoi immaginarti quante possibilità esistano in lei, quale larghezza di vedute, quanta bellezza e comprensione – eppure non riuscirà mai a liberarsi. Forze oscure e terribili hanno il predominio su di lei. Soltanto a te posso parlare della sua vera vita; chi altri accetterebbe amorevolmente nel suo cuore tutte queste contraddizioni? Persino la principessa Maria, a cui ho parlato molto di Marta, crede che ne sia innamorato. È così che inganno i miei amici più intimi. È forse giusto?"
"Chi è la principessa Maria?" gli chiesi. Non osavo parlare del destino di Marta, né dirgli come ne fossi rimasta sconvolta, ma Rainer lo lesse nei miei occhi, mi fece un cenno affettuoso e disse poi, tutto assorto: "Già, immagino sempre che tu conosca tutti i miei amici, sei entrata tanto nella mia vita che mi sembra non ci possa esser più nulla che tu non conosca!"
Così venni allora a sapere che la principessa Maria era l'amica materna di Rilke, che si chiamava Thurn e Taxis e viveva quasi sempre nei suoi possessi, un po' in Boemia e un po' nel suo castello a Duino, sull'Adriatico. Duino era un prodigio di bellezza e di pace, circondato da una natura amena e grandiosa.
"Ci vorrei andare una volta insieme a te," disse Rilke "là c'è il mare e nella sala bianca, il pianoforte a coda su cui ha suonato Liszt; quella è la patria e l'origine delle Elegie – che forse non porterò mai a fine."
Il suo volto, il suo sguardo, s'erano come spenti d'improvviso, ma solo per un istante, poi, passandosi una mano sugli occhi, domandò: "Vogliamo andare?"
Sulla strada per arrivare alla sala del concerto, si capitò in una gran piazza d'aspetto un po' antiquato: la piazza del mercato degli uccelli. In centinaia di gabbie grandi e piccole eran messi in vendita uccelli che cantano. Nella gran piazza si sentiva un continuo trillo, un cinguettio, un frullìo d'ali e un intrecciarsi di voci, tanto che ci fermammo; Rilke era come affascinato, non riusciva a staccarsi d lì e tra poco si perdeva l'inizio del concerto. – Il "Palais de Fêtes" è un edificio di molto cattivo gusto. Sembra di entrare sotto la volta di una piscina coperta, di un grandioso baraccone o di un "Paese delle Meraviglie". I vari ingressi della sala sono privi di porte, vi sono soltanto delle tende dinanzi a cui stanno, con delle lance, delle maschere vestite con stoffe di colori smaglianti. Se ci si avvicina ad una di queste entrate, le maschere incrociano le armi e soltanto quando si è mostrato loro il biglietto, fanno passare, scostando le tende.
Rilke non c'era mai stato ed era tutto costernato che Busoni avesse da suonare in questa specie di circo equestre. Le poltrone erano numerate in fondo, sulle traverse, e così, soltanto dopo alcuni infruttuosi tentativi, trovammo i nostri posti. La mia sorpresa aumentò ancora quando vidi nella galleria gente che passeggiava con la sigaretta accesa, signori con i "melons", cioè il tubino, in capo. Il pubblico, generalmente molto elegante, sembrava considerare la serata come una specie di trattenimento, durante il quale si sarebbe ascoltata anche della musica.
Incredibile a dirsi, nessuno si scandalizzava del gusto mostruoso con cui era stato presentato il podio. Il pianoforte a coda e i leggii dell'orchestra si trovavano sopra una specie di palcoscenico, che presentava nello sfondo un paesaggio pseudogiapponese, dipinto malamente e a colori vistosi. Ai due lati del palcoscenico, dei grandi cartelli, con un indice dipinto, additavano dove fossero "les toilettes".
La gente chiacchierava, rideva, si salutava, nelle lingue più svariate. S'incontravano molte facce esotiche, giavanesi, cinesi, alcune signore indiane, silenziose e placide, nei loro bei costumi nazionali.
Ma tanto grande è il potere di una personalità unica, che di colpo si fece un gran silenzio prima che scoppiasse uno spontaneo scrosciante applauso: Busoni saliva sul podio e tutte le impressioni sgradevoli e superficiali sparirono.
La mia cara amica Gerda sedeva a poca distanza da noi; accanto a me qualcuno mi strinse la mano; Giuseppe, il fedele seguace del maestro, il migliore e più stimato allievo del nostro gruppo d'un tempo, mi sedeva accanto sussurrandomi, in un suo gergo, qualcosa che non compresi; poi una tensione elevata si diffuse nel pubblico silenzioso e attento: Busoni suonava.
Marta, la piccola povera Marta, c'era davvero; nell'intervallo vidi che s'avvicinava a Rilke: aveva un bel volto, molto infantile, incorniciato da capelli d'un biondo scuro. Era vestita con semplicità, ma con molto gusto, e dinanzi a Rilke s'inchinò, con la grazia d'una principessina. Quando mi vide, fece per allontanarsi, ma Rilke me la spinse dinanzi, con gesto amichevole, dicendo: "Marta." – Io le porsi la mano. Marta non la prese ma mi guardò, mentre le sue labbra tremavano. D'un tratto singhiozzò sommessamente, esclamando: "Oh, cara, cara signora, grazie..." poi disparve.
Finito il concerto trovammo Busoni nel camerino, circondato da una folla di ammiratori "che gli avrebbero volentieri divorato un pezzetto del suo frac" come disse Giuseppe; – parlava con un uomo piccolino e di una bruttezza che colpiva, il cui cranio, quasi interamente calvo, aveva soltanto alle tempie e alla nuca una parvenza di capelli. Quando si volse, potei scorgere il suo volto pallido ed avvizzito: un gran naso, occhi leggermente sporgenti sfigurati da grandi sacchi lacrimali, una bocca d'attore, come consumata dal gran parlare.
Busoni mi salutò presentandomi l'estraneo: Gabriele D'Annunzio.
Il mio primo pensiero fu: com'è possibile che un uomo simile abbia tanta fortuna con le donne, com'è possibile che la Duse... Intanto il poeta, basso, e vestito anche troppo ricercatamente, mi fece un inchino, dicendomi alcune parole molto gentili, che però dimenticai subito, perché la signora Gerda mi venne ad abbracciare, chiedendomi sotto voce dove ci saremmo potuti incontrare il giorno dopo a mezzo giorno, perché oggi era impossibile scambiare in pace anche due parole. – Ne fui rattristata, anche Rilke si era anticipatamente rallegrato all' idea di passare una bella serata coi Busoni, che, mentre erano costantemente assediati da persone estranee, dovettero lasciar noi, gli amici, a bocca asciutta.
Rilke venne così al mio albergo e mi lesse un capitolo sulla musica da Du coté de chez Swann di Proust, un libro che mi aveva regalato da poco e su cui s'era discusso con Busoni a Berlino.
Nessuno sa leggere come Rainer. La sua voce è sommessa ed ha, a volte, una leggera inflessione musicale, specialmente se parla francese. Non si può dire che legga bene, è qualcosa di più che bene, è la più intensa espressione di una superiore esistenza. Penso che abbia letto così Fra Angelico o Meister Eckhart.

***

Una passeggiata di buon mattino, con un tempo magnifico, alle Tuileries. Sulla terrazza del Bord de l'Eau, un vecchio stava seduto su di una sedia di ferro da giardino. Non si poteva vedere come fosse vestito perché era coperto da capo a piedi da passerotti, uno sciame gli svolazzava d'intorno. Se alzava un braccio, per porgere ai suoi piccoli amici del becchime, restavano appollaiati, avvicinandosi solo di più alla mano dispensatrice, mentre un'altra schiera occupava subito ogni posticino vuoto della sua giacca.
I pochi visitatori del giardino si occupavano appena, a quell'ora mattutina, del vecchio amico degli uccelli; charmeur d'oiseau lo chiamava una giardiniera che si dava da fare tra le aiuole con la scopa e il rastrello. Era quasi sempre qui – raccontava la donna – anche d'inverno e non si sapeva bene come vivesse, perché non mangiava mai lì, ma nutriva soltanto gli uccelli. A volte veniva anche qualche piccione, staccandosi dal tetto del Grand Palais, ma per lo più erano i passerotti che vi trovavano sempre tavola imbandita.
Pensai alla descrizione che Rilke fa nel suo Malte, di quei vecchietti che danno da mangiare agli uccelli: "...Potresti crederli pensosi passanti, questi uomini insignificanti, dalla figura, sotto ogni rapporto, modesta. Ma t'inganni. Guarda la loro mano sinistra, come cerca qualcosa nella tasca storta del vecchio soprabito, come trova, tira fuori e solleva in aria, con un gesto goffo e esagerato, il piccolo oggetto. Non passa un minuto ed ecco due, tre uccelli, dei passerotti, s'avvicinano saltellando incuriositi. E se l'uomo riesce ad uniformarsi alla loro molto precisa concezione della immobilità, non c'è nessuna ragione perché non debbano accostarsi ancor più. Infine uno si leva e svolazza nervoso, un poco all'altezza di quella mano che offre con dita dimesse, esplicitamente rinuncianti, Dio sa che piccolo pezzo di pane dolciastro e raffermo. E quante più persone si adunano intorno a quell'uomo (a debita distanza naturalmente) tanto meno egli ha qualcosa di comune con loro. Sta lì in piedi, come un candelino che finisce di bruciare, facendo luce con l'ultimo resto del lucignolo, e n'è tutto caldo e non s'è mosso un palmo. E come li alletti e li adeschi, non se lo sanno davvero spiegare tutti quegli sciocchi uccellini! Se non ci fossero gli spettatori e si lasciasse stare quell'uomo lì, a lungo, son sicuro, che d'un tratto un angelo si precipiterebbe dal cielo e, vincendosi, prenderebbe da quella mano intristita, quel boccone di pane raffermo e dolciatro. Ma, come sempre, c'è la gente di mezzo, che pensa solo a lasciar venire degli uccelli e sostiene ch'egli non attende altro. E che dovrebbe attendere ancora quel vecchio fantoccio scolorito dalle intemperie, piantato un po' di traverso nel suolo, come le polene nel giardinetto della mia terra? Tale atteggiamento gli deriva forse dall'esser stato anche lui una volta in vita sua in qualche luogo in primo piano, là dove il movimento era più rapido? È ora così sbiadito perché un giorno era variopinto?..."
Quanta comprensione aveva Rainer per quelle abitudini, d'una amorevole semplicità, di certe strane creature, dimenticate dal mondo e dal destino!
Nel pomeriggio venne l'amico Giuseppe, animando con la sua presenza la mia quieta camera. Mi sgridò perché non avevo un pianoforte: "Che sarà altrimenti della Sonata 111 e della Toccata in do maggiore di Bach?"
Giuseppe è severo, quando si tratta di studiare; alla scuola di Busoni faceva sempre da "correpetitore", dava consigli ed aveva scoperto alcuni segreti del maestro. Inoltre, in fatto di lavoro è un vero genio. Di Rainer, che, per così dire, conosce solo da lontano, è entusiasta: "Questo Rilke! Che uomo straordinario! Dio lo benedica!" Quando il poeta così ammirato venne a trovarci all'ora del thè e s'intrattenne con lui, ne fu felicissimo. Non si dimenticò però, nonostante questa sorpresa, di farmi giurare, prima di andarsene, che mi sarei recata il giorno dopo da Schneider, un'importante ditta che aveva pianoforti d'ogni paese e d'ogni marca da noleggiare.
Quando Giuseppe si fu congedato, dovetti raccontare a Rilke chi fosse. Ed io lo informai come l'«Adlatus» provenisse da una famiglia di russi tedeschi e si sentisse a suo agio in tutto il mondo. Parla, male, tanto il tedesco che l'inglese, il polacco, il russo, il francese; passò insieme ai suoi genitori, una vita di stenti sinché non conobbe Busoni, che gli dette lezioni gratuite, come fa d'altronde con tutti i suoi scolari, e gli procurò, nonostante la sua giovane età, – Giuseppe ha appena ventiquattr'anni –– una cattedra di pianoforte a Varsavia. Ha un talento eccezionale ed è una persona simpatica e fedele. La sua idea ch'io debba avere qui un pianoforte è magnifica! Domani vado da Schneider.

***

Stamani alle dieci è comparso alla porta della mia camera, un negro e, dopo aver chiesto il permesso d'entrare, mi ha consegnato, con devota imperturbabilità, una busta violetto-scura, s'è inchinato profondamente e s'è eclissato poi silenziosamente. Ebbi il presentimento di qualcosa di straordinario, non m'ero ingannata: "Gabriele D'Annunzio sarà felice di ricevere Madame il prossimo giovedì all'Hotel Meurice. Déjeuner dinatoire alle due e mezzo."
Una risposta non era attesa: probabilmente nessuno pensa di rifiutare un invito di D'Annunzio.
Veramente non avevo l'intenzione di andarci ma Busoni, con cui siamo stati a pranzo insieme pensava fosse un peccato perdere l'occasione di vedere un simile théâtre paré.
"D'Annunzio sta tra il poseur e il genio," disse "lei avrà delle sorprese, e anche delle strane impressioni."
I Busoni non possono partecipare al pranzo perché partono, purtroppo, già domani per Berlino, ma anche Rilke è invitato, la sua presenza da sola significa per me essere al sicuro d'ogni sorta di "accidente", e così mi son risolta ad andare.
I Busoni, Rilke ed io, siamo stati da Lauger, ai Champs Elysées; le conversazioni culinarie dei due uomini erano deliziose. Rainer spiegava dettagliatamente e con una certa solennità, come si prepara il thè di mele; Busoni s'intusiasmava a pensare agli scartozetti e agli scampi. Il poeta e il musicista si lanciavano in veri e propri inni gastronomici: quelli di Rainer erano piuttosto di tono ascetico, quelli di Busoni invece di un ardore gallico! Alla fine del pranzo un Kaiserschmarren viennese, preparato dal signor Lauger in persona, suscitò generale entusiasmo; noi poi andammo da Schneider, gli altri nel Bois.
Giuseppe ha ragione, la scelta di pianoforti è grandissima, ne ho provati forse dodici. Rilke nota le minime sfumature del colorito sonoro nei diversi strumenti, continuando a credersi, purtroppo, un temperamento negato alla musica: "...riconosco un'aria, se l'ho sentita spesso, ma non riesco ad accennarne neppure due note; questo mi sembra il segno più chiaro di una assoluta incapacità." Ma quando gli dissi ch'egli aveva un senso acutissimo per le differenze di sonorità, se ne rallegrò, ed acconsentì volentieri alla mia proposta di fare degli "esercizi di audizione". "Ma, se dopo un po' di tempo – aggiunse – ti accorgi di non riuscire a spuntarla con la mia incomprensione musicale, lasciami pure andare, perché sono un Schaf!" [pecora; bestia, asino]
Mentre Rilke continuava ad osservare gli strumenti, il giovane commesso nel salone dei pianoforti mi si rivolse con discrezione: "Scusi, signora, sto stidiando il tedesco soltanto da tre mesi: il signore ha detto 'sono un Schaf' che vuoi dire Schaf?"
Mi venne da ridere, mi ripresi però subito e risposi: "Il signore vuol dire che ama molto la musica e adora Beethoven e Debussy." "Oh, Debussy" fece il giovane entusiasmato, e mi raccomandò subito un pianoforte nero, a mezza coda, quasi nascosto dietro una porta. "È americano, ma il suono è veramente soave, come dite in Italia e sembra fatto apposta per eseguirci sopra la musica italiana e francese."
Mi aveva preso, certo, per un'italiana, mi salutò dicendo Evviva l'Italia e promise di farmi avere subito il pianoforte Baldwin.
Busoni, prima di partire, ha raccontato un piccolo episodio, che mi par caratteristico per lo spirito del popolo francese: nel salire con sua moglie sulla vettura che lo doveva portare alla stazione, gridò al vetturino: "A Berlino!" Ma il vecchio si voltò e ribatté, serio, scuotendo il capo: "Niente reminiscenze della guerra del 1871, signore, per favore."
Comprendo che Rilke abbia trovato commovente questa risposta ad uno scherzo, in questo caso, in verità molto innocente.
E ora i nostri cari Busoni se ne sono andati. Troppo breve è stata la gioia che ci hanno procurato con la loro presenza e come al solito s'è dovuto lottare per poter passare qualche breve ora insieme; c'era troppa gente che "si precipitava su di lui" come dice la signora Gerda, che mi assicurava, ridendo: "Spesso mi tocca a fare la parte quasi di una cartasuga; assorbo, per così dire, molto di quel che si vorrebbe riferire a Ferruccio, altrimenti non avrebbe mai pace."
Alla stazione comparvero, anche questa volta, le solite signorine inglesi, il violinista Szigeti, due o tre russi dall'aspetto visibilmente tartaro, e il nostro Giuseppe che scoppiò in lacrime quando il treno sparve dall'atrio. "Mi sento così solo" singhiozzava. Lo consolai, dicendo: "Ma Giuseppe, c'è tua moglie qui, no?" – e allora egli esclamò, con gli occhi ancora pieni di lacrime ma il volto raggiante: "È ragazza [sic] straordinaria mia moglie, vero?"
Di quante cose si può fare l'esperienza a Parigi! Fra le altre, per esempio, una Messa cattolica ch'è insieme una specie di mostra d'eleganze, a San Sulpice, la chiesa più mondana della città. La funzione vien celebrata da sacerdoti negri, assistiti da chierici negri. I bimbi delle numerose ed elegantissime signore "bianche", vestiti lussuosamente, sono accompagnati da bambinaie negre. Credo che in una chiesa della colonia tedesca del Camerun, ci sarebbero meno negri di qui, nel cuore dell'Europa. Non è un pericolo per noi? Par che nessuno ci pensi. Anche nei parchi pubblici si scorgono ovunque bambinaie negre. Si dice che sieno fidate e abbiano esigenze molto modeste. Può essere, per conto mio preferirei sapere i bambini sotto altra custodia.
Il pranzo in casa di D'Annunzio è ormai fissato, e fu abbastanza strano. La disposizione volutamente originale e raffinata degli ambienti, il modo di salutare gli ospiti, l'anfitrione in sé: non riuscivo insomma a vincere l'impressione che si stesse continuamente recitando, sia pur genialmente, una commedia. Il mio vicino di tavola, un giovane diplomatico temuto per il suo spirito critico e la sua lingua mordace, mi sussurrò: "Il divino Gabriele ha oggi la sua giornata di melanconia sorridente. Non si meravigli se da un momento all'altro annuncerà, con l'aria più lieta di questo mondo, di aver voglia di togliersi la vita."
D'Annunzio aveva alla sua destra una bellissima signora dai capelli bruni, vestita esoticamente, con dei magnifici orecchini di brillanti. Alla sua sinistra gli s'era "attaccata" una giovinetta molto snella, che arrossiva tutta quando il poeta le rivolgeva la parola. Tirava in qua e in là nervosamente la sua camicetta di merletto bianco e sembrava che stesse per scoppiare in lacrime da un momento all'altro; nessuno sapeva perché. Si parlava in francese, D'Annunzio domina questa lingua magistralmente e sa tenere una brillantissima conversazione.
Sulla grande lastra di vetro, che copriva la tavola invece della tovaglia, erano stati posti, per ornarla, dei cavallini di porcellana bianchi e neri; ci furono offerti degli aperitivi in bicchierini diafani d'un grigio fumo e di forma romana; prima che fosse servita la minestra, il padron di casa si scusò perché non aveva un vero cuoco, ma una monaca andalusa, ch'era fuggita da un convento di Madrid per rifugiarsi da lui. Aveva però il vantaggio, diceva, di benedite sempre le pietanze, sicché i suoi menus riuscivano sempre perfetti!
Che egli stesso credesse poi a quel che raccontava, nessuno lo poteva sapere. Quest'uomo singolare recita alla perfezione le parti più svariate. A volte arrossisce come un fanciullo, ride come un bambino, poi parla in tono mesto, come fosse un vecchio in fin di vita, a volte s'infiamma come un estatico adolescente. Se il suo fisico fosse così perfetto come il linguaggio della sua poesia, si comprenderebbero meglio allora tutte quelle donne che lo adorano. Ma quest'uomo che s'avvicina alla vecchiaia, avvizzito, vanitoso, dà piuttosto un'impressione di tristezza. Sembra la caricatura di se stesso.
Dopo il pranzo venne servito, nello studio, del caffè turco, acqua ghiacciata e thè di fiori di verbena; D'Annunzio mostrò agli ospiti un cofano di stile antico, in cui serba la sua famosa collezione di profumi. Gli oggetti più preziosi sono un flacone di vero olio di rose, che fu di Lucrezia Borgia – e la boccetta da profumi di Machiavelli!
Tutte le signore spasimavano d'ammirazione. Detti un'occhiata a Rilke, che pareva come trasformato nella sua ombra e che, sottile e grigio, s'era sprofondato in una gran poltrona. Soltanto i suoi occhi chiari davan segno di vita nel volto immobile, ed osservavano ora con ironia, ora con tristezza tutto quel traffico intorno a lui.
Dissi a D'Annunzio che il suo
Sogno d'un mattino di primavera, un libro che avevo letto a quindici anni, m'era rimasto nella mente come il più stupendo modello di lingua italiana, e che avrei desiderato che questa musica di parole fosse resa accessibile, in una perfetta traduzione, anche a lettori tedeschi. Mi rispose che, secondo lui, tutte le traduzioni risultavano difettose, ma che i sentimenti con cui una ragazzina aveva accolto "nel suo cuore puro come un fiore" il Sogno, erano come una benedizione imperitura che un poeta doveva custodire nel più segreto altare della soia anima: come una fiamma benedetta – esclamò d'un tratto in italiano.
Non saprei dire se s'inebriasse ad ascoltar le sue parole o se veramente provasse una specie di soddisfazione o di gioia – l'impressione che ebbi della sua persona rimase, in ogni caso, ambigua.
Ma la sera di quel giorno si concluse in maniera ben diversa: più schietta e grandiosa, quando Rilke mi lesse alcune delle sue Nuove poesie! Quante ce n'erano ch'io ancora non conoscevo: L'interno delle rose, La pantera, Il carrossello, Venezia, Le fontane di Roma...
Cos'è tutto lo sfarzo, tutto lo splendore linguistico delle strofe dannunziane, certamente ammirevoli, in confronto alla purezza del mondo poetico di Rilke? Non sarebbe forse augurabile che solo persone pure di cuore comprendessero il mondo di Rilke?
Egli vuoi leggere insieme a me un romanzo del suo amico scomparso, Gerhard Oukama Knoop, L'Alfa e l'Omega, un'opera postuma di quest'uomo eccezionale. Seppi che, morendo, aveva lasciato moglie e figlioli. Rilke mi raccontò la storia della sua morte, avvolta in un'aura di solennità. Quando era già gravemente ammalato e si rese conto che la fine si avvicinava, non volle più vedere i suoi cari, né parenti ed amici più prossimi, tollerando in camera sua solo l'infermiere e cessando quasi di nutrirsi. Quando sua moglie, dopo alcuni giorni d'attesa, fece chiedere, disperata, perché non lo potesse più avvicinare, la fece entrare e, allontanato il domestico le disse con volto trasfigurato, in cui splendeva già un riflesso di felicità oltremondana: "Ho avuto un colloquio con Dio, soltanto ora posso prender congedo da voi."
Nei pochi giorni che gli fu ancora concesso di vivere, consolò e benedisse la moglie, i figli, ed infine si spense in piena coscienza, sereno e trasfigurato, tra le loro braccia.

 ***

Al Louvre sola, di buon ora. Ho visto la Gioconda, tanto misteriosamente scomparsa e altrettanto misteriosamente ricomparsa e mi ricordai di quel che disse l'altro giorno D'Annunzio a un suo ospite: che cioè lo spirito della Gioconda gli era apparso e aveva espresso il desiderio di rimaner da lui, ma, essendo questo impossibile, il quadro sarebbe ricomparso al Louvre.
Una delle signore presenti gli domandò: "Con o senza spirito?" Ma Gabriele era passato sopra alla ingenua domanda con un sorriso pieno di benevola indulgenza.
E riecco la Gioconda al suo posto, ma, protetta da una doppia e fitta inferriata, si può riconoscere appena. Ho visto un bellissimo quadro di Giotto, San Francesco, poi Sant'Anna di Leonardo, una Madonna su fondo oro di Cimabue, Millet, il ritratto di Chopin di Delacroix e Chopin deve esser stato proprio così – e poi dei Corot, Manet...: la quantità dei quadri è sconcertante. Quante volte occorrerebbe visitar questo Museo per poter avere un'idea anche vaga di tutte queste meraviglie!
Ritornata a casa mi sembrò di entrare in un giardino: rami fioriti e rose, rose. C'era stato Rainer ed io ero mancata all'appuntamento; ma sarebbe ritornato nel pomeriggio per la prima ora di audizione. Così disposi il mio giardinetto per il Concerto e Madame la proprietaire dovette portarmi i suoi vasi più belli.
Il pianoforte Baldwin ha davvero un bellissimo suono, diverso, più cupo e più pieno del pianoforte Ibach, ch'era nella "stanza di Andersen". Le note basse sembrano quelle d'un organo.
Suono ora ogni pomeriggio, o sera, un piccolo programma per Rilke. Con quanta comprensione e quanta simpatia accetta ogni cosa! Se, suonando, levo lo sguardo per osservarlo, il suo volto rivela un'attenzione intensa, quando ascolta un pezzo per la prima volta. È tutto un alternarsi di luci e di ombre sulla sua fronte; la bocca, grande ed espressiva, sotto ai baffi leggermente spioventi sul labbro, è quasi dolorosamente serrata; tutta la sua sottile figura, immersa nella poltrona, sembra presa dall'audizione. Ma quando ascolta una melodia a lui già nota, la tensione che lo domina si allenta e par che allora si riposi. A volte, quando lo vedo interamente perduto nel suono e nell'armonia, mi par che sia l'anima stessa dell'universo che mi ascolta; ed è così grande l'influenza della sua eccezionale personalità, che tutto l'ambiente sembra emanar musica.
Non mi vengono mai tante nuove improvvise idee nell'interpretazione, come quando egli mi ascolta. Se poi, finito il pezzo mi chiede: "Potrei risentire quel punto prima della pausa?" vuol dire che ha notato nella mia esecuzione una nuova inflessione, un nuovo accento, che però debbo unicamente a lui. Oh! Com'è bello essere ispirati così! Ma se, piena di raggiante gratitudine, glie lo dico, sorride incredulo dicendo: "Sei solo tu." Ma non è vero.
Gli piace specialmente Händel, il
Clavicembalo ben temperato (di Bach), e Beethoven, che però conosce ancora poco. Quanto aveva ragione Giuseppe d'esortarmi a studiare la Sonata in do maggiore!
Ieri ho sonato le due Rapsodie di Brahms, ma Rilke non ne voleva sapere. "Questa musica mi sembra a volte vuota, a volte troppo satura" diceva "pensa, il volto di Brahms, come lo vedo a volte riprodotto nelle riviste, mi è estraneo come la sua musica." – Ora studiamo insieme il Requiem di Mozart; ne posseggo, in partitura, una copia manoscritta di mio nonno; la mostrai a Rainer, che ha una predilezione per i manoscritti annosi, ed egli ammirò la chiarezza, la perfetta scrittura del testo, nelle parti vocali. Gli faccio conoscere tutta l'opera, perché avremo l'occasione di ascoltarla fra non molto in un concerto della rinomata Schola cantorum.

***

Sono un po' inquieta, in qualche modo, perché mi accorgo che Rilke non lavora. Lui che considera la solitudine, l'isolamento, il dovere supremo, l'obbligo più alto della sua vita, vive ora soltanto di musica e di progetti di viaggio. Forse è bene per lui potersi riposare una volta tanto tranquillo, senza aver da pensare ai tempi difficili, in cui, in solitudine, si sarebbe dato a nuove creazioni. Pur tuttavia ho a volten senso d'oppressione e di sgomento. "Il lavoro ha su di me diritti antichissimi e sacri" sta scritto in una delle sue lettere. – La mia presenza, la mia gioia, la mia fervida gratitudine lo priva forse di qualcosa?
Quando per la prima volta si parlò d'incontrarci a Parigi, egli mi scrisse: "Non c'è proprio nulla che possa trattenerLa dal venire qui prossimamente, perché oltre a me c'è soprattutto questa città – e quest'è sicuro – infinitamente più bella in primavera che in autunno... Le dirò schiettamente come in quest'occasione mi comporterei, seguendo gl'impulsi della mia anima solitaria. Prima di tutto prenderei tra le mie la Sua mano, e ve la terrei fino a che Le piacesse; ma dopo mi ritirerei subito nella mia consueta solitudine, senza prendere nessuna iniziativa e concedendo ben poco; potremmo disporre tuttavia di qualche pomeriggio, di qualche serata, di qualche passeggiata in comune, tutte cose che non ci furon mai concesse e che, per quanto poche e rare, sarebbero già molto – e poi avremmo un monte di cose buone da dirci..." No, egli ha dimenticato la sua "consueta solitudine"; s'intraprende oramai quasi tutto in comune e Rainer non riesce neanche a pensare di non venire più qui da me, almeno per qualche ora ogni giorno. E così continuamente mi tormenta l'assillante pensiero: tolgo io qualcosa al suo lavoro?
Forse per la consuetudine, in quest'ultimi penosi anni, a continue agitazioni e conflitti, son divenuta diffidente verso un destino benevolo, verso la persistenza di tutto quel che di bello e di buono mi circonda, come se così non potesse continuare ma si dovesse trasformare nel suo estremo opposto. Come sono tormentosi simili pensieri! – e li devo tener celati all'unico essere, a cui posso dir tutto, perché turberebbero forse anche lui.
Il concerto della Schola cantorum fu una penosa delusione. L'antiquata sala del Quartiere latino, nella Rue du Vieux Colombier, ci sembrò un luogo degno per eseguirci lo Stabat Mater di Pergolesi e il Canto elegiaco di Beethoven. In ultimo figurava nel programma il Requiem di Mozart. Ma invece di una esecuzione completa, come ci si poteva attendere, da quella Società musicale così nota, fu una vera catastrofe! Gli strumenti a fiato ed a arco, non erano accordati all'unisono fra loro, e i cantanti e le cantanti ridevano e chiacchieravano sottovoce tra di loro mentre l'orchestra suonava. Pareva che delle soubrettes e dei mediocri musicisti si provassero inutilmente e di mala voglia a raggiungere lo stile di una messa funebre. Dopo il Kyrie si uscì dalla sala. Rilke era tutto eccitato ed era del parere che simili esecuzioni dovessero essere proibite: "Dov'è qui il rispetto per le grandi opere?" diceva: "Sai dov'è? A volte là dove non si cercherebbe, se non si sapesse che proprio in certa gente umile e disprezzata c'è ancora un raggio della gran luce. – Marta è venuta stamattina presto a trovarmi, rideva e piangeva – "Quel bonheur, quel bonheur" esclamava continuamente, "une dame m'a donné sa main!" E quando le chiesi perché non avesse stretto
la mano che le avevi teso, questa creatura infantile mi guardò, mentre le lagrime le scorrevano giù per le guance, dicendo: Si deve 'pur aver rispetto!' – E scappò via. Trovai poi sulla tavola un bigliettino di sua mano: 'Que le Saint Sauveur vous bénisse, âme pure et douce' – è per te, l'ho serbato per te."
Ma perché tanta umiltà, tanto amore e dolcezza d'animo, devon esser condannati ad una esistenza indegna, perché nessuno sa dare una risposta a tanta perfidia e crudeltà nella vita?" esclamai agitata. Rainer, col volto serio, guardò dinanzi a sé senza rispondere. Ma tornando a casa mi raccontò poi, quasi per rispondere a tante domande insolute della nostra esistenza, la storia dei tre vegliardi: "Sulla riva del mare vivevano tre vecchi frati. Erano tanto saggi e religiosi che ogni giorno avveniva per loro un piccolo miracolo: quando la mattina, dopo aver detto le loro preghiere, andavano a fare il bagno, abbandonavano al vento i loro sai, che restavano sospesi nell'aria sin che i vegliardi non tornavano a prenderli.
"Un giorno mentre come al solito si rinfrescavano nelle onde, videro volare sopra il mare una grand'aquila marina, che d'improvviso si precipitò al livello dell'acqua; quando riprese a volare, teneva nel becco un pesce che si divincolava furiosamente. Uno dei frati esclamò: – Che uccello cattivo! – E il suo saio, sospeso nel vento, cadde in quel momento a terra e vi rimase.
"E il secondo frate disse: – Povero pesce! – E anche il suo saio si staccò e cadde per terra.
"Il terzo seguì con lo sguardo l'aquila che, col pesce in bocca, si allontanava e diventava sempre più piccola, sinché non scomparve nel chiaror mattutino. Il frate era rimasto silenzioso e il suo saio era restato sospeso nell'aria."
"Rainer, è questa la risposta?" gli chiesi.
"Sì", replicò piano,"il savio di questa leggenda indiana non risponde forse a tutte le domande che non riusciamo a risolvere?"
"Caro Rainer, caro Fra Angelico!" esclamai anch'io sommessamente e intimamente molto commossa; allora d'improvviso mi prese a braccetto e mi condusse in fretta dall'altra parte della strada. Da una via laterale, scarsamente illuminata, erano sbucati alcuni tipi dall'aria sospetta, che ci venivano incontro, rivolgendoci parole volgari. Ma scomparvero colla stessa velocità con cui erano apparsi, perché subito dopo arrivarono due poliziotti, che non camminavano però sui marciapiedi, ma nel mezzo della strada. Rilke mi spiegò che lo facevano per esser sicuri da qualche aggressione. – E così la nostra passeggiata serale venne interrotta bruscamente; Rilke era tutto agitato: "Promettimi di non uscir mai sola di sera – pensare che ti potresti trovare indifesa nell'oscurità, come qui – non lo farai, vero?"
Ma ecco apparire il familiare Quai Voltaire, i lumi, i ponti, il fiume e la porta dell'ingresso, ben illuminato, del mio albergo!
E Rainer mi disse, congedandosi:"Guarda, quante, quante stelle lassù! Che tutto il cielo stellato vegli sopra dite e ti protegga!"

***

Siamo stati a sentire due Messe diverse: una, cantata a Notre Dame, e una nella chiesetta armena di San Julien le pauvre. Rilke dice che i fedeli di una medesima religione parlano, nel loro culto dell'Altissimo, in maniera molto diversa, benché poi vogliano dire tutti la stessa cosa.
Nella cattedrale di Notre Dame la Messa solenne è tenuta in un tono rigidamente ortodosso; par quasi, in qualche modo, che la chiesa abbia sentito l'offesa arrecata a lei in tempi crudeli e non se ne sia ancora potuta dimenticare. Le antiche venerabili statue non ci sono più, la sua decorazione interna è stata rubata; le volte e le pareti, annerite dall'incenso, non vivono più nell'atmosfera ingenuamente religiosa, creata dai secoli di preghiere devote, ma sembrano ancora respirare l'orrore, il ricordo degli urli di un'orda di delinquenti assetati di distruzione, che rubò e distrusse i preziosi arredi ed i venerabili gioielli. E, come se la cattedrale non riuscisse a ritrovare il calore sicuro, il raccoglimento di quei tempi pacifici, anche la liturgia della celebrazione della Messa, sembra piuttosto un severo sacrificio di riparazione che un rito di amore e di dedizione all'Altissimo.
La Messa cantata dura più di due ore. Il sacerdote all'altare e i chierici dinanzi al presbiterio cantano in una successione monotona le varie parti della Messa. I chierichetti, in mantelline rosso-bianche – dietro ai chierici – raccolti in semicerchio intorno al direttore, un giovane abate, rispondono ai celebranti, cantando i responsori.
L'organo tace; può far sentire la sua voe solo in brevi interludi, sempre dello stesso genere, simili in tutto a un preludietto, per legare fra di loro le diverse parti della Messa.
La celebrazione del Santo Sacrificio ha un tono severo e freddo, senza quella atmosfera di fervore, che unisce di solito tutti i credenti, durante il rito.
Avevamo preso posto nel centro della tribuna, dominando così con lo sguardo tutto l'interno della chiesa. Sotto, sulle panche, si vedevano inginocchiate in maggioranza persone vestite di scuro con nelle mani libri da messa e rosari; non si notavano che teste chine. Soltanto un cieco, su di una sedia a rotelle, accompagnato da un servitore, levava il suo volto in alto, come per cercare con i suoi occhi spenti, un bagliore negli splendenti rosoni colorati.
Rilke era seduto proprio nel riflesso azzurro e rosso delle vetrate e la luce abbagliava i suoi occhi; mi parve irrequieto e mi sussurrò: "Se credi, andiamo. piuttosto nella chiesa armena di fronte, dove cantano magnificamente."
Uscendo dal Duomo si presentò a noi un curioso spettacolo: Orleanisti e Bonapartisti, confusi coi rappresentanti dell'estrema sinistra, vantavano ad alta voce ai fedeli, che uscivano dalla chiesa, i loro opuscoli di propaganda. I forestieri poi venivano assaliti da tutti e tre i partiti, che del resto si trattavano reciprocamente con una sorprendente sopportazione, e qualche fedele se ne andava via, stupito e perplesso, con tutt'un pacchetto delle più diverse concezioni filosofiche sotto braccio.
Un altro mondo ci accolse nella chiesetta al di là della Senna. Questa chiesa di stile gotico primitivo, in cui gli armeni celebrano le loro Messe, si trova in una stretta viuzza. Un'icona, dalle immagini molto sbiadite su fondo oro, divide la navata in due metà; in fondo, quasi nascosto, c'è l'altare. Il Pope, dalla lunga barba nera, tutto vestito di bianco, avvolto da nuvole d'incenso e illuminato dal sole, stava di fronte all'icona. Con la faccia rivolta verso i fedeli, assorti in preghiera, cantava – in armeno – l'Evangelo di San Giovanni.
Sulle poche panche sedevano donne col fazzoletto in testa, postini, spazzini e fruttivendoli. C'era anche il piccolo e allegro Juin, il nostro giardiniere. Tutti sembravano conoscersi tra di loro e anche Rilke non era a loro ignoto, perché alcuni bambini lo salutarono e si scostarono subito da parte per fargli posto. Due vecchiette, in cui riconobbi le "amiche degli uccelli" del Malte, gli fecero un amichevole cenno di saluto colla testa, quando passammo loro d'accanto per prender posto nella fila delle panche – e gli dettero la mano.
"Fra Angelico tra i poverelli" pensai – poi il canto del coro si levò, diffondendosi per tutta la chiesa.
Notre Dame, con tutta la sua rigida solennità, non reggeva il confronto con la forza della musica che da questa povera chiesetta si levava a tutte le sfere dei cieli. Pareva che ondate consolatrici di grazia e di luce si partissero dalle bellissime voci dei cantori invisibili, dai toni bassi dell'organo, dalla luminosa estasi del tenore. Il canto saliva pieno di fervore, tra nubi d'incenso illuminate dal sole, verso l'alto – alcune persone piangevano sommessamente – Rainer, tutto perso in quell'oceano musicale, aveva negli occhi un'espressione di raccoglimento e di tristezza, da cui restai scossa.
Dopo, nella mia camera, mi disse d'aver inteso ancora una volta e d'un tratto la musica grandiosa nel suo valore tragico.
"Per me è compimento e non dolore" gli ribattei, ma egli insistette: "L'ho sentito oggi più volte: quando la musica parla, si rivolge a Dio, non a noi. La perfetta opera d'arte non ha rapporti coll'uomo, se non in questo: che lo sorpassa. La musica ha, senza dubbio, leggi diverse da quelle di tutte le altre arti; ma noi le ingombriamo il cammino, e allora essa passa attraverso di noi."
"Non hai detto più volte che il suo influsso agisce nel corso più recondito del nostro sangue?" gli domandai.
"È come l'aria fine" mi rispose, "aspiriamo nei polmoni dello spirito, ma di quanto non ci sorpassa e quante cose passano attraverso a noi senza che riusciamo ad afferrarle! Come ci sgomenta! – e poi si resta come sopraffatti, soli – e non riusciamo a seguire il suo volo eterno." –
Parlava eccitato, come agitato dalla febbre, i suoi occhi chiari s'incupivano, rabbrividiva, benché il caldo sole del tardo pomeriggio splendesse ancora nella stanza. Quando, muto e come esausto, si fu messo in poltrona, al suo solito posto presso la finestra, aprii il pianoforte e suonai una piccola aria antica, a cui s'era dato il nome di "pastore italiano." che Rilke amava molto.
"Ancora" mi pregò – e io la suonai una seconda e una terza volta. Quando smisi mi accorsi che Rilke s'era addormentato. Il suo volto, d'un bruno pallido, con gli occhi chiusi, mi ricordarono d'un tratto l'ora terribile passata a Innsbruck. Come allora osavo appena respirare, per non svegliarlo. Era forse tornata quell'ora terribile?
Si fece sera, nelle vie s'accendevano le luci, un fioco riflesso scendeva, dal soffitto illuminato, sul volto inerte, reclinato da una parte; la mano sinistra pendeva come morta dal bracciolo della poltrona, prendendo pallido rilievo nella penombra. Mi chinai sopra di lui; in quel momento aprì gli occhi, aveva un aspetto sofferente da far pietà.
"Pensa", mi disse, come parlando in sogno, "ero in una stazioncina, sperduta nel cuore della Russia, e aspettavo il treno, che non veniva mai; si fece notte, chiesi allora ad un vecchietto, rosso in volto e dai capelli bianchi, che s'era affacciato alla sala d'aspetto, quando sarebbe arrivato finalmente il treno. Ma il vecchio, sorridendo con aria furba e spietata, mi rispose: 'Qui non passa più nessun treno'. Allora mi alzai ed uscii all'aperto. La stazioncina era completamente abbandonata, le finestre pendevano nei cardini coi vetri tutti scheggiati. Tra le verghe, da tempo arrugginite, cresceva folta e verde l'erba, alcuni fiori e piccoli cespugli. Ero rimasto là, ero stato dimenticato in quella solitudine immensa! E il vecchio era sparito!." D'improvviso, con occhi lucenti di febbre e la voce rauca, Rainer implorò, come preso da un'ansia mortale: "Benvenuta, non mi lasciar solo!."
Mi chinai e posai le mie mani sulla sua fronte: "Rainer, caro, non parlare, ti curerò; passerà subito; veglierò accanto a te sinché tutto sia passato. "Oh, le tue mani – fresche, buone." sussurrò, poi si calmo e mi permise di mettergli un panno bagnato suoi occhi.
Che cosa gli abbia detto ancora, per un profondo desiderio di calmano, non so. Ma d'un tratto sembrò come svegliarsi davvero e mi disse, colla sua voce abituale: "Perdonami, ti ho spaventata – sto già meglio e ora andrò a casa. No, cara creatura, non ti dar pensiero, è tutto passato." Poi se ne andò.

***

(Da una lettera a mia sorella Maria...)

[...] Non è certo giusto ch'io ti scriva oggi così sollecitata come sono dal mio cuore perplesso e traboccante. La tua lettera è satura della felicità di avere la tua casa, il tuo bimbo; e il ritrattino di Mario è così grazioso, che vien voglia di baciarlo dalla gioia. Ed ecco che io, smarrita e confusa, vengo a turbare la tua pace, i tuoi giorni sereni – ma ripenso alle parole così profondamente affettuose con cui mi salutasti due anni or sono, il giorno delle tue nozze: 'Non ti dimenticare mai che in giorni difficili dobbiamo esser più intimamente unite!' Ora i giorni difficili sono giunti ed io vengo a te!
Tu conosci Rilke – e anche se l'hai veduto poche volte sai chi è, e cosa possa significare per me. Tu hai compreso tutto e ti sei rallegrata di cuore di questa nostra amicizia profonda e certamente eccezionale. Non hai chiesto: come finirà Ed io, Maria, anch'io non me lo son chiesto, e forse ho avuto torto. Non ho mai chiesto nulla, la sua presenza mi rendeva felice, felice il suo animo elevato e nobile, la sua inesauribile bontà. Ogni giorno che m'era concesso di vederlo, era per me un dono del cielo. Ma pensavo che, quando avesse ripreso in piena solitudine e isolamento il suo lavoro, io sarei tornata a esser di nuovo sola, lontana da lui, in qualche parte del mondo, senza udir più nulla di lui, serbando nel cuore il suo sacro silenzio. Mi sarei forse persino proibita di pensare a lui – e quando l'avrei potuto rivedere, sarei stata felice.
Ma è andata diversamente, quanto diversamente!
Rainer mi ha chiesto se io – se noi volevamo restare uniti per tutta la vita. E ha pronunciato la parola 'sempre', che gli è di solito così sospetta e che evita con cura, con tanto fiducioso entusiasmo che mi sconvolse tutta. Credo di esser impallidita mortalmente, perché tutto il sangue m'era affluito al cuore.
Egli prese le mie mani e le baciò con un gesto così commovente e con tanto rispetto, che mi vennero le lacrime agli occhi. Poi mi pregò di non dir nulla, non una parola, non una risposta; che non promettessi nulla, che facessi soltanto quel che 'sin dall'eternità' era mio destino di fare; sapessi soltanto ch'egli pregava quotidianamente Dio, di potermi amare un giorno in maniera da farmi assaporare un po' di felicità. Se però nei giorni in cui si viveva insieme e in quelli futuri, avessi sentito che per me sarebbe stato troppo grave sopportare e dividere una vita come la sua, allora, senza pensare a lui e senza promesse, ritornassi 'con semplicità e coraggio' a vivere la mia vita. 'Però', concluse, 'sin dalla prima origine di tutte le cose, siamo stati destinati ad incontrarci, questa è la mia convinzioni e la mia più sacra speranza'.
Carissima Maria, forse non capirai mai, mai, perché la mia ragione sia tutta sconvolta: ma, mi son dovuta chiedere da un momento all'altro: lo amo infine come una donna ama un uomo, l'uomo a cui vuole appartenere per tutta la vita – lo amo tanto da desiderare di essere la madre dei suoi figli?
E a questo punto debbo confessare a me stessa di no. Egli è per me la voce di Dio, l'anima immortale, Fra Angelico, tutto quel ch'è soprannaturale buono, elevato e santo – ma non un essere umano! Ho un'indicibile paura di rendere troppo umano questo sentimento profondo e unico ch'io ho per lui, che nella vita di tutti i giorni dovrebbe penetrare nella sfera dell'esistenza terrena, dove non potrebbe mantenersi senza rinnegarsi illimitatamente. Ma, per quanto sia incomprensibile, c'è anche un'altra cosa: esiste pure a questo mondo una moglie e una figlia che appartengono a Rainer. È possibile usurpare senz'altro i diritti di queste due creature, rivendicandoli a sé? Lo so, sono diritti esteriori, dal legame interiore Rilke si è sciolto già da tempo, tuttavia mi sembra che, per degli estranei – che si trovano al di fuori di qualunque conflitto – essi meritino ancora rispetto – per quanto sappia io stessa, per un amaro ricordo personale, quanto dolore e incomprensione possa procurare una vita coniugale iniziata, quando si è ancor troppo giovani e non maturi per lei. Mia buona Maria, quanto hai sofferto con me e per me in quei tre anni che hanno preceduto la separazione! Ed ecco che tutti questi pensieri si affacciano prepotenti nella mia vita. Da che parte è la colpa? E dove siamo in chiaro con tutto? Come siamo impotenti mentre si decide il nostro destino! Posso confidargli tutto questo? Oh, se si avesse una madre, una madre meravigliosa, come quella a cui Rainer, nel suo Malte, ha innalzato un monumento imperituro! – Tutto si risolverebbe e ci si sentirebbe al sicuro nel suo cuore sempre vigile. Si potrebbe allora inginocchiarsi dinanzi a lei, posando il capo nel suo grembo e dirle: aiutami!
Ma eccomi invece qua – di nuovo sola dinanzi a una risoluzione da cui può dipendere tutta la mia vita.
E poi, vedi, c'è un'altra cosa che non riesco a capire: Rilke mi ha insegnato ad accettare di nuovo la vita, me l'ha resa felice, la rende partecipe di tutta la ricchezza inesauribile del suo spirito, della sua inesauribile bontà; potenzia la mia comprensione in ogni senso, verso tutte le cose anche le più trascurabili, verso le bellezze della natura, dell'umanità; mi ha dato infiniti suggerimenti per le mie interpretazioni musicali; eppure – e quante volte! – è lui che soffre di più, è lui che manca d'aiuto, proprio lui non riesce a sopportare questa vita, che mi ha insegnato ad accettare; e proprio io vorrei essergli d'aiuto a volte, con tutte le forze, che pur da lui mi vengono; spesso, come s'egli fosse un bambino, che si prende in braccio e a cui si dice: 'Stai tranquillo, tutto va bene'.
Dov'è la soluzione di tutte queste sibilline contraddizioni? E la voce interiore che risponde alla sua richiesta un imperioso e inesorabile no, ha poi valore definitivo? Eppure, ogni volta che non si dà ascolto a questa voce, si sbaglia strada
Ma ho io il diritto di pensare a me ed ai miei dubbi, quando Rainer dice 'sempre'?

Prima però che mi, fossi convinta a spedire questa lettera, ricevetti dall'Alto Tirolo la notizia che il bimbo di mia sorella, il piccolo Mario, s'era ammalato di scarlattina. Mio cognato scriveva che Maria, assistendo il piccino, s'era presa la stessa malattia. Erano stati ricoverati tutti e due a Bolzano in una clinica, il piccino era già quasi guarito, mia sorella però gravemente malata. Non era concesso di andare a trovarla, altrimenti sarei subito partita.
Non riuscirò mai a dire con parole come Rilke portò con me il peso di quei tempi difficili, pieni di preoccupazioni, d'incertezze, di timore per la vita di mia sorella; come la fede, l'esperienza consolante del nostro destino, la sua affettuosa simpatia, mi aiutassero a superare questi giorni. Egli era per me il rifugio, il riposo, la risposta ad ogni ansiosa domanda. Cercavo di sviare i miei pensieri verso qualcosa di bello e di grande; così ci recammo spesso, in quei giorni primaverili in campagna, all'aperto. E là, passeggiando per i boschi, egli mi parlava della vita e del destino di grandi uomini, di Michelangelo, di Vittoria Colonna, di Manet, e di Cézanne. Un episodio della vita di quest'ultimo – strano tipo oltre che gran pittore – mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria. Rilke raccontò come Cézanne lavorasse molto all'aperto, all'ombra di un albero, sul ciglio di un prato; e che spesso abbandonava in un campo di grano un quadro finito e lo dimenticava completamente, perché gli era venuto in mente di abbozzarne un altro; quindi se ne andava a casa. Qualche mietitore o contadina trovava poi certo questi quadri, se li portava a casa e li dava ai suoi bambini come giocattoli. Così sono andate perdute parecchie opere sue.

***

Rilke mi parlò molto del mondo, di quel che ci concede, di quel che ci nega; di uomini stranamente meschini e ammirevolmente grandi. – Ma la sua anima si manifesta sempre più schiettamente nella natura, che egli ama tanto. Si andava spesso, passando per sentieri coperti di muschio, e lungo piccoli ruscelli, alle antichissime mura di un convento nel bosco di Meudon; oppure ci si riposava su di una panchina del bel parco di St. Cloud. Se pioveva, o se per qualche ragione non si poteva girare per la campagna, s'andava al Louvre, dove Rilke mi insegnava a vedere e comprendere i capolavori dei diversi secoli, oppure mi mostrava a casa sua le poche ma preziose rarità ch'egli possedeva: "...veramente non vorrei possedere nulla, ma ci sono alcune cose, poche, che mi sono affezionate, perché non saprebbero dove andare altrimenti" diceva come per scusarsi. Era, ora una perla tonda, d'un bianco latteo, ora il ritratto sbiadito del nonno, o gli antichissimi pizzi veneziani di "maman" oppure una preziosa edizione del Mireio di Mistral, stampata col testo francese e provenzale a fronte, su bellissima carta d'un bianco panna e rilegata in pelle grigia, lucida come seta. Ammirai questo libro e allora egli me lo regalò – e ogni giorno si attendeva insieme l'arrivo del telegramma quotidiano dalla clinica. Passarono lunghe giornate piene d'ansia sinché, finalmente, giunse la notizia 'che Maria era salva.
Dell'avvenire e della nostra vita non si parlava. Nelle ore però che passavo di sera a casa, sola, scrivendo o leggendo, mi veniva fatto spesso di pensare: non sarebbe forse naturale che un uomo e una donna, che sono spiritualmente così uniti, facessero anche esteriormente e umanamente una vita in comune? Non potenzierebbe questo tutto quel che c'è di buono e di grande nel loro legame? E non sarebbe una felicità senza pari quella d'essere là per lui, di rischiarare le sue ore buie, i suoi giorni più penosi, di poter dissipare ogni turbamento, d'essere insomma davvero "Benvenuta"?
M'aveva pur scritto una volta: "Dimmi, è l'universo dunque così antico, che possiamo conoscerci così illimitatamente, e passare dall'Imprevedibile all'Inimmaginabile sul ponte di questa inaspettata esistenza? Cuore mio, ancora ieri, ancora poche settimane fa, camminavo irrequieto lungo un immenso fiume, che da anni avevo tentato inutilmente di traversare: perché nessuno è mai riuscito a passarlo a nuoto con le sue sole forze. Attendevo, appoggiato alla sponda sassosa, e non riuscivo neppure a distinguere l'altra riva. Ed egli scrosciava nella sua ampiezza infinita e mi trascinava tutto nel suo scroscio... e soverchiava con la sua voce anche la mia ultima quiete raccolta. E io correvo a chiamare il barcaiolo; mi pareva che mi dovesse udire, ma il vento notturno passò sulla mia voce e una civetta la traversò, tutti la rinnegarono... Ma ecco alla prim'alba quest'arco incredibile, ed io mi volgo verso di lui con tutta semplicità, come se fosse il sentiero di un giardino..."
Tutta la fiducia di un cuore traboccante m'era venuta incontro. – La meritavo, potevo giustificarne la presenza, ne ero degna? Rainer non era forse divenuto la voce consolatrice delle mie ore più amare, non era la pace beata, il presente benedetto? Potevo mai immaginare la mia vita senza di lui? Ma poi si faceva sentire l'altra voce, spietata, crudele; e mi chiedeva: "Cosa vorresti in fondo? Rendere umano Fra Angelico, far di lui un essere comune per adeguano aijuo presunto sentimento sovrannaturale? E non vedi com'è andato a finire il suo lavoro? Non vedi come non viva che con te e per te? Com'è cieco per tutto quel che non sei tu? Come si perde nel suo amore per te? Non temi che un giorno ti possa odiare se tu osassi sottoporre alla tua influenza la sua vita, e il suo 'antico diritto alla solitudine? Non è forse un tradimento della grande missione?
No, gridò il mio cuore disperato, Rainer non mi odierà mai. Ma la voce non taceva e continuava: Cosa hai fatto di lui? L'hai paralizzato, incatenato al suo amore – non pensi al detto, ch'è stato scritto per lui: Il cammino dal fervore degli affetti alla grandezza passa attraverso al sacrificio?
Non conosci il tuo imperativo? Osi rimanere?
Quando simili pensieri mi tormentavano, ero spesso costretta ad alzarmi in piena notte; alla finestra aperta, all'aria fresca, contemplavo la luna che si rifletteva sulle onde della Senna, oppure, con occhi stanchi e arsi dalla veglia, osservavo la pioggia, che nel primo grigiore del mattino rimbalzava sui vetri della finestra, mentre il sole e la letizia della luce erano ancora lontani.
E, come se potessi trovare una risposta allo scompiglio delle disperate domande che il mio cuore si faceva, leggevo e rileggevo in quelle ore le prime lettere di Rilke. Allora egli mi diceva quanto gli piacesse "penetrare dentro alle cose", "seguirne la traccia", e approfondirle:"... per esempio, comprendere un cane, penetrare nel suo intimo, proprio nel punto in cui comincia a essere cane... se ti dovessi confessare dove si è sempre fissato il mio sentimento dell'universo, la mia felicità terrena, dovrei dire: sempre negli attimi, profondi, rapidi ed eterni, di questa divina 'penetrazione '... ma vedi, quando si ama, questa è la prima cosa che scompare – ecco infatti il cane: un indicibile dolore veniva subito dal fatto che non s'era più liberi di passare senza limiti in lui. In fondo c'era sempre qualcuno che diceva 'mio '... e il cane si sarebbe dovuto prima presentare chiedendo se per la durata di un impercettibile e imprevedibile istante era permesso di penetrare in lui .... ma a nessun cane viene mai in mente una simile cosa – e anche se gli venisse, non servirebbe a niente. Perché il solo fatto che uno conosca l'esistenza di questo magico istante, e lo conceda un certo numero di volte ('ancora questa volta'), basterebbe a distruggerlo per sempre."
Rainer m'aveva chiesto se questo discorso non mi sembrasse completamente assurdo e puerile. No, lo capivo anche troppo bene e capivo anche come se ne fosse andato da casa sua forse proprio perché "non era permesso penetrare nel cane" o perché, se mai questa operazione era riuscita una volta, si doveva subito raccontare come ci si sentiva "dentro al cane." Ma egli riusciva anche a immedesimarsi sufficientemente nell'animo di sua madre, per comprendere che la mortificava e affliggeva; per lei il cane non valeva molto più di una qualsiasi bettola in un porto, e "come poteva capire che il suo lindo ragazzo ci si trovasse bene e non si facesse invece più vedere da lei?"
Queste sue confessioni erano insieme una manifestazione di buon umore, comprensione e serietà. Ma mi parve un cenno del destino, che colei che rimaneva nella casa, fosse ridotta a essere una specie di "sposa di marinaio" e non avesse un'idea dei pericoli e delle vicende da cui l'amato tra scampato per tornare un giorno, o nel mezzo della notte, cupo, parco di parole, con i sensi interamente occupati d'immagini e impressioni da lei lontane, incapace per intere settimane di parlarne, come se nelle sue vene scorresse un sangue divenuto ormai estraneo a lei. Nel suo intimo, così pieno di dubbi, Rilke doveva pur chiedersi: se era possibile immaginare che colei che l'aveva atteso, passando il tempo in faccende tranquille e monotone, potesse in quel punto far finta di niente, non lasciar notare un'ombra di paura, d'ansia, di rimprovero, neppure una lacrimuccia di delusione; starsene lì semplicemente come la casa, chiara di giorno e incredibilmente silenziosa di notte, come il giardino, come l'umile finestra sulla scala, addirittura come uno dei fedeli oggetti consueti, discreti, della casa: "che fosse l'amore, un amore assolutamente irremovibile e completo (e che perciò non chiede nulla); sì, in questo caso il ritorno supererebbe qualunque previsione, sarebbe come una morte beata, una resurrezione. Ma, credimi, non è possibile."
Sì, è vero, non è possibile, pensavo – e mi pareva che me lo suggerisse il sangue dei miei antenati spagnoli, il sangue di quelle orgogliose generazioni, dei primi sudditi e compagni che Carlo VI condusse con sé quando si ritirò nell'Austria tedesca, per risiedere alla Corte di Vienna. "No", dicevano quei lontani proavi, il cui spirito si rivolgeva a me, che ero sangue del loro sangue, "no, non è possibile". Ma anche lui lo diceva e l'aveva subito pienamente inteso, appena pronunciato; lui, il poeta, Fra Angelico, che conosceva tutto il dolore dell'umanità; e s'era sentito d'improvviso sorpreso dalla certezza che quell'amore non era possibile, perché sorpassava ogni forza, sia quella calda, materna, terrena della donna, come quella turbolenta dell'uomo. E il suo cuore tormentato gridava che, se una creatura umana, anche nel ricettacolo più nascosto della sua anima, avesse sospettato quel che significavano tutta quella violenza e quei sacrifici che si compivano ininterrottamente intorno a lui: "Benvenuta, non credi, che ne rimarrebbe scosso, tanto da non riuscir più a levar il capo?."
Perché questo tormento, perché riaprire una ferita, che non potrà mai guarire? E leggevo ancora: "Se, per un dono soprannaturale, questo tormento gli venisse nascosto, ne fosse negata l'esistenza, gli fosse reso lieve, e se, con uno sforzo sovrumano, egli riuscisse a credere che quell'esperienza, possibile solo per un continuo miracolo di Dio, fosse semplicemente un fatto 'naturale', non avverrebbe almeno che egli non trovasse più la forza di dire 'Addio'?
Non trovar più la forza di dire "Addio". Era proprio questo: Rilke toglieva a queste creature umane tutto quello che ancora le avrebbe potute salvare, perché dunque quel sovrumano sacrificio? E continuai, mio malgrado, ribellandomi intimamente e soffrendo: "...ch'egli aveva un gigantesco globo di vetro nel suo giardino e, se ci si metteva accanto vedeva come il mondo vi si deformasse e si allontanasse da lui, così come un tempo aveva visto il mondo reale fuggir via, impiccolendosi. Ah, e il suo periglio, fuori, aveva nostalgia di lui, ma un altro aveva preso il suo posto, ed era il preferito. Egli era un morto nel suo giardino e nella sua casa e lo sconfinato amore che lo circondava era divenuto di colpo simile a quello che si ha per i defunti. Perché quando uno raggiunge la sua felicità e vuol restare in lei, essa muore, ed egli rimane come la mosca nell'ambra, un puntino scuro e inerte nel bel giallo della sua felicità morta..., perché questo non avvenisse, perché egli se ne andasse e l'amata gli dicesse di partire, quando la caravella fosse pronta Benvenuta, quali eroi dovrebbero essere quei due! Vedi, per la prima volta mi sono accorto che parlare d'amore vuoi dire parlare di durezza!"
Ed era proprio lo stesso – l'uomo che aveva saputo immaginare tutto ciò, che frantumava i sentimenti e la vita, buona e sicura, in sempre nuovi scrupoli e dubbi, errori e negazioni – quello che poi, spinto da un impulso traboccante, riusciva ancora a dirmi: "Caro, caro cuor mio, è molto che non ho pregato Dio, ma ora Lo imploro che mi conceda di amarti con tutte le radici del mio cuore, che questo amore ti giovi, che ravvivi in te la tua gioia, che sia il giardino che raccoglie la meravigliosa stagione che da te mi muove incontro a gran voce, gioia immortale..."
Soltanto dopo alcuni anni mi resi conto che in quella notte era morto qualcosa in me per lungo tempo: il coraggio della fiducia in un destino immutabile, il coraggio di una fede assoluta.
Mia sorella era lontana; non avevo il diritto di tormentarla, appena guarita, coi miei pensieri dolorosi, né potevo raggiungere la signora Gerda, in viaggio con Busoni in qualche stato dell'America. Ero sola. Solo il mio diario, il mio muto compagno parla ancora di quel tempo: "Rilke è di nuovo malato. Le sue terribili nevralgie lo fanno soffrire spesso per intere mezze giornate; nonostante ciò oggi è uscito ed è venuto qui verso mezzogiorno per portarmi un manoscritto dal titolo Le sette poesie dello sconosciuto. Me le lesse, ma da principio credevo che non fossero di lui, vi è un tono a volte che non è il suo. Dovette indovinare i miei dubbi, perché mi domandò d'un tratto: "Non valgon nulla, vero? "Osservai che forse le aveva scritte in un momento in cui non era abbastanza tranquillo né ben disposto, ma nell'istante stesso in cui ebbi pronunciato questo giudizio, mi ricordai con spavento che: "è perduto per le sue opere maggiori, chi crea qualcosa che sia al di sotto della sua attuale grandezza."
E già Rilke mi diceva: "Credi tu ch'io possa davvero essere ancora 'ben disposto'? Non sono ormai per sempre finito?."
Il suo volto, arso dalla febbre, divenne subito pallido, la sua fronte, di solito così serena, era sconvolta dal dolore.
In quel momento presi tutto il mio coraggio a due mani e gli dissi: "Rainer, credo di prenderti troppo tempo. Tu certo desideri di essere nuovamente solo e di lavorare, anch'io dovrei far qualcosa di più, pensa: dieci concerti in questa estate: Wiesbaden, Nauheim, Kissingen, Blankenberghe – e Dio sa cosa ancora" – e, cercando di scherzare, conclusi: "Dovremmo esser più attivi."
"Va bene" rispose esitante, "per prima cosa allora quattro giorni senza vederci, né parlarci." Cercò, senza riuscirvi, di apparir sereno, ma sembrò d'accordo in tutto. – Si uscì insieme; Rilke tornò a casa sua, io rimasi in città, mi portai poi in camera la partitura di un concerto per pianoforte per darvi una scorsa e far delle annotazioni nella parte strumentale; ma non mi riusciva lavorare. Vedevo innanzi a me il volto di Rilke, il suo povero volto sofferente, e d'improvviso fui presa da un'angoscia così violenta, che saltai in piedi, senza riflettere presi mantello e cappello, scesi per le scale, passando dinanzi a qualcuno che mi disse alcune parole e mi voleva consegnare una lettera, e, giunta nella strada, chiamai un taxi che mi portò alla rue Campagne première. La via, il lungo Boulevard Raspail, mi pareva che non finisse più, ma ecco finalmente la stazione del Métro, dove l'auto infilò in corsa la stradicciuola per fermarsi poi dinanzi alla casa di Rilke. Volai, più che salire, su per tutte quelle scale. Arrivata, bussai nel modo convenuto tra di noi. Rainer mi aprì subito: "Benvenuta, cara, carissima creatura, hai sentito che ti chiamavo, chiamavo, chiamavo?... sei proprio qui, non è troppo per te? mi perdoni?" Le sue domande si seguivano febbrilmente, poi ci sedemmo alla finestra aperta, nell'aria mite della primavera; presi la sua mano nelle mie, e allora si calmò. Disse che sarebbe certo guarito presto completamente, la principessa Maria l'aveva invitato per il mese di maggio a Duino. Disse che aveva scritto anche a me di venire, che era molto lieta di conoscermi; e poi saremmo andati tutti insieme a Venezia. Ero d'accordo? Proprio d'accordo? – Mi sentivo commossa da tanta bontà della principessa, e la magnifica prospettiva di conoscere Duino significava per me una gran gioia! Rilke prese da una delle sue numerose cartelle alcune fotografie: un castello fatato, inverosimilmente bello, che si levava sulle rocce, alto sul mare, con una torre di epoca romana; e poi: la facciata principale, con una gran terrazza, come sospesa nell'aria, tutta coperta di rose rampicanti, come una pergola; in basso, steso sulle roccie, un giardino con lecci, cespugli di lauro e fiori. Quel che la fantasia non avrebbe osato immaginare, era qui divenuta una realtà – e in questo regno incantato mi sarebbe stato concesso d'entrare!
A casa trovai quella stessa sera la lettera della principessa Maria, l'avevo rifiutata nel pomeriggio, per correre da Rilke; mi scriveva quanto sarebbe stata lieta di sentire della musica e che avrei trovato a Duino una piccola cerchia di persone colte, tra cui sperava mi sarei sentita a mio agio.
Dev'essere molto buona; questo soggiorno potrà forse chiarire molte cose che sono ancora incerte e confuse dinanzi a noi. E Rainer! Rainer potrà certo ricominciare a lavorare nell'immenso silenzio di quel grandioso paesaggio, sotto la protezione del cielo aperto senza fine, e del mare. Tutto, forse, si potrà ancora volgere al meglio. Sarà bene non pensare troppo, non sofisticare più, ma solo sperare, con amore e pazienza.

***

I giorni scorrono di nuovo apparentemente tranquilli e sereni. Ma Rilke non lavora ed i suoi buoni propositi son dimenticati. È quasi sempre presso di me; anche quando studio, se ne sta tranquillamente seduto senza muoversi d'un palmo. A volte mi meraviglio che non s'annoi a ascoltar tutti quei passaggi e quelle ripetizioni. Sembra che non possa più vivere senza musica. Gli piacciono i piccoli programmi della sera, specialmente Händel, le composizioni di antichi maestri, come Scarlatti, Couperin, Frescobaldi. A volte non si stancherebbe mai di star ad ascoltare e allora suono per ore intere. – A volte anche si legge, per esempio Francis Jammes, di cui Rilke ha tradotto alcune Prières, Charles Franck, il tetro cercatore di Dio – e un nuovo romanzo di André Gide Les caves du Vatican, che scrive in un francese molto difficile e, a mio parere, a volte volutamente scurrile.
Ma il meglio è sempre quando Rilke recita a memoria qualche poesia. Mi ha confidato alcuni brani del suo diario spagnolo, tutto quel che glien'era rimasto in mente; era così bello che l'ho pregato di ripeterlo. E mi misi a sedere in faccia a lui con lui quadernetto ed egli mi concesse di scrivere:
" I mandorli in fiore; tutto quel che possiamo raggiungere qui è di riconoscerci senza residui nell'apparizione terrena."
E poi: "Vi ammiro infinitamente, o beati, e il vostro contegno! Ché sapete portare l'ornamento vertiginoso in un senso eterno. Ah, chi sapesse fiorire: il suo cuore avrebbe superato tutti i piccoli pericoli e si sentirebbe consolato nei grandi."
E il brano più bello di tutti:
"Gli uccellini nei lecci non parlano più in prosa, s'esprimono già in poesia. Come un limpido rivo batteva il cuore a uno di loro. Donde viene il fervore affettuoso della creatura?... Ho colto sulla sponda del ruscello delle calle, quasi verdi, con una pennellata fresca di giallo stesa all'ultimo momento nel calice. All'interno, intorno agli stami, un cerchio oleoso, come se avessero sfiorato del burro. Aroma verde degli steli a tubo! Ritrovano poi nella mano, e sentirlo così familiare... Amiche di una volta, nell'infanzia, con le loro mani calde... era questo che ci commoveva tanto?..."

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Rilke sa far dei regali come nessun altro. Infatti: chi sa donare alla perfezione? Chi riesce ancora a far dei regali come veramente si dovrebbe? Mi ricordo nella mia infanzia i penosi istanti dei "ringraziamenti": appena si riceveva un dono, il piacere era già sfumato se uno degli zii o una delle zie, già "commosse" in precedenza, stava dinanzi a noi, quasi in attesa, per ricevere il ringraziamento del bambino che aveva la fortuna d'essere festeggiato. Più bello era a Natale, quando i donatori erano il generoso Bambino Gesù o Babbo Natale, che, essendo invisibili, avevano il merito inapprezzabile di non preoccuparsi dei ringraziamenti. Ma ancor più bello era quando l'unica creatura veramente umana, tra tutte quelle che mi circondavano, il mio caro e buon vecchio zio Ugo, che intuiva inconsciamente queste singolarità infantili, veniva d'estate dalla città a trovarci nella nostra villa di campagna. Era appena arrivato, in mezzo alla gioia di noi tutti, che subito si trovavano sul nostro comodino o sulla tavola della stanza dei bambini, posate da una mano misteriosa, quelle magnifiche matite colorate che ci entusiasmavano tanto. Erano ricoperte di carta argentata cangiante, rosa o celeste, verde e viola, e al centro, in mezzo alle altre, c'era quella più preziosa: la matita "d'oro."
Rainer ha avuto una esperienza simile, sin nei più minuti particolari, e l'ha quindi ben compresa; anche egli sa che quando i "grandi" vogliono divertire i bambini, spesso, purtroppo, il divertimento risulta soltanto degli adulti – e non dei piccini. Quante esperienze comuni nei ricordi della nostra infanzia! – Ed egli si è evidentemente ricordato di quel che gli avevo raccontato a proposito di un'antica e cara usanza, praticata in casa dei miei nonni: quella cioè di radunar tutta la famiglia la mattina di Pasqua, per una colazione. La tavola apparecchiata era adornata con uova colorate e fiori primaverili e aveva al centro un agnellino bianco di zucchero. Veniva servito prosciutto cotto, pane bianco finissimo, torte d'ogni specie, e ogni invitato riceveva un regalino: leprottini di cioccolata e uova.
Non avrei mai immaginato di poter rivivere, lontana da casa mia, una Pasqua come ai tempi della mia infanzia!
Ma la mattina di quella Pasqua parigina ecco comparire Monsieur Juin, questa volta con un gran pacchetto involtato in carta velina bianca – e quando sciolsi i variopinti nastrini di seta, mi pareva di rivivere il sogno della mia più lontana giovinezza. In un cestino piatto di vimini, tra primule, violette e anemoni bianchi, c'era l'agnellino di zucchero ornato perfino con una bandierina rossa, proprio come quello, ormai vecchio, che custodivo gelosamente a casa. Sotto i fiori c'erano biscottini schiacciati e delle uova di Pasqua di tutti i colori. Non mancavano neppure i leprottini di cioccolata scura e lucida con quel delicato e dolce odor di vaniglia, che tanto m'incantava da piccola. Con quanta delicatezza d'animo, con quanto amore aveva pensato a tutto!
Rainer mi fece la sorpresa di venire, dopo poco, e mi trovò ancora seduta dinanzi al suo regalo, rapita nella contemplazione di quelle piccole meraviglie. S'era riposato bene e come si rallegrò della mia gioia! Aveva anche pensato a un bel progetto per quel giorno: una gita in vaporetto sino a Sèvres. "Duino s'avvicina sempre più – ed hai ancora molte cose da vedere qui", diceva.
Duino! Darà la risposta così ardentemente attesa a tutte le domande ancora sospese?

***

Oh mio diario, amico paziente e muto, come debbo confidarti quel ch'è successo?
Rilke non vuoi andare più a Duino, si sente da capo così male ed è così avvilito, che vorrebbe isolarsi, "rintanarsi come un animale che vuoi morire oscuramente". Una disperazione sconsolata s'è impadronita di lui, non l'ho mai visto così. Dice d'esser finito, che non potrà più lavorare, che non potrà mai più scriver qualcosa, che tutto è perduto; deve ritirarsi dal mondo, fuggire la consuetudine delle poche persone che ama, per "risparmiarle", per far loro dimenticare quanto poco egli valga e come ormai sia perduto. Credo di avergli parlato per ore intere. Gli dicevo ch'egli era favorito dalla Grazia divina, gli parlavo di tutte le persone che l'amavano, l'ammiravano e gli erano grate; di quelle – innumerevoli – che dovevano a lui d'aver raggiunto una nuova luce, una vita più elevata; gli dissi ch'era suo assoluto dovere far di tutto per conservarsi ai lavoro. – E quando, con gesto stanco e sconsolato, mi rispose: "A che scopo?" una collera disperata mi invase. Gli dissi allora ch'era una viltà fuggire i rischi provocati dalla propria natura invece di opporsi a loro, sentendosi pronto in ogni momento a superarli. Gli dissi che si sarebbe dimenticato dei suoi doveri, se non si fosse liberato di tutto quel che poteva ostacolare la sua vera vita, il suo lavoro, fosse anche la principessa, Duino, io stessa – perché se voleva ritirarsi in solitudine doveva essere una solitudine feconda di lavoro creativo, un'altra sarebbe stata indegna del suo compito. Mi pareva di dover lottare con gli elementi demoniaci e negativi che lo dominavano in quel momento e, per quanto rischiassi di vederlo adirato con me, gli dissi tutto quel che il cuore mi suggeriva.
Ero seduta sopra una seggiolina dinanzi alla sua poltrona, con le braccia sulle sue ginocchia, con lo sguardo supplichevole levato verso di lui. Nella semioscurità del crepuscolo riuscivo appena a distinguere il suo volto. D'improvviso egli si chinò su di me e mi disse, con un accento d'indicibile intensità: "Benvenuta, caro, caro cuor mio, – non sei in verità la mia virginea madre, la mia creatura, la mia cara, cara fanciulla? Tu, con la tua corazza dorata, contro cui s'infrange tutto quel ch'è falso e corrotto? Non senti, appena la tua mano benedetta mi tocca, che l'incrinatura è veramente insanabile? Oh simbolo di tutta la purezza della vita!." Poi prese il mio volto nelle sue povere mani ardenti e tremanti – e ci tenemmo stretti, piangendo amaramente.

***

In questo paio di giorni ho dormito appena; il tempo è burrascoso; forse, quando sarà passata la luna piena, Rainer si calmerà; non l'ho visto da due giorni e non so cosa fare. Ho detto alla portiera, che si cura di lui, di chiamarmi se fosse malato. Per la prima volta son stata in portineria senza salire da lui!

***

Rainer è venuto stamani, subito dopo colazione, pregandomi di andare con lui in campagna, nel bosco di Chantilly – per tornare poi soltanto nel tardo pomeriggio. Aveva un aspetto misero ma era calmo, anzi negli occhi gli balenava un piccolo commovente riflesso d'un sorriso quando, scendendo, ancora per le scale, mi disse: "Se sei d'accordo, si potrebbe partire fra una settimana, con il rapido della notte, passando per Ginevra, Milano, Venezia, per Monfalcone, dove la principessa ci manderà a prendere alla stazione con la vettura; mi ha telegrafato stamani presto."
Mi sentii subito sollevata, come se tutte quelle ore amare non fossero mai esistite, e anche Rilke mi sembrò contento della sua decisione. Ci sorridemmo, come per un segno di reciproca, tacita comprensione. Quando si fu in treno, Rainer mi disse con un sospiro di sollievo: "Sarà una bella giornata."
Infatti quella mattina il cielo primaverile aveva diffuso tutto il suo splendore sopra la terra in fiore scendemmo a Orry per traversare a piedi tutto il bellissimo bosco. L'erba tenera era cosparsa di rugiada; i prati, pieni di fiori; dinanzi al piccolo castello della Reine Blanche i cespugli di lillà sulla rotonda erano già in fiore.
Rilke aspirava a pieni polmoni l'aria profumata. Si era levato il cappello e teneva la faccia, con gli occhi chiusi, rivolta al fresco vento, al sole. "Senti come sussurrano le foglie?" diceva: "In primavera il mormorio è diverso da quello dell'estate, quando le fronde, ormai piene, ondeggiano nel vento; e anche da quello dell'autunno, quando le foglie stanche hano già un presentimento dell'inverno e devono lottare contro le tempeste, per la loro vita che si spenge. Ma ora! con quale gioia stormiscono, come se non dovessero mai aver fine."
Si proseguiva, passando per piccoli viottoli. Sul terreno coperto di borraccina di un verde delicato, cadevano tremuli raggi di sole; una piccola ghiandaia si dondolava sui rami di un alto faggio e in lontananza si sentiva il richiamo del cuculo.
E così, camminando lentamente, guardando ed ascoltando, Rilke mi raccontò la storia di quel bosco e di "Silvia" di cui una volta aveva pensato di rievocare la vita, ormai dimenticata da tempo.
"Silvia amava il poeta Teofilo de Viau, che fu prima ammonito e poi condannato, per i suoi versi troppo liberi. Ma non si riuscì a trovarlo, perché la duchessa di Montmorency lo teneva ben nascosto nel suo piccolo chalet da caccia in mezzo al bosco, sinché poi, sempre con l’aiuto della duchessa, non fuggì, con una scorta fidata. In un poema che il poeta, ormai salvo, le offrì in segno d'omaggio e di gratitudine, la duchessa vien chiamata 'la bella Silvia'. Il popolo la conosce solo sotto questo nome, per quanto sieno scorsi quasi trecent'anni dalla sua morte; e anche il bosco si chiama 'bois de Silvie'. Forse alcuni tra questi vecchi alberi furono testimoni di questa tenera e rischiosa vicenda d'amore."
Questa bella giornata terminò con la visita del Museo Condé nel castello di Chantilly. Tra i molti e bellissimi quadri e tesori d'arte, Rilke mi fece notare, prima di ogni altra cosa, le miniature impareggiabili di Fouquet, in un messale del primo quarto del secolo decimoquinto. Ebbe il permesso di far levare il messale dalla custodia di vetro, e così lo potemmo guardare a lungo. Come lucevano i colori! L'azzurro e il rosso delle vesti dei santi non avevano perso nulla del loro splendore, si sarebbero detti ancora freschi e umidi di tinte. Delicate ghirlande di fiori ed arabeschi ornavano le pagine, in cui figuravano i caratteri gotici, e specialmente le maiuscole, disegnate con fregi arditi, all'inizio di ogni preghiera. Rainer intessé una vera corona di fiabe intorno a quelle pagine di pergamena, giallastre e scurite dal tempo "che saranno state sfogliate da molte mani, per trattenersi ora a una preghiera, ora a un'immagine. Re, principesse, creature felici, dispotkhe, tristi o infiammate d'amore, di cui nessuno ricorda più il nome, avevano posseduto questo libro, l'avevano amato, custodito o dimenticato."
Rilke mi mostrò anche una strana collezione, unica nella sua specie. In una stanzina rotonda del museo, che serviva di passaggio e dalle cui finestre si godeva una deliziosa vista sul parco, erano esposti alle pareti una quarantina o cinquantina di quadretti. Alcuni erano molto piccoli, i più però non oltre i due palmi. Avevano tutti una cornicetta d'oro pallido, e in ogni quadretto non c'era dipinto che un occhio. Ora celesti, or bruni, or scuri, ora grigi, erano gli occhi che ci fissavano. Quei piccoli capolavori, dipinti con grande maestria come sopra un vetro trasparente, mi fecero però un'impressione quasi macabra e di paura, anche se quasi tutti erano originali, anzi di una bellezza incantevole e piacevole. Quegli occhi intelligenti, mesti, belli, impauriti, astuti, cattivi, ridenti e bonari, parevan raffigurare la storia di tutte le caratteristiche umane. E, per un artificio del pittore, sembrava che fissassero chiunque e da qualunque punto uno li contemplasse. Si era in loro potere, pareva che volessero penetrare i pensieri più reconditi di chi osava rivolger lo sguardo su di loro.
Tutta occupata a contemplarli ed ammirarli, mi dimenticai di chiedere come si chiamasse il pittore. Può darsi che anche Rainer non lo sappia, a volte gli piace di considerare un'opera d'arte per se stessa, senza informarsi della sua origine e dell'epoca in cui venne creata.
Durante i miei successivi soggiorni a Parigi ho cercato più volte di ritrovare la "stanza degli occhi", ma sempre invano. Non era ricordata in nessuna storia dell'arte e neppure nella guida del Museo Condé, – acquistò perciò ancor più ai miei occhi un carattere misterioso e, per una ragione che non riuscivo a chiarire neppure a me stessa, non ne volli mai chieder notizia a nessuno. Spesso è accaduto che un'esperienza vissuta insieme a Rilke, rimanesse poi unica; anche il mercato degli uccelli, in cui capitammo qualche tempo prima,
andando al concerto di Busoni, non l'ho mai più ritrovato – e la principessa Taxis mi raccontò poi, che un'esperienza simile era capitata anche a lei, a Venezia, quando era insieme a Rilke.
Forse era destino che certe esperienze fatte in presenza sua, rimanessero uniche, non potessero più ripetersi.

***

(Dal diario)

La tomba di Chopin nel cimitero del Père Lachaise è meta di pellegrinaggio per innumrevoli persone. Là, dove ai tempi del Re Sole si levava la casa e il bellissimo parco del suo confessore, il padre Francesco d'Aix de Lachaise, si cominciò al principio del secolo decimonono a creare il maggiore cimitero di Parigi. Quasi cinquant'anni dopo vi fu sepolto Chopin. La tomba, semplice, di pietra lisia su cui, in un tondo, sono disegnati a rilievo i tratti del Maestro, potrebbe facilmente passare inosservata, se non fosse quasi coperta, in ogni stagione, da rami fioriti, mazzi, piante frondose, corone e arbusti freschi. Lì vicino si trova il sontuoso sepolcro di Cherubini, visibile da lontano per la sua mole. Ma questa tomba è completamente abbandonata. Nessun fiore s'affaccia tra le erbacce che hanno invaso il recinto; le catene di ferro ai lati sono arrugginite, la lampada in ferro battuto, bella un tempo, è rotta. Cherubini è stato dimenticato, mentre migliaia di persone vanno in pellegrinaggio alla tomba di Chopin. Una commovente consuetudine si è mantenuta in tutti questi anni e decenni: ogni visitatore posa sul tumulo, insieme ai fiori, anche il suo biglietto da visita. S'incontrano così i nomi di persone ogni condizione, dall'artigiano sino al principe della Casa d'Orléans o di Ligne, dal fattorino al musicista celebre, dalla piccola lavandaia sino all'elegante signora del gran mondo.
Nell'istante in cui anche noi si stava per mettere il nostro mazzo sulla tomba di Chopin, Rilke ed io, come per un tacito accordo, si prese la metà dei bianchi narcisi e delle grandi viole del pensiero d'un azzurro dorato, per ornarne il sontuoso ma abbandonato sepolcro di Cherubini; poi Rilke staccò una pagina dal suo taccuino, vi scrisse le iniziali dei nostri due nomi sopra, e legò al mazzo il foglietto, con il capo del filo che avvolgeva i fiori.
Volgendoci poi indietro, si vedeva ancora da lontano splendere i nostri bianchi narcisi sulla tomba solitaria e dimenticata di Cherubini.

***

Gli ultimi giorni a Parigi passarono veloci. Ora che s'avvicinava il momento di congedarsi da lei, mi sembrava di non aver ancora visto quasi nulla; giravo con Giuseppe e sua moglie, che vennero spesso a trovarmi prima di partire. Quelle due persone giovani, serene e felici, prendevano la vita, a volte tutt'altro che facile per loro, con fiducia e serenità. Quando furono partiti, cominciai a dire addio a Parigi, come si saluta qualcuno che si pensa di non rivedere mai più. Questa città luminosa mi si mostrò in quei giorni in tutto il suo incanto, nella sua più splendida bellezza. In onore del re d'Inghilterra, che veniva in visita ufficiale, le case e i balconi di tutte le piazze e anche delle strade più modeste, venivano tutti adornati. Lo stato d'animo di tutti era festoso, non si riusciva quasi a notare, neppure da lontano, un senso segreto o palese, di ostilità. Rilke ed io si parlava quasi sempre tedesco, anche per strada, senza suscitare nessun risentimento – come invece capitava, per esempio, già da tempo, a Praga. Ebbi solo ad osservare sempre, che nelle vetrine dei negozi più fini e dei grandi magazzini, c'erano dei cartelli in cui si leggeva che vi si parlava: inglese, russo, greco, rumeno, persino turco e arabo; ma l'avviso "si parla tedesco" mancava dappertutto.
L'ultimo giorno Rilke ed io andammo ancora una volta a Notre Dame; la chiesa era vuota in quel tardo pomeriggio, ma nella tribuna dell'organo s'intravedeva un barlume di luce e d'improvviso qualcuno cominciò a suonare un tema che si svolse, prima in forma di canone, e poi nell'intricato contrappunto di una fuga a cinque voci, a organo pieno. L'immensa volta della chiesa, come destata ad una vita solenne, vibrava sotto la violenza di quei suoni. E noi si sedeva trasognati, uno accanto all'altra, come nei giorni sereni e felici, ascoltando e scuotendoci dal nostro sogno solo quando le voci tacquero e anche la luce sull'organo si spense.
Rainer mi disse d'aver sentito suonar l'organo in quella chiesa per la prima volta e, quando osservai che forse lo spirito augusto di Giovanni Sebastiano Bach era venuto per redimere la cattedrale con la sua musica, sorrise dicendo: "Soltanto lui avrebbe la potenza e la maestà per tanta impresa."
Quella sera suonai per l'ultima volta per Rainer sul pianoforte Baldwin, ma Rilke se ne stava silenzioso e avvilito e così smisi presto. La mattina seguente c'eran da fare le valige e da sbrigare molte pratiche connesse con la partenza, i bauli e il conto dell'albergo. Tuttavia trovai ancora il tempo di andare per qualche minuto al Museo Cluny, a vedere la cara Dame à la Licorne, la Sainte-Chapelle, il giardino del Lussemburgo e il Pantheon, con la bella serie dei quadri di Puvis de Chavanne, che rappresentano Santa Genoveffa, patrona di Parigi, e la storia della sua vita. – Infine, prima che venissero a prendere le mie valige, suonai per me sola, sul bel pianoforte a coda, ch'era stato in tutte quelle settimane l'amico fedele di Rilke e mio, il "pastore italiano" e scrissi poi nell'interno del coperchio: "Non dimenticare mai che ti è stato dato d'esser suonato dinanzi a Rainer Maria Rilke."
Poi dissi addio alla mia bella camera. Come mi sembrò squallida! La poltrona era come sempre presso alla finestra, ma Rilke non vi si sarebbe più seduto per leggere, parlare o ascoltare della musica; nel vaso azzurro, dinanzi al camino, appassivano alcune iris gialle, non c'era stato più tempo di cambiarne l'acqua. La tavola, su cui erano stati posati tante volte bei libri e quaderni di riviste, era vuota, tutto era occupato da valige e borse – pareva quasi che l'ambiente, ormai caro e familiare, avesse perduto la sua anima: non c'era più Rainer.
Sempre un addio e un nuovo principio, una fine e un nuovo inizio – senza interruzione! Dove avevo letto una volta: "La natura esige una metamorfosi, ma l'uomo anela verso qualcosa di duraturo"?
Mentre ero immersa in questi tristi pensieri, venne prima Madame la proprietaire, sempre così buona e premurosa con me, a salutarmi, poi il facchino a prendere i bagagli e infine il taxi. – Dalla vettura aperta potei ancora dire addio, durante il tragitto, a qualche luogo che m'era divenuto caro: al Quai Voltaire, alla Senna, al Pont Neuf, alle Tuileries, e da lontano a Notre-Dame, – una gran stella splendeva nel cielo della sera, proprio sopra al portale; poi la visione della città amata scomparve, inghiottita dalla confusione delle rumorose vie dei sobborghi e dalla folla in movimento della stazione.
Il rapido per Roma era pronto; dopo aver cercato un poco, trovai nel terzo vagone la mia vettura-letto e dentro, sistemato con cura, il mio bagaglio a mano; ordinai al conducteur una bottiglia d'Eau Evian e misi a posto le mie cose. Poi il treno uscì dalla pensilina. Per un po' di tempo si videro ancora le luci di Parigi, infine solo un gran riflesso chiaro si mantenne in lontananza, nel cerchio in cui si doveva trovare la città; a una voltata tutto scomparve nell'oscurità; il treno s'inoltrò nella notte, verso lontananze ignote.

DUINO

Volevo prendere ancora un po' di tè e mangiare un boccone; così trovai Rilke nella vettura-ristorante già semivuota, mentre scriveva seduto a un tavolino presso al finestrino. "Non ho più visto Marta, e per ciò le scrivo una letterina" disse, ed io aggiunsi un saluto e la firma. Il bigliettino che m'inviò quella volta l'avevo conservato – non avrei più riveduto quella creatura affettuosa e infelice, la cui fine dolorosa e misera era forse già stata decretata!
Ci separammo presto, con il proposito di non incontrarci prima delle nove a colazione. Rilke mi consigliò però, se mi svegliavo a tempo, di guardare dal finestrino, perché il tratto di viaggio lungo il lago di Ginevra era particolarmente bello.
Cullata dall'oscillante e inavvertito movimento del vagone letto, mi addormentai quasi subito, mi svegliai però davvero all'alba, perché alcuni viaggiatori che passavano per il corridoio parlavano ad alta voce. Ci si doveva esser fermati a Montreux; i vagoni procedevano lentamente e quando aprii il finestrino ed il treno ebbe ripreso la sua rapida corsa, vidi la vetta scintillante di neve dei Rochers de Naye, levata sulle onde del lago di Ginevra, che mormoravano, mosse dalla brezza mattutina; vidi due barche da pesca uscire da un porticciuolo, con le vele indorate dal primo sole, la cittadina di Losanna, ancora immersa nel sonno e la distesa lucente del lago sino alla sponda francese, con la piccola stazione balneare di St. Gingolphe; poi tutto sparì; altre montagne, altri paesaggi si presentarono al mio sguardo, nella luce crescente del giorno.
Questo viaggio per i diversi paesi, lungo laghi e montagne, che si traversavano come volando in sogno, è stato meraviglioso! La prima colazione occupò la mezz'ora che il treno impiegò a passare in piena corsa il tunnel del Sempione, con le lampadine accese sui tavolini e tutta la vettura-ristorante illuminata. Poi venne il lago Maggiore, con le sue gaie ville e gl'incantevoli giardini sulla riva. Camelie in fiore, rododendri alti più d'un uomo. Per la prima volta vidi la delicata meraviglia delle mimose che crescevano all'aperto, alcune ancora con i loro profumati corimbi in fiore, d'un giallo chiaro. Pergole di rose, dal tenero incarnato, e clemati lilla, rivestivano balaustre di pietra sin quasi a sfiorare le onde, d'un azzurro cupo, del lago, che si muoveva con lento risciacquo, intorno a piccoli imbarcaderi, porticine aperte nei muri e darsene. Le isole Borromee rilucevano sulle acque, come campi Elisi, l'Isola Madre e l'Isola Bella, nello splendore dei loro giardini, inverosimilmente fioriti, all'ombra dei pini, cipressi ed alberi frondosi.
Poi le montagne disparvero e si aprì, dinanzi ai miei occhi, l'ampia e fertile pianura, con i suoi campi di granturco appena nato, pergolati floridi di viti, zucche dai fiori gialli, alberi da frutto e oliveti. E infine comparve, come una fata morgana, visibile da lontano nella luce scintillante del mezzogiorno, il Duomo di Milano. – Era necessario cambiar treno per andare a Trieste, perché il rapid,o proseguiva per Rotha, passando da Firenze; così approfittammo del tempo disponibile tra un treno e l'altro per pranzare e fare una piccola girata per la città. Ma faceva caldo e c'era mlta polvere; Milano si mostrava nella sua luce più sfavorevole.
Il direttissimo per Trieste, proveniente da Torino, era molto affollato, ma ci riuscì di trovare ugualmente, nell'ultimo vagone, un mezzo scompartimento, in cui insieme a noi era soltanto una persona: una giovinetta che teneva in mano un libro con una rilegatura bianca e verde: L'Alfiere! Pensai: "Ecco un'altra avventura con il poeta sconosciuto!" Anche Rilke aveva già notato il volumetto dell'Insel-Verlag e mi accennò sorridendo di non tradirlo. La ragazza, sprofondata nella lettura del libro, non badava neppur lontanamente a noi, solo una volta, quando Rilke parlò della Rotonda di Vicenza, che si sarebbe potuta vedere dal treno dopo un'ora circa, levò io sguardo dal libro e chiese, con fare discreto, se fosse possibile visitare quella famosa Rotonda, e in questo caso avrebbe interrotto il suo viaggio e sarebbe scesa a Vicenza per vederla. Rilke le disse che la proprietaria, una certa contessa Valmarana di Venezia, soleva trascorrervi, insieme alla figlia, qualche settimana in primavera e in autunno; in ogni caso, anche se in quel momento non ci fosse stato nessuno, egli avrebbe potuto scrivere due righe al custode, che conosceva. La signorina ringraziò cortesemente e s'immerse di nuovo nel Canto dell'amore e della morte, senza aver la minima idea che il poeta l'autore del suo libro preferito, le sedesse accanto!
Quando il treno si fermò a Vicenza, Rilke le consegnò il suo biglietto da visita con le due parole di raccomandazione. Ella lesse ed arrossì tutta: "Signor Rilke" balbettò sgomenta, "...ed io sono... non ho... perdoni... la prego." Mancò poco che non si dimenticasse di scendere! Rilke le porse dal finestrino la borsa e il libro che, per l'agitazione, aveva lasciati sul sedile poi la ragazza restò, tutta confusa, sulla pensilina, salutando con la mano, mentre il treno partiva. Credo che piangesse.
Di Venezia, poiché s'era intanto fatto buio, non vedemmo che la stazione e, traversando la laguna sul lungo terrapieno che porta a Mestre, i lumi della città e i lontani fari rossi di quelle parti della Laguna che sboccano nel mare aperto.
Dopo un breve viaggio si giunse poi, finalmente, alla meta: la stazioncina mal illuminata di Monfalcone, e presso cui ci attendeva, la macchina, venuta da Duino e un carro per i bagagli, come disse un vecchio servitore che, insieme all'autista, caricò le nostre valigie.
Era cominciato a piovere, così l'automobile venne chiusa e s'inoltrò poi nell'oscurità, per un lungo viale. Da principio s'intravide ancora un paesino con una chiesa sopraelevata, tra una corona di alberi, poi la pioggia cominciò a crepitare contro i finestrini e tutto sparì dietro un velo d'acqua.
"Piero sarà molto deluso", disse Rilke, accennando al servitore che sedeva accanto all'autista, "è sempre felice quando può spiegare tutto agli ospiti che son qui per la prima volta. Gli piace in maniera particolare lo scoglio con il Castelvecchio, ed egli racconta agli estranei, che una volta alla settimana possono entrare nella vecchia rocca che Dante è stato tra quelle mura e, seduto con una matita d'oro in mano, ha vergato in un grosso volume le sue Canzoni. Il fatto di trattare poi i secoli con una certa confidenza, non fa he conferire un carattere ancor più fantasioso alle sue spiegazioni. Tutti a Duino vogliono bene a questo vecchio, ch'è da più di quarant'anni in servizio nella famiglia della principessa."
Ed ecco l'automobile passare per una specie di porta d'una fortezza, fra alte mura coperte d'edera, e fermarsi nel cortile interno del castello, dinanzi all'ingresso.
Nell'atrio ci accolse una signora di statura media, dai capelli grigi, con due occhi chiari ed espressivi sotto folte sopracciglia scure in un volto sereno e spirituale. I suoi capelli, raccolti in piccoli riccioli sulla fronte, l'abito bianco da sera, con piccolo strascico, le scarpette di raso color rame – tutto le conferiva proprio l'aspetto d'una di quelle principesse del Rinascimento, dedite alle arti, che tenevano alla loro corte poeti, musicisti e pittori d'ogni paese, perché potessero darsi tutti alla loro vocazione, e riposare il loro spirito in un'atmosfera di libertà e di bellezza.
Per quanto nata a Venezia, parlava correntemente il tedesco, con quell'accento austriaco, che mi ricordava la mia patria; la sua spontanea gentilezza e il suo modo di fare disinvolto, rispondevazo pienamente a ciò che Rilke mi aveva detto di lei. Presto si fu a tavola per una cena in ritardo; Rilke parlava del viaggio mentre io potevo intanto guardare tranquillamente l'ampia e veramente comoda sala da pranzo. Tre gigantesche finestre ne segnavano i limiti da una parte; alcune porte a battenti davano in altre stanze; il mobilio e le pareti erano scure, la tavola riccamente addobbata con preziosi cristalli e posate d'argento, e illuminata da candele di cera in snelli candelabri di metallo lavorato; un feltro rossoscuro, su cui erano stesi bei tappeti di valore, ricopriva tutto il pavimento. Mentre la tavola era tutta illuminata dalle candele accese, il resto della sala si perdeva come in una luminosa, calda penombra, in cui si riusciva appena a notare che grandi quadri a olio erano appesi alle pareti: una natura morta con dei fiori multicolori e un paesaggio sopra all'ampia credenza, su cui facevan bella mostra di sé fagiani e pernici d'argento.
Alla fine della cena la principessa, prendendomi la mano, mi disse: "Lei ha l'aria stanca, domani faremo una chiacchierata più lunga, il barometro è salito e sarà perciò una bellissima giornata, è il momento buono per conoscere la nostra Duino. La luce elettrica non esiste nel nostro nido pietroso e così Annina l'accompagnerà con la candela in camera sua." Mi baciò sulla fronte ed io seguii quell'Annina, che mi aspettava e che, precedendomi, mi condusse attraverso oscuri corridoi, al piano di sopra e mi aprì poi una delle tante porte.
Mi parve quasi di ritrovare la mia cara stanza di Parigi. Era un grande vano, arredato con mobilio antiquato, tendine di creton a fiori alle finestre, un grande letto a baldacchino, delle poltrone e una piccola chaiselongue, detta Balzac – mancava solo il pianoforte e al posto del camino c'era in un angolo un'enorme stufa di maiolica bianca, che ispirava una grande fiducia altrimenti avrei potuto credere di esser ritornata d'improvviso e per un colpo di bacchetta magica, al Quai Voltaire. A rimpiazzare la luce elettrica vi erano due grandi lampade a petrolio, di porcellana rosa con paralumi di seta rosea, che diffondevano una luce chiara e pur delicata: una sulla tavola rotonda, su cui erano stati posti alcuni libri rilegati con gusto, l'altra sul cassettone.
Le chiavette dei bagagli m'eran già state chieste nell'atrio, e così trovai le valige vuote, con la biancheria e i vestiti già ben disposti negli armadi. Persino il mio piccolo tagliacarte di tartaruga e il taccuino in pelle rossa, che Rainer m'aveva regalato a Parigi, erano sulla scrivania vicino a cartella, matita e penna.
Nel bagno accanto c'erano due grandi brocche d'acqua calda, avvolte con panni di flanella, insieme a una bottiglia di deliziosa acqua di lavanda. Non mancava nessuna comodità e da tutto traspariva quella cordialità d'antico stampo, che non si sa di cosa sia fatta, dei vecchi castelli, in cui, anche senza termosifone e telefono sulla scrivania, si può vivere meravigliosamente bene e come lontano dal mondo irrequieto di tutti i giorni.
Provai a guardar fuori della finestra, ma non mi riuscì di distinguer nulla nell'oscurità. Pioveva ancora; da qualche parte si udiva salir dal fondo la voce possente del mare e delle onde che si rompevano sugli scogli.
Ma la meraviglia di quella notte fu un coro di voci d'uccelli. Centinaia d'usignoli cantavano sotto le finestre e nelle macchie di un giardino invisibile – mentre il castello s'ergeva in alto, nel cielo nuvoloso, da cui scrosciava la pioggia.
M'addormentai cullata dalla grandiosa sinfonia intonata da un paesaggio immenso e dal respiro dei mare.
Sognai che Rilke aveva scritto un sonetto sugli usignoli. Mi veniva incontro con il viso raggiante, dicendo: "Sono salvo, non senti questo suono flautato?" Poi mi lesse la poesia e due uccellini bruni si posarono sulle sue spalle per guardare anche loro nel libro.
Pensavo: questo non è Rainer ma Francesco d'Assisi, che predica agli uccelli! – D'Annunzio però, che sedeva lì vicino avvolto in un mantello di seta color genziana, disse in tono ironico: Non si deve far pazzo, venite fratello!
Dio ha proibito la fuga, rimanete! gridai ad alta voce e il suono della mia voce mi destò. La camera era piena di luce; fuori c'era il mare d'un azzurro cupo con mille scintille dorate di sole sulle onde. Gli usignoli tacevano, ma si sentiva ovunque un frullio di piccole ali nei fitti cespugli che crescevano sugli scogli strapiombanti sui mare. Un delicato profumo penetrava dalla finestra con il fresco del mattino; come se in qualche parte fiorisse la vainiglia e il gelsomino. Tutto riluceva: ii mare, le insenature vicine e distanti, l'orizzonte, che, in uno sfavillio luminoso, si confondeva alle onde in un mare di vapori dorati.
Dopo colazione scesi di corsa nel giardino incantato, dai piccoli e stretti sentieri, tra anemoni, tulipani e violacciocche. Giacinti selvatici e scuri crescevano a ciuffi ovunque si volgeva lo sguardo – e il mare splendeva sempre tra le fronde, d'un verde cupo, dei lecci. Mi sedetti su di una panchina quasi a livello del mare, vicino ad un'antica statua di arenaria, mezza rovinata, di una qualche dea marina, all'ombra di macchie di lauro, e vedevo, voltandomi, alta sopra di me, tra i fiori e i cespugli, la torre romana del castello, che spiccava sull'azzurro del cielo. Una solitudine profonda regnava qui: non si vedeva una barca né una vela; il vento s'era placato, il mare sembrava un immenso specchio azzurro. Il tempo non pareva scorrere. Mi riusciva ora comprensibile che Rainer fosse stato spesso qui; mi aveva descritto il luogo aggiungendo che lì aveva avuto la prima idea delle Elegie, di quelle Elegie che, secondo lui, non avrebbe mai finite! Sapevo che in quel momento passeggiava su e giù insieme alla principessa, sulla terrazza, tutto preso dalla conversazione. Non si vedevano da molto tempo e avevano certo molte cose da dirsi – perciò mi tenni in disparte. Soltanto dopo pranzo si passò insieme, seduti all'aperto, un'ora, poi la principessa m'invitò nel suo salotto, per "discorrere e conoscersi", come disse; trascorsi così un interessante pomeriggio nel salone rosso, una stanza che piace molto alla principessa, a quanto pare, perché anche nei giorni successivi vi invitò i suoi ospiti, per passar qualche ora nella lettura, quando la serata non veniva occupata dalla musica. Sul magnifico soffitto di stucco di stile veneziano, era dipinto al centro l’apoteosi dell’Imperatore Leopoldo I: un affresco ricco di magnifici colori, con putti e ghirlande di frutti e di fiori intorno, ai margini. Le pareti erano tappezzate di velluto rosso e un tappeto un rosa bluastro, in cui si ripeteva il motivo delle ghirlande di fiori del soffitto, ricopriva tutto l'impiantito. Dinanzi a un mobiletto di rarità, pieno di preziosi cristalli, di antiche porcellane di Vienna e di Meissen, di vasi di Sèvres e di argenteria, erano raggruppate alcune comode sedie e un paio di bassi sgabelli; lungo la parete più ampia si stendeva un grande scaffale intarsiato con legno di vario colore. Dei pesanti cordoni di seta rossa tenevano raccolte le tende, ai lati delle finestre e alle pareti erano appesi molti quadri, la maggior parte di pittori veneziani.
In questo simpatico salotto la principessa mi parlò molto della storia del castello. Venni a sapere così che Duino, nel Medioevo, s'era chiamato Tybein. Apparteneva ad una ricca e potente famiglia che aveva vissuto in quel nido roccioso sotto il dominio dei patriarchi di Aquileia. In seguito i Tybein si resero indipendenti dalla sovranità del patriarcato e divennero feudatari dei duchi austriaci di Babenberg. Aquileia teneva per i Guelfi, i signori di Tybein per i Ghibellini. Vi furono così lotte tra i due partiti in guerra, lotta contro Trieste, contro Venezia... Durante il secolo decimoterzo la stirpe dei Tybein si estinse, e Duino venne in possesso dei signori di Wailsee e, quando anche questa famiglia si spense, lo ereditò la Casa d'Austria. Il periodo aureo per il castello dev'esser stato durante il regno dell'imperatore Federico III, che teneva corte a Duino, vi celebrava grandi feste, con giostre e tornei, e v'incoronò persino due poeti. – Purtroppo la principessa non seppe dirmi i nomi dei due eletti ma mi raccontò che, secondo la tradizione, Dante doveva esserci stato quando – fuggiasco ed esule – era ospite del patriarca Pagano della Torre. Dall'imperatore Leopoldo I il conte Thurn Valsassina, lontano antenato della madre della principessa, comprò poi il castello di Duino, che appartiene così alla famiglia da quasi tre secoli.
Chiesi se il nome Tybein significasse qualcosa di preciso, perché esistevano ruderi con un nome analogo: Thebe sulla March, Devin sul Hammeee in Boemia. Da bambina mi avevano portato spesso in gita in quei luoghi. Ma la principessa non seppe dirmi nulla sull'origine di questo nome. Mi proposi di chiedere a Rilke se per caso non derivasse da l'indo-germanico Devar che equivarrebbe a "principe". A casa venne una volta come ospite, un indiano di casta regale e la sua bellissima moglie si chiamava Devi, ossia "principessa". Non poteva darsi che Devin-Tybein, significasse "casa dei principi"?
In uno dei prossimi giorni devo fare un giro per il castello, in cui ci sono innumerevoli sale, stanze, angoli nascosti, prigioni, camere e corridoi. Ma prima Padre Serafico, come Rilke vien chiamato dalla principessa, deve rimettersi. Mi arrischiai a chiedere alla padrona di casa se lo trovasse cambiato, ma la principessa non sembrava preoccuparsene, osservò solo che il viaggio l'aveva stancato. Credo che nessuno all'infuori di me avesse allora il presentimento che già in quei giorni cominciavano a manifestarsi i primi sintomi della grave malattia che colpì Rilke più tardi, certo non si notarono o non si fece troppo caso delle sue condizioni di salute, ch'egli del resto spesso, come aveva sempre fatto, dissimulava, facendo eroicamente violenza a se stesso, per riguardo a quelli che lo circondavano. Quella sera ci erano degli ospiti a cena: Tommaso della Torre, un parente stretto della famiglia, alcune signore, un filosofo, un vecchio americano. Si parlava d'incantatori di serpenti a Calcutta e di feste sul ghiaccio in Finlandia; la conversazione si svolgeva serena ed animata: con un fuoco di fila di osservazioni spiritose, ironiche e divertenti, a cui Rilke non partecipava. Non amava punto quel genere di discorsi, e in questo io ero proprio del suo parere. Poiché era mio vicino di tavola, notai che mangiava poco e non apriva quasi bocca. Quando ci si alzò, per salire nel salone bianco, chiese a mezzavoce, se non avessi voglia di suonare. Gli risposi che forse non ci sarebbe stata quella sera l'atmosfera propizia, ma la principessa, che s'era avvicinata a noi, esclamò vivacemente: "Sì, Serafico, deve suonare, la preghi di suonare, non voglio più saperne d'incantatori e di palazzi di ghiaccio, ho una gran voglia di sentire della musica!"
La sala bianca si trovava proprio sopra la sala da pranzo, era altrettanto ampia e aveva, come l'altra, tre enormi finestre da cui si godeva una magnifica veduta su Trieste e il golfo. Contrariamente però alla sala da pranzo, era arredata tutta con mobilio di legno bianco e dorato, mentre le pareti erano chiare. Mancavano i tappeti, ch'erano sostituiti da belle pelli bianche, stese sotto la tavola e le seggiole, sul pavimento di legno, artisticamente intarsiato. Di nero non c'era che il grande pianoforte a coda Bösendorf, su cui Liszt aveva suonato un tempo. Le sue mani avevano sollevato il coperchio e le dita sfiorato i tasti! Non osavo quasi incominciare. Uno dei signori disse allora, quasi scherzando alla sua vicina: "Veramente le donne non sanno suonare il pianoforte, che ne pensa?"
D'improvviso la sala per me sparì, non vidi che il volto di Rainer – ero tornata nella "stanza di Andersen" e suonavo solo per lui, come quella sera a Grunewald, la sonata op. 109 di Beethoven. – Quand'ebbi finito, e mentre ancora per un istante, com'ero solita, restavo seduta ad occhi chiusi, mi sentii prender per le spalle. La principessa Maria era venuta dietro di me e affondava il suo volto nei miei capelli: "Bambina, bambina mia!" esclamò con voce appena percettibile, ma profondamente commossa. – E io levai lo sguardo verso di lei grata e felice – nei suoi occhi, buoni e seri tremolavano le lacrime. Allora mi alzai e baciai la sua cara mano. Cercai poi con gli occhi Rilke – non c'era più, ma l'ospite, che aveva chiesto prima alla sua vicina se le donne sapessero suonare il piano, disse in tono serio, nel silenzio che s'era fatto: "Rilke se n'è già andato, e del resto, che s'aspetta ancora qui? Abbiamo udito la voce di Dio!" Lo ringraziai con lo sguardo – ma la mia gioia come sarebbe stata piena se Rainer mi avesse premiato con un'occhiata o una stretta di mano!
La compagnia, che a tavola era stata così serena e brillante, si sciolse ora quasi solennemente; io, con la mia candela in mano, salii sola su per le scale. – Prima di raggiungere la porta della mia camera, vidi un'ombra scura staccarsi dall'arcata d'un finestra; impaurita feci una mossa brusca e la candela mi cadde di mano e si spense. Così ci trovammo di fronte, Rainer ed io; nel vano della finestra, dove era stato ad aspettarmi, c'era ancora un tenuissimo chiarore della luna che tramontava. Lo vedevo appena, ma come sentii tutta l'anima di Fra Angelico quando mi disse: "Oh cara, come hai suonato! Non si dovrebbe imparare prima a sopportare tanta meraviglia? Oh gran cuore, come ti deve amare Dio!" Poi scomparve nell'oscurità.

***

(Dal diario)

La bellezza e la calma di questo paesaggio hanno il potere di trasportarmi continuamente in un'atmosfera di sogno di tempi remoti. Spesso par di vivere in un secolo lontano; non mi meraviglierei se per uno di quei tanti viottoli nascosti tra i lauri e i lecci, mi venisse d'improvviso incontro qualche figura del Rinascimento.
A Duino le giornate vengono distribuite quasi sempre allo stesso modo. Alle otto una cameriera porta la prima colazione in camera e ognuno dispone poi della propria mattinata come vuole: per lavorare, scrivere o leggere o passeggiare. A mezzogiorno suona nel cortile del castello una campana per chiamare a tavola la servitù, che si raduna nella sua simpatica stanza da pranzo, accanto alla cucina. Alle una si suona il gong per il pranzo dei familiari e degli ospiti. Il caffè viene servito sulla terrazza e poi v'è la siesta pomeridiana. Alle quattro, di solito, si fa una gita in auto nei dintorni a Trieste, Gorizia o Sistiana, oppure si prende il tè, sempre sulla terrazza. Ma le ore più belle sono quelle della sera, che si passano nella sala bianca o nel salotto rosso, suonando o leggendo ad alta voce.
Fu lì che la principessa lesse la Vita nova di Dante in italiano; lì per la prima volta sentii Rilke leggere Hölderlin, che egli ama tanto e di cui declamò Pane e vino [Brot und Wein] e una magnifica poesia sul mattino .
Rainer pone Hölderlin al di sopra di tutti i poeti lirici e lo si comprende quando si sentono delle poesie come il Reno e il Canto del destino [Der Rhein e Schicksalslied].
Delle sue poesie Rilke ci lesse il ciclo degli Zar e – quale contrasto – alcuni brani della Vita di Maria. È un poema che rivelò uno strano rapporto artistico tra lui e il pittore Heinrich Vogeler. Mi disse che me ne avrebbe parlato, "ma senza gli altri". Eppure gli altri lo vogliono quasi sempre per sé. A giorni ci si vede solo a tavola e la sera nel salone o nella galleria, quando siamo tutti riuniti.
Soltanto qualche volta facciamo soli, in due, il piccolo tratto di strada che va all'ufficio postale, per impostare delle lettere. Nella mattinata studio al piano i miei nuovi programmi e Rilke lavora nell'archivio del castello. Legge alcuni scritti su Carlo Zeno, l'eroe veneziano del mare, la cui vita lo interessa ora molto. Vi sono a Duino stampe e documenti di quel tempo e una vecchia biografia.
La principessa spera – e quanto di cuore me lo auguro con lei! – che Rilke cominci qui il suo libro, da tempo progettato, su Carlo Zeno.
Ieri la principessa e suo figlio, il principe Pascha, sono andati a Grado con il loro ospite americano. Questo vecchio signore si chiama di nome Orazio, "invece di William o John, che gli si adatterebbe molto meglio", osserva Rilke, che lo ritiene un originale. Non si riesce a capirlo, questo Orazio; di solito tace, succhiando una pipa inglese, piena di un tabacco che sa molto di miele. La principessa dice che l'americano stima molto Rilke "anche se non se ne fa accorgere", il principe Pascha invece è dell'opinione che non capisca assolutamente nulla in fatto di poesia. Sorgono così, a volte, delle divertenti piccole discussioni tra madre e figlio, e il principe n'esce quasi sempre vittorioso, con argomenti inconfutabili.
Ieri dunque erano partiti tutti e due con il vecchio e sarebbero tornati soltanto a sera. – Rilke ed io siamo stati tutto il pomeriggio giù al mare, presso la nostra dea di pietra. Mi ero preparata uno di quei ricamini che piacciono tanto a Rainer: un fazzolettino di batista bianca con un orlo a giorno molto fine, intorno a cui volevo ricamare, con della seta rosa, dei minuscoli fiorellini. Egli trova che quando si sta dietro a questi lavoretti delicati, si diffonde intorno un senso di tranquillità e bellezza – ed io mi ci metto a volte, non solo per preparare un regalo per la festa di mia sorella Maria, ma anche per fargli piacere. Alcuni giorni or sono, rileggendo le sue lettere, ho trovato questo brano che m'intenerì:

...Tu non sai cosa significhi per me di poterti stare a vedere quando ricami dei fiorellini chiari, di seta, sulla batista bianca – e se poi prendo un libro e leggo ad alta voce, e non posso così più guardarti, non ci sarà però in tutto il mio essere un solo punto che ignori che tu ricami dei fiori di seta sulla batista bianca, e che non si senta perciò come sotto una diretta, sacra protezione, che gli rende quasi impossibile di restar mortale. – Molti anni fa ho trascorso un inverno lontano, in un paese dell'Europa meridionale, in una villa da cui si vedeva il mare oltre il giardino sempre verde: eravamo solo in quattro: tre donne di età diversa ed io; una vecchia signora, la padrona di casa, una vedova, non più giovane e una graziosa giovanetta... C'erano delle sere (di visite ne venivan poche) in cui ci si rifiniva nell'ampio studio, vicino al camino; le signore con un ricamo ed io con un libro – e la serata si concludeva sempre così: la giovinetta sbucciava una mela per me.
Mi crederai, Benvenuta, se ti dico che per anni ed anni ho vissuto di quella mela, che non m'ero dovuto preparare da me? Di quelle serate? Di qualcosa che la prossimità e la dolce occupazione di quelle tre donne sembrava aver creato e raccolto in me? Ma sì, ancora molto tempo dopo, quand'ero già tornato a Parigi, c'era ancora un resto di... (di che mai?) di fermezza d'animo, di consolazione, di dolce refrigerio, nel mio intimo, e lo sentivo che veniva di là; ed era così presente, d'una evidenza così assoluta, che mi sembrava di vederlo svanire e diminuire, con terrore, di giorno in giorno, quanto più lo consumavo. – E là non si trattava che di un gesto! e, pensa, mi ha mantenuto in vita per anni ed anni...


"Anche le piccole cose possono essere incantevoli" dice uno dei più bei canti di Hugo Wolf nell'Italienisches Liederbuch (lo devo mostrare un giorno a Rainer) – sì, Rilke conosce "l'anima delle piccole cose" come egli la chiama – e l'ama. ––
Così ci avviammo, lui con il libro e io con il cestino, pieno di matassine di seta chiara, al nostro ritrovo preferito.
Rilke voleva leggermi l'ultimo capitolo del libro di Knoop, che non s'era potuto finire a Parigi, poi ci sedemmo sulla nostra panchina, con la magnifica vista sul mare, a lavorare e a leggere.
Quando ebbe finito, il discorso cadde sulle diverse forze che l'uomo a volte non s'accorge di avere in sé, ma che dominano la sua anima e a momenti ne sortono con violenza, come nel libro semi spettrale L'Alfa e l'Omega di Knoop.
"Credi tu", gli domandai, "che l'inconscio spesso assoluto possa venir espresso dal poeta anche nella sua forma creativa?"
Mi guardò a lungo sopra pensiero: "Sai, è difficile dirlo – può avvenire quel che pensi tu, ma anche il contrario. Quando un giorno a Parigi lessi la traduzione italiana (non quella della nostra buona Cecilia Braschi – soggiunse con un lieve sorriso) di una delle mie prime opere giovanili – il Canto dell'Alfiere Christoph Rilke – quel poemetto, trasposto in una veste estranea, ma ricca e cavalleresca, mi toccò il cuore. Lo lessi due volte ad alta voce, nella profonda quiete della mia camera; e la lingua straniera, per cui ho tanta simpatia, me lo restituiva come rigenerato in un altro sangue. Ripensai a quella notte di luna e di vento, in cui lo scrissi, e mi sembrò di aver scoperto allora il cammino più breve per penetrar nel mio cuore. È stato forse il ritratto giovanile di mio padre, che tu conosci, a spingermi a trattare quelle due notizie sull'Alfiere, sparse.dinanzi a me, come le avevo trovate in documenti d'archivio: come un razzo che, acceso da una scintilla del mio cuore in fiamme, saliva e segnava la sua parabola audace e fatale nella vasta notte del presentimento della mia vita – in una notte di lavoro sognante, ché allora la creazione non rappresentava ancora per me una responsabilità incalcolabilmente grande. Non supponevo allora come avrei ammirato poi quelli che muoiono giovani e la dolcezza che la loro morte par riflettere su di noi. Ma quando, più tardi, a Roma, mi apparve per la prima volta dinanzi, senza che me ne potessi spiegare la ragione, nel suo profilo spirituale, il personaggio immaginario di Malte, fui sconvolto quando subito sentii che doveva morir giovane."
"Hai pensato allora anche al piccolo Erik?"
Come se avesse atteso la mia domanda, Rilke continuò:
"Sì, quando tra le conoscenze di Malte, misi, creandolo con la fantasia, il piccolo Erik, furono gli stessi elementi che m'interessarono stranamente: e cioè la durata, le pause e i particolari dell'infanzia, che si compivano integralmente, persino in una vita qui n'aura qu'un tout petit lendemain transparent."
Tacque, guardando lontano, verso la distesa scintillante dinanzi a noi. Il mare era calmo, con trasparenze opaline al sole della sera; sopra a noi, tra i lecci, gli uccellini cantavano nella calda e spenta luce della sera.
Era un incanto sentir parlare Rilke; il suo mondo più intimo, migliore, si rivelava ancora, familiare, limpido e calmo.
"E poi?" – domandai.
Rivolse verso di me il suo volto tranquillo dicendo: "Ti voglio raccontare una strana storia, a proposito di creazione inconscia:
Enrico Vogeler ed io avevamo l'intenzone di pubblicare un libro insieme: si trattava delle mie poesie sulla Vita di Maria che Vogeler doveva illustrare. Gli mandai perciò il manoscritto. Ormai è passato molto tempo. – Senza pensarci, come si fa quando si è giovani, non avevo preso la precauzione di farne una copia. Dopo alcuni mesi Vogeler mi scrisse che non riusciva più a trovare le mie poesie, e che glie ne mandassi perciò un'altra copia. Ma questo, naturalmente era impossibile, non me le ricordavo più e ogni tentativo di riscriverle, fidando sulla memoria, mi. sembrò, riflettendoci sopra, impossibile. Le considerai perciò perdute e perdute rimasero. – Alcuni anni dopo restai, solo, per qualche mese a Duino, nella più completa solitudine, meravigliosamente solo, leggendo molto e lavorando poco. Un giorno, passeggiando in giardino, proprio nel sentiero che porta al "boschetto sacro", mi vennero in mente dei versi. Presi il mio taccuino e cominciai a scrivere; rileggevo e scrivevo senza tregua. – Ed ecco d'improvviso mi si ripresentarono alla mente i Canti di Maria! Tornavano in vita, mi si rivelavano di nuovo, in una maniera quasi incredibile, con un senso di consolazione, come se mi fossero familiari e li avessi sempre conosciuti."
Si restò un attimo in silenzio, tutti e due, immersi nell'incanto di quella giornata di maggio, nell'incanto di quella strana vicenda. Infine gli chiesi: "Credi che quelle poesie abbiano dormito in te e si sieno poi d'improvviso risvegliate?" Rilke guardava lontano, e il suo sguardo sembrava giungere al di là del mare, verso un'altra terra, ancora sconosciuta. "No", mi rispose sottovoce, "perché vedi, ora viene la parte inspiegabile di questa vicenda: poco tempo dopo Vogeler mi mandò il manoscritto, ch'era stato ritrova, dopo alcuni anni, per uno strano caso; ma le poesie erano completamente diverse da quelle che credevo di aver ritrovato nel giardino di Duino. Le, prime, al rileggerle, mi parvero scialbe, quasi senza rilievo, erano persino diverse per il contenuto. I veri Canti di Maria rimangono poi quelli che scrissi qui, in cospetto del mare, senza supporre che fossero un poema completamente nuovo."
Mi pare ora, che questa meravigliosa storia di Rilke mi abbia permesso di gettare uno sguardo profondo nell'intimo mondo del suo genio – e mi vien da pensare a una delle sue prime poesie, in cui par presentire non solo questa vicenda, che trascende lo spazio e il tempo, ma addirittura forse, l'intera sua vita:

Questa è la mia lotta,
sacra alla nostalgia,
vagar ogni giorno –
poi forte e vastamente
con mille radici
penetrar profondo nella vita
e nella sofferenza
maturar oltre la vita
oltre il tempo.

Com'è bello il maggio di quest'anno! I giorni son inondati di sole e le notti tiepide si passerebbero volentieri all'aperto, per guardare lo stormo errante delle stelle che, con tutte le sue innumerevoli luci, vaga raggiando per il cielo. Quando a sera i primi lumi di Trieste cominciano a scintillare incerti oltre il golfo, e il crepuscolo smorza tutti i colori, e ogni profilo svanisce in un tenue grigiore e le prime stelle tremolano nel verde pallido del cielo che si spenge, penso allora spesso alla poesia di Rilke Il lettore. C'è qualcosa di più suggestivo che uno spunto come questo?

Leggevo da tempo. Da quando il pomeriggio
era alla finestra scrosciando con la pioggia.
Più nulla udivo del vento fuori
greve era il libro...

E poi la fine, dove la visione si risolve in armonia e perfezione:

...allora la terra si sorpassa
par abbracciar l'intero cielo:
e la prima stella è come l'ultima casa.

Questa poesia potrebbe quasi esser stata scritta qui, ma Rilke mi disse che a quel tempo Duino gli era ancora sconosciuta. Son state le sere di Worpswede che hanno preso vita in questo sogno figurato.

***

Or non è molto, dopo una lunga conversazione sulla musica e sulle serate musicali, dissi alla principessa quanto sarebbe bello avere il pianoforte sulla terrazza; non ci sarebbe stato bisogno così di andare in casa per suonare.
La principessa guardò Rilke, con uno strano sorriso, ma non rispose. Anche lui non disse nulla. Quella sera essa ci parlò di D'Annunzio, per cui era venuto spesso nel castello a suonare un quartetto d'archi, poiché egli amava appassionatamente la musica. Sospirai, esclamando con tono nostalgico: "Oh Dio! come risuonerebbe qui il quintetto di Dvorák" – di nuovo la principessa e Rilke si scambiarono uno sguardo d'intesa. Dopo un poco la principessa Maria se, di punto in bianco: "Dunque cinque."
Quando, durante la passeggiata serale, si rimase soli per un momento, chiesi a Rilke cosa volessero significare quelle strane parole, ma anche questa volta non mi rispose che con un sorriso. Rimasi quasi mortificata a vedere che dietro le mie spalle, per così dire, si parlasse di cose che non mi si voleva confidare; ma quel mistero così gelosamente custodito, si svelò due giorni dopo.
Infatti ieri mattina comparvero nel cortile due automobili. Dal primo vennero scaricati un contrabbasso e un violoncello, dal secondo scesero – "cinque" signori con custodie di violini: era il quartetto triestino e il contrabbasso per il "Quintetto di Dvorák", come disse ridendo la principessa, quando vide la mia gioia e la mia sorpresa.
Fu una stupenda giornata di musica! Il primo violino, Jankowitsch, è un musicista eccellente, che ha preparato il suo quartetto magnificamente. In mattinata si suonò nel gran salone, da soli, per accordarci prima sui tempi e per affiatarci – nel pomeriggio la principessa Maria fece spingere in terrazza il pianoforte e portare i leggii.
Penso che questo concerto resterà il più originale e il più memorabile della mia vita.
Il pianoforte si trovava sotto un tetto di rose in fiore e di glicini! Bocci e fiori, lilla, gialli e d'un rosa tenue, pendevano, intralciandosi confusamente tra di loro, su tutta l'ampia terrazza; l'aria era satura di un dolcissimo profumo. E fu qui che sonammo Beethoven, Mozart, Schumann, Dvorák.
Dal fondo giungeva la voce potente del mare, e gli uccellini, nascosti tra i rami carichi di fiori, facevano udire i loro brevi e melodiosi a solo, durante uno scherzo o un adagio.
Non si riusciva a smettere e anche gli ascoltatori non si stancavano mai. Il sole tramontò, il cielo prese una tinta dorata, una leggera brezza scosse i rami della pergola spargendo petali di rose sul pianoforte. – Ma noi continuammo a suonare finché le prime pallide stelle non cominciarono a brillare nel cielo ancora chiaro e le nuvole, sospese sulle onde, non persero il loro colore rosato.
Fu un sogno di fiori, di musica, di profumi e di canti d'uccelli, in un castello che si levava sopra una roccia a picco sul mare e aveva intorno un paesaggio grandioso!
Per finire i quartettisti suonarono l'Adagio di uno degli ultimi quartetti di Beethoven; gli ultimi accordi del finale, di una bellezza sovrumana, si spensero nel crepuscolo.
Quella sera, quando tutti erano riuniti nella sala da pranzo, si parlò ancora a lungo e animatamente; la principessa era felice, Rilke tutto eccitato. Il quartetto di Dvorák gli era parso indicibilmente bello. "Quante trovate, quant'anima, quanta melanconia!" diceva. Qualcuno obbiettò che il destino di molti uomini grandi era appunto di avere una tragica fine. Mi venne in mente allora quel che Rilke mi aveva detto una volta a proposito di Beethoven: "...come ho capito che Beethoven doveva esser solo per creare simili opere! In favore della sua musica gli venne tolto  con l’udito l'ultimo interlocutore, perché stormisse ormai come la foresta vergine e dimenticasse ch'era possibile essere un altro, che ascolta la foresta vergine e ne ha paura..."
Verso mezzanotte i cinque musicisti vennero riaccompagnati in città. Mentre scendevano le scale, per partire, rimasi ancora un momento con Rilke nella sala; l'ultimo tempo che i nostri quartettisti avevano suonato, egli non lo sentiva più come un "linguaggio terreno", ma piuttosto come una rivelazione, di cui possiamo avere solo un presentimento: l'esprimersi di un'anima che, salita ormai in sfere più alte, ha tentato di portare nella penombra del nostro mondo imperfetto, un raggio dell'intima, superiore nobiltà, della "beatitudine più remota" di quel mondo a noi sconosciuto. Mi sembrava, osservai a questo punto, una inaudita crudeltà del cosiddetto destino, che a Beethoven non fosse stato mai concesso di udire questa musica. "Ma era egli stesso questa musica", replicò Rilke, ed il suo volto aveva un'espressione solenne, un'aria consolata e ispirata che non gli avevo più visto da lungo, lungo tempo.
E, quasi indovinando, come spesso gli capitava, una domanda non formulata, a cui rispondeva senza rendersene pienamente conto, aggiunse ancora: "Ci sono tante cose cui non potremo mai giungere, che non ci saranno più donate – e penso spesso a quel monaco della leggenda indiana – non diventa allora tutto più comprensibile?"
Caro, caro Rainer, oh se tutto fosse più chiaro e più semplice tra di noi, nella tua vita e nella mia!

***

Stamattina siamo stati nell'orto del castello e Rilke mi ha mostrato una specialità di cui va fiero il principe Pascha: delle violette, che assumono qui le proporzioni di una pianta, seguendo un procedimento culturale veramente singolare. I piccoli tronchi, alti mezzo metro, terminano con una corona di fitte foglie verdi, in mezzo a cui spuntano delle violette profumate, scure o chiare. Come questi piccoli prodigi vengan coltivati, resta un mistero. E il segreto dei fiori a Duino! Son piantati in due file dinanzi alla serra, al sole; par di vedere un viale in miniatura; le piccole chiome danno perfino un po' d'ombra. Quest'orto è un regno a sé,  con i suoi vivai sotto vetro, dove si coltivano fragole e tenere verdure. In bei quadrati crescono carote, spinaci e il famoso cavolfiore italiano. Piselli e fagioli in fiore si arrampicano su per lunghi pali; nella serra poi passano la loro nobile esistenza orchidee, garofani, ciclamini e ogni specie di palme e piante ornamentali. Un profumo delizioso invade questo regno caldo e umido, nel cui centro una piccola vasca di pietra, con dei pesci rossi, raccoglie lo zampillo di una fontanella. Tutte le bordure di bossolo all'aperto, hanno fronde novelle; com'è semplice e deliziosamente antiquato lo stretto viottolo di pietra, là dietro, che porta al "boschetto sacro"! Là, sotto gli alberi c'è ombra, ma all'ingresso, sul muricciuolo della nicchia presso al cancello, delle lucertoline brune si scaldavano al sole.
E qui potemmo assistere a un grazioso episodio della vita degli animali. Rilke s'interessa sempre così profondamente all'esistenza di ogni creatura. Quanto amore e quanta comprensione egli non dedica agli eventi più modesti, che la maggior parte degli uomini trascura senza accorgersene!
Eravamo seduti sul muricciuolo, osservando i minuscoli ragni rossi, gli scarabei d'un verde cangiante, gli insetti dalle ali leggere, diafane, e chiare, che davanti a noi cercavano la loro via tra piccole macchie di borraccina, scaldata dal sole, e l'arida terra.
"Guarda", mi disse Rilke, sempre attento mostrandomi una formicuzza nera. – Correva sul tiepido muro di pietra, arrampicandosi coraggiosamente sulla sua mano, per continuare poi il suo cammino in furia, come se cercasse qualcosa. Ed ecco, l'aveva trovata: era un sottile, piccolo petalo, tutto accartocciato e già secco. La formica riuscì ad afferrano ma non a spingerlo bene innanzi, perché la fogliolina era parecchie volte più grande di lei. Ma non per questo si dette per vinta. Strascicò faticosamente per un poco il tesoro scoperto, poi si fermò un momento come per riposarsi. In quell'istante però un leggero fiato di vento portò via il petalo, rotolandolo molto più in là del punto in cui era stato trovato. – Rilke, avendo seguito ogni movimento con la massima simpatia, mi chiese: "Devo aiutarla?" "No" esclamai," pensa al tuo scarabeo che voleva salire sul filo d'erba e ricadeva sempre giù – ma neanche il buon Dio l'aiutava, e noi siamo soltanto delle creature umane – che penserebbe la formica di noi?"
Ma Rainer rimase serio. "Hai ragione", disse, "forse ha uno zio o una cognata che possono aiutarla!"

Quando tornammo a guardare in quel punto, la formica era sparita. Ora anch'io n'ebbi dispiacere e dissi: "Ormai ci ha rinunciato!" Ma Rilke non ci voleva credere, e mi consolò dicendo: "No, è andata a prendere lo zio." Ci venne da ridere a tutti e due – ed infatti ecco tornare la formica che s'era trascinata dietro non solo lo zio ma anche la cognata! In tre afferrarono insieme senza incertezze quel tesoro sfuggito e, in un batter d'occhio, raggiunsero la loro meta: una crepa nel muro in cui infilarono la fogliolina e vi scomparvero, "come dei facchini, che trasportano in una cada un pianoforte" osservò Rilke con un sospiro di sollievo, contento del buon esito della spedizione.
A tavola, a mezzogiorno, raccontò l'episodio delle formiche, in ogni particolare, alla principessa, che si mise a ridere: "Siete come due ragazzi, con la testa piena di fantasticherie!" disse nel suo simpatico dialetto austriaco, che parlava volentieri quand'era allegra, "ma vi comprendo. Nel 'boschetto sacro' ho stretto, da bambina, le mie prime amicizie con ogni specie di animali – e sono certa, Serafico, che c'era tra di loro anche la bisnonna della vostra formicuzza!"
La conversazione cadde poi sui libri che erano allora di moda e che, secondo il principe Pascha, rispondevano al gusto dei "troppi", come dice Nietzsche; tutti li comprano, li leggono, li lodano e li raccomandano. Rilke rimase spaventato da questa constatazione, ma la principessa non fu del suo parere, anzi osservò ch'era una cosa perfettamente normale: la massa legge appunto delle sciocchezze; le opere grandi, quelle che significano qualcosa, erano riuscite ad imporsi in ogni tempo con gran difficoltà. – C'era sempre stata una piccola cerchia di persone, veramente spiritualmente superiori ed esperte d'arte, che aveva insegnato al resto del mondo, che cosa fosse grande e significativo.
L'americano non era però di questo parere e diceva che l'arte vera è soltanto quella che risulta comprensibile a tutti.
La principessa si mise a ridere: "Ma, mio caro, crede Lei che Goethe sia divenuto grande per merito della massa del pubblico – o forse che il mio cocchiere a Lautschin sia in grado di giudicare il valore delle Sinfonie di Beethoven? La massa del pubblico un'autorità competente? Ma via! In tutti i tempi è stata ostile ai nostri geni; c'è voluta sempre – quando è stato possibile – la funzione educatrice dei singoli. Infatti: se, per esempio, capita che uno dica a un altro 'questo è bello' e riesce a dirlo con una certa convinzione, molti finiscono pian piano per crederlo – e forse alla fine piace loro davvero. Ma con le sue forze, la massa del pubblico non c'è mai arrivata. Ne avremmo viste delle belle se la massa avesse dovuto giudicare se uno Schopenhauer fosse grande – o no. I suoi scritti furono adoperati per involtarvi il formaggio, sicuro, e il salame per le ragazzette di servizio. E il vecchio Bach, per un secolo è quasi scomparso, sinché un singolo, e precisamente Felix Mendelssohn, non l'ha nuovamente scoperto e rimesso in luce."
Ma l'americano non si lasciava persuadere: non gli sembrava proprio giusto, diceva, fidarsi, in fatto di cultura, soltanto di una determinata classe di persone. Credo che Rilke pensasse in quel momento a Marta e al suo anelito verso tutte le cose belle e grandi, perché guardava con aria triste la principessa, che però scosse la testa e si rivolse ancora all'americano: "Caro Orazio, Lei non intende quel che voglio dire. L'umanità non è distribuita in scompartimenti. Quando uno ha talento o genio, non c'è classe che tenga, si tratta sempre dell'esistenza di una personalità. Il nostro grande e immortale Beethoven, amico di tanti principi, era il figlio di un ubriacone e d'una donna di servizio, o qualcosa di simile – e se il figlio della mia guardarobiera fosse un genio, lo aiuterei certamente ad elevarsi – anzi, a proposito, la vecchia principessa Reuss invita sempre a suonare in quartetto l'antico suo aiuto-giardiniere, divenuto ora un eccellente violinista. – Ma che la folla, la massa del pubblico – e cioè anche le mie sguattere e gli stallieri, insieme alle garzone – abbiano anche loro a giudicare se il nostro Padre Serafico sia – o non sia un gran poeta, questa è una cosa che non vuol entrare nella mia vecchia testa!"
Tutti risero, perfino l'americano atteggiò la bocca ad un sorriso, si dette per vinto e tornò subito al suo consueto silenzio. La principessa disse ancora concludendo, agli altri: "Occorre da questo principio dedurre le conseguenze estreme e, per esempio, stimare un calzolaio in quanto è un calzolaio, se cioè risulta un buon artigiano e una persona per bene – ma non si può pretender da lui che legga la Divina Commedia, perché ci si annoierebbe mortalmente. Ci vogliono d'altronde ceti differenti e Dio ha disposto le cose in maniera che noi uomini ci potremo far ben poco."
Detto questo si levò da tavola; Rilke che aveva seguito attentamente il discorsetto della principessa, le baciò la mano dicendo che, se il problema dell'intesa tra i popoli si risolvesse in tutta la terra nel modo da lei proposto, allora invece della fine del mondo, predetta tante volte e attesa in un lontanissimo futuro, si avrebbe una eterna rinascita del globo terrestre.
Gli altri ospiti si ritirarono nelle loro camere, Rilke ed io scendemmo invece, attraversando il giardino, al nostro angoletto preferito sulla riva del mare. Ammiravo le vedute larghe e profondamente umane della principessa e Rilke osservò che il suo modo di vedere così liberale, risultava ancor più sorprendente, in quanto essa era stata educata in una atmosfera spirituale rigidamente feudale, secondo i principi di una madre estremamente orgogliosa della sua nobiltà e rigorosamente cattolica –. Ma già da piccola, quand'era la principessina Hohenlohe aveva sentito – a giudicare dai suoi diari giovanili ch'egli aveva letti – un impulso irresistibile per l'indipedenza e una comprensione per l'umanità e l'arte, che superava di gran lunga il livello consueto e le tradizioni della sua cerchia. Rilke stesso confessò di dover molto al suo giudizio meditato.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, riparlò delle sue Elegie – che ha intenzione di leggerci – e se non avessi già saputo, nel mio intimo, con quanta intensità, purezza e nobiltà di sentimenti egli pensa alla sua vocazione poetica, non l'avrei potuto comprender meglio di quel che egli stesso mi rivelò. Per la suggestione dei discorsi fatti a tavola, si tornò a discutere sui libri buoni e cattivi, sui poeti e la loro responsabilità dinanzi alla propria opera. Rilke ricordò un brano d'una lettera di Carolina von Schelling, in cui è scritto che non c'è d'aspettarsi più frutti buoni da chi ne ha dati una sola volta di cattivi. Gli chiesi se questa asserzione non fosse troppo severa, perché c'è chi sbaglia, ma anche, e spesso, chi cerca con la migliore buona volontà di riparare gli errori commessi.
"Vedi", mi rispose, "non l'intendo in questo senso, ma mi riferisco alla misura d'arte che uno è capace di produrre, perché (mi par di avertelo già detto un'altra volta): chi in arte si contenta anche una sola volta di un'opera inferiore a quello ch'è il suo massimo livello creativo in quel momento, ha perduto per sempre la possibilità di dare il suo capolavoro; ogni volta che mi veniva in mente un essere simile, inorridivo sempre a pensare a coloro che, per così dire, a tempo perso, con un qualche stanco resto di forza creativa, si mettono a un lavoro d'ordine inferiore,  con l’illusione di poter poi, a loro comodo, creare ancora qualcosa di buono."
Avevo sentito dire una volta da uno scrittore di notevole fama, che egli aveva bisogno di mettersi in una certa "Stimmung" per riuscire a lavorare, e Rilke osservò ch'era proprio questa una constatazione dolorosa: di vedere cioè che alcuni artisti credevano di dover produrre a ogni costo, di voler fare "un gioco di prestigio", come quei giocolieri indiani, che istantaneamente fanno germogliare una pianta sotto a un vaso capovolto. "Io non ho mai voluto fare tali giochi", continuò Rainer, "né prender un veleno che mi facesse splendere il sangue come un fiore velenoso; il mio cuore non ha mai ribollito per il fermento di bevande, che l'avevano inebriato; quando traboccava, obbediva alle incontrastabili leggi della marea – e quando mi sentivo ispirato, era opera di quello spirito ineffabile, meraviglioso, che non si può invocare né implorare." – Pose la sua mano sul mio braccio, i suoi occhi mi fissarono come fossero illuminati da una luce interiore. "Benvenuta", disse, "parlo a Dio ch'è in te, a te posso dirlo – la mia vita, nel suo aspetto umano è in certo senso fallita, io lo so – ma la mia arte è pura – nella mia casa le colonne d'oro s'innalzano come i tronchi nella foresta, e nelle immagini disegnate sulle tende, non c'è un filo che non sia intessuto dei colori più puri e più belli. Come Dio mi deve aver assistito, se mi è dato di parlare così!"
Respirò profondamente, si appoggiò sulle spalle, come per far rinfrescare il suo volto ardente, dalla brezza marina. "Grazie" gli dissi – e non mi riuscì di nascondergli che m'erano salite le lacrime agli occhi. Muti sedemmo tra lo splendore dei fiori e muti ci avviammo poi per il sentiero per salire al castello, dove la realtà subito ci riafferrò: sul portone la principessa Maria attendeva con il mantello addosso e un berretto d'automobile in capo. "Meno male che siete venuti!" ci gridò, "vi ho fatto cercare dappertutto. Volete accompagnarmi ad Aquileia? La vettura vi aspetta!"

***

Siamo stati in automobile a Gorizia e a Sistiana, la deliziosa stazione balneare che appartiene alla principessa, e abbiamo ammirato i nuovi parchi e le belle vedute; passando poi per Opcina, siamo arrivati fino a Trieste ove ho suonato in casa Hohenlohe, trascorrendo così un piacevole pomeriggio – ma di tutte queste escursioni la più strana è stata quella d'Aquileia, e anche la più tetra e triste.
Il tratto sino a Ronchi e Monfalcone, traversato l'Isonzo, è di per sé bello; se al nostro arrivo, Rilke ed io non avevamo vista che l'oscurità della sera e la pioggia, ora invece il paesaggio si rivelava in pieno sole. Il golfo di Trieste pareva come immerso nella luce, le insenature e le isole lontane scintillavano nello splendore del primo pomeriggio. Vicino a un paesino, la principessa ci mostrò, passando, il bel parco e la villa della ex imperatrice Eugenia di Francia; poi ci s'avviò per una strada diritta come un fuso, interminabile e malridotta, che ci portò, traversando un paesaggio pietroso, pieno di frane e di case abbandonate, sino ad Aquileia.
A guardare quelle poche abitazioni, in gran parte oscure e miserabili, si stenta quasi a credere che qui si sia innalzata una delle più grandi città dell'evo antico. Per un vicoletto, in cui compaiono alcune case in migliore stato, si giunge al Duomo, dove la principessa ci mostrò il mosaico, che da poco è stato scoperto sotto il pavimento di pietra della chiesa, e riportato alla luce. Tra le macerie, che solo in parte son state rimosse, si scende quasi per l'altezza di un mezzo piano e s'arriva al pavimento originale della chiesa. I mosaici, conservati miracolosamente, hanno quasi settecent'anni, mi diceva Rainer.
Raffigurano, con bellissimi colori, motivi ornamentali da arazzi, allegorie, immagini di santi, e anche personaggi che hanno l'aria molto pagana: un guerriero, una dea della vittoria. Nel Duomo, e precisamente nella cappella di Sant'Ambrogio, sono sepolti i Patriarchi Della Torre, progenitori della principessa Maria, che ci raccontò che qui ad Aquileia, durante la Messa cantata, vien eseguito da centinaia d'anni il cosidetto Cantus patriarchinus, che non si può ascoltare in altra chiesa del mondo – un privilegio questo che la cattedrale sembra aver ottenuto sin dai tempi del primo Cristianesimo, probabilmente da Sant'Ambrogio in persona.
Ma ora, chi ascolta questo antichissimo e mistico canto? Alcune povere donne, il proprietario della botteguccia sulla cantonata e i pochi bambini del paese! Che sconfortante decadenza!
Mentre gli altri si trattenevano ancora nel Duomo, Rilke ed io andammo girovagando tra le antiche lapidi che si trovano in prossimità della chiesa, tra resti di colonne e macerie di palazzi, demoliti da lungo tempo. Rilke è stato spesso qui, si sente attratto da questa misteriosa terra e vuoi bene al cimitero, in cui si trovano i cipressi più grandi e più belli ch'io abbia mai visto. Mi disse che proprio in quel punto doveva innalzarsi a suo tempo il palazzo dell'imperatore Augusto, in cui il sovrano ospitò una volta il re Erode di Giudea, che s'era arrischiato a compiere quel viaggio in mare, lungo e pericoloso, per visitarlo. Dio solo sa a quale scopo!
Spaventosa, sanguinosa, – piena di assassinii e di lotte, è la storia di questa città, da secoli distrutta e ormai morta. Ma dalle sue rovine risorgono le ombre di eventi spersi in un millennio, come se si rivivessero rievocandoli in un sogno ad occhi aperti.
Quasi simbolo vivente di un dolore senza fine, abita qui un giovane sacerdote impazzito, per essersi trovato a Messina al tempo del terribile terremoto. Rilke racconta che a sera s'intendono a volte i suoi urli e il suo lamento disperato sin alla strada provinciale, per un buon tratto. Due monache curano il disgraziato.
Gli altri stavano venendo dalla chiesa – (non mi pareva vero di lasciare quella triste città) – perché la principessa voleva tornare subito a casa. Salimmo in automobile e presto Aquileia era scomparsa, come una tetra visione. Dal mare un vento freddo soffiava verso terra; si fece notte. Fummo tutti lieti e come sollevati, quando, finalmente, le finestre illuminate del castello di Duino ci salutarono come antiche conoscenze.
Il soggiorno tranquillo a Duino aveva rinforzato Rilke, tanto che gli attacchi di febbre e i violenti dolori di testa non si ripetevano più, ma egli si faceva però sempre più silenzioso e dormiva a lungo – quasi sempre usciva di camera a mezzogiorno –; quanto al lavoro, pareva proprio che fosse finita. Nell'archivio non era stato più da molto tempo e anche allo studio dei documenti su Carlo Zeno aveva rinunciato. A sera ci leggeva a volte qualcosa, sempre – Hölderlin e qualche sua traduzione da André Gide e dalle ardenti e sconsolate lettere di Marianna Alcoforado. S'immergeva in pensieri e in libri, lontani e ostili alla vita, – in questo periodo, per la prima volta, si produsse tra di noi una specie di screzio che, esteriormente, non sarebbe certo potuto chiamare così, tanto impercettibile era l'oscillazione dei diversi pareri, ma che era fatalmente fondato nell'orientamento – differente delle nostre due esistenze. Ed eccone il motivo: Rilke aveva ricevuto – credo direttamente dall'artista che le avevi segnate – delle figure colorate di bambole [Si tratta evidentemente dei disegni di Lotte Pritzel (Lipsia 1921)] e me le mostrò. Sembravano figurazioni di una mente intormentita dagli stupefacenti o malata. Mi parvero orribili e rimasi sconvolta quando Rilke mi disse che le trovava "di una bellezza commovente". Replicai: "Quel che dà sempre la misura del valore artistico di un giocattolo è vedere se piace ai bambini; ma dinanzi a questi spettri qualsiasi bimba sana e innocente si spaventerebbe." Mi par ancora di vedere quanto gli occhi di Rilke si fecero scuri, come avveniva sempre quando era convinto di una sua idea. Quasi per scongiurarmi, disse: "Ma vedi, con la loro esistenza i bambini, in certo senso, non hanno più nulla a che fare; sono come adulti che provengono da una infanzia di bambole; hanno oltrepassato la comprensione infantile, hanno iniziato, per così dire, una propria vita indipendente." Osservai che allora quella loro infanzia di bambole e il loro rapporto  con i bambini, dovevano esser stati molto equivoci, se dalla idea di un innocente giocattolo poteva nascere l'idea di una mostruosa negazione dei giocattolo. Ma Rilke quasi s'infuriò: "Un giocattolo si consuma, si logora" gridò, "e non mi dire che sia un fatto trascurabile che un giocattolo si sciupi; non ci vuoi forse tutta l'infinita innocenza dei bambini per togliere, una volta per tutte, ogni colpa a tutto quel ch'è corrotto e sporco in lui? Se t'immaginassi che un simile oggetto si fosse sfigurato e corrotto nelle mani di un adulto, ne sentiresti un orrore infinito."
No, non ero davvero del suo parere, quando egli sosteneva che le bambole, con cui si giuoca da piccini, erano senz'anima e che invece ne avevano una queste orribili figure di "bambole adulte". La mia prima bambola, di cui mi ricordo, mi fu regalata quando compii tre anni. Il suo vestitino da contadinella sapeva di canapa e di terra, il suo grembialino era rosso come un campo di trifoglio e la sua cuffietta aveva un orlo ricamato di pratoline. Divenne la confidente della mia infanzia. A lei raccontavo le mie pene e le mie esperienze, di cui i grandi non avevano un'idea. Lei invece comprendeva tutto.
"Ma questo dipendeva soltanto da te", ribatté Rilke, "perché eri tu a immaginare un'anima, l'anima della bambola. Nella tua gioia creativa tu le avevi dato la tua anima, che esisteva in lei, ma per merito tuo."
"Rainer", risposi, "non so fare dei ragionamenti così complicati. Ho l'impressione che tutto ciò non sia che un travisamento della buona, sana e semplice realtà." Ma Rilke era oramai interamente preso dalla passione di farmi capire le sue ragioni, perciò tirò giù dall'armadio un quaderno di una rivista: Weisse Blätter, e cominciò a leggere:

(Weisse Blätter, marzo 1914)

...nutrite d'un cibo illusivo come il 'Ka'; abituate ad imbrattarsi, viziate, di realtà, quando si insisteva a somministrarla loro; impenetrabili e all'estremo stadio di una pinguedine anticipata, incapaci di assorbire in un qualsiasi punto anche una sola stilla d'acqua; senza un'opinione propria, arrendevoli verso ogni straccio eppure, non appena se lo fossero appropriato, padrone in una loro particolare maniera, sciatte, paghe di sé, impure... trascinate per le mutevoli emozioni del giorno e impigliate in ognuna di queste; fatte confidenti e complici come un cane, non come lui però ricettive e dimentiche, ma divenute un peso in tutt'e due i casi; iniziate alle prime indicibili esperienze dei loro proprietari; abbandonate qua e là nelle loro primissime inquietanti solitudini, come nel mezzo di stanze vuote, quasi solo importasse sfruttare grossolanamente il nuovo spazio con tutte le membra; portate nei lettini infantili, trascinate nelle pesanti pieghe delle malattie; ricorrenti nei sogni, avviluppate nei destini delle notti di febbre: tali erano quelle bambole. Ché mai si scomodavano in tutte quelle vicende e giacevano invece all'orlo del sonno infantile, tutt'al più occupate dal rudimentale pensiero di cader giù; abbandonandosi al sogno, com'erano avvezze ad esser infaticabilmente vissute di giorno con fork estranee.

Forse Rilke sentì quanto tutto ciò mi urtasse, perché, interrompendosi, mi domandò: "Devo continuare?"
Accennai di sì con la testa, volevo sentire, volevo sapere se egli riusciva a trovare una via d'uscita, una luce rasserenante. – Così Rainer continuò:

...se si considera quanto sieno grati gli oggetti, di solito, per ogni tenerezza che ricevono, come ne godano, anzi, come persino il più duro logorio (pur che si amino) operi su di loro come una carezza, che li consuma, sotto cui magari vanno scomparendo, acquistando però, per così dire, un cuore – se si riflette a tutto ciò e si rammenta di quale delicata bellezza si sieno saputi impregnare certi oggetti, che furono implicati nella vita umana, ampiamente e intimamente – e non penso che sia neanche necessario traversare a Madrid le sale dell'Armeria, ammirando le corazze, gli elmi, i pugnali, i guantoni di ferro, in cui la pura e sagace arte degli armieri vien infinitamente superata da qualche cosa che ha infuso in quelle armi l'uso altero e ardente – tralascio la passione, la tenerezza, il sognante abbandono di molte cose, che mi hanno sovente turbato, mentre passavo loro d'accanto, per la bella radice che avevano affondato nella vita umana; solo oggetti semplicissimi vorrei rapidamente evocare: un tavolino da lavoro, un arcolaio, un telaio casalingo, un guanto da sposa, una tazza – per non parlare della grande volontà d'un martello, della dedizione di un violino, del benigno zelo di una lente... Se si richiama alla mente tutto questo e si ritrova in quel medesimo istante – traendola da un mucchio di oggetti a noi più sensibili – una delle nostre bambole –: quasi ci rivolterebbe la sua terribile crassa smemoratezza; l'odio che, inconscio in noi, costituiva certamente una parte dei nostri rapporti verso di lei, eromperebbe allora; smascherata essa starebbe dinanzi a noi, come l'orribile corpo estraneo in cui si sperperava il nostro calore più genuino: come simulacro d'annegato pitturato alla superficie, che si lasciava sollevare e portare dalle inondazioni della nostra tenerezza, finché non tornava a essere aridi e lo si dimenticava in qualche sterpaglia.

Avevo ascoltato con una strana, duplice sensazione: di ammirazione e di tristezza. Mi commoveva ancora una volta profondamente quella sua particolare intensità d'interpretazione e raffigurazione delle cose, in cui si rivelava un dono poetico senza pari. Pur tuttavia su tutta quella bellezza incombeva l'ombra d'un pensiero ostile:
"...non posso fare a meno di pensare che ci sieno stati certi pomeriggi, troppo lunghi, in cui le nostre sdoppiate fantasie si stancavano, e sedevamo d'un tratto innanzi alla bambola, aspettando qualcosa da lei. Probabilmente lì vicino si trovava uno di quegli oggetti, che son per natura già brutti e miseri e perciò pieni di opinioni proprie: la testa di un burattino, che non si poteva distruggere, un cavallino mezzo rotto, oppure qualcosa di rumoroso, che non vedeva l'ora di assordare noi e l'intera stanza con tutte le sue forze... ma se non c'era nulla che ce ne distraesse, se quella creatura oziosa continuava, goffa e stupida, a pavoneggiarsi, ignara, come una Danae rusticana, di tutto, fuor che dell'incessante pioggia d'oro delle nostre immaginazioni: vorrei potermi rammentare se allora si prottava, scattando incolleriti e facendo, intendere al mostro che la nostra pazienza era alla fine? E forse, tremando di collera non ci siamo piantati dinanzi a lei per sapere a che fine adoperasse il nostro calore?... allora essa taceva – era la sua solita scappatoia – perché era costituita di una materia assolutamente inutile e irresponsabile – taceva, e non le veniva nemmeno in mente di vantarsene, per quanto quel silenzio le avrebbe potuto dare importanza, in un mondo in cui il destino, anzi Dio stesso, son divenuti famosi perché ci fronteggiano con il silenzio... Chissà se in questo o in quello non continui ad agire funestamente la sua bambola, così che egli va in cerca di vaghi appagamenti, soltanto per un senso di contraddizione verso quel sentimento d'insoddisfazione, con cui essa ha guastato il suo animo? – Ricordo d'aver veduto nella casa padronale di una remota tenuta russa, tra le mani dei bambini, una vecchia bambola ereditata di madre in figlia, cui tutta la famiglia somigliava... Se malgrado ciò, vile spoglia, non ti abbiamo poi innalzata a nostro idolo, e non fummo sommersi dalla paura che incutevi a noi, è che, te lo voglio dire, non si pensava per nulla a te. Si pensava a una cosa affatto diversa, invisibile, si pensava ad un'anima: l'anima della bambola.

...Grande anima coraggiosa del cavallo a dondolo! – ch'eccitava l'aria della stanza da giuoco, tanto da rovesciarsi, come nei famosi campi di battaglia della terra; anima fiera, degna di fede, quasi visibile! Come facevi tremare i muri, le crocere delle finestre, gli orizzonti quotidiani, quasi già le tempeste del futuro battessero a quei labilissimi accordi, che potevano assumere nell'indugio ei pomeriggi qualcosa di tanto insormontabile! Ah, come trasportavi lontano, anima del cavallo a dondolo, il tuo cavaliere, nell'irrefrenabile mondo eroico, dove si soccombeva gloriosi e ardenti con il più terribile scompiglio nei capelli. Tu allora giacevi là accanto, bambola, e nop avevi tanto innocenza da comprendere che il tuo San Giorgio cullava sotto di sé la fiera della tua ottusità: il drago, che lasciava diventar massa, di una perfida, indifferente infrangibilità, in te i nostri più fluidi sentimenti..., e infine nessuno ti teneva più e scivolavi calpestata sotto i piedi. [Rilke, Bambole, Firenze, Fussi, 1949]

Ebbi improvvisamente la sensazione di dover piangere senza ritegno, e senza tregua – "Rainer", dissi, "non ti posso più ascoltare, perdonami, ma in qualche modo mi fa male – e certo è stupido e puerile da parte mia, e non so neanche perché la vicenda del tuo odio verso le bambole mi affligge tanto – perché in fondo è il tuo odio e non il mio – ma non ti posso seguire. Lo trovo orribile; non si tratta neppure di questa discussione, di una evidenza poetica incredibile, si tratta per me probabilmente soltanto dello sminuzzamento e della distruzione dei sentimenti e delle gioie più semplici, più innocenti. Mi comprendi?"
Mi guardò con un sorriso triste e con un senso quasi d'abbandono, che mi sconvolse – allora mi levai e andai al pianoforte. Sentivo di dovermi in qualche modo liberare – e fui felice d'immergermi nella pura sonorità di una fuga di Bach, come in una sacra onda di vita.
Quando ebbi finito e mi voltai, la poltrona di Rilke era vuota.

***

A Duino la vita continuava. Il diario di quel periodo contiene per lo più solo brevi annotazioni, come per esempio: sono stata di buon'ora con la principessa e Rilke sulla terrazza; poi ho suonato. Rilke sente così bene quanto sia prezioso il silenzio dopo aver ascoltato e sa ascoltare come nessun altro. Ama tanto la Marcia funebre di Chopin, da dire di considerarla una delle creazioni musicali più perfette. In questa melodia veramente immortale – dice Rilke – Chopin ha espresso tutta la tragedia della sua vita; è come il suo destino: triste e sublime. "Tragicità", questa parola tornava sempre nei suoi discorsi. Era la mia disperazione, lottavo contro di lei, mi veniva dinanzi, ostile, ovunque. – Poi venne un sera, una sera fatale. Il diario ne parla:
Rilke ha letto oggi dei brani delle sue Elegie; sono l'immagine di lui stesso, com'è ora – o com'è sempre stato? – chi lo può sapere?
Mi sembra assolutamente impossibile che egli non le porti a fine. Posso però capire che quest'opera, creata nel dolore, esiga, probabilmente, la definitiva rinunzia a una esistenza umanamente placata e riscaldata dall'affetto. Comprendo ora cosa egli intenda, quando accenna alla sposa del marinaio, che ha il dovere di dire al suo uomo di partire a lui che pur ha da vivere in terra straniera, lontano dal focolare domestico, in mezzo ai pericoli.
Queste liriche mi hanno scosso profondamente ma nello stesso tempo ebbi anche la sensazione ch'erano assolutamente ostili alla vita e che tutto il mio animo si ribellava a loro. Nelle ore insonni di quella notte mi chiesi, disperata, nell'oscurità: perché mai un poeta, che sa comprendere così profondamente i sentimenti umani, esalta il dubbio, l'angoscia, la rinuncia, la rassegnazione? Dov'è l'affermazione della vita, il coraggio di combattere in piena luce, la radiosa speranza di una vittoria? Con questi pensieri tradisco forse Rainer, lui, Fra Angelico, l'amata voce consolatrice d'una volta? – Ma è proprio questo –: d'una volta, perché ormai sono costretta a convincermi ch'egli si manifesta pur sempre nel dolore, perché non può fare altrimenti. Dov'è andato il suo ardente entusiasmo, il suo affettuoso umorismo, la sua gioia?
Sì, tutto è cambiato. Quando siamo insieme sento, come sempre, che la sua presenza è per me una grande fortuna, un'esperienza infinitamente bella, mi pare però che in lui prenda il sopravvento lo spirito che lo trascina sempre più verso la negazione della vita. Lo sento, in tutto quello che scambievolmente ci si dice. Prima, accanto a una forza oscura, v'era, a equilibrarla, pur tanta luce, tanta spensieratezza. Ora però questa forza si è fatta minacciosa. Sono anch'io forse la causa di tanto turbamento? Dovrei avere il coraggio di parlare apertamente di noi e del nostro avvenire? Ma mi sento forse già tanto sicura di me, da poter dire una parola definitiva?
La principessa, con il suo affettuoso intuito materno, sa che fra Rilke e me vi sono delle bmbre, che è meglio non evocare perché, in questo caso, si dileguerebbero solo per trasformarsi poi in una nebbia ancor più fitta.

***

Il soggiorno a Duino volge alla fine. La principessa Maria desidera andare a trovare i suoi amici a Venezia, nel cui antico palazzo, sul canale San Vio, le è riservato un piccolo "buen retiro" di alcune stanze. Come era già stato fissato prima, si doveva ancora passare una settimana insieme a Venezia. – Ed ecco principiar un penoso tira e molla. La mattina Rilke s'era risoluto a venire, la sera invece cambiava idea; poi diceva che ci avrebbe raggiunto dopo; infine mi chiedeva se non volevo venire con lui. Non passava ora in cui non si stabilisse qualcosa, per poi buttar tutto all'aria subito dopo. Finalmente fu la principessa a fissare che sarebbe partita con me, e Rilke ci avrebbe raggiunto, come e quando gli fosse piaciuto.
Addio Duino! No, la vita non era divenuta più chiara, come con tanto calore l'avevo desiderato e sperato, lasciando Parigi. In quei giorni pieni di sole il temuto futuro non si era nascosto che per alcune ore, la luce l'aveva avvolto e negato la sua presenza. Il giorno trionfava di molti pensieri inquietanti. Ma ora, che si doveva congedarsi da questo luogo, riapparivano e angustiavano il cuore.
Alla vigilia della partenza pioveva, il temporale stava devastando il giardino, e non era possibile andare all'aperto; vennero portati i bagagli, mentre la principessa dava ordini alla servitù per il tempo della sua assenza e Annina mi faceva intanto le valige. Rilke, la principessa ed io, passammo tutta la mattina nel salone bianco, e io suonai per loro per circa un'ora. Rilke era fosco e laconico, ne seppi poi la ragione. Quando fummo soli mi fece leggere una lettera di sua madre, che era arrivata con la posta del mattino. Cominciava  con l’apostrofarlo: "Uomo meraviglioso", continuava poi confidandogli di aver partecipato a certi esercizi spirituali, e parlandogli di alcuni santi, a cui aveva raccomandato particolarmente la salvezza dell'anima del figlio; lo pregava di "non esser tiepido nella vera devozione di un fervente cattolico", rammentandogli infine d'inviarle presto un pacco di guanti da ripulire, perché evidentemente aveva dimenticato, e invece doveva pur ricordarsi, ch'era esclusivo privilegio di lei, di lavare i suoi guanti!
Gli resi la lettera senza dir nulla, cosa si sarebbe mai potuto dirgli? Mentre la ripiegava nella cartella, lo intesi mormorare, con un fil di voce, e con tono quasi interrogativo: "...Madre?"
E mi fece così male vederlo passar la mano, quasi in segno di perdono, su quei fogli scritti da una donna a lui estranea che, come diceva, "aveva messo al mondo per caso proprio me".
Poi mi parlò di suo padre, a cui era legato ancora da un residuo di gratitudine, in parte nostalgica in parte delusa. Quando Rainer era bambino, il padre portava a casa, ogni volta che tornava da un viaggio, un giocattolo, che però non gli era concesso di vedere; spariva subito in un misterioso armadio sempre chiuso a chiave! A Natale anche il padre spariva in quella stanza misteriosa e preparava poi nel salotto della casa di Praga una favolosa mostra di regali. La sera, quando l'albero di Natale era acceso, i più meravigliosi cavalli a dondolo, libri, giochi e scatole da costruzione, facevano bella mostra di sé sulla candida tovaglia del tavolo dei doni.
"A quel tempo non sentiva ancora per te un certo tremore affettivo?" A questa uscita a Rilke venne da sorridere: "No – continuò – quand'ero ancora molto piccolo, si andava spesso insieme a spasso, mio padre ed io. Da principio vedevo la tonda impugnatura d'argento del suo bastone solo dal basso, poi, crescendo, arrivai ad osservarla dall'alto – ma allora le passeggiate ebbero fine ed incominciarono gl'interminabili anni del collegio militare di San Pölten. M'immaginai, da principio, che doveva essere un santo misterioso e crudele, per celarsi sotto un nome insolito e mai udito, come Pölten, perché non si riusciva a trovarlo in nessuna leggenda, per quanto si cercasse nella storia dei santi e dei martiri."
Gli si ripresentarono alla memoria gli anni sconsolati di quel periodo della sua vita: "Lì tutto doveva essere in comune: ogni gioco, ogni meta, ogni opinione, ogni pensiero, ogni forma di obbedienza. Ma una vita propria, che pur esigeva qualcosa da noi, che gridava e cresceva in noi – quella non era permesso d'averla. Così, mi alzavo ogni mattina, di nascosto, ai primi albori e mi sedevo – quante volte mi son gelato nelle fredde giornate d'inverno! – ad una finestra dei lunghi corridoi, per esser solo, almeno in quei pochi preziosi istanti rubati al sonno, per pensare solo, per sfuggire a quella vita in comune orribile, negativa, insulsa, in cui ci si sentiva ancora più soli ed isolati."
Dopo cinque anni venne la liberazione e con lei i primi lavori poetici. Un giorno, a diciassette anni, quando era al liceo, Rilke, dovendo fare un compito a casa, pensò  di portarlo stampato in un numero del giornale Prager Abendblatt. E il professore s'infuriò: "Che significa ciò, si permette Lei forse uno scherzo di cattivo genere?" Ma Rilke, inchinandosi modestamente, gli rispose che il compito richiesto sul tema "Penna e spada" si trovava realmente stampato nel giornale, che aveva accettato senz'altro il suo lavoro.
La triste atmosfera d'addio di quel giorno s'era così un po' schiarita. Rilke volle anzi fare il giro, promesso ma poi sempre rimandato, del castello; così, dopo pranzo, si cominciò a girare. Molti erano gli ambienti in cui non ero mai entrata e non riuscivo a capire come Rilke sapesse orientarsi in tutte quelle scalette, corridoi, veroni, anticamere, sale e gallerie. Mi spiegò allora che, quando era restato solo a Duino mentre le principessa era in viaggio, aveva fatto, girellando per il castello, delle scoperte interessanti e che così era stato sempre più spinto a continuar le ricerche. – Conosceva ogni quadro, gli era nota la leggenda della dama bianca di Duino e dell'infelice e maledetto sacerdote, che una volta l'anno, verso mezzanotte, doveva dir la Messa, rivestito di paramenti macchiati di. sangue, in una chiesa sotterranea – e esistevano davvero in quel castello tante porticine segrete, vie sotterranee ostruite dalle macerie, cantucci e nicchie – che non c'era da stupirsi se qualche spirito superstizioso avesse inventato poi simili storie raccapriccianti.
In una sala di un'ala disabitata del castello, di fronte a noi, in cui le tende alle finestre erano quasi sempre abbassate, si vedevano alle pareti, nella penombra, numerosi ritratti, di grandezza superiore al naturale, della stirpe dei Signori di Milano: Napoleone, Guido, Pagano e Lodovico, che nel secolo decimoterzo avevano lottato contro i Visconti sino a quando, sconfitti, non avevano perduto Milano e la "corona ferrea". Non sapevo cosa fosse questa corona, e Rilke mi spiegò che si trattava della "corona dei Longobardi", formata da un cerchio d'oro ornato di pietre preziose e diamanti e, nella parte interna, da sottili strisce di ferro. Secondo la leggenda, l'imperatrice Elena aveva portato con sé dalla Palestina questa corona, la cui parte in ferro, era formata da uno dei chiodi della croce di Gesù Cristo. Con questa "corona ferrea" erano stati appunto incoronati i Signori di Milano. Ora essa vien conservata nel Duomo di Monza.
Tra questi quadri colossali, in gran parte dipinti malamente, mi dette nell'occhio il ritratto di un uomo, dallo sguardo audace: era raffigurato a cavallo d'un morello, che sembrava balzare incontro a chi guarda, e portava addosso un mantello rosso scarlatto, che dava un risalto ancor più sinistro ai suoi capelli neri e al volto selvaggio. Dalla famiglia Taxis vien chiamato il "conte del diavolo"; intorno alla sua vita si sono intessute molte storie di avventure e di bravate. Rilke me ne raccontò una delle più straordinarie, che pare si svolgesse proprio nelle stanze e nel corridoio che s'era visitato allora. Il "conte del diavolo" era stato condannato a morte, a causa d'un delitto da lui commesso, ed era tenuto prigioniero a Duino fino all'esecuzione della condanna. Quando giunse la sera della vigilia di questa esecuzione, il conte invitò gli ufficiali ed i soldati della guardia ad un pranzo d'addio; fu un'orgia folle che si concluse con un vero baccanale. Il conte si ritirò poi contrito nelle sue stanze, per prepararsi alla morte; gli "ospiti", ubriachi fradici, s'addormentarono sulla tavola e sulle sedie – e sotto la tavola e per terra, e si risvegliarono solo all'alba, a causa di una violenta detonazione. Precipitatisi alla finestra videro il conte che, sopra una barca a vela, salpava nella brezza mattutina, dileguendosi alloro sguardo spaventato, come un fantasma.
Altri invece pretendevano di aver veduto il morello del "conte del diavolo" attendere il padrone al piede degli scogli, per slanciarsi poi con il conte in groppa, a galoppo sul mare in tempesta, fino ad Aqùileia dove destriero e cavaliere sarebbero scomparsi per sempre.
Rilke mi mostrò anche una porta che conduceva a un passaggio segreto, ora ostruito dalle macerie, e la botola da cui il conte doveva esser fuggito.
Si vide anche la luminosa cappellina del castello, una bellissima scala a chiocciola, disegnata e costruita dal Palladio, soffitti in stucco del primo stile veneziano, la galleria con gli stemmi dipinti di tutti i proprietari di Duino, e infine si passò ancora una volta sulla bella terrazza di stile barocco, che si trova ai piedi della torre, per poi riuscire nel cortile interno, da cui ci s'era mossi. Le balaustre e le statue erano come velate dalla pioggia, ed il piccolo delfino di pietra lanciava, molto timidamente, in alto il suo sottile zampillo d'acqua, che per aria veniva accolto da sottili strati d'acqua scrosciante, e subito disperso.
Nonostante le molte meraviglie che avevamo viste, la giornata restò grigia e triste. – La sera Rilke ci lesse alcune poesie di George, non mi sentivo di suonare né la principessa me lo chiese. Aveva l'aria seria e preoccupata e nel dare la buonanotte mi baciò con più affetto del solito. – Presto nel castello tutto fu avvolto nel silenzio – solo i pensieri rimasero ancora a lungo svegli.

VENEZIA

La mattina dopo si partì di buon'ora. Aveva smesso di piovere ma faceva freddo. Una nebbia lattiginosa velava la vista del mare e della campagna; ci avvolsero con delle calde coperte di lana e accettai volentieri una giacca di pelliccia, che la principessa propose di prestarmi. Nella prima automobile, scoperta, salimmo noi, l'altra veniva dietro  con i bagagli e la cameriera. Dal boschetto dei faggi, che seguiva la strada provinciale, le cime d'un verde chiaro degli alberi sbucarono fuori dalla nebbia, come fantasmi, per riscomparire subito; anche il castello, i merli, lo scoglio di Dante, e tutti quei luoghi cari, belli e familiari, non si vedevano più. L'aria sapeva di mare e di fronde fresche. Duino pareva scomparso, svanito come un sogno.
Il viaggio proseguiva in silenzio, via via che scorrevano le ore del mattino – solo una volta la principessa osservò: "È stato bene che il nostro Serafico abbia dormito mentre si partiva, gli sarebbe certo dispiaciuto non partecipare."
Non risposi nulla, ancora troppo dolorosamente viva avevo dinanzi agli occhi la scena che s'era svolta: molto prima della partenza, mentre stavo per riporre nella valigetta le mie ultime piccolezze, avevo sentito battere alla mia porta e Rainer aveva chiesto se poteva entrare un momento. Anche lui doveva aver dormito poco, i suoi occhi eran stanchi dalla veglia. Mi portava un regalo, che mi commosse sino al fondo del cuore: il calamaio, di cui s'era servito per scrivere Malte, e il pezzo di cuoio marrone, bulinato in oro, su cui era posato; li avevo visti spesso sulla sua scrivania a Parigi e Rainer sapeva che mi erano particolarmente cari.
Quei due piccoli oggetti avrebbero avuto un asilo migliore e più sicuro da me che non da lui – disse; e poi aveva ancora qualcosa da dirmi. Andò alla finestra e, fissando lo sguardo lontano nel paesaggio velato dalla nebbia, cominciò: "...ti ho detto una volta, che passavo dalla tua bontà alla tua pazienza, come da una stanza nell'altra, quasi mi fosse concesso d'andare ovunque, posando il mio volto sui fiori che tu avevi disposto intorno, – sfiorando con la mano, la seta dei tuoi cari sentimenti. Ma non ti saprò mai dire quel che hai fatto per me. Dio solo dovrebbe concedere a tutti i giardini di parlartene nel loro linguaggio più felice, e le stelle, quando alzi lo sguardo verso di loro, dovrebbero ripeterlo al tuo cuore, con voce più alta e celeste – te ne ricordi? Ma cosa ho fatto invece! Ho accumulato le gravi pietre della mia pena sulla tua gioia, ho messo la mia esistenza, stanca e svanita, accanto alla tua fiducia e l'ho delusa; ho preso i tuoi fiori nelle mie mani – e sono appassiti; ho creduto di poterti dare la mia vita, ma la mia esistenza è fallita ed è divenuta una condanna per te. Puoi perdonarmi tutto questo?"
Vidi che si voltava, vidi il suo caro volto dinanzi a me, e appoggiai allora il mio capo sulla sua spalla: "Rainer" esclamai, con voce rotta dai singhiozzi, "tu devi saper bene quanto profondamente e in eterno ti sono grata di tutto, anche delle ore più amare, perché mi è stato concesso di partecipare a tutto quel che toccava il tuo cuore, alle voci serene come a quelle cupe. Non te ne sei reso conto? Te l'ho saputo dimostrare così poco che ne dubiti?"
Mi disse allora, vinto dalla commozione: "Caro cuore mio, anche ora trovi il modo di donare, oh caro, amato cuore mio..." – e scomparve. Il ricordo di quell'ora d'addio mi occupava così intensamente che poi, una volta svanita la nebbia, vidi come in sogno solamente, che si attraversava finalmente la campagna soleggiata, si passava sopra un fiumicello di un verdo cupo, per una cittadina piena di pergolati, dinanzi ad antiche mura di città, a un fossato in cui crescevano delle grandi calle bianche – per giungere infine alla lunga e diritta strada provinciale che conduce a Mestre.
S'arrivò a Venezia a mezzogiorno. Fuori della stazione attendeva la gondola della principessa; si giunse così nel centro della città; la principessa scese a Campo San Vio e disse poi al gondoliere di condurmi sino all'Albergo Bristol, dove mi aveva ordinato una camera. "A domani, dunque, a mezzogiorno da me" disse ed eccomi sola, la prima volta dopo tanti mesi, nuovamente sola, in preda a pensieri gravi e dolorosi.
All'albergo trovai la posta: alcune righe affettuose del mio vecchio padre, un po' preoccupato; di Maria, che mi pregava di andarla a trovare – così il pomeriggiò passò a scrivere e a rispondere alle lettere: dissi a mia sorella che probabilmente mi avrebbe visto presto arrivare. Uscii poi per impostare quella lettera, che rappresentava già una risoluzione e una decisione.
Una vita serena animava Venezia. Era sabato e molta gente era venuta in città dalle isole vicine. A cavalcioni sui leoncini di marmo della Piazzetta, sedevan dei ragazzetti, di colorito olivastro, che carezzavano gli animali di pietra, disputandosi il privilegio di cavalcarvi sopra. Ragazze, vestite a festa,  con i loro scialli di seta a lunghe frange, passeggiavano a braccetto sulla Riva degli Schiavoni, cantando a mezza voce e godendosi l'aria mite della sera; davanti ai caffè, in piazza San Marco, sedeva una quantità di gente allegra, sorbendosi gelati o limonate; veniva servito in coppe d'argento lo zabaione, mentre tra la moltitudine fitta dei tavolini, s'insinuavano accattoni e venditori di cartoline illustrate, decantando la loro merce con una cadenza melodiosa. Conoscevo questa vita, da quando ero venuta a Venezia durante un viaggio  con i miei genitori e – allora ero giovinetta, – n'ero rimasta incantata, – oggi mi addolorava – il mio pensiero tornava sempre a Duino, che avevo appena abbandonato! Dove sarà Rainer? Forse seduto sulla nostra panchina vicino al mare? Nella sua camera, meditabondo e solo come me? O forse il vecchio e silenzioso cameriere gli servirà la cena nella sala da pranzo, a una tavola troppo grande e deserta?
Quella notte una tempesta si abbatté sulla laguna, scuotendo le finestre e facendo rompere violenti ondate contro i gradini di pietra degli antichi palazzi: le aste delle bandiere cigolavano mentre le gondole, fissate con catene ai portoni delle case, gemevano. Chissà come infuria la tempesta a Duino! – pensai – "Rainer, che Dio ti protegga" gridai nell'oscurità – poi venne il sonno, che prese sotto la sua protezione ogni angoscia, sinché non svanì, sprofondando nell'inconscio.
La mattina successiva andai a messa a San Marco, per ascoltarne la musica. I sacerdoti,  con i loro paramenti rossi ricamati d'oro, i chierichetti del coro, con le loro mantelline di pizzo bianco, l'incenso, lo scintillante arredo d'argento dell'altare, illuminato da centinaia di ceri accesi, formavano, insieme ai numerosi mosaici splendenti di mille colori, ai pilastri, congiunti dalle possenti arcate della grandiosa navata, su cui si levavano le volte delle cupole, un quadro magnifico, d'un sapore quasi esotico. – Veniva cantata la Messa di papa Marcello, di Palestrina, quella Messa a cappella, cioè senz'accompagnamento d'organo o di strumenti, di uno stile austero, antiquato che, in quello sfolgorio violento di ori e di colori di quel tempio bizantino, faceva l'effetto di una severa predica del Savonarola. Cercai di seguire la musica, ma i miei pensieri se ne fuggivano via, sempre in direzione di Duino. Rilke era forse malato? Sarebbe più venuto? Che sarebbe accaduto?
Rincasando trovai una lettera molto triste da casa mia, e, seduta sulla quieta terrazza dell'albergo, che dà sul canale, la leggevo e rileggevo, riflettendo angustiata, quale risposta, quale conforto ci fosse da dare, quand'ecco che il richiamo melodioso di un gondoliere in mezzo al festoso andirivieni domenicale dei vaporetti carichi di gente, mi fece trasalire. Sia di lungo cioè "Vai diritto" – gridava alla barca che gli veniva incontro ––– levai lo sguardo – nella gondola c'era Rilke e mi salutò, facendo un cenno con la mano, poi il gondoliere volto all'angolo della calle per arrivare all'ingresso dell'albergo. Era venuto! Nel primo momento di emozione pensai un attimo, con il cuore in tumulto dalla gioia; "ora tutto tornerà come prima." – Ma Rainer arrivò sulla terrazza, stanco, febbricitante, e la mia gioia si spense di colpo per mutarsi in preoccupazione per lui. Non voleva pranzare dalla principessa – mi disse gli bastava una tazza di brodo e poi due ore di riposo. Sì, il temporale di quella notte era stato spaventoso, non aveva dormito un istante, poi c'era stato il viaggio sul treno domenicale strapieno. "Ma nel pomeriggio ti mostrerò Venezia, la mia Venezia, sai, quella più quieta, di cui i forestieri non sanno gran che – sì, mi sentirò bene; per tutta la giornata d'ieri e la nottata insonne mi son rallegrato a questo pensiero – stai tranquilla, cara – mi ci vuole soltanto un po' di riposo; vieni a prendermi alle quattro, per favore, magari un po' prima." Ci guardammo e ci venne da sorridere: ci ricordammo entrambi dei compleanni di Rainer, bambino, di cui mi aveva parlato tante volte; "Venite alle quattro, magari anche un po' prima", con queste parole, divenute di prammatica, venivano invitati gli amici.
A pranzo raccontai ai Taxis che Rilke era giunto. La principessa ne restò sorpresa e contenta: "Non mi sarei stupita se d'improvviso mi fosse arrivato un suo telegramma da Siena o da Perugia; a volte fa proprio così: sparisce a un tratto, per ricomparire dove meno c'è da aspettarselo. Vero Titi?"
La giovane cugina della principessa e un certo barone Franchetti, erano ospiti a pranzo; ebbi così l'occasione di conoscere due persone interessanti e simpatiche. Fra Titi Taxis-Metternich e me nacque, in seguito, una fedele amicizia, che ha resistito alla prova di tempi buoni e cattivi. Di Franchetti, proprietario della famosa Ca' d'oro, mi aveva parlato già Rilke a Duino. Era molto simpatico alla principessa, che lo chiamava "l'ultimo nobile di Venezia". Era conosciuto come grande intenditore d'arte, come uomo colto ed affabile; pianista di qualità, aveva fatto dei giri di concerto all'estero; e possedeva una delle più belle collezioni private di quadri, non accessibile però al pubblico e purtroppo abbastanza dispersa nelle diverse sale del palazzo. Egli poi viveva, come mi riferì Rilke, all'ultimo piano del palazzo, in due modeste stanze, arredate con mobilio semplice ma anche con alcuni quadri di gran valore. Quest'uomo strano, per metà un originale, per metà gentiluomo del gran mondo d'una volta, ispirava una straordinaria simpatia. Di statura media, aveva un volto calmo, intelligente, incorniciato da una barba scura e corta, mentre le sue mani, muscolose, sempre curate, tradivano il pianista. Nel suo modo di parlare e di gestire, impersonava veramente la figura di un discendente dell'antica aristocrazia veneziana e manteneva viva la tradizione dei suoi antenati anche nell'amore sconfinato che aveva per la sua città natale. Se ne assentava infatti molto raramente e soltanto quando affari urgenti lo esigevano.
Quando si venne a parlare delle sue collezioni, che in gran parte gli son venute in eredità dai suoi antenati, ma che in parte sono formate dai suoi personali acquisti, egli disse, con la sua voce sottile e cortese, inchinandosi leggermente, che sarebbe stato per lui un onore se la principessa fosse venuta con noi, uno dei prossimi giorni, a prendere una tazza di tè nella sua modesta cella, così ci avrebbe condotti in giro per tutto il palazzo, per mostrare "alcune cose di qualche interesse", come osservò modestamente. Aveva acquistato da poco due preziose medaglie del Rinascimento – credo di Matteo de' Pasti – che certo avrebbero interessato Rilke, se fosse venuto con noi.
Con Titi Taxis, ch'era stata allieva di Sarasate, si cominciò presto a parlare di musica; purtroppo aveva lasciato a Berlino il suo violino, m'invitò però cordialmente a venire in autunno, per rifarsi di quell'occasione perduta di suonare insieme – poi mi congedai per andare a prendere Rilke.
Come spesso gli avveniva, dopo un violento attacco, anche questa volta s'era miracolosamente rimesso, era calmo, quasi sereno. Mi attendeva sulla terrazza dell'albergo e mi venne incontro sino alla gondola. Mi venne ancora una volta da pensare, quando ci si mise allegramente in cammino, che i giorni passati non fossero stati che un brutto sogno. Rainer non voleva andare in gondola: "È tanto più bello girare lungo i piccoli canali, si ha così modo di scoprire qualche bella casa antica e molti ponticelli, a volte coperti, e botteghe di tipo antiquato in piazze silenziose." – Fu una passeggiata deliziosa. Si vide il Campo Morosini e la luminosa chiesa di Santo Stefano, il chiostro vicino  con i resti dei grandiosi affreschi del Pordenone, purtroppo appena riconoscibili; il magnifico palazzo Pisani,  con i suoi vasti cortili e le bellissime decorazioni interne – e una Madonna di Carpaccio, dietro l'altar maggiore della chiesa di San Vitale. Percorrendo molte stradicciuole lungo i canali secondari, su per i ponti e accosto alle mura di misteriosi giardini, ci ritrovammo a Campo Sant'Angelo poi, per altri ponticelli e vicoletti, al palazzo Contarini, dove una meravigliosa e incantevole scala a chiocciola si attorciglia in una snella torre di candido marmo. E infine, sulla via del ritorno, si passò dinanzi alla chiesa di Santa Maria del Giglio. Dietro alla porta maggiore, chiusa appena da un tendone, si udiva cantare. Si entrò proprio, mentre un piccolo padre cappuccino saliva sul pulpito a predicare. Il suo volto bonario, rubicondo e fanciullesco, acquistava, con la lunga barba nera, un aspetto così allegro e insieme dignitoso, da sembrare un bimbo travestito. Si mise a parlare con una voce acuta e sottile, non senza aver prima richiamato all'ordine, con uno sguardo di rimprovero, due ragazzetti che, dietro all'altare laterale, giuocavano  con i dadi.
Quanto la religione in Italia sia divenuta, per così dire, un episodio della vita familiare, Rilke me lo aveva già detto prima; ora lo potevo constatare personalmente: donne di ogni età e giovani mamme, alcune  con i loro poppanti, che cambiavano magari di panni in una nicchia d'un confessionale, ascoltavano attentamente le parole del fraticello, che parlava dell'educazione dei bambini ed esortava le madri a non esser troppo condiscendenti. Ce l'aveva specialmente con il cinematografo e si esaltava con un impeto tutto meridionale, a descrivere i pericoli che potevano correre le ragazze ed i figliuoli se si concedeva loro d'assistere a quei funesti spettacoli. – Parlava con un delizioso accento toscano, che le veneziane forse comprendevano appena, e s'infervorò a tal punto che levò supplicando le mani al cielo e gridò alle madri, con un crescendo sempre più intenso della voce: " Quando i bambini vengono a dire supplicando: Mamma, Mammina, lasciateci andare al cinematografo! – cosa risponde una buona madre?"
Fece una pausa, gettando uno sguardo pieno di aspettativa sulle sue ascoltatrici, che gli sorridevano senza timore e incuriosite, come per dirgli: dunque, per favore, fratello, dicci tu cosa debbono fare le buone madri, quando i bambini domandano di lasciarli andare al cinematografo!
Oh, egli lo sapeva e s'affrettò anche a dirlo: "Una buona madre dice – no – no – no!"
Questi tre no non li disse, ma li cantò con tutto l'entusiasmo della sua convinzione, come se così riuscisse davvero a strappare dalle grinfie del diavolo dello schermo i bambini.
Poi la predica finì, le donne mormorarono un grazie e si affrettarono ad uscire, contente, insieme ai loro bimbi.
Mentre si saliva in una gondola, vedemmo quelle stesse mamme,  con i loro figliuoli, mentre si affollavano agli sportelli d'un cinematografo, ove cartelloni colorati magnificavano una qualche pellicola d'avventure terrificanti. A Rilke venne detto, sorridendo: "Il povero fraticello non ce la può con il diavolo!"
Poi ci recammo dalla principessa Maria, che accolse il "nostro Serafico" con molta gioia.

***

(Dal diario)

Il barone Franchetti ha manteno la sua promessa invitandoci a visitare i suoi tesori artistici. È di per sé un'esperienza affascinante quella di entrare come un ospite in un simile palazzo, senza aver tra i piedi un monte di estranei, i custodi e le guide.
Ad eccezione della principessa Maria, di sua cugina di Rilke e di me, non c'era nessun altro. Il padron di casa ci accolse nel grandioso corde della Ca' d'oro, ai piedi della scala di marmo che, sorretta da tre archi gotici, sale, lieve e aerea, sino alla loggia del primo piano. Nel cortile ci sono palme ed altre belle piante ornamentali in mastelli di legno; le snelle colonne del porticato aperto, che segnano il confine del cortile ai lati, sono avvolte da delicate piante rampicanti, mentre l'edera fitta, d'un verde cupo, ricopre interamente la parete di fronte.
Chiesi quale fosse l'origine del nome Ca' d'oro, e il barone mi spiegò come la decorazione della facciata era tutta dorata, quando Matteo Roverti e i due Buon, nell'anno 1436, ebbero finito il palazzo per conto di un Contarini. E il nome di Ca' d'oro gli restò anche, quando con il volger dei secoli, la decorazione perse il suo splendore. Cambiarono poi i proprietari ed il palazzo minacciò d'andare in rovina; i quadri non venivano mai restaurati, la preziosa tavola d'altare della cappella, un S. Sebastiano del Mantegna, era tutta macchiata dalle gocce di cera gialla, spruzzate dalle torce accese.
Franchetti si è proposto, come scopo della sua vita, di far risorgere la Ca' d'oro nel suo antico splendore. È per questo, mi disse Rilke, che il barone vive così modestamente, senza alcuna pretesa, senza permettersi neanche il lusso di un domestico, e se ne sta in due stanzette sotto il tetto.
Dopo che ebbe dato ad ognuno di noi il benvenuto, c'invitò a prendere il tè nella sua "cella", per fare poi il giro del palazzo, "altrimenti gli ospiti troverebbero il suo alloggio ancor più primitivo", aggiunse, come per scusarsi.
In un salotto, ammobiliato molto sobriamente, da cui si ha una vista incantevole sul Canal Grande, c'era una tavola rotonda coperta di damasco giallo e apparecchiata cori preziosa porcellana antica: nel mezzo un ramo di camelie fonte in un vaso di bronzo lavorato. La principessa aveva ragione: quest'«ultimo nobile veneziano» poteva permettersi di ricevere i suoi ospiti senza aver d'intorno una schiera di camerieri in livrea, di preparare il tè sulla sua stufetta elettrica, di servirlo da sé, offrendo dei panini. "Ha la miglior ricetta per panini di spinaci con il parmigiano, e li prepara sempre da sé" ci rivelò la principessa, "Caterina, che gli fa da cuoca, non s'intende di queste specialità, per quanto sappia fare la miglior pasta reale del mondo. Ma quella la imparò dalla nostra Gigia, vero barone?"
Più tardi il padron di casa ci condusse nella cappella, a vedere il quadro del Mantegna che, sotto la direzione di uno specialista, verrà ripulito e restaurato quanto prima; purtroppo occorre attendere questo restauro, per farsi un'idea esatta di questo bellissimo dipinto. Rilke chiese notizie di un van der Goes, che aveva visto prima, in una stanza accanto. Ma i quadri olandesi eran tutti all'Accademia per il restauro, così non li potemmo vedere, in cambio Franchetti ci mostrò tanti altri tesori della sua casa: una Venere di Tiziano, un'Annunziazione di Carpaccio, alcuni quadri di soggetto veneziano del Guardi, altri di Luca Signorelli, Botticini, Tullio Lombardi ed altri, di cui ho purtroppo dimenticato i nomi. I pezzi più importanti di tutta la collezione dovrebbero essere però alcuni ritratti del Tintoretto, che ci mostrò con particolare amore e con un certo orgoglio. Anche i mobili delle diverse stanze sono magnifici. Verranno ordinati e disposti in modo da rappresentare poi il completo arredamento interno di una ricca casa veneziana del decimoquinto secolo. Il barone ha l'intenzione di aprire al pubblico, più tardi, il palazzo, ridotto a museo, e di lasciarlo nel suo testamento in eredità alla città di Venezia, "come un modesto segno di riconoscenza per la fortuna d'esservi nato e d'esserci potuto vivere", come ci disse. Ci mostrò anche il preciso punto nel cortile, da una parte, presso la bellissima scala, dove vuoi esser sepolto. – Mi congedai con una certa commozione da quest'uomo straordinario e ho conservato un caro ricordo delle ore passate in casa sua. Anche a Rilke molto simpatico. Tutti e tre si parlò ancora a lungo; sulla via dei ritorno, della sua personalità singolare.
E così tornarono ancora diverse ore in cui tutto sembrava facile, semplice, sereno e limpido, per quanto una separazione oscura e ancor taciuta, incombesse su di noi. Ci saremmo poi riveduti? E che carattere avrebbe avuto un nuovo incontro? Per quanto tutte queste questioni e incombenti risoluzioni ci preoccupassero, si dimenticavano pure in quegli istanti, in cui l'uno intendeva l'altro con tutta l'anima, e ne comprendeva pienamente lo spirito.
Ancora una volta la luce interiore ebbe modo di splendere; ammirati e come incantati si girava per Venezia, questo sogno scintillante di marmo e di mare e quando se ne parlava insieme, era come Rainer aveva detto una volta: "Ho mai parlato a qualcuno prima che ci fossi tu? No, caro cuor mio, non so proprio in che modo, in che senso io mi confidassi agli altri. Mi scagliavo su di loro, soverchiandoli – e così rimanevano stesi al suolo, morti, oppure si scansavano impauriti, all'ultimo momento; io intanto continuavo la mia corsa cieca intorno alla terra, credendo (Dio solo sa perché) di muovermi entro i limiti dell'umano. Parlare a te vuol dire non disperdersi, penetrare in sé, cioè crescere un poco, dove nessuno se ne accorge – un po' come un bimbo che si muove in seno alla madre."
Molti anni dopo, nel riandare con la memoria a questo periodo della mia vita, assolutamente indimenticabile, meraviglioso e insieme doloroso, ho avuto l'impressione che questi ultimi giorni passati a Venezia, prima della nostra separazione, fossero così dolci perché ognuno di noi, prima dell'inesorabile addio, cercava di rendere tutto più lieve all'altro, per timore di sfiorare quella pena che si preparava per noi. Era come una tiepida giornata di sole, prima dell'inverno, quando tutti i fiori splendono per l'ultima volta, e tutti i colori si stendono nel loro fulgore in cielo e in terra, prima che arrivi la neve e li cancelli.
E poiché questo era il nostro intimo convincimento, volevamo dirci reciprocamente quanto fosse bella l'accettazione della vita, e, quando si parlava anche di cose serie e tristi, eravamo come guidati da una volontà di distensione, di accettar tutto e sopportar tutto, come quel monaco della leggenda indiana, che osservava la vita, senza esprimere un desiderio né ribellarsi. Perché anche questo sapevamo: se ci fosse stato concesso un giorno di rivederci, sarebbe stata una nuova esperienza, come se delle persone che risuscitassero, dopo 1 morte, s'incontrassero una volta ancora, dopo aver superato tutti i dolori in una vita precedente e lontana, una vita che furono costretti ad abbandonare, pieni di un cocente dolore, che con il tempo si è ormai placato.

***

(Dal diario)

Rilke mi ha parlato molto della Duse, che ha incontrato per la prima volta, personalmente, qui a Venezia. Era allora un giovanotto e lei invece una donna precocemente invecchiata, ch'aveva già sorpassato il vertice della fama e della vita e che ormai, per dire così, non aveva più un avvenire dinanzi a sé. Rainer l'aveva vista molto spesso sulle scene e da tempo aveva cercato invano di conoscerla: "...Per anni ed anni avevo ardentemente desiderato un incontro con lei, senza però far assolutamente nulla per provocarlo – ed ecco che non uno solo ma mille incontri mi furono concessi: molti, quotidiani, da lei, da me, con Venezia nello sfondo. Si viveva come in una fiaba. Si viveva? Si soffriva, si soffriva. – Oh Benvenuta, è stata questa esperienza che, quasi con un colpo di martello ha segnato una incrinatura in tutta la mia natura intima: perché quando si è avverato questo sogno, dopo tanti anni, e in tutta la sua magnificenza, senza riserve, in maniera principesca, non era in fondo altro che qualcosa di simile al guanciale di velluto su cui posa la testa "il Gallo morente" nel Museo delle Terme a Roma: un sostegno insomma, soffice e bello, di una sofferenza ancora sconosciuta, ma irrevocabile. Veniva spesso da me, la Duse, abitava vicinissimo; la sua gondola, venendo dalla laguna, voltava d'improvviso nel mio Canale e, dalla mia scrivania, ove me ne stavo seduto, la riconoscevo. Ci si vedeva spesso, dunque, non so se per il desiderio istintivo di assisterci in qualche modo a vicenda; ma in ognuno di noi c'era tanto dolore che, sommandolo insieme, ci si sentiva alla fine come sopra una pira, levata di giorno e di notte, in un'atmosfera pura ma senza vita e, per quanto non ce lo siamo mai detto, si poteva però facilmente immaginare che Dio avrebbe dato infine fuoco a questa pira inaridita dal dolore che, bruciando, ci avrebbe consumati insieme a lei..."
C'era lì presso un giardino, in cui la Duse e Rilke s'erano spesso ritrovati insieme. Rainer chiese se lo volessi vedere; era un giardino veramente singolare, con prati e fieni mietuto, come nei parchi del nord, ma anche con viti, oleandri, lauri e cipressi.
Si prese una gondola che ci portò, attraversando un groviglio di canaletti, in un quartiere della città a me completamente sconosciuto. Non c'erano quasi da nessuna parte marciapiedi; soltanto in gondola si poteva giungere a quei silenziosi palazzi, i cui scalini d'ingresso finivano nell'acqua. Da tutti quei giardinetti, chiusi da muri con le porte sempre sigillate, spuntava solo qualche vetta d'un albero. L'edera e macchie di capperi crescevano sulle pietre grige dei muri. Finalmente si giunse dinanzi ad una scalinata che portava ad un portone solenne, su cui era disegnata in ,basso una porticina chiusa. Il gondoliere tirò il cordone d'un campanello, si udì uno squillo sonoro, poi qualcuno guardò attraverso allo spioncino e chiese chi c'era. Rilke introdusse nell'apertura il suo biglietto da visita, che fu preso, poi si sentirono dei passi che s'allontanavano. Rilke m'informò che il giardino Eden apparteneva ora ad un vecchio inglese stravagante, che non si faceva mai vedere ma che concedeva ai pochi forestieri, cui era noto il suo giardino, di visitarlo, dietro consegna del loro biglietto da visita. – Infine la porticina venne aperta e noi entrammo in un vero paradiso meridionale. Un pergolato, coperto di viti portava a un gruppo di olivi e di fichi, dietro a cui girava un bersò di rose che finiva in un quadrato di bellissime aiuole. Là, dove un'ampia balaustra di pietra separava il giardino dal mare si stendeva un vasto prato. Avevano fatto l'erba da poco e il fieno era stato ammucchiato covoni sotto i cipressi, le cui cime oscure spiccavano sul cielo, d'un azzurro cupo.
Era facile immaginarsi come il cuore inquieto della Duse avesse cercato la pace in questo giardino incantato. Il sole scintillava sulle acque, non si udiva il più fioco sciacquio dell'onde, il mare pareva assopito: uno specchio azzurro, come l'avevamo visto tante volte a Duino, seduti sulla nostra panchina. Anche qui c'era una panca, tutta appoggiata al muricciuolo, vicino ad un grande oleandro. E ci sedemmo anche qui, volgendo lo sguardo verso la lontana isola di San Michele, dove i morti di Venezia hanno la loro ultima dimora. Ed ecco i ricordi si riaffacciano alla memoria: "...Proprio in questo giardino ho scritto per la Duse una lettera, che mi fu ispirata soltanto dalla continua preoccupazione di trovarle, in qualche parte del mondo, un teatro in cui potesse tornare alle scene il giorno in cui si sentisse in grado di farlo. E io l'ho sofferto quel momento in cui la Duse pensava di tornare sulle scene ancora una volta! "Une seul fois, bien armée, mais tranquille" diceva. Ma pensa, quell'istante sfumò – e non poteva esser più d'un istante, sfinita come era – quell'istante sfumò, perché quelle poche persone che avrebbero potuto attuare il suo desiderio, si misero a contrattare invece di agire – perché nessuno intervenne a tempo seriamente, perché nulla era pronto; mi pareva come se Chopin, moribondo, anelasse di suonare un'ultima volta, di trasportare la sua anima, suonando, nell'aldilà, per accompagnarla sulla soglia della vita eterna – e come se tutti stessero intorno a lui a discutere se ci fosse un pianoforte a coda, Se lo si potesse portare nella sua camera, e infine, quanto verrebbe a costare! Non riuscivo a pensare che un'artista come lei finisse così, cadendo sempre più malata, nell'isolamento, nella melanconia; doveva, era necessario che avesse un tramonto magnifico, là dove era nata all'arte, in maniera così inaudita: sulla scena. Ma fu troppo tardi!"
Tornammo addietro per quel giardino incantato, ormai immerso nell'ombra. Solo le isole lontane splendevano ancora, con le case e le chiese illuminate dagli ultimi raggi del sole, che sembrava non potersene distaccare. Alla porticina la gondola ci attendeva. La porta si serrò dietro di noi; il giardino della Duse era scomparso.

***

Mi vien fatto di ripensare spesso all'incontro della Duse con Rilke: due esseri eccezionali s'imparano a conoscere – ma è un'amicizia sconsolata, angosciosa, senza gioia; si cercano a vicenda, per aiutarsi, ma "c'è troppo dolore di mezzo".
Simili amicizie m'ispirano una profonda pietà, ma la mia vera natura riesce difficilmente a comprenderle. Ho solo da imparare a conoscere la psicologia degli altri e ringraziare Dio per avermi dato, come la chiama Rainer, la "perenne serenità dell'anima". Sono convinta che in tempi difficili è il coraggio di vivere e la fede nella gioia a cui sempre si torna, anche lottando, quando si ha un cuore che accetta la vita. Rainer comprende un cuore che accetta la vita, come nessun altro, – ma non lo possiede; al suo cuore è dato soltanto di comprendere pienamente quel che avviene nella natura, nelle creature umane. A lui è concesso di conoscere il mistero che si nasconde dietro ogni evento, di dire quel che sembrava inesprimibile, e perciò la intensità, la bontà e la purezza della sua sacra umanità ci stupiscono. Eppure proprio questa sua sacra umanità è la fonte del suo dualismo e del suo dolore.
Come rimasi sconvolta quando una volta egli mi parlò della insufficienza della sua natura: "...perciò il santo mi attira tanto: perché da solo riesce, non a provocare inondazioni, né a formare paludi, non a disseccarsi né a esaurirsi, formando piccoli rigagnoli in un terreno sabbioso, – ma non ha che da raccogliere tutti i limpidi rivi del suo cuore, da convogliare cento sorgenti ignorate, per irrompere poi, con la passione sempre crescente della sua natura, nell'alveo pietroso di Dio, scrosciando, nel presentimento della foce senza fine."
E a questo punto gli venne fatto di rivelare quel che viveva in lui, come un segno del destino, sempre presente in tutta la sua vita, per quanto non se ne rendesse forse pienamente conto: " Come ho desiderato d'esser come lui! Ma, con la mia arte, non son penetrato più addentro nella natura umana? – Me ne devo allontanare e ignorarla? Ignorarla nella sua semplicità, nel suo candore benefico, nella sua dolcezza, nella sua intima forza?"
Rainer, caro Rainer, hai dimenticato un'altra confessione: quando hai detto "sempre", in quell'ora eterna, solenne e dolorosa, in cui volevi legare la tua vita alla natura umana, hai dimenticato l'altra confessione: "Ogni volta che con la vita m'impegnavo o ad essa mi legavo, sentivo la mia insufficienza, e mi ritiravo, non so dove, e revocavo tutto." L'hai dimenticato?
Ma io voglio togliere a te – e a me, ogni possibilità di revoca, Fra Angelico – perciò voglio dirti di partire quando sarà pronto il tuo naviglio, che ti condurrà nei mari lontani della solitudine, là dove il lavoro ha sulla tua vita "primordiali diritti", diritti per sempre più validi di quelli che abbia mai potuto aver io. Così ti ho parlato oggi, nel mio cuore, e tu non lo sai – e non devi mai sapere quanto indicibilmente io soffra in quest'ora di solitudine, in cui so, e per sempre, che non voglio, che non devo seguirti!

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Che bella cosa che ci sieno persone che non sanno nulla di te, che non sospettano, neanche lontanamente, che giornate spaventose stai superando, che vivono la loro vita tranquilla e la godono serenamente, placidamente. – Così mi fece molto piacere conoscere la contessa Valmarana e sua figlia, una giovinetta soave, silenziosa, molto graziosa. È in casa loro che la principessa ha il suo mezzanino, formato da una camera da letto, un salotto e una stanza tonda, che fa da sala da pranzo: in pieno contrasto con Duino! Tutto è più grazioso, più minuto. Il palazzo sembra preso da un acquarello del Tiepolo. Le stanze non sono grandi, il mobilio per metà è stile impero, per mà Biedermeier: un clavicembalo, armadi e cassettoni di legno chiaro tirato a lustro, con sopra tazze dorate, da cioccolata, oppure statuette di antica porcellana viennese, mentre alcune miniature si vedevano sopra un sofà li ciliegio chiaro, coperto di seta a righe azzurro-scure e rosa antico.
La contessa, con la figlia, vennero a prendere il tè dalla principessa Maria, accompagnate da un vecchio abate, il cappellano di famiglia; per quanto abbia ottant'anni, è un vegliardo simpatico, ancor vegeto, con la faccia fresca e i capelli candidi come la neve. In Italia le signorine non devono andar sole per la strada; se la contessa o la sua dama di compagnia sono impegnate, l'abate accompagna in gondola la contessina a far delle compere o quando è invitata da un'amica – per poi tornare a prenderla all'ora fissata. Ho l'impressione che sieno persone eccellenti, di buon cuore. Dopo il tè salimmo su, da loro. La contessa mi pregò di suonare, scusandosi di possedere un pianoforte, di cui certo non avrei conosciuto la provenienza; mi propose perciò di provarlo prima. Fu grande la mia sorpresa quando salutai commossa il vecchio Bösendorf e dichiarai alla contessa che nessun altro strumento mi era tanto caro e familiare, come un anello nella catena di quella meravigliosa stirpe di pianoforti. Suonando liberai il mio cuore da molte tristezze ed angoscie; mi sentivo a mio agio e come a casa mia in compagnia di quelle signore così gentili e piene di comprensione che, più tardi, si accomiatarono da me come se si fosse già amiche.
Non ho visto Rainer oggi, è partito di buon'ora con il primo treno per Padova – ma la sera trovai sul mio tavolo un mazzo di bellissime rose rosse, con un bigliettino: "A domani!" Ogni sera trovo delle rose nella mia camera. Per quanto tempo ancora? Tra pochi giorni partirò per andare da mia sorella Maria. – Ora, che sono di nuovo sola, nel silenzio di questa grande stanza in stile antico, ho paura. Paura della fine, di me stessa, timore che all'ultimo momento possa cambiar idea, paura infinita di restar sola, senza la mia amata voce consolatrice, senza Fra Angelico. E sento una cocente nostalgia, verso che? Verso qualcosa di forte, di limpido, di possente, verso un cuore nobile, lontano e a me ignoto, che mi prenda con sé, sotto la protezione sicura di un mondo, che non sia diviso.
Rainer, Rainer, perdonami!

***

In questi ultimi giorni trascorsi a Venezia non si parlò della nostra separazione. Solo una volta Rilke mi disse che voleva andare ad Assisi; raccolsi allora tutto il mio coraggio e, senza titubare, nemmeno quando i suoi occhi si posarono su di me con un guizzo in cui era riflessa un'ultima domanda, gli dissi, con tutta la dolcezza che il mio cuore mi suggeriva: "Ti auguro di cuore che tutte le giornate là sieno benedette nel lavoro e nella calma."
Mi parve di veder passare sul suo volto come un leggero riflesso di pallore, quando si piegò verso di me, guardandomi con infinita tenerezza e dicendomi: "E tu?" "Io vado da Maria." Mi mancò la voce e voltai la testa per nasconder le cocenti lacrime che m'inondavano le guance. Allora mi si avvicinò e, in piedi, calmo, sollevando il mio volto verso di sé: "Non temere, cara bambina" disse con voce bassa ma ferma, "non temere, torno alle sofferenze, a cui non ho mai rinunciato – tutto è come dev'essere – tu sei nel giusto e questo è bene."
Nel pomeriggio andai dalla principessa per congedarmi da lei. Mi aveva mandato un bigliettino, in cui diceva di volermi parlare "mais toute seule, je vous en prie."
Quando entrai mi accolse con aria seria; per quanto sempre molto discreta e aliena a immischiarsi nelle faccende altrui, pure mi chiese quali erano i miei progetti nell'immediato futuro e come intravedessi il mio avvenire. Le risposi che sarei andata prima da mia sorella, quindi, dopo un giro di due settimane di concerti, a casa dai miei genitori; in seguito mi sarei stabilita sola, in qualche luogo dove ci fosse un pianoforte e la tranquillità necessaria per prepararmi al lavoro del prossimo inverno. Avevo da suonare ad Amburgo, Lipsia, Königsberg, Riga e Varsavia, e forse anche in diverse altre città della Russia. Mi guardò a lungo e poi disse d'improvviso: "Ma sa che Lei è troppo al di sopra di una simile vita, che non è poi che una fuga, un ripiego e un seguito di difficoltà con agenti, impresari e tutta quella gente. Lei ha molta vitalità, molte risorse in sé per render felice qualcuno! Però – permetta ad una vecchia, che Le vuol molto bene, di dirglielo – la via che sta seguendo ora non è quella giusta."
Devo averla guardata perplessa, poiché continuò, come rispondendo alle mie molte domande mute: "Perché le possibilità della sua natura riusciranno a svilupparsi in tutto il loro splendore soltanto se Le sarà concesso di riposare nell'amore e nella forza di un altro essere, riposare, crescere e svilupparsi. Dovrebbe venire un uomo che la portasse con sé – nella luce e non nel dolore."
Era troppo. D'un tratto caddi in ginocchio dinanzi a lei, con il capo affondato nel suo grembo. Le sue braccia mi tennero abbracciata: "Oh, lo so ch'è un passo terribilmente difficile per lei!" disse, "Ma egli non può! Occorre che Lei se ne persuada. Egli vorrebbe, con il suo cuore ardente e anelante, ed è proprio ciò che lo rende ancora più infelice. Lei ha un grande potere su di lui – e quanto l'ama, Lei forse non se lo immagina neanche. – Ma anche il suo demone ha una gran potenza su di lui; egli oscilla continuamente tra Lei e la sua missione, e a volte mi sembra già deluso ed oppresso, quando si accorge che Lei ha una personalità assolutamente indipendente, piena di vita, e non è soltanto quella creatura docile, sprovvista di una propria volontà, di cui – forse – ha bisogno. Egli stesso non se ne rende pienamente conto, a volte lo confessa, a volte si aggrappa invece proprio a quello che costituisce la Sua forza, la Sua vitalità, Benvenuta. – In lui è proprio così: il sì e il no coesistono insieme. Una convivenza duratura tra voi due mi appare assolutamente impossibile, perché sarebbe una continua lotta interiore, in cui Lei dovrebbe sacrificare tutta la sua gioia per una vita piena di sofferenze e di rinunce."
"E se, nonostante, tutto la accettassi?" esclamai disperata.
"No", dichiarò la principessa, "non lo farà e neanche lo deve, perché distruggerebbe la Sua vita senza poter essergli d'aiuto. La missione di Rilke è di esser solo, il suo sacrificio è il dolore. E sarà proprio il dolore a spingerlo in alto, verso nuovi, grandi compiti creativi, mi creda! Lei invece è destinata alla luce, mi comprende?"
La principessa mi guardò affettuosamente e piena di comprensione.
"Se rivedrà il nostro Serafico, fra qualche tempo, tutto sarà più chiaro, più pacato, più bello di oggi."
Le baciai la mano ed ella m'abbracciò. "Addio, bambina", disse, "serbi un buon ricordo del nostro Duino e di tutto quel che c'è stato di bello in queste settimane."
La contessa Valmarana mandò a chiedere in quel momento se poteva scendere un istante, così mi affrettai a congedarmi. Sulla soglia la principessa mi disse di disporre a mio piacere della sua gondola e di andare in qualche posto; Prospero m'avrebbe accompagnata poi all'albergo, a lei non occorreva più per quel giorno. Trovai appena le parole per ringraziarla e, quasi svenuta, scesi la scala che porta al canale, dove mi attendeva la gondola. Dissi qualcosa che Prospero non capì; mi chiese ancora dove dovesse portarmi: "All'Isola San Michele."
Si andò verso la laguna.
Non piangevo, credo che tutto fosse come pietrificato in me; desideravo solo d'essere in un qualunque luogo dove tutto fosse placato: la vita, la gioia e il dolore.
La gondola scivolava silenziosa sull'acqua quieta, nel sole della sera si distinguevano già le cime alte dei cipressi che spuntano sopra le mura del cimitero. Avevo a casa un'acquaforte dell'Isola dei Morti di Böcklin e vi avevo scritto un giorno, in calce, questo brano dal Zarathustra: "Questa è la silenziosa isola dei sepolcri, là sono anche le tombe della mia giovinezza. Là porterò la corona sempreverde della vita."
Mi sembrava che quel quadro divenisse una realtà viva, e che mi avviassi davvero verso l'isola dei Morti di Böcklin. Ma non avevo tra le mani la corona della vita. Ogni forma di vita era così lontana, come se non si potesse mai più esser felici, come se le parole che una donna amorevole e materna mi aveva dette in quel giorno, avessero messo definitivamente tutto in una luce chiara e dolorosa e gettato come un'ombra sui miei giorni nel futuro.
"...quanto l'ama, Lei forse non se lo immagina neanche" aveva detto la principessa (oh, lo sapevo bene!) e poi: "e non gli potrebbe essere d'aiuto" e ancora: "il sacrificio è il suo dolore."
Dinanzi alla chiesa era seduta una ragazzina che vendeva degli ornamenti funebri: delle misere ghirlandine di rametti di cipresso, intramezzati con rose di carta, angioletti di porcellana e ceri in bassi vasi di terracotta. Le chiesi se mi poteva procurare dei fiori, senza saperne il perché. E infatti, a quale tomba sarei dovuta andare? – La bambina corse via per tornare subito con un mazzo di garofani e me lo dette. Traversai allora il portone ed entrai nel cimitero.
Parecchie tombe risalivano a tempi lontani ed erano in rovina, molte altre invece erano infiorate. Lessi diversi nomi: Andrea Villati, Gemma Fontana, Ernesto Claricini – erano estranei, con un destino, una pena estranea alla mia. Nessuno di loro voleva i miei fiori e io sfioravo i loro sepolcri perplessa. Avevano chi li ricordava, chi li continuava ad amare nel dolore, non avevano bisogno di me. Al termine di un viale, nascosto quasi completamente alla vista, c'era un tumulo tutto ricoperto di sempreverde. Forse era molto tempo che nessuno veniva più a quella tomba: l'iscrizione della lapide, che a suo tempo era stata in lettere dorate, si leggeva appena e diceva: "Qui riposa la mia sposa, che morì il giorno delle nozze. Fanciulle pregate sulla sua tomba, perché la sua candida anima vi benedica e possiate divenire simili a lei." Su quel tumulo deposi il mio mazzo di garofani, inginocchiandomi poi per affondare il viso nel fresco fogliame.
"–– e nella sofferenza maturare oltre la vita, oltre il tempo." Era questo il compito che mi veniva imposto, era forse necessario maturare oltre la vita, attraverso il dolore, per poter poi tornare alla vita, ormai inattaccabili, lontani da ogni turbamento, da ogni contraddizione della giovinezza?
Ed ecco mi venne come una improvvisa illuminazione: qui, dinanzi a me, sul tumulo di questa fanciulla, fioriva la corona sempreverde della vita, con le cento corolle dei suoi azzurri fiorellini – e una forza misteriosa mi aveva condotto lì per comprendere... Lei però – era forse felice, in qualche parte d'un infinito senza nome, ormai congiunta a colui che l'aveva pianta – lontano, là dove noi non arriviamo.
Colsi un rametto di sempreverde e lo presi con me; fuori la gondola mi attendeva; era ormai sera e le prime stelle brillavano in cielo, quando scesi a Corte Barozzi e salii in camera mia.

***

Si girò ancora una volta per Venezia – era l'ultimo giorno.
Si parlava con calma e con misura, sembrava che ogni sentimento fosse in noi intorpidito dal gelo. Passando sopra a un ponte ci venne incontro in gondola un corteo nuziale, la sposa, con una corona di mirto e il velo bianco, ci fece, raggiante di felicità, un cenno di saluto e gettò a Rainer un fiore del suo mazzo da sposa sulla piazza Santa Margherita giuocavano dei bimbi dinanzi al Museo Tiepolo incontrammo Franchetti. Mi chiese se sarei tornata il prossimo lunedì al ricevimento di Mme. de Pourtalès. No, rispose per me Rilke, domani per tempo sarei partita. "Che peccato" esclamò il barone, "ma, nevvero, chi ha imparato ad amare Venezia una volta, ci ritorna!" In tre si andò a Santa Maria Formosa, sostando dinanzi al famoso quadro di Santa Barbara, e Franchetti ci indicò dove e quando Palma il Vecchio l'aveva dipinto – poi, fuori, vicino al palazzo Querini ci salutò. Vedevo e sentivo tutto come attraverso a un velo di nebbia, parlavo e rispondevo quasi meccanicamente, Rilke taceva.
Nel pomeriggio andò dalla principessa, che partiva per Duino; io le mandai dei fiori con i miei più sinceri ringraziamenti e saluti; non me la sentivo di rivederla un'altra volta in presenza di Rilke. A sera mi portarono in camera del tè con uno spuntino; scrissi alcune lettere e mandai un telegramma a Maria. Rilke salì da me e mi disse che nel Canal Grande c'era una festa, e infatti, guardando fuori della finestra, vedemmo delle gondole addobbate, che si avviavano verso piazza San Marco. Una moltitudine impaziente era in attesa sulle sponde, per godersi quello spettacolo pittoresco; ed ecco arrivare sempre più gondole, finché tutto il Canale non fu tutto pieno d'imbarcazioni d'ogni misura. Furono accesi dei lampioncini colorati, con sopra dipinti fiori, farfalle, pesci e uccelli.
E poi risuonarono gli antichi versi del Tasso, intonati dalle belle voci dei gondolieri, e si diffusero nella calda notte primaverile.
Eravamo seduti sul verone, presi tutti dal dolore della separazione, – e si contemplava ai nostri piedi tutto quel via vai giocondo: come una visione di sogno ci pareva, splendente di colori e di luci, di quel mondo che, come una marea, si allontanava da noi per raggiungere della gente allegra e felice. Restammo a lungo seduti in silenzio; a poco a poco le luci si spensero, le voci tacquero, le imbarcazioni addobbate scivolarono via ed i vecchi palazzi tornarono alla loro quiete, nell'argenteo chiaro di luna.
Poi Rilke cominciò a parlare. Ancora una volta, come uno che vuoi dare un addio per sempre, mi raccontò, come confessandosi, tutta la sua vita – mi dipinse la sua giovinezza e tutti quegli anni di ricerche e di rinunce; la gioia creativa e la pena della vita quotidiana, ogni fuga e ogni nostalgia – e tutti i periodi di pace. Era davvero la vita di un solitario, di un combattente, di un grande uomo, con tutte le sue verità e i suoi errori, anche questi rispettabili, nella loro purezza. Mi ringraziò di tutta la luce che gli avevo dato, e disse che il dono che egli mi aveva potuto fare, era forse quel che di più grande e di più profondo avesse mai scritto: le sue lettere, ch'erano l'espressione e la testimonianza di tutta la sua vita.
E parlò di come meravigliosamente s'era iniziato il tempo della nostra amicizia, e di tutta la pena ch'egli aveva insinuata in quella gioia, che ci sembrava irresistibile: "Ma la mia natura stanca e malata è apparsa ancor più chiara ai miei occhi nella calda e vigorosa luce del tuo essere – e io dovrò continuare a vivere come prima, avanti che tu venissi, reso più ricco solo da questa esperienza, la più amara forse di tutta la mia vita."
Pensavo: potrò vivere ancora, ne ho il diritto? Non sono forse colpevole verso la mia voce consolatrice, verso il mio salvatore?
Ed ecco, finalmente, mi riuscì a parlare di tutto: del mio amore infinito, della mia gratitudine, di tutti i dubbi e turbamenti, delle voci che lottavano nel mio intimo, del mio dolore, della rinuncia, dell'addio. Ed egli mi comprese, come ha sempre inteso, fino all'ultimo, ogni moto, ogni legge interiore dell'anima umana. Accettò questa mia confessione, così sincera, nella sua sublime bontà e seppe consolarmi come soltanto lui sa.
"Eppure, tutto è come dov'essere", disse commosso: "Ho vissuto pur così profondamente nella tua anima, nel tuo cuore, come il bimbo neJ seno della madre per un istante eterno, immortale, che Dio m'ha concesso. Questa coscienza nessuno ce la può togliere ed anzi ci condurrà ad una penetrazione più profonda nell'intimo della nostra vita."
Fuori cominciava ad albeggiare. Le facciate delle case si svegliavano in una luce pallida e gelida; le prime chiatte si muovevano verso il mercato, si udirono i barcaioli scambiarsi qualche parola, poi tornò il silenzio.
"Vieni", mi disse Rainer, "riposati ancora un poco, è ormai troppo tardi per andare a letto; chiudi appena gli occhi, ti dirò io quando è l'ora." Notò che, nel mio vestito leggero rabbrividivo, allora prese la mia coperta da viaggio, mi ci avvolse, cinse con il braccio la mia spalla e adagiò il mio capo sul suo petto. Sentii ancora la sua mano sfiorarmi lievemente gli occhi, poi mi addormentai, mortalmente stanca e sfinita. Quando mi svegliai e mi levai in piedi, la luce del mattino splendeva già intensa. Rilke era ancora al solito posto e, volgendo lo sguardo su di me, con un'espressione di pacata bontà, mi diceva: "Perdonami, ma ti ho dovuto svegliare, altrimenti arrivi troppo tardi alla stazione. Ed ora me ne vado e torno a prenderti tra un'ora."
Feci un bagno caldo per liberare la mia testa dolorante e sciogliere le membra, tutte intormentite, dopo quel sonno fatto senza liberarmi dalle vesti, e bevvi una tazza di tè bollente. Quando, dopo un'ora, Rilke tornò, l'attendevo già pronta, con il cappello in capo e il mantello addosso.
Ancora una volta le nostre mani si strinsero e per la prima e l'ultima volta nella nostra vita, ci baciammo, con una devozione intensa e pacata, come in una muta preghiera, che dava alla nostra vita in comune l'ultima consacrazione; poi scesi le scale senza più voltarmi.
Dinanzi alla scala m'attendeva la gondola; ci si mosse in quel mattino radioso di maggio pieno di sole, ma avevo abbassato gli occhi, velati dalle lacrime, e non vidi più nulla dell'incanto luminoso di quella città fiabesca.
L'ultima cosa che vidi veramente fu Rainer, alla stazione, fermo dinanzi al finestrino abbassato del mio scompartimento, con lo sguardo rivolto in alto, verso di me. E affidai per un ultimo addio, tutti i miei sentimenti, il mio amore più intenso ai suoi occhi, al suo cuore, per un moto impetuoso di silenziosa gratitudine.
Quando il treno cominciò a muoversi, il mio sguardo avvolse per l'ultima volta quella figura esile e scura con un gesto improvviso cercò di afferrarmi la mano poi tutto s'inabissò, ero sola.

GUERRA

Carlo e Maria mi attendevano alla stazione di Bolzano. Mia sorella, che ritrovai sana e florida, mi abbracciò, affettuosamente inquieta: "Sei divenuta magra; ora, qui da noi, devi riposarti e lasciarti viziare – e c'è anche una sorpresa per te!"
Si salì, in vettura, su per una collina, traversando un viale di castagni, per arrivare a un piccolo castello chiaro, con le imposte tinte di bianco e rosso. Quando i cavalli si fermarono dinanzi alla scalinata, vidi un viso carissimo che mi sorrideva: mio padre era sulla soglia e mi tendeva incontro le braccia. "Papà" gridai, sorpresa e commossa – ebbi tempo di accorgermi che vacillavo e che qualcuno mi sorreggeva – poi persi la conoscenza.

"...Meno male, apre gli occhi", disse una voce buona e serena e vidi, come svegliandomi da un sonno profondo, una figura che si piegava su di me; riconobbi il viso del nostro vecchio amico, il Dott. Cristoforo, e sentii, come da una gran lontananza, che diceva: "Ma lo sai, madonna mia, che hai dormito tre notti e due giorni come un sasso?"
Volli sollevarmi, ma egli mi respinse dolcemente sui guanciali: "Dove sei? A casa – e dalla carrozza t'abbiamo portato direttamente in una delle camere dei forestieri di questo superbo castello, perché sei semplicemente svenuta. Cosa? Delle lacrime? Non ci sarebbe male, preparati invece a un buon pranzetto e domani ti alzerai. I nervi li metteremo a posto, non ci pensare."
"Ma com'è che sei venuto qui da Monaco, zio?"
"In vacanza, bambina mia, resto ancora tre giorni, poi me ne devo andare, giusto in tempo per tirarti un po' su; dopo ti rimetterai anche da sola."
Ero dai miei, potevo riposare, nessuno mi domandava nulla, tutti mi curavano come fossi un bambino. Quando potei alzarmi, mio padre e Maria mi condussero a vedere la nuova dimora dei miei parenti. Era situata sul pendio della montagna e un bel giardino le girava intorno. Uscendo sulla terrazza, si offriva al nostro sguardo una veduta ampia e piacevole: tutta la vallata si stendeva, per così dire, ai nostri piedi e, con i suoi boschi di castagno, i vigneti, i numerosi paesetti, castelli e ruderi, sparsi sui pendii e sui monti di fronte, costituiva come un felice paese incantato, creato da Dio in un attimo di prodigo umore.
In qualche luogo, molto lontano, c'era ancora qualcosa d'opprimente, ma non faceva più male. Aveva detto bene il buon zio Cristoforo: quando ti sentirai come chi ha perduto molto sangue, leggera d'animo e di corpo, quasi potessi restar sospesa nell'aria, allora avrai superato la crisi. Così si risvegliò in me anche la buona e salutare volontà di vivere – e un giorno fui in grado di chiedere a Maria se Rilke avesse scritto. Fino allora non s'era arrischiata a dirmelo; venni a sapere ora che era arrivato da poco un suo telegramma da Assisi con un saluto e il suo indirizzo. Carlo allora aveva scritto al professor Permacchi, direttore della Biblioteca Francescana, ch'egli da tempo conosceva, pregandolo di voler concedere in visione a Rilke, caso mai egli pensasse di lavorare in quella cittadina, i tesori della biblioteca, non accessibile, di solito, a nessuno. E Rilke aveva risposto ringraziando ed aggiungendo che nei prossimi giorni sarebbe tornato a Parigi – era una lettera melanconica la sua, come si può scriver solo in una giornata tetra in un paese dimenticato. La si lesse in giardino, sotto il più azzurro cielo del Tirolo meridionale, mentre il piccolo Mario giuocava e strillava di gioia accanto a noi, nella sua culla di vimini.
"È come se ci fossero dei mondi tra di noi!", disse Maria, guardando con tenerezza il suo bimbo, "qui tutto è buono e pieno di pace – e là egli si tormenta. E sarà mai diversamente per lui? Lo sai che ho avuto tanta, ma tanta paura per te, temevo ti strappasse a te stessa? un essere meraviglioso, pure potrei quasi aver paura di lui." Le posai una mano sul braccio: "Non parlare così!" Mi abbracciò con un impeto insolito in lei ed esclamò: "Ma ora ti abbiamo di nuovo, grazie a Dio, ti abbiamo di nuovo tra di noi!"

(Dal diario sul lago di Garda)

Abito qui dalla fine di giugno nella casa di Goethe a Torbole, in due stanzette arredate con gusto cordiale e un po' antiquato con bei mobili del secolo passato. Dlle finestre si gode una bellissima veduta sul piccolo Porto si vedono in lontananza le vele rosso-gialle dei pescatori, sinché non spunta, verso meridione, a gran distanza, il promontorio roccioso di Campione. Mi son fatta venire da Riva un pianoforte. I giorni scorrono ugualmente divisi tra lavoro e riposo; le mie padrone di casa, due sorelle con una cara e vecchia mamma, badano in silenzio e attente al lavoro quotidiano della casa; a volte di sera, viene lo zio Hans dal suo oliveto, dove tiene un corso di pittura, e porta le notizie più recenti nella mia solitudine. Che ci sia parecchia gente convinta della possibilità di una guerra, appare a noi, in questa quiete estiva, proprio inverosimile.
Mio padre è molto prudente nei suoi giudizi, ma tra le righe leggo nelle sue lettere che, da quel vecchio ufficiale che è, ritiene probabile una guerra. Carlo invece non ci crede. E così i pareri sono divisi.
Qui tutto è tranquillo; i bagnanti del grande albergo vicino, austriaci e tedeschi, stanno sulla spiaggia, vanno in barca a vela; la vita si svolge come sempre. C'è anzi in programma perfino un concerto, a beneficio di una famiglia di pescatori, caduta in miseria. Lo zio Hans ha dipinto un bel cartellone – egli canterà delle ballate di Lowe, ed io suonerò con un violinista, la sonata di Cesar Franck, poi da sola, un ciclo di musiche schumanniane, e per finire; la Marcia Militare di Schubert. Dalla guarnigione di Riva e di Trento verranno molti ufficiali; ci sarà anche una banda militare che – terminato il concerto – intonerà sulla grande terrazza dell'albergo l'inno nazionale, come degna conclusione. E credo che dopo la gioventù abbia l'intenzione di ballare.
Durante tutti questi preparativi m'assale però spesso un senso d'inquietudine e d'angoscia! Che ci porteranno le prossime settimane? La guerra, anzi la semplice, anche lontana, possibilità di una guerra, sembra qualcosa di mostruoso. C'è chi pensa che una guerra con le armi moderne, non possa durare a lungo, perché tutto verrebbe distrutto; alleati e nemici, città e regioni intere.
In simili giorni Rainer mi porge da lontano il suo aiuto benefico. Tutto quel che c'è di penoso tra noi si dilegua, se penso agli istanti felici e luminosi che abbiamo trascorso insieme e che mi sono presenti più di tutto il resto. Nel mio "Libro delle ore" serbo un rametto secco di rosa canina. Rilke, togliendolo dal suo diario spagnolo, me lo aveva regalato perché esalava un odore acuto e particolare, diverso dalle nostre solite rose di macchia.
"C'è tutto il calore del sole in lei; il clima meridionale l'ha fatta fiorire più splendidamente delle sue sorelle nordiche", disse in quell'occasione Rainer. E come l'aveva vista la Spagna, come aveva sentito la primavera di quella regione!
"... là, dove il sole, durante l'intero inverno, non si presenta solo come una semplice immagine, ma si fa sentire con una forza appena diminuita, non è merito suo se s'intuisce l'irresistibile felicità che si prepara; né si osservano anzi con troppo entusiasmo i progressi di alcuni piccoli mandorli e il crescente ostentato splendore del cielo. Ma lascia venir appena una giornata tiepida e coperta; e sentirai come sin dalle prime ore del mattino c'è una nuova inflessione nel canto degli uccelli, è divenuto più cupo, par distinguersi per un tono più serio e si delinea puro nel dolce silenzio. E quando esci: quasi con la prudenza consueta all'interno delle tue palpebre, quel tono grigio ti si posa sugli occhi, quasi come il sonno; e soltanto allora ti appare come un miracolo il rosa degli alberi, divenuto più intenso durante la notte, perché spicca nella pioggia invisibile e contenuta, spicca per la felicità (tutt'altro che traboccante); ed ora mettiti in modo che abbia come sfondo la terra; guarda: la nostra terra, pesante e preparata con fatica: anche così il rosa spicca ancora intensamente – ma con una forza diversa, come si è forti quando non i vuoi piangere..."
Nell'ultima sua lettera mi ha scritto che pensava di tornare a lavorare alle Elegie. Questa piccola speranza è da sola una benedizione per lui. Quanto desidererei dirglielo, ma la sua solitudine non mi dev'esser sacra? Non credo che per ora tornerà a viaggiare, passerà probabilmente l'estate a Parigi perché, grazie a Dio, anche la sua salute sembra migliorata. "Sto quasi sempre a casa, molto tranquillo, molto solo, ma per il resto mi sento bene," mi scrisse. Per il momento non rispondo. Egli non sa neppure dove io mi trovi. "Il suo sacrificio è il dolore", mi disse la principessa Maria in quell'ora di disperazione a Venezia. Ora soltanto comprendo veramente quel che egli disse un giorno, parlando del "sacrificio": "Cos'è il sacrificio? Secondo me non è altro che la risoluzione assoluta, senza possibili restrizioni, che un uomo s'impone, di realizzare la sua più pura possibilità interiore." Una frase, letta in una rivista aperta a caso, aveva suscitato in lui questo pensiero e insieme scosso e sconvolto il suo animo: "...sinora l'abuso e l'interpretazione superficialmente cristiana di questa parola, me l'aveva resa sospetta quel che invece abbia voluto significare nel suo senso primitivo, nella sua intensità, nessuno è riuscito ancora a farcelo intendere perfettamente. Ma ecco che questo senso mi si presentava in tutto il suo valore: Il cammino dal fervore degli affetti alla grandezza passa attraverso al sacrificio. Mi sentii trapassare il cuore da parte a parte: come da un pugnale ch'è stato affilato per qualcuno e che il sicario tiene per un anno sotto il mantello, nella mano sempre pronta all'agguato e che poi s'alza e s'affonda davvero nel petto! Così mi sentii colpito. Sì, era proprio così: avevo il fervore intimo, nella massima intensità ma nient'altro che questo. Ed ecco che di colpo m'era stato indicato il ponte di passaggio: dov'è il mio sacrificio?"
Saprà ora dove è il suo sacrificio? e ne avrà una benedizione? Egli crede a forze superiori che sono in noi e sopra di noi e raggiunge delle sfere che stanno oltre la vita terrena: questa è la ragione segreta del suo potere irresistibile, dell'influenza che ha sugli uomini. Questa è la ragione della sua sicurezza, che diventa invece per lui causa di affanni nella vita quotidiana. Lui, a cui spesso è di peso il più sottile legame con ilmondo che lo circonda, ebbe diritto di pronunciare una volta queste superbe parole che valgono, senza restrizione, per tutta la sua esistenza: "Quando vedevo che gli altri si affaticavano a giungere a Dio, non lo capivo; per quanto lo sentissi meno intensamente di loro, perché non vi era nessun ostacolo fra Lui e me, m'era facile giungere al Suo cuore. È in Suo potere, infatti, di impossessarsi di noi; il nostro compito è quasi unicamente di metterci in condizioni tali che ci possa prendere." – Quando un giorno si lesse insieme le lettere di Sant'Agostino, si parlò di quanto gli uomini debbano lottare per arrivare alla loro sapienza più alta, alla Pace in Dio, e Rilke osservò allora che la figura più meravigliosa del primo Medio Evo, gli era apparsa sempre Meister Eckhart, con il suo purissimo rapporto con Dio, perché "nella natura sana di un'anima non esiste la fatica di giungere a Dio, l'amore verso di Lui era l'orientamento dominante della sua natura". Mi risulta sempre più chiaro che Rilke deve rinunciare al suo desiderio nostalgico d'una vita orientata verso l'umano, per poter restare, senza deviazioni, nella sfera del divino.

Quanta tristezza mi viene a pensare che Rainer non ama questo magnifico paesaggio del lago di Garda! Mi disse un giorno che gli ricordava troppo sua madre, e la sua "benevolenza evanescente come quella d'un fantasma, e voluta, verso di me". Così si esprimeva, lui che sapeva parlare come nessun altro della segreta natura dell'amore materno, lui, a cui l'amore di una vera madre era necessario come l'aria per respirare, quell'amore nel cui calore la sua vita di fanciullo timido si sarebbe potuta liberamente svolgere. E, come se per tutta la sua vita avesse sentito e alimentato la nostalgia dell'esperienza di un simile amore, sapeva essere a volte di una delicatezza di sentimento quasi femminile, e dare agli altri quel che a lui era così dolorosamente mancato. – Mi ricordo che, quando una volta a Parigi salì a farmi visita, mi trovò in uno stato di spavento e di timore. Quella mattina mi era giunta una lettera, un'eco minacciosa e cattiva di un tempo passato, – e per quanto non potesse più farmi nulla, s'era impadronito di me un tale raccapriccio, che un mal di testa insopportabile mi faceva quasi perdere i sensi. Ero seduta in poltrona presso alla finestra e piangevo. Rainer non chiese di nulla, mi pose una mano sugli occhi, dicendo: "Cara, ritornerai calma, non è nulla, cosa ti può succedere?" La sua voce buona e amorevole continuò a parlare sommessamente, ebbi la sensazione che una miracolosa pace m'invadesse, m'addormentai, e quando mi svegliai la mia vita si era rischiarata e il dolore era scomparso. Così la calma protettrice di quel cuore, sapeva donare agli altri quella pace, che non riusciva a trovar per sé.
Sono questi i miei pensieri quando di sera, seduta sulla spiaggia, sto leggendo nei Quaderni di Malte.

***

La gente qui parla di molti angosciosi problemi, cercando d'indovinare quel che i prossimi giorni ci porteranno. Forse verremo a saper qualcosa di più preciso dagli ufficiali che vedremo doman l'altro al concerto. Scriverò a Rainer; ma a Parigi sarà certo al sicuro e, grazie a Dio, lontano da ogni pericolo. Tuttavia desidererei sapere con certezza dove si trovi.

***

Che giorni terribili abbiamo vissuto!
Il nostro concerto si svolgeva nella sala del Grand Hotel, stipata di gente vestita a festa; c'erano molte uniformi, signore eleganti, parecchie signorine. Lo zio Hans cantò splendidamente, ci furono molti applausi e fiori, e, soprattutto, un bell'incasso per i nostri poveri bambini dei pescatori.
Terminato il concerto, furono spalancati i battenti delle porte che danno sulla terrazza; la banda militare di Riva s'era già piazzata fuori e il direttore stava alzando la bacchetta – ma avanti che risuonassero le prime note del nostro vecchio e solenne inno di Haydn, una porta venne spalancata e una voce chiara e acuta gridò: "Guerra!"
Quel che accadde allora si può appena esprimere con parole. Nella sala piena di gente allegra e serena, quella parola era penetrata con la violenza di uno squillo di fanfara; ne nacque un indescrivibile tumulto. Gli uomini si precipitarono al telefono, che in batter d'occhio venne assediato; intorno all'attendente, ch'era venuto con la notizia della dichiarazione di guerra, si formò un circolo; tutti chiamavano le carrozze. E le signore, sconvolte e perplesse, non si rendevano conto che una violenta ondata d'entusiasmo aveva invaso la sala: chi rideva e chi piangeva, alcuni ufficiali si stringevano la mano, dicendo: "Finalmente, grazie a Dio, finalmente!" Poi tutti si affrettarono a partire. In pochi minuti la gran sala rimase vuota, si udirono ancora fuori, per un poco, voci eccitate, le trombe degli automobili, lo scalpicciar dei cavalli delle carrozze che si allontanavano. Le lumiere di cristallo ed i bracci dei candelabri alle pareti splendevano nella sala deserta – lo zio Hans ed io si restò d'un tratto soli in un silenzio mortale; ci si guardava, senza poter articolar parola. Poi ci si avviò verso l'ingresso, facendoci strada tra sedie capovolte e bianchi programmi da concerto spiegazzati per terra, mentre un vecchio cameriere, tremante e sconvolto, spengeva le luci.
La direzione dell'albergo era assediata dalla gente, tutti s'informavano, agitati, delle coincidenze di battelli e di treni; e già si vedevano salire con l'ascensore i bauli vuoti, richiesti ai diversi piani: sembrava un esodo generale. – Sulla strada la gente si riuniva in piccoli gruppi, gli uomini cupi, le donne intimorite e piangenti. Pareva che d'improvviso fosse crollato il cielo. Lo zio Hans m'accompagnò a casa, promettendomi di tornare la mattina dopo, con il primo treno: forse allora si sarebbe saputo qualcosa di più preciso.
Nella casa di Goethe ero attesa, la signorina Diomira m'aiutò a spogliarmi – "Dio del cielo che succederà mai?" ripeteva ogni momento. Riponendo nell'armadio il mio vestito da sera, scintillante d'argento, ebbi l'impressione d'essermi spogliata di ornamenti superflui di cui, tutt'ad un tratto, mi vergognavo.
Feci una domanda molto strana: "Signorina, sarà ancora aperto l'ufficio postale?" "Dio, è quasi mezzanotte, dalle sette è tutto chiuso, Camillo è già stato qui e ha detto che dovrà partire, un vecchio presterà servizio per lui nell'ufficio, Dio ci protegga tutti." La signorina Diomira piangeva.
Non si dormì molto quella notte, il vento, la tramontana, soffiava sul lago, sollevando le onde, con colpi violenti, verso la riva meridionale; si vedeva lampeggiar lontano, l'eco debole d'un tuono arrivò poi, ripercosso dalle montagne. Tutta la notte la gente rimase per la strada, in piccoli gruppi, a due a due – a un certo momento si sentì qualcuno che piangeva forte – e finalmente, finalmente, si fece giorno, venne un mattino limpido e bello. Nel sole estivo la campagna si adagiava, noncurante e serena, come se non esistesse il dolore.
Quando all'ufficio postale volli spedire un telegramma a Rilke, Camillo mi disse che la frontiera francese era stata chiusa. N'ebbi uno spavento mortale, e da principio non ci volevo credere, ma lo zio Hans, che mi raggiunse a mezzogiorno (s'era recato a Riva per aver notizie), mi disse che probabilmente anche la Francia sarebbe entrata in guerra. La mia maggior preoccupazione è di sapere se Rainer si renda conto di tutti i pericoli che lo circondano. Che terribile pena pensare ch'egli possa trovarsi ancora a Parigi – ignaro tu tutto! –
Spesso non legge i giornali per intere giornate, non parla con nessuno e non sa quasi quel che avviene nel mondo. La sua ultima lettera mi parla dell'estate: "...spero che la stagione mantenga da voi le sue promesse. Tu vedessi gli alberi qui! Il calore insolito in questi ultimi tempi li ha come arsi e per metà spogliati delle loro fronde e n'è venuto così una specie di ottobre artificiale, ed anche i baracconi del "Quattordici Luglio", che stanno sorgendo all'ingresso del Lussemburgo, riescono appena a consolarcene." Non una parola di quel che da settimane tiene tutti in pena, anzi, si rallegrava di aver ricevuto, nella sua solitudine, una lettera, probabilmente un po' strana, dal poeta Walter Heymel, e rispondeva così alla descrizione che del mio incontro con quest'ultimo a Merano, avevo fatto a lui prima della mia partenza: "...Mi accorgo dalla meraviglia, con cui mi parli di lui, che, rimettendosi dalla sua grave malattia, è tornato proprio quello di prima, di cui non si sapeva mai dire se fosse la natura che, per spontaneo impulso, creasse un mulinello intorno a lui, o se fosse lui a provocare continuamente questo fracasso e questo turbine. Eppure in tutte le sue manifestazioni (comprese le poesie) si sente una dolce necessità. Appena si cerca di sottrarsi a questa veemenza, come ad una violenta corrente d'aria, si scopre ch'è un soffio di vento schietto e in fondo siamo felici di trovarci così bene all'aperto..."
La natura di questo singolare Walter Heymel mi sembra qui osservata nel suo complesso e fissata in poche parole; la lettera poi, scritta circa tre settimane fa, ha un tono più pacato e sereno delle lettere precedenti e mi porta un prezioso dono: la copia di una poesia che gli avevo chiesta. Ma forse, pochi giorni dopo, Rilke avrà avuto sentore delle voci che tenevano con il fiato sospeso tutto il mondo, e sarà partito in tempo per la Germania o per la Svizzera. A chi chiedere notizie? La principessa Maria pare sia in viaggio. Titi Taxis non sa nulla – questa incertezza è spaventosa! Oh se gli si potesse far avere delle notizie, e metterlo in guardia!
Quando chiudo gli occhi vedo le sue due stanze nella rue Campagne première; il grande studio e la cameretta accanto. Quante volte mi sono seduta vicino alla scrivania di Rodin, ascoltando Rilke che leggeva! Mi parlò una volta del Monte San Michele, l'isola di sogno dispersa nel mare. I suoi occhi, parlando, parevano divenir più grandi e luminosi; e si faceva dei progetti per andarci. Non si stancava mai di descrivere la cattedrale, quel miracolo di pietra che si leva verso il cielo; quel fervore di fede infiammata, nostalgico, quell'anelito verso Dio, divenuti realtà. – Come ci si sentiva umanamente vicini a tutto, al paesaggio, all'arte! Ed ora? "La frontiera con la Francia chiusa." E dove si trova Rainer, dov'è Rainer?

***

Il 13 di agosto 1914 lasciai Torbole. Correva la voce che, a causa dei numerosi convogli militari, sarebbe stato interdetto ai civili, per qualche settimana, di viaggiare in treno. In quei giorni partiva un solo treno quotidianamente per il Tirolo e l'Alta Austria; non era il caso di temporeggiare.
Avevo fatto i miei bagagli e ordinato una carrozza per le tre del mattino; occorreva arrivare a Mori, passando per la strada di montagna, per fare a tempo a prendere il treno che partiva di lì alle quattro e mezzo. Le mie buone padrone di casa mi salutarono con le lacrime agli occhi e con mille benedizioni; lo zio Hans, che sapeva dire di solito sempre una buona parola, era serio e preoccupato di lasciarmi partire sola, perché lui non poteva allontanarsi; lo rassicurai, dicendogli di non sentire alcun timore; ma quando la carrozza ebbe lasciato il villaggio e si arrivò sulla salita che conduce a Nato, non potei reprimere un moto di turbamento a pensare di dover viaggiare sola soletta con un vetturino sconosciuto, attraverso le montagne, nella quiete profonda e spettrale della natura.
Quella notte di plenilunio era di una bellezza indicibile. Sino in lontananza splendeva bianca la strada solitaria; ogni tanto un soldato, uscendo dall'ombra di una roccia, si avvicinava alla carrozza con la baionetta innestata e fermava i cavalli. Il vetturino mostrava allora il suo lasciapassare e il viaggio riprendeva. A Loppio, nel deserto paesaggio carsico, le poche e misere casupole erano immerse in un sonno profondo; il laghetto, che si doveva stendere di fronte al paese, all'ombra profilata in azzurro scuro delle pareti montagnose, non si scorgeva. Soltanto la strana chiesa, che sorge sola nel paesaggio, come un tempio greco, con il suo colonnato, tra le rocce franate e la magra erba, splendeva chiara nella luce lunare.
Era come viaggiare in un altro pianeta, verso un paese mai visto. Solo il respiro caldo, rappreso come in un velo di nebbia, dei due cavalli sauri, e quel loro lieve sbuffare, diffondevano un senso di tranquillità in quanto davano la confortante sicurezza d'esser sulla terra. Cominciò una scesa ripida, in lontananza apparvero delle luci: il ponte ferroviario di Mori; e d'un tratto si fu in mezzo a un indescrivibile confusione di locomotive, fumo, gente, treni, profughi, file interminabili di carrozze, soldati che cantavano, donne che piangevano e bambini impauriti.
E in alto, al di sopra di ogni tumulto umano, di ogni destino, lassù tra le montagne, si faceva giorno. Le stelle si persero nel cielo, che si faceva sempre più luminoso, cirri rosati apparvero sulle cime rocciose. Quella pace indescrivibile, al risvegliarsi della natura, era come il simbolo di un'esistenza che era al di sopra di tutti gli eventi terreni.
Quando, dopo un viaggio di venti ore, arrivai finalmente stanca morta, affaticata dalla veglia, a Innsbruck, senza sapere come avrei potuto trovare Carlo in quella confusione, lo vidi subito invece, perché con la sua statura superava tutti gli altri, sulla pensilina. Mi accolse a braccia aperte e m'accompagnò all'albergo Tirolerhof, dove era riuscito a far requisire per me una stanza da bagno, ridotta alla meglio a camera. La città traboccava di gente, nelle vie i veicoli e le persone s'ammassavano uno accanto all'altro.
Dopo che mi fui un po' riposata, si sedette insieme sino a tarda sera nel fumoir dell'albergo, ove s'era soli; tutti s'erano riuniti nelle sale da pranzo, schiamazzando e cantando. Questo entusiasmo incomposto aveva qualcosa di febbrile. Carlo, sereno e calmo, come sempre, mi portò i saluti di Maria, parlando di lei con amore e ammirazione. Essa aveva subito assunto, con esemplare abnegazione ed accortezza, l'amminstrazione della tenuta. Alcune persone fidate la aiutavano e del resto era in buone mani: i fratelli e le sorelle di Carlo, ch'eran fuggiti da Parigi, tra i maggiori pericoli, eran riusciti a raggiungere Bolzano, dopo indicibili difficoltà, rifugiandosi da Maria. All'infuori di una valigetta, che si eran portati dietro, avevano abbandonato tutto. – Fuggiti da Parigi! Quasi indovinando i miei pensieri, Carlo mi chiese: "Giusto, sai dov'è Rilke?" E quando gli risposi di no, egli osservò allora che la via più sicura era quella di telegrafare al medico di fiducia di Rilke a Monaco, il dottor von Stauffenberg. Se Rilke era in Germania, il dottore l'avrebbe saputo certamente. Grazie a Dio, s'era trovata una via! Carlo, sempre premuroso e caro, mandò alla stazione, nonostante l'ora tarda, un attendente con il telegramma. La mattina doveva partire per l'oriente, verso un destino penoso e incerto. La sua forza d'animo e la sua fiducia erano ammirevoli: diceva d'esser sicuro di ritornare. Dio lo voglia, pensavo tra me come in una fervida preghiera. L'esistenza di Maria era unita alla sua indissolubilmente, che sarebbe accaduto se non fosse ritornato? In quell'ora d'addio lo ringraziai con tutto il cuore per tutto l'amore fraterno e fedele che m'aveva dimostrato. Poi ci separammo io continuai il mio viaggio con il treno successivo, raggiungendo dopo quarantotto ore la mia meta: Gmunden sul lago Traun.

(Dal diario)

Il viaggio da Innsbruck a Gmunden, che in tempo di pace si fa in sette ore, durò due giorni e due notti. Non dimenticherò mai questo viaggio terribile. I vagoni erano strabocchevolmente pieni, molte persone viaggiavano con i loro bambini, che soffrivano più degli altri di quel viaggio, perché in quegli scompartimenti. affollati non c'era da pensare di dormire né di trovare qualcosa da mangiare. Soltanto una volta, a una stazioncina secondaria, ci fu da prendere una brodaglia di caffè in bacinelle di latta e del pan secco, vecchio forse di parecchi giorni. Sembrava che tutti avessero perso la testa. Distribuii la mia poca cioccolata e un pacchetto di biscotti a due bambinette che piangevano dalla fame; durante una notte intera il treno sostò in piena campagna, mentre un convoglio militare dopo l'altro ci passava davanti. La luna calante, nel cielo limpido, si specchiava nei finestrini dei treni che ci passavano dinanzi in corsa vertiginosa; l'aria afosa dell'estate, in quegli scopartimenti stretti, era insopportabile. Ogni volta che gli si chiedeva, disperati, quando finalmente si sarebbe proseguito il viaggio, il controllore, che di tanto in tanto si faceva vedere, dava sempre la stessa risposta: una qualche volta.

***

Dà un senso di benessere infinito ritrovarsi qui, nella nostra pulita e tranquilla casa di campagna, sotto al monte; poter finalmente dormire! Ma da Monaco non giunge nessuna notizia. Chissà, forse il dott. Stauffenberg è partito anche lui per qualche lontano ospedale da campo, ove non si può più raggiungerlo. Ho scritto a Elisabetta, qualcuno deve pur sapere dove si trova Rilke.

***

Tornando oggi su dal lago, vidi una busta bianca sul mio tavolo: una lettera di Rainer! Mi parve una cosa così incredibile rivedere la sua calligrafia, che in un primo momento non riuscivo a comprendere quasi come avesse potuto scrivermi; ma sì, e c'era anche un telegramma. E lessi, tenendo la lettera nelle mie mani tremanti:

Non è senza un senso di sincera vergogna che me ne rendo conto: tu, cara, sei stata in pena per me, e io non mi son affrettato a tranquillizzarti, per quanto l'avessi potuto fare, perché ho avuto modo di leggere la tua cara lettera a Elisabetta. – Ma, credimi, questi avvenimenti imprevedibili, hanno annullato completamente la mia voce scritta; chi esiste ormai, chi si sente vivere, pensare, esistere? – E sono ancora io? mi domando a volte. Siamo ancora noi? – No, tutti siamo stati trasportati con la violenza in un mondo inaudito, che non ha in comune con quello in cui siamo vissuti sinora se non d'essere incomprensibile, ma in una maniera nuova, tremenda, micidiale.
"Tuttavia, esteriormente, ho seguito sino a ora puntualmente i progetti da me fissati già da tempo: il 19 luglio ho lasciato Parigi con un bagaglio sufficiente per due mesi circa; tutto quel ch'è restato di mio lassù, è rimasto là, custodito da una porta chiusa soltanto a chiave – non penso neanche a quel che intanto ne possa esser avvenuto e se sarà perduto per sempre.
"Passando per Göttingen sono andato a Lipsia; di là, il primo agosto a Monaco, dove Stauffenberg mi prese in cura (fisicamente non psico-analiticamente); seguendo il suo consiglio, eccomi in campagna da circa dieci giorni, ma questo soggiorno, me ne rendo già conto, non può esser né duraturo né utile. Come rimane inaccessibile la natura innocente – ch'è soltanto immagine – mentre il tempo ha tutto soverchiato e vinto. E così, molto probabilmente, ritornerò presto a Monaco, con il proposito di cercare di lavorare, finché non risulterà chiaro come eventualmente possa contribuire con le mie forze a formare una riserva, utile a tutti, di energia. Per il momento ne ho ancora troppo poca per mettermi a far qualcosa subito; se potrò lavorare, la mia coscienza sarà tranquilla – perché soltanto nel lavoro io posso dare il mio contributo veramente e completamente, e, anche se non ha l'apparenza d'un aiuto, alla fine, quelli che ritorneranno vorranno pur trovare un punto a cui ricollegare il loro cuore di una volta e si rallegreranno se vedranno che ha proseguito il suo cammino e potranno così continuare il quieto governo della loro anima.
"Ma chi pensa a cose così lontane? Gli eventi ci si presentano dinanzi come montagne immense e pericolose e l'avvenire di tutti noi è al di là di loro, come se fosse inaccessibile. – E così quella tensione, che sentivo tanto intensa proprio a Parigi, ha finito per trascinare il mondo intero ad una esplosione tra le più spaventose!
Dio mi aiuti a raccapezzarmici, a scoprire un posto, dove possa restar sensibile, attento e capace di manifestare anche ora le estreme e più pure possibilità del mio cuore.
Ti saluto con tutto il cuore, cara. La tua indole generosa, sono certo, ti sosterrà da sola e riuscirai ad essere attiva e serena nelle più difficili prove ed a far del bene, dove ti troverai..."

Questa lettera, scritta alla villa Irschenhausen, nella valle dello Isar, m'aveva raggiunta in due giorni. Il telegramma del dottor Stauffenberg invece, che portava alcuni timbri di censura, aveva impiegato otto giorni e le notizie che mi dava erano sorpassate dagli eventi: avevo ormai nelle mie mani la lettera di Rainer; una lettera seria, cupa, eppur confortante, perché egli viveva ancora, era sampato a tutti i pericoli e – quel che era ancor meglio – si proponeva di lavorare e sembrava rendersi conto ancora una volta di quel che ciò significasse per lui: "...perché soltanto nel lavoro io posso dare il mio contributo veramente e completamente..."

***

Appena, ai primi d'ottobre, si tornò a vivere in città, mi offrii subito di fare concerti per i feriti negli ospedali e ricevetti lettere dalle più svariate città, con proposte, richieste e consensi entusiastici. Il professor Ludwig Schleich di Berlino, mi pregò di venire a suonare alcune sere, e anche Lipsia, Dresda, Königsberg, Hannover e Vienna mi richiesero. La mia amica Elisabetta, capo infermiera in una clinica di Monaco, mi scrisse di venire presto a suonare nel suo lazzaretto; aveva invitato anche Rilke a collaborare a quella serata, ma egli sarebbe probabilmente partito, senza tornare a Monaco per lungo tempo, inoltre non si sentiva in grado di parlare dinanzi a molta gente. Gli pareva sì, calmo e tranquillo, ma molto diverso dal solito, certo era stata la guerra a mutarlo così o forse aveva dietro di sé una qualche penosa esperienza, di cui non era ancora riuscito a liberarsi completamente.

***

Partii per Monaco il 24 ottobre, tormentata da pensieri inquietanti e dolorosi e, per quanto cercassi di convincermi che era meglio non rivedere Rilke, la città mi parve deserta e squallida senza di lui. I bei ricordi dei giorni ivi passati insieme, prima del viaggio a Parigi, tornarono come in vita e il presente mi parve scialbo e irreale.
Avevo avvertito del mio arrivo la direzione di una società di concerti; il giorno seguente, subito dopo pranzo, si presentò un agente, venendo a trovarmi nella mia pensione con un mucchio di progetti. Non lo conoscevo: aveva un modo di parlare confidenziale, veramente antipatico, che m'ispirava una certa ripugnanza; rifiutai le sue offerte, cercando di por fine al colloquio. Si fece insinuante allora, poi impertinente, tanto che mi alzai, avvicinandomi al campanello per chiamare qualcuno della pensione. Quei tipo fece una mossa come per impedirmelo – in quell'istante si sentì bussare alla porta, gridai "avanti", l'uscio si aprì e sulla soglia apparve Rilke!
Lo fissai sbalordita, come fosse un'apparizione l'estraneo s'era dileguato, come un'ombra maligna – e Fra Angelico ed io ci prendemmo per la mano!
Un solo sguardo gli era bastato per intuire e comprendere la situazione; e quando, dopo i primi cordiali saluti, gli chiesi, ancora tutta confusa, come avesse fatto ad apparire così inaspettatamente e proprio in quel giorno e in quel momento, come un vero angelo custode, mi rispose sorridendo un poco: "Ma non son qui proprio per questo?"
Scrutai con lo sguardo il suo volto, i suoi occhi, che parevano limpidi e calmi, e mi venne in mente quel che, nei giorni angosciosi di Venezia, avevo pensato così spesso: se ci fosse stato concesso un giorno di rivederci, sarebbe stata una nuova esperienza: come se delle persone che risuscitate dalla morte, s'incontrassero una volta ancora, dopo aver superato tutti i dolori in una vita precedente e lontana, una vita che furono costretti ad abbandonare, pieni di un cocente dolore, che con il tempo si era ormai placato.
Pareva che la quiete fosse tornata in lui. Nei giorni che seguirono, così belli, sereni, sbocciò fra di noi una specie di amicizia fraterna e pura che ci rendeva felici e ci aiutava a volte a sopportare il peso di quel che avveniva nel mondo esteriore. Non si voleva né si poteva parlare dell'avvenire, ch'era inaccessibile, come al di là di tutti gli eventi, ma ci era concesso di parlare di tutto quel che c'era di bello nei nostri comuni ricordi, durante le lunghe passeggiate di quel tardo autunno, nel Giardino Inglese, splendido ancora nella ostentazione dei suoi prati verdi e dei suoi alberi, dalle fronde multicolori. Spesso, verso mezzogiorno, si stava su una panchina al sole, guardando il fluire furtivo e silenzioso dei piccoli corsi d'acqua, e divertendoci ai giuochi dei bambini e dei cani, che si trastullavano allegri e ignari, dinanzi a noi, nei vialetti del giardino.
Un giorno anzi, Rilke salvò un piccolo fox-terrier che, per divergenze d'opinioni con alcuni cani più grossi, non riusciva a tener testa all'assalto dei nemici, perché fu addirittura travolto e finì per rotolare in una vasca, dove rimase impigliato con le zampine anteriori nella rete dell'apertura di scarico, e cominciò a guaire lamentosamente. Rilke non esitò un istante a entrare fino ai ginocchi nell'acqua, per tirar fuori il piccolo cane che, una volta felicemente salvato, ballettò dalla gioia, scuotendosi di dosso una vera pioggia di goccioline, e rivoltandosi poi nell'erba. Ci venne da ridere, ma le scarpe di Rilke, il suo nuovo abito blu, che, come diceva, s'era fatto fare in onor mio, e le sue ghette di stoffa grigia, eran miseramente inzuppate d'acqua. Temendo che si prendesse un raffreddore, lo pregai di salir da me; facemmo di corsa i pochi passi che ci separavano dalla mia pensione, e lo costrinsi, mentre gli preparavo una tazza di tè, ad infilare, nella stanza da bagno, un paio di solidi calzini di lana e delle grosse pantofole, che m'ero procurata, per mandarle a Carlo al fronte.
Si riusciva spesso a essere allegri allora; come se, per una forma di perfetta coerenza, anche nella vita quotidiana si confermasse quel che Rilke m'aveva scritto a Gmunden in quella tarda estate: "...in fondo quelli che ritorneranno vorranno pur trovare un punto a cui ricollegare il loro cuore di prima e si rallegreranno se vedranno che ha proseguito il suo cammino."
Si aveva il diritto di conservare ancora quella nostra affettuosa e profonda serenità dell'anima, proprio noi, ch'eravamo strettamente legati da un destino comune a tutti quelli, amici e conoscenti, che si trovavano lontano al fronte? Lo chiesi a Rilke ed egli osservò che anche questa poteva essere una consolazione: di veder che la vita pratica continuasse indisturbata, nelle sue minime quanto nelle sue più importanti manifestazioni.
Ammiravo la calma con cui subiva gli avvenimenti, e mi sembrava che fosse padrone di sé, come non lo era mai stato in vita sua; del suo lavoro non discorreva mai ed io non osavo toccar questo tasto; ma mi leggeva spesso ad alta voce e mi parlava molto di Goethe che, come ebbe a confessare, aveva, per così dire, scoperto soltanto da alcuni anni: "...verso di lui, prima e da lungo tempo, non mi spingeva una sincera simpatia... ma ora diventa importante per me, anzi umanamente commovente, cosa a cui non ero menomamente preparato – e non mi stanco di ammirare la maestria e la padronanza, con cui ha continuato a costruire sulle sue fondamenta, limitandosi solo sulla sommità, perché era lo spirito della sua piramide che egli completava nel senso da lei imposto..."
"Umanamente commovente..." – non avevo mai pensato a Goethe in questo modo, ma ora, dopo le parole di Rilke, lo sentii più vicino a me, in un senso nuovo e meraviglioso. E Rilke mi rendeva familiari anche esistenze lontane, che conoscevo appena, perché sapeva penetrare profondamente nelle particolarità di un orientamento di vita, di un carattere. Così la sua ammirazione per Tyho Brahe, il grande astronomo, si manifestava in uno stupore e in uno spontaneo riconoscimento di quella scienza, a lui ignota, che scrutava i misteri incomprensibili del cielo – e con quale gioia si proclamava suo "discepolo", mettendosi anche dalla parte del torto: "...è davvero mancanza di talento: vivo pur sotto questo cielo! ed ecco che, se, come oggi, mi sveglio all'alba e vedo la luna inquadrata nella mia finestra che dà a mezzogiorno (aveva del resto una faccia brutta e trasandata e, per quanto fosse ancora alta, si nascose subito nella foschia) – sono convinto che l'errore sia lei a commetterlo, tanto mi sembra fuori luogo trovarla proprio in quel punto – le dico: 'Ma via, mia cara... e quella se n'è già andata, la sua coscienza non doveva essere perfettamente tranquilla, eppure era proprio lei che, naturalmente, aveva ragione. – E penso allora al diciassettenne Tyho Brahe, quando era venuto a Lipsia, per studiare legge, lasciando in Danimarca l'aristocratica famiglia, da cui era nato; ma di notte (e le notti di Lipsia non sono poi di primissima qualità) si sporgeva dalla sua piccola finestra, quando il suo precettore dormiva, segnando silenziosamente, su di una sfera, non più grande del suo pugno – e perciò facile a nascondersi – il cielo notturno, che a questo modo venne, per così dire, dettato alla sua memoria nell'ordine più perfetto, direi quasi un astro dopo l'altro; la sua anima ne sapeva cantare il nome, in certo senso, dopo la prima occhiata (mia cara questo è genio) – e vedi, un anno dopo, quand'era nella tenuta di suo zio Bile, tornando una sera lentamente a casa, scoprì ad occhio nudo una nuova stella nella costellazione di Cassiopea; tanto familiare gli era questa infinita volta stellata, che la piccola tacita apparizione inconsueta gli fu subito nota, come al maestro dà nell'occhio il nuovo timido scolaretto che un giorno si unisce in classe agli altri suoi alunni.
"Ed io invece – mi stupisco così grossolanamente dinanzi alla luna, e sospetto qualche incongruenza nella sua condotta in cielo. Così a noi, ad ognuno di noi, il mondo si manifesta in misura diversa. Certo non vorrei conquistarlo a forza di calcoli, con astuzia o spiandolo di nascosto, no ma penetrar ovunque nella sua legge, attraverso la contemplazione e la gioia, perché allora il cammino diventa facile e non si sente più la stanchezza..."

Anche in Rilke non si notavan sintomi di stanchezza. In quei giorni di soggiorno monacense, aveva un aspetto giovanile e riposato e pareva più sano di prima. Quando gli chiesi se avesse una camera tranquilla e se dormisse bene, mi rispose: "Oh, va tutto bene, una enorme quantità di sonno continua ad aspettarmi, ho fiducia in lui quasi come in te; grazie a lui la mia natura rimane ancora legata ad una profonda sorgente di forze non consumate e di innocenza."
Rilke conduceva allora una vita ancora molto ritirata e, ad eccezione dei Bruckmann, non frequentava che una famiglia, composta da una madre e due figlie, che abitavano lontano nel quartiere di Schwabing. Mi pregò una volta d'accompagnarlo da loro ed io mi sentii subito attirato da quella singolare atmosfera, e vi tornai spesso, sempre accolta con molta cordialità e amichevolmente.
S'era dato alla vecchia signora il soprannome "La signora del consigliere di Augsburg" e Rilke sosteneva che, anche se esteriormente non somigliava affatto alla madre di Goethe, pure quel suo fare originale e allegro ricordava la signora Aja.
Sempre allegra ed attiva, la piccola signora grassoccia era la prediletta di tutti i bambini del Hofgarten, perché, durante la sua passeggiatina giornaliera, prima del caffe del pomeriggio, ogni bimbo che la incontrava era sicuro di ricevere un cioccolatino o una caramella, che la signora tirava fuori da una voluminosa borsa di velluto nero. In una borsetta più piccola portava poi con sé resti di pane e briciole d'ogni specie, che distribuiva, secondo la richiesta, a cani o uccelli. Quando si andava a trovarla nella sua antiquata e comoda casa, offriva subito un delizioso caffè e ripeteva immancabilmente: "Lei deve assolutamente rimanere a cena."
Ed eccoci raccolti intorno ad una tavola rotonda, per una modesta cena e la "signora del consigliere" raccontava. Aveva davvero una riserva narrativa inesauribile: avventure allegre, eccitanti, grottesche e melanconiche della sua gioventù ci sfilavano dinanzi – si poteva stare ad ascoltarla per ore intere. Rilke si metteva allora quietamente seduto, piegato un po' in avanti, e la guardava, sospeso.
"Sono sempre nuove storie, e non si sa mai come vadano a finire, perché la conclusione è sempre molto diversa da quel che ci si aspettava", disse un giorno, stupefatto.
Le due figlie non somigliavano in nulla la madre, ed eran molto diverse anche tra loro. Si stentava a credere che quelle tre donne fossero legate da una così stretta parentela.
La più giovane, di natura gentile e modesta, era stata infermiera nei paesi tropicali e viveva ora come infermiera privata, con la madre e la sorella. La maggiore Rilke me l'aveva raffigurata come una poetessa di talento eccezionale, ed era difficile immaginarsi un essere più strano di quella ragazza alta e angolosa. Il suo modo di vestire era di tipo campagnolo e insieme fuori di qualunque epoca, come del resto lei stessa. Grandi occhi neri animavano il volto scarno e quasi contadinesco, che a volte pareva irrigidirsi in un'espressione di profonda tristezza. Se la sua bocca severa e larga s'apriva a un sorriso – cosa che capitava di rado – si restava più scossi di quando, seria e silenziosa, pareva immersa in una interiore meditazione. Rilke sosteneva che i suoi strani versi e racconti essa li scrivesse in uno stato di sogno, per metà sonnambolico e per metà cosciente. Benché non avesse certo superato i trent'anni, aveva già subito un destino eccezionalmente crudele, anzi raccapricciante, da cui era stata quasi annientata, e solo un'ardente devozione religiosa, anzi quasi fanatica, in cui credeva di essersi liberata dalle sue sofferenze, sembrava sostenerla. Sino a che punto la madre, sempre serena ed affettuosa, fosse a conoscenza di questo destino, Rilke non lo sapeva le tre donne vivevano d'amore e d'accordo, rispettando reciprocamente i loro caratteri così diversi, sicché, nonostante molti segreti taciuti che forse esistevano tra di loro, le univa una ammirevole fiducia, un tacito accordo.
Qualche volta la poetessa ci leggeva, con la sua voce grave e un po' salmodiante, i suoi versi, che mi sembravano come dettati da uno che parla in sogno, ed erano spesso apparentemente senza nesso – e tuttavia pieni di una sapienza profonda. Rilke aveva scritto per quel suo libro una piccola prefazione, di cui lei stessa lo aveva pregato, con la sua particolare insistenza, come diceva lui. Rainer aveva saputo trovare le parole adatte per presentare e render comprensibile questo libro, per dir così, provvisorio, immaturo, eppure in qualche modo definitivo. Ammirai la sua potenza di comprensione e la simpatia con cui si rivolgeva verso queste poesie; copiai perciò la parte essenziale della prefazione nel mio diario:

...Lei mi ha suggerito di scrivere una prefazione al Suo libro: Ho esaudito il Suo desiderio perché non riesco ad immaginarmi che sia proprio ingiustificato, dal momento che Lei lo ha sentito; io sono infatti fermamente convinto che Lei sappia quel che vuole. Una prefazione, se comprendo il significato della parola, avrebbe dunque il compito di preparare gli altri, i lettori, a quel che, in questo preciso caso, era rappresentato dalla Sua volontà. Ora io posso fare una sola cosa: preceder questa volontà e giustificarla; non la posso però spiegare. Posso dire: qualunque cosa vi capiti d'incontrare in questo libro, prendetela per vera; non ne dubitate (perché io stesso non ne ho mai dubitato).
È precisamente questo che determina, almeno mi sembra, quella particolare meraviglia che la sua opera ha suscitato in me: e cioè che nei Suoi scritti, anche quel che non si riferisce a una esperienza diretta, le parti deboli e gli elementi non dominati completamente, sono dotati pur sempre di una tale sicurezza di rappresentazione e, per così dire, di una coscienza così pulita, dinanzi a cui non può sorgere alcun dubbio. In un'epoca così consumata dalle esperienze, come la nostra, capiterà di rado di vedersi formare una individualità poetica da elementi così contrastanti; non si tratta qui di ammettere che un'opera d'arte perfetta si trovi accanto ad una imperfetta; ma si tende piuttosto a credere che del materiale assolutamente grezzo si sia insinuato sotto quello sublimemente perfetto, e in modo che la parte migliore, preziosa, in certo modo sorretta dall'altra, viene a porsi in un equilibrio stabile, continuo, in una quiete solenne, che vien fatto di considerare senz'altro eterna... Se fosse possibile che, a dipingere delle figurine, venisse fuori un risultato così grandioso, sarei disposto a usare, per un momento, questa immagine: Lei ricopre con uno strato trsparente di un colore puro e stabile figure e vicende disegnate in maniera bizzarra e goffa, e non si mantiene sempre fedele ai contorni di questi disegni, che rivelano una derivazione da una certa tradizione superstiziosa e superficiale; per conseguenza, su questo mondo correntemente riconosciuto, se ne sovrappone un altro, assolutamente inedito: il Suo.
Con questo ho cercato di giustificare – se è questo che Lei si aspettava da me – la pubblicazione del Suo scritto; perché l'opera di chi sa esprimere compiutamente il suo mondo interiore, trattandosi di una realtà tra altre realtà, non può rimanere ignorata a lungo. S'intende però, che questo mondo presentato così acerbamente, è ovunque in divenire. Ed eccomi forse al punto di volta del mio stupore, se mi rammentocome nella Sua opera, in quasi tutti i punti, l'elemento transeunte, come fa la parabola, accenna a quello eterno, n'è anzi il precursore, appassionatamente saturo.
Con tutto ciò l'argomento è spesso così comune, che si sarebbe tentati di crederlo inerte e ingenuo: ma Lei gli apre la bocca ed ecco che riesce a dire cose grandi...

Chiesi a Rilke quando aveva scritto questa prefazione, ed egli mi rispose: "A Parigi, nel 1908, mentre lavoravo al Malte."
Così aveva trovato ancora il tempo di pensare agli altri, di aiutarli; e la scrittrice, che aveva ricevuto quel dono gli era grata, manifestandogli tutta la sua ammirazione e fedeltà. Se con iltempo la sua opera poi scomparve, come la sua persona, dipese certo da quella sua esistenza singolare, che non era capace di resistere alla realtà. Durante il mio soggiorno monacense, mi regalò un giorno Due Storie Praghesi di Rilke, un libro molto raro, che non si trovava più in nessuna parte, perché era esaurito. Sapevo quanto lo amasse e perciò non volevo accettano. Ma lei mi disse: "L'ho posseduto a lungo e mi ha dato tanta gioia, non sarebbe giusto ch'io lo tenessi ancora per me. Ora tocca a te a godertelo!"
Sulla prima pagina mi scrisse questi versi, che aveva pensato per me:

L'amicizia
vien da lontano...
dall'infanzia...
allora già
condivide la nostra gioia
poi venne con noi
per le selve oscure,
fiduciosa
di ritrovare
al loro confine
l'immenso mare.


Molto diversa e di respiro più ampio era la vita di società in casa Bruckmann. Hugo Bruckmann, il grande editore, univa in sé alle qualità di uomo di mondo quelle dell'uomo colto.
Intorno a lui e a sua moglie – ch'era da ragazza una principessa Cantacuzène – una donna sensibile e sicura in cose d'arte e di musica, si riuniva la élite intellettuale di Monaco. Alla cerchia degli amici più assidui dei due coniugi, appartenevano, oltre a Rilke, e il presidente del "Deutsches Museum", il signor von Miller con la famiglia, Friednich Klose con la moglie, Courvoisier, il dottor Bodmer, Norbert von Hellingrat, un giovane di gran talento, Pigenot, Ludwig Klages e Alfred Schuler, una personalità allora molto discussa. Si vedevano spesso anche ospiti di passaggio: la contessa Blandine Gravina, figlia di Hans von Bülow, che veniva da Bayreuth, mentre da Vienna giungeva l'affabile e spiritoso barone von Hess-Diller, con sua moglie, famosa per la sua bellezza, parente della famiglia Bruckmann e nipote di quella contessa Giulietta Guicciardi, a cui Beethoven aveva dedicato a suo tempo la sonata del chiaro di luna.
I magnifici saloni di casa Bruckmann, che davano sul Carolinenplatz, si prestavano mirabilmente per grandi ricevimenti: nell'ampia biblioteca si formavano dei piccoli gruppi in cui si discuteva di letteratura e dei problemi del giorno; nel salone maggiore poi si faceva della musica. Ci si muoveva liberamente e con disinvoltura in un'atmosfera satura d'interessi spirituali, in cui, sia gli artisti come i fedeli dell'arte, si sentivano attirati l'uno verso l'altro. Anche se Rilke non partecipava che di tanto in tanto alla conversazione, e a volte anzi si facesse notare soltanto come ascoltatore, pure solo la sua presenza dava ai discorsi un certo orientamento. Spesso pareva che la sua spiritualità guidasse la conversazione, senza che egli ne avesse l'intuizione.
Ma a Schwabing, dalla nostra Frau Rat, si metteva a raccontare da sé e, in quella piccola cerchia famigliare, gli riusciva, per così dire, estraniarsi da se stesso.
Di solito si era in cinque. Ogni tanto anche Hans Carossa, che abitava nella Theresienstrasse, vi faceva una capatina, dopo le sue ore di consultazione, e la sua comparsa era legata sempre a qualcosa di bello, e a una sensazione di pace e sicurezza. Se ci si preoccupava della sorte d'un combattente al fronte, si finiva, dopo averne parlato con Carossa, per vergognarsi quasi di ogni ansia. La sua fiducia aveva qualcosa d'irresistibile. Gli dissi un giorno: "Quando Lei guarda una persona, questa non osa più sentirsi scoraggiata." Il suo sguardo abbracciava con la stessa calma, piena di comprensione, la gioia come ii dolore; anzi, parlando una volta di lui con Rilke, venne a tutt'e due lo stesso pensiero: che cioè Carossa, invecchiando, sarebbe venuto a somigliare sempre più, nel suo intimo, a quel monaco della leggenda indiana.
Quelle settimane monacensi, malgrado le vicende della guerra, furono, intimamente, piene di serenità – questa volta ci separammo pieni di fiducia e rallegrati al pensiero della gioia che un prossimo incontro ci avrebbe procurato: s'era infatti progettato d'incontrarci, dopo non molto tempo, a Berlino, dove avrei dato un concerto per conto mio, senza contare alcune serate musicali nei lazzaretti. Nel frattempo Rilke mi scrisse che avrebbe volentieri letto alcune sue poesie a Vienna, se ero d'accordo di suonare anch'io un poco in quella occasione. Accettai con grande entusiasmo, ma poi sorsero diverse difficoltà, per via della data e della scelta della sala, e infine poi, quando tutto era quasi combinato e concluso, Rilke dichiarò di non poter viaggiare in quel momento.
Compresi che nella sua vita era sopravvenuto qualcosa che non mi poteva spiegare per lettera; era divenuto inquieto, si lamentava dell'insonnia e della "gente, della gente sempre nuova", che lo disturbava, anzi che lo opprimeva: "...pensa, una cosa da morire: non mi riesce più esser solo!" – Nella lettera seguente gli chiesi perché non difendesse, come a Parigi, la sua preziosa solitudine – la sua risposta era triste e sconcertante: "Oh, a Parigi – là si viveva in un'oscurità sicura – nessuno veniva a trovarmi – ma qui! – Ed il peggio è: non mi riesce più di dire di no!"
Quando lo rividi a Berlino, dopo alcuni mesi, rimasi spaventata: pareva tormentato e senza pace e, come ebbi subito ad accorgermi, era trascinato da un vero vortice di vita mondana. Sembrava d'un tratto venuto di moda ricevere a casa sua "il celebre Rilke". Specialmente l'alta finanza di Berlino se lo disputava, con inviti a tè, a teatro, e a pranzo. Si chiedeva il sio consiglio quando si trattava di acquistare un quadro; era necessario che ascoltasse all'opera una nuova stella; una giovane ballerina lo invitò al suo debutto – insomma non poteva più disporre d'una sola ora della sua giornata. Nella prima settimana del mio soggiorno a Berlino, non venne che una volta a trovarci nella casa di Grunewald, sfinito, stanco – invece di riposarsi una buona volta, dopo appena un'ora dava già un'occhiata nervosa all'orologio, perché doveva trovarsi in città per un appuntamento.
"Oh! Con che piacere resterei qui. Ma..."
"Rainer", gli dissi, "prenditi un po' di riposo, scusati, se ti annoia di andarci." Mi guardò indeciso: "Potresti scusarmi tu? Sarebbe magnifico!" Disimpegnai così il "signor Rilke" per telefono, discutendo con un cameriere di un qualche consigliere segreto, che non si lasciava convincere e voleva mandare in tutti i modi a prendere il poeta in automobile; alla fine mi riuscì di liberarmene, e così passammo insieme alla signora Delbrück e i suoi ragazzi, una serata magnifica. Rilke d'un tratto s'era come trasformato: divenne così allegro, che gli venne in mente di descriverci come l'automobile del signor consigliere segreto forse l'attendeva proprio in quell'istante dinanzi alla porta della sua casa, nella Marburgerstrasse – ma invano: "...aspetta e aspetta, ma io non vengo perché son sparito, come l'omino nella fiaba di Andersen." I ragazzi desideravano sapere chi fosse costui – e Rilke raccontò allora la storia del baule volante, dei suoi viaggi in paesi lontani – ed eccoci d'un tratto in Egitto, nel magico paese delle piramidi e delle tombe dei Faraoni. I bambini ascoltavano rapiti, con le gote infuocate. Parlando del culto solare del giovane re Amenophis, Rilke ci mostrò due quaderni, che contenevano le riproduzioni degli ultimi scavi a Tel-el-Amarna. Così vidi finalmente il profilo meraviglioso, di una delicatezza simile a quella d'un fiore, di quel misterioso re, di cui Rilke mi aveva tanto parlato e scritto. Quel volto, fanciullesco, era straordinariamente commovente e aveva una nobiltà e una dolcezza senza pari. Pareva che il re stesso fosse un Dio solare, che irraggiasse la luce della sua natura sull'umanità. Rainer mi fece proprio un piacere quando mi propose di visitare insieme, uno di quei giorni, il Museo Egiziano, per vedere il busto del re, che purtroppo si trovava lì esposto solo a titolo di prestito e per poco tempo.
Quando Rilke, quella sera, se ne fu andato, lessi a Berta Delbrück, fino a tarda ora in camera mia, dei brani di quella magnifica lettera, scritta durante il viaggio in Egitto, la seconda lettera che mi aveva inviato, quando ancora non mi conosceva:

...Vada a vedere a Berlino la testa di Amenophis, nel lucernario di mezzo del Museo Egiziano (di questo re, Le avrei molte cose da dire); sentirà dinanzi a questo volto, cosa vuol dire trovarsi di fronte all'universo infinito, e raggiungere, in una superficie pur così limitata, per merito di una simmetria intensa di alcuni tratti, un equilibrio perfetto in tutta la figura. E non ci si potrebbe forse distogliere da una notte stellata, per ritrovare in questo volto espressa la stessa legge, la stessa grandiosità, profondità, ampiezza inimmaginabile?
Sono questi gli oggetti che mi hanno insegnato a vedere, e quando, in Egitto me ne sono venuti molti sotto gli occhi, nella loro natura più particolare, la penetrazione della loro essenza mi trascinava con tanto impeto, come in continue ondate, che passai quasi una notte intera sotto la grande Sfinge, e mi sentivo dinanzi a lei come espulso da tutta la mia vita..., avevo saltato la cena, gli arabi erano seduti lontano, intorno al loro fuoco, e io potevo muovermi senza esser visto, protetto dall'oscurità; l'avevo attesa lontano, nel deserto, poi m'ero avvicinato lentamente, avendo la Sfinge alle spalle, calcolando che, dietro la piramide più vicina, ancora tutta incendiata dall'ultimo rossore del tramontò, la luna doveva esser già salita nel cielo, perché s'era nel plenilunio. E infatti, quando finalmente ebbi fatto il giro della piramide, la luna, non solo era già abbastanza alta nel cielo, ma inondava di una tal fiumana di luce tutto quel paesaggio senza fine, che mi dovetti parare gli occhi con la mano, per trovare la mia strada tra le rovine e le buche degli scavi.


Levai lo sguardo, fissandolo sul viso di Berta Delbrück, che pareva in estasi. Era come se noi due si ascoltasse una voce, che pareva la voce di Rainer – e continuai:

...di fronte a quella figura gigantesca, mi cercai un posto e vi rimasi, avvolto nel mio mantello, sbigottito, con un senso d'indicibile partecipazione. Non so se ho mai avuto così pienamente coscienza della mia esistenza, come in quelle ore notturne, in cui perse ogni valore: cos'era in confronto a quel che mi stava dinanzi? Il piano su cui si svolgeva, era svanito nell'ombra; tutto quel che costituiva il mondo e l'esistenza, era trasferito sopra una scena più elevata, dove un astro e Dio si contemplavano in silenzio, l'un l'altro... Qui si era elevata una forma, orientata verso il cielo, a cui i millenni non avevano inflitto che un minimo e trascurabile deterioramento; e la cosa inaudita era che questa forma aveva tratti umani, che riuscivano a sopportare la sua situazione sublime. Questo volto aveva preso le abitudini dello spazio celeste; alcuni momenti del suo sguardo e del suo sorriso eran andati distrutti, ma l'albe e i tramonti del cielo gli avevano impresso il riflesso di sentimenti superiori – mi ci volle un po' di tempo prima che i miei occhi ci si adattassero, afferrassero il senso di quella forma, riuscissero a segnare la pupilla, la bocca, la guancia, la fronte, che sotto la luce e l'ombra della luna, passavano da un'espressione all'altra... ed ecco che, mentre ancora una volta li contemplavo, d'improvviso, inaspettatamente, entrai nella loro piena confidenza: mi riuscì di conoscere quella guancia, ebbi della sua curva la sensazione più precisa... s'immagini un po': dietro la sporgenza del casco regale, dalla testa della Sfinge, aveva preso il volo una civetta, sfiorandone il volto con le sue morbide e lente ali, di cui si percepiva, in maniera indescrivibile, il battito nella pura profondità della notte: e ormai, come per miracolo, s'era impresso nel mio udito, purificato dalle lunghe ore di silenzio notturno, il contorno di quella guancia...

Pochi giorni dopo ci si trovò davvero, Rilke ed io, nel lucernario del Museo Egiziano, al cui centro, illuminato soavemente da tutte le parti e dall'alto, si levava su di un semplice piedistallo, il capo del re. Il busto è un modello di scultura in fine pietra calcarea, perfettamente conservata: il volto è di una bellezza indescrivibile, gli occhi, che pur sono senza sguardo, sembran tuttavia rivolgersi al visitatore, con un'espressione di profonda sapienza e di bontà trasognata, una bontà che illumina tutto quel volto di fanciullo. E si comprende come questo fondatore di una religione, si fosse dato al culto del sole e credesse alla forza onnipotente dei raggi del grande astro, che alimenta tutta la vita. Soltanto allora mi furono completamente chiare le parole di Rilke: "Non ci si potrebbe forse distogliere da una notte stellata, per ritrovare in questo volto espressa la stessa legge?..."
Nel Museo erano esposte anche altre bellissime scoperte degli scavi: per esempio, l'immagine della regina madre Teje e un bassorilievo, che rappresentava il re con la famiglia, illuminati dal sole, i cui raggi parevano concludersi in forma di piccole mani benedicenti; ma si finiva poi sempre per tornare a quel busto, e per contemplare ancora quel volto calmo e sublime.
Poco dopo questa visita al Museo diedi il mio concerto alla sala Klindworth-Scharwenka, dinanzi a un pubblico numerosissimo. Eran venute: la mia cara Titi Taxis, Marie Bülow, la vedova di Hans con Bülow; vidi anche i Delbrück, Albrecht Schaeffer, Ossip Schubin, gli amici Nostiz di Lipsia, il nostro ambasciatore principe di Hohenlohe con la moglie, e molte altre facce conosciute. Tutti gli ascoltatori avevano dato un'offerta per i nostri feriti; l'incasso del concerto mi permise di mandare parecchi soldati, che avevano bisogno di una cura, per quattro settimane a una stazione termale.
Riuscì una serata bella e severa, e l'impressione che la musica suscitò negli ascoltatori fu particolarmente felice. Sapevo bene perché Rainer mi sedeva proprio di fronte, al posto d'angolo nel corridoio di mezzo – e dopo le prime note non ci fu per me più né sala, né pubblico né concerto, ma solo tre cose: la musica, Rilke ed io. Tutta la profonda commozione che quella musica suscitava in lui passava in me, di modo che suonavo lui – soltanto lui!
Inconsciamente, o per una segreta intuizione, gli altri lo avvertirono e sentirono certo che non era soltanto lo spirito di Mozart, di Bach e di Liszt, ma anche l'anima di Rilke che li trascinava alla gioia o alla commozione, secondo la disposizione di ogni singola natura.
Dopo il concerto si restò ancora un po' insieme con alcuni amici, più tardi Rilke mi accompagnò in carrozza a casa. Prima di fermarsi alla casa di Grunewald, mi chiese: "Hai davvero suonato soltanto per me oggi? Lo posso credere, con quella intensità con cui l'ho sentito per tutta la sera?"
Aveva dunque indovinato tutto, ed io gli risposi: "Non interpreto che te, da quando ti conosco, perché tu sei legato indissolubilmente a tutto il dolore, a tutta la felicità ch'è nella musica."
Mi accompagnò per l'oscuro giardino che si stende dinanzi alla casa e attese ch'io aprissi il portone. Ci si strinse la mano e allora egli mi disse, con voce quasi impercettibile ma piena di profonda solennità: "La tua musica – non saprò mai ringraziartene abbastanza! Forse oggi un altro, un essere più grande e più lontano, ti dirà quel che non so esprimere, perché è troppo profondamente radicato in me." – Poi chiuse il cancello del giardino.
Traversai pian piano, per non svegliare nessuno, l'anticamera, per arrivare nella mia stanza – ancor tutta presa dalle misteriose parole che Rilke m'aveva detto salutandomi. Giunta su in camera, accesi la luce – e appena la lampada s'illuminò compresi subito, mentre una profonda gioia e commozione mi faceva battere il cuore: dinanzi a me, sul tavolo, c'era proprio lui, Amenophis, la più meravigliosa copia del busto del re, che avevo visto nel Museo Egiziano – ed un alta pianta di rose già sbocciate, del colore dell'aurora, gettava su di lui un'ombra discreta!

In quell'ora notturna, in cui trovai in camera mia il dono di Rilke, non sapevo che quello sarebbe stato l'ultimo giorno felice e di serena intesa che m'era stato concesso di passare ancora insieme a lui. Occupati entrambi da numerosi impegni professionali, non fu possibile rivedersi, prima della mia partenza da Berlino, che una volta, durante un gran ricevimento, in mezzo a una moltitudine di gente estranea e indifferente. Rilke non sembrava più lo stesso, era scontroso e scontento. In un momento di tranquillità, in cui riuscimmo a scambiare qualche parola da soli, lo pregai insistentemente di liberarsi da tutti quei gravosi impegni mondani che lo tormentavano.
"Sì, se con il coraggio e la decisione dell'altro giorno, tu fossi sempre qui a scioglierli per me, mi sentirei quasi salvato" esclamò; ma, d'altra parte, mi accorsi che egli cercava invece la gente, per quanto proprio in quei giorni si fosse lamentato con queste parole: "Ah! mi additano poi a cerchio, quando siamo a tavola, come fossi un vaso di Sèvres o un oggetto d'argento, che è stato scovato in qualche posto e vien stimato di gran valore!" "Gli uomini si son impadroniti di me e non mi lascian più" mi scrisse in seguito – e concluse poi che avrebbe finito per rifugiarsi ancora a Monaco, per stabilirvisi definitivamente... rinchiuso e solo – oh, poter esser solo, non so quasi più cosa sia!"
Era uscito dalla sua solitudine, ed era venuto tra gli uomini, che ora si vendicavano perché lui s'era per tanto tempo tenuto lontano da loro.
Quando lo rividi a Monaco, l'anno dopo, era molto mutato; letteralmente non era mai solo e lo accompagnava sempre qualcuno, che lo reclamava e voleva esser salvato e consolato da lui. Mi parlò di una pittrice che vedeva spesso e che gli chiedeva aiuto – e mi ripeteva sempre: "Sai, è così faticoso per me, e mi dà una responsabilità grave – ma, che ci posso fare?"
Non mi parlò più mai del suo lavoro; quando i suoi progetti gli lasciavano un po' di tempo libero, andava alle mostre o sostava nella Pinacoteca, dinanzi ai quadri del Greco e di Breughel, immerso in gravi pensieri. Un giorno ci s'incontrò per caso a una mostra; siccome non volevo disturbarlo, stavo per lasciare inosservata la sala, quando mi vide e mi si avvicinò. "Guarda quella strana opera di Munch", mi disse, accennandomi una incisione che pendeva alla parete dinanzi a noi: al di sopra d'un'infinità di mani, levate come a supplicare o a esigere qualcosa, tese, una accanto e sopra all'altra, verso l'alto, come verso una meta, era sospesa una bara.
"Raccapricciante" esclamai. Rilke sorrise, triste: "Questo quadro s'intitola: La Gloria! di una verità spaventosa, perché: cosa rimane alla fine? Una bara!"
Tuttavia, anche in quei giorni, riuscii a tenerlo di buon umore. Uno dei miei giovani amici aveva scritto un ciclo di poesie che m'eran parse belle e interessanti. Rilke, a cui le lessi, consentiva con me – così decisi di farle stampare in una edizione numerata, come una rarità per bibliofili, e di mandarne poi una copia, rilegata con particolare cura, al mio giovane amico, per fargli una sorpresa natalizia.
Si passò alcune mattinate dai rilegatori di libri, a scegliere caratteri e a farci mostrare delle legature. A Rilke pareva molto adatta e bella una rilegatura in pelle di capretto d'un violetto cupo, adducendo come prova, che una volta gli era stato regalato uno dei suoi libri in una simile preziosa veste. II giorno seguente il fattorino mi portò, insieme a un mazzo di ciclamini bianchi, una letterina di Rainer:
"A Monaco o (in altre parole): anzi Tunisi!
"Dai sessanta agli ottanta marchi – mi dice il signor Stobbe ora al telefono; quindi, mettendo tutto insieme (aggiungendo cioè una pelle di capretto violetta, di media grandezza, oppure di qualche altro animale di lusso da rilegature) si raggiungerebbero proprio i cento marchi.
"E le informazioni di Lehmkuhl [Noto libraio di Monaco] i quali sono?
"In attesa di altri ordini da parte di Vostra Grazia, mi dico umilmente

"Colui che è vergognosamente rilegato
nel più bel capretto dell'oasi."


Ma questo stato d'animo, simpatico e sereno, durò ben poco; Rainer era stanco e irritabile e si lamentava sempre perché la donna, che lo aveva seguito a Monaco, lo tormentava continuamente con la sua inquietudine. Voleva fargli un ritratto, convincerlo a viaggiar con lei; egli stesso non sapeva più cosa fare. Mi chiese se avevo voglia di vederla, per dir poi a lui che impressione mi aveva fatta.
Furono giorni tristi! Prima che fosse possibile intravedere una qualsiasi soluzione, fui costretta a partire d'improvviso per Amburgo, per suonarvi un concerto di Beethoven. Il direttore era stato richiamato e così il concerto doveva aver luogo prima della data stabilita.
Alla vigilia della mia partenza, ci si salutò nel ridotto del Prinzregententheater di Monaco, senza supporre che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio. Avevo due posti per il Parsifal – Rilke aveva pensato prima, di venire con me, ma all'ultimo momento non riuscì a risolversi a sentire quell'opera; d'un tratto gli era venuta la paura della "prepotenza e seduzione" della musica wagneriana; temeva una notte insonne. Mi chiese se, tornando da Amburgo, sarei passata da Monaco. "Sì, tra otto giorni sarò di nuovo qui per un po' di tempo; dunque Rainer a ben rivederci!"
"Ritorna presto, Benvenuta, appena puoi!"
Mai sino allora aveva cercato d'indurre un persona a far qualcosa, era la prima volta ch'egli esprimeva un desiderio con tanta insistenza – all'uscita si voltò ancora un momento e mi salutò con la mano. Così ci siamo separati.
Il mio progetto, di passare da Monaco tornando a casa, andò a monte; dovetti suonare inaspettatamente a Königsberg e da là andai direttamente a Budapest, per il funerale di una mia parente prossima, morta improvvisamente. Al mio ritorno in famiglia, dopo quelle giornate tristi, trovai una lettera di Rilke e il Libro delle ore, che avevo sempre ricomprato e poi regalato e che quindi non possedevo più.
La copia che mi aveva mandato Rilke era rilegata signorilmente in pelle rossa, con listine nere e dorate ai margini. Sulla costola del libro era impresso, in piccole lettere, anch'esse dorate, il mio nome.
"Ecco, al mio posto e, molto in ritardo, arrivar il Libro delle ore, il tuo. In una veste durevole e con parole che t'impediranno di regalano ancora", diceva. Le parole scritte di sua mano sul libro, suonavano:
"Se, come una volta si ottenesse in ginocchio, vivrei da tempo dello spirito divino ma ora comanda un padrone che incede, e camminando impone di obbedire. Così resto molto dietro gli altri ché non so andare che in ginocchio. Ma come una volta a chi andava in ginocchio, il tempo si condona or a chi cammina."
Gli anni si facevano sempre più seri e difficili. Io lavoravo ora in una vasta cerchia di scolari; si cercava forza e conforto nell'arte, all'avvenire non si osava pensare.
Rilke mi scriveva ancora ogni tanto, poi le sue lettere smisero di arrivare. Amici comuni mi raccontarono che Rainer era stato richiamato alle armi e, durante una faticosa esercitazione, era svenuto – perciò veniva ormai adibito a servizio di cancelleria. Ne rimasi profondamente scossa. Com'era possibile che la sua malferma salute resistesse a quelle prove? Quanto doveva intimamente soffrire!
Fu in quest'epoca che rividi Rilke ancora una volta – a Vienna, verso mezzogiorno, in una strada movimentata del centro. Mi veniva incontro, senza però essersi ancora accorto di me – al suo braccio c'era una donna dal volto scialbo, sfiorito, sfigurato dal rossetto. Zoppicava e si appoggiava pesantemente a lui. Ed ecco che d'improvviso mi vide: nel suo volto spento gli occhi chiari divamparono d'un tratto dallo spavento e mi fissarono, pieni di dolore, in un indicibile sgomento. La donna al suo fianco se ne doveva esser accorta, perché gli disse qualcosa, piegando ironicamente la bocca – egli chinò il capo; alcuni passanti ci divisero, e poi i due scomparvero.
A me sembrò però che di colpo qualcosa di bello, qualcosa che, al di là d'ogni distanza, portavo ancora nel cuore, fosse morto: Rainer mi era passato dinanzi senza salutarmi.
Negli anni successivi la vita si fece sempre più difficile, la guerra sembrava non volesse più finire, il disagio cresceva sempre più. Norbert von Hellingrat era caduto al fronte nello splendore della sua giovinezza; Walter Heymel morto, il mio più giovane e più caro cugino, disperso. Carlo tornato gravemente ferito dal fronte, aveva però la speranza di guarire perfettamente e Maria, felice di riaverlo con sé nella sua casa, lo curava con abnegazione.
Venni a sapere poi dalla mia amica Elisabetta, che Rilke, esentato dal servizio militare, viveva in Svizzera ove aveva ricominciato a lavorare. Non ci potevo più credere. Mi pareva che fosse infinitamente lontano, come in un altro pianeta. Tuttavia potei fare ancora qualcosa per lui: gli procurai cioè – senza ch'egli supponesse chi ne fosse l'autore – un piccolo sollievo e una gioia. Scrissi ai miei parenti, ch'erano in Svizzera, che Rilke aveva lasciato a Parigi, all'inizio della guerra, tutto quel che possedeva e che avevo saputo come i mobili e i libri del suo appartamento erano stati venduti all'asta. Questa lettera spinse Romain Rolland, un amico intimo di mio zio, a recarsi di nascosto a Parigi – correva voce allora che in Francia egli fosse ricercato dalla polizia per le sue tendenze pacifiste – per occuparsi delle cose di Rilke. Passò molto tempo, ma poi mio zio fu in grado d'informarmi che Rolland era riuscito, a forza di visite ai venditori di roba usata, a Parigi, a ricuperare, ricomprandola, una parte di quel che era appartenuto a Rilke. Le lettere della Duse e parecchi preziosi manoscritti, di cui s'ignorava il pregio e che perciò erano stati distrutti come oggetti di nessun valore, andarono perduti per sempre.
In quei tempi così tristi, tante cose avevano perso il loro valore, e quasi ci si guardava dal preoccuparsi di una o dell'altra. La guerra era finita – si trattava ora di sapere come superare le pene d'ogni giorno.

ULTIME VOCI

Nel dicembre del 1926 ero stata invitata a passare le feste di Natale in campagna. La mia amica, padrona di una tenuta, e la sua dama di compagnia, abitavano sole in un gran castello che, a suo tempo, era stato costruito per una famiglia numerosa, con molti figliuoli e nipoti. Ora i due piani superiori, arredati molto comodamente, servivano per gli ospiti. La sala da musica, il giardino d'inverno, la stanza che dava sulla terrazza, e la sala da pranzo, costituivano insieme al salotto e alle camere da letto, l'ala del castello abitata dalle due signore. Verso una grande biblioteca confluiva tutta quella serie di stanze; in fondo al corridoio v'era poi la stanza di Goethe, l'ambiente più bello della casa: silhouettes, prime edizioni di opere di Goethe e di Schiller, mobili dell'epoca weimariana di Goethe, quadri e candelabri con ventole dipinte – tutto trasportava l'ospite in un secolo lontano; e il panorama che si godeva dalle ampie finestre, appena velate da tendine di mussola bianca, sul giardino, che si perdeva nello sfondo di un paesaggio quasi silvestre, con laghetti e cigni e piccoli chioschi, ricordava quello del parco di Tiefurt.
Ora – s'era d'inverno – quella regione collinosa della Boemia era coperta di neve, lo stagno ghiacciato; nelle enormi stufe di maiolica ardevano giorno e notte i grossi ceppi di faggi, presi dai boschi della tenuta; se si andava in slitta per le strade solitarie della foresta verso il paese più prossimo, si tornava sereni e rianimati a casa, lieti di godere il calore e la comoda pace di quell'atmosfera piena di bontà e di umanità.
Spesso la mia vecchia amica e io, si sedeva ancora dinanzi al camino nella stanza di Goethe, quando gli altri eran già andati a dormire. La mia amica cuciva vestitini per le bambole – regali natalizi per il suo giardino d'infanzia; il grosso cane di San Bernardo faceva intanto, con ilgiardiniere, il suo solito giro serale per il parco e le stalle, – e sinché "Rolf" non tornava e il portone di casa non era chiuso, si chiacchierava o io le leggevo qualcosa ad alta voce. Preferiva Goethe e Shakespeare a tutti gli altri; specialmente il Carteggio di Goethe con una bambina voleva sentirselo leggere una volta per intero. Avevo con me una copia di quel libro, che Rilke mi aveva regalato a suo tempo a Parigi – mentre leggevo, i miei pensieri tornavano di tanto in tanto a lui, al solitario di Muzot, che avrebbe un tempo accolto con gioia e gratitudine queste ore tranquille. Ne sarebbe stato ancora capace.
Da anni ormai non avevo saputo più nulla di lui e soltanto attraverso terze persone ero venuta a sapere che viveva in un piccolo castello a Sierre, nel Valais, e che aveva terminato le sue Elegie. Una volta mi giunse un pacchetto dalla Svizzera, con ilindirizzo scritto da mano sconosciuta, con le Elegie e i Sonetti a Orfeo, ma non un lettera né altro segno di vita.
La vigilia di Natale Carlo mi scrisse che, insieme a Maria e i bambini avrebbero trascorso le feste a Montreux. Aveva sentito dire che Rilke era stato ricoverato lì in un sanatorio; non l'aveva visto ma si diceva, con preoccupazione, che era gravemente ammalato. Mi chiese se lo sapevo e se qualche volta ricevessi ancora sue notizie. No, non ne sapevo nulla.
Poi venne la bella festa di Natale, i cento e cento preparativi occuparono tutta la nostra attenzione. Prima ci fu la distribuzione dei doni al giardino, d'infanzia, con discorsetti e canti. Quant'erano commoventi i volti beati di quei bambini che, impacciati e felici, accettavano i doni scelti per loro con tanto amore – e bello il breve pellegrinaggio attraverso tutto il parco sino alle vecchie mura della cittadina, con i ruderi del castello di Wallenstein, a cui si addossava la chiesa. Per la porticina, aperta nel muro del parco, si poteva entrare direttamente nel coro, dietro l'organo. Tutto il giorno aveva nevicato, poi, di notte, la luna s'era affacciata, tra le nuvolette che il vento disperdeva; la neve fresca velava gli stecconati, le cancellate, annidandosi negli angoli dei muri e sui tronchi d'alberi, mentre i prati splendevano candidi sotto il cielo stellato. La chiesina gotica, tutta illuminata dai ceri, riluceva di caldi riflessi con gli ornamenti dell'altare dorato e con le ghirlande di abeti. Si sentiva odor d'incenso e di alberi di Natale. Mi sedetti sul panchetto dell'organo – e mentre, prima dell'inizio della Messa, s'innalzava al di sopra dei fedeli, l'antico e solenne inno "Gran Dio, noi ti lodiamo", intonato poi da voci chiare e basse – comparve al mio sguardo interiore una casa lontana e sconosciuta, una camera modesta, un letto, in cui un malato forse gemeva nel delirio della febbre. – E, come se mi potesse udire, suonai per lui, anche così da lontano, ancora una volta, dopo tanti anni, un canto di consolazione, un canto luminoso.
Quando si uscì dalla chiesa la luna era sparita. Si accesero le nostre lanternine, e, mentre nuovi fiocchi, oscillando in silenzio, cadevan dal cielo, ci s'avviò sulla neve scricchiolante, passando sui gradini della porticina nel muro del parco, per tornare nella casa riscaldata, tutta piena del piacevole odore dei dolci di Natale, degli abeti e delle mele.
In quei giorni di festa vennero molti ospiti e poco prima del giorno di San Silvestro, che la mia amica, seguendo un'antica consuetudine, passava sempre sola, mettendo ordine tra i suoi ricordi e le sue lettere, e facendo come un bilancio dell'annata – si riunirono ancora una volta da lei tutti gli amici e i notabili della cittadina, per una cena solenne. Si cantò, si lesse e si suonò, e solo molto dopo mezzanotte s'accompagnò gli ospiti nel cortile, ove li attendevano slitte e carrozze per riportarli a casa.
Benché fosse molto tardi, non avevo ancora voglia di andare a dormire; misi a posto diverse cose in camera mia e poi lessi il magnifico dialogo tra Vittoria Colonna e Michelangelo nella Renaissance di Gobineau. E così passò forse più di un'ora prima che spengessi il lume.
Poco dopo che m'ero addormentata un acuto grido mi risvegliò: pareva quasi che qualcuno, fuori, in preda a un angoscia mortale, avesse gridato il mio nome. Mi precipitai alla finestra, spalancando con violenza i due battenti – nel giardino regnava un silenzio mortale, i prati e gli alberi sotto il peso della neve, lucevano pallidi nell'oscurità; dalla chiesa vicina risuonarono nell'aria limpida e gelida, cinque tocchi. L'alba era dunque già vicina. Chiusi la finestra, tremando di freddo, e tornai a letto. Senza saper quasi quel che facessi, ancora tra il sonno, giunsi le mani, dicendo: "Chiunque tu sia, tu che m'hai chiamata, io ti benedico e son con te. Dio ti aiuti in ogni pena!"
Poi l'accogliente tepore della camera mi avvolse di nuovo e io mi riaddormentai.
In quell'ora precisa Rainer Maria Rilke era morto.

Da mani estranee – dopo alcuni mesi – riebbi le mie lettere a Rilke. Le misi in ordine in un cofanetto e stavo già per chiuderlo, quando vidi una busta lunga e azzurra, su cui era scritto, di mano di Rilke: dernière lettre a B.
Quell'incontro a Vienna aveva innalzato come un muro invisibile tra di noi e, negli anni di lontananza silenziosa, eravamo divenuti muti l'un verso l'altro. Ed ora ecco venirmi tra le mani una lettera di lui, come fosse un messaggio da un altro mondo. Un'ultima parola che non conoscevo – un saluto forse o un pensiero affettuoso – un rimprovero?
Solo dopo molti giorni ebbi l'ardire di aprir la lettera – e la rivelazione del suo amore, per anni taciuto, mai spento, eterno, fece prorompere il mio dolore, che inondò il mio cuore con una violenza mai sospettata:

...un giorno tu mi hai scritto di una canzoncina, che da bambina ti faceva piangere. Ti ricordi Benvenuta? diceva:

T'ho cercato ovunque
nella selva, nel piano e nel bosco.
Non ti trovai, forse tu sei
troppo dentro al mio cuore.


'T'ho cercata ovunque'... Ecco, vedi: io c'ero, sì c'ero, ma diffidavo della mia anima, diffidavo del mio corpo e diffidavo della mia vana ricerca – e non potevo scrivere, perché c'era sempre di mezzo il mio cuore troppo dolorante, che anelava verso di te, il mio cuore ormai stanco, forse già da tempo condannato – ma solo il mio cuore – non parole – neppure una parola – e io non potevo scrivere il mio cuore. Molte cose son andate in rovina e quasi non se ne può più parlare; ma se un giorno dovesse venire l'ora che ti sembra quella giusta (e in questo caso io non potrei far altro che acconsentire senza riserve) porta allora la tua testimonianza: perché tu sei chiamata a darla: nelle tue mani benedette è il testamento spirituale della mia vita.
Ed io? – Alla luce della tua radiosa esistenza verso di me, si è definitivamente chiarito tutto quel che nella mia natura c'è di contorto, di funestamente e spietatamente malato. E tu, Benvenuta, eri il mio astro, volevi splendere sulla mia battaglia campale, per la vittoria. Ma io non ero come Giosuè, e non ho osato, non ho avuto il coraggio di credermi capace: di fermare il sole.
Ma se anche non vi son mai riuscito, Dio mi ha pur condotto sul monte, e mi ha mostrato te. Te, Benvenuta! E chi potrebbe mai togliermi quel che ho visto? Anche la morte non può che sigillarlo in me...

(Lettera a un morto)
Agosto 1928

Rainer! Sono venuta presso di te per esserti ancora una volta vicina, non però al tuo cuore, ché non occorreva per questo far sì lungo cammino, e infatti, dove saresti più vivo e presente che nella profonda, amorevole gratitudine del mio ricordo? No, sono venuta a te per veder la casa in cui hai vissuto e il piccolo cimitero, così lontano dal mondo, in cui si trova la tua tomba. Lungo fu il cammino, per monti e per valli, città, villaggi e paesaggi. Alcuni di loro li abbiamo visti insieme, nel nostro viaggio da Parigi a Venezia. Vien fatto di pensare a una coincidenza strana, triste e misteriosa, quando mi ricordo che passammo allora da quel paesetto tra le montagne, da Raron, ove tanti anni dopo dovevi trovare pace alla tua difficile esistenza; forse abbiamo visto insieme, splendente nel sole, la croce d'oro dell'aguzzo campanile, senza presentire che vicino a quella chiesa, su quell'altura solitaria, si sarebbe compiuto il tuo destino; forse abbiamo prima scoperto anche il piccolo castello, nella tranquilla vallata di Sierre, ove hai potuto terminare la tua opera più sospirata e sofferta: le Elegie.
Quando, questa volta, nel mio viaggio verso di te, sono scesa alla stazione di Sierre e chiesi del castello di Muzot, un bambino m'indicò la strada che porta alla tua casa, come se tu fossi ancora vivo – ed io m'incamminai nella cornice di quel paesaggio montagnoso, in quel mattino radioso, per un viottolo campagnolo, tra prati e folti gruppi d'alberi, su verso il colle. Non si vedeva anima viva; nel villaggio le campane suonavano a messa, e le case eran tutte chiuse. Mi venne incontro solo una giovine donna che, forse in ritardo, voleva andare ancora in chiesa. Aveva il vestito delle feste, un abito di seta nero e un fazzoletto nero in capo; scendeva, senza fretta, con un portamento disinvolto e aggraziato, per la vallata. Quando c'incontrammo, mi squadrò tutta con lo sguardo, e poi mi disse, con una serietà indescrivibilmente amorevole: "bon jour, ma soeur!" – e mi parve che lo spirito del tuo fervore affettuoso l'avesse ispirata, per suggerirle quel saluto solenne. – La ringraziai commossa e, per un istante, sembrò quasi che ci volessimo dar la mano, ma poi la donna proseguì per la sua strada.
Quando vidi Muzot che, come un'antica torre da guardia, domina dall'alto l'ampia vallata, mi dovetti fermare per accogliere quell'immagine interamente nel cuore. L'antica e solitaria torre da guardia, in quel paesaggio eroico, aveva consumato in sé e protetto gli ultimi anni della tua vita combattiva, e sembrava quasi che custodisse ancora il ricordo della tua solitudine, della tua quiete, perché, quando arrivai e varcai il cancellino del giardino, trovai chiusa la porta di casa.
"La donna di casa di Monsieur Rilke è andata in chiesa", disse un contadino, che passava di lì con il suo cane – e anche lui parlava di te, come se tu fossi ancora vivo. Sì, tu eri ovunque: la bella ombrosa pergola parlava ancora di te, e i rosai del tuo giardino, dal fusto alto, curati con tanta premura, odoravano come se fiorissero per te. Anche la piccola fonte sapeva certo ancora quanto spesso tu avevi ascoltato il suo mormorio, che rendeva ancora più intensa la quiete intorno a te.
E mi son seduta nel tuo giardino, a lungo, sinché il sole si levò alto verso il mezzo del giorno. Non passava più nessuno, anche la donna non tornava. Ma, per quanto non potessi così veder la tua dimora, le tre stanze, pure fui contenta di esser sola qui, e sapevo, quando me ne andai, che le ore passate nel tuo giardino eran divenute un mio esclusivo inalienabile possesso.
Il giorno di poi mossi l'ultimo passo verso di te, mi recai come in pellegrinaggio alla tua tomba, alla chiesa di Raron.
Quando fui nel cimitero solitario, che, come trasportato dal vento in mezzo a una grandiosa manifestazione della natura, lassù in alto sopra la valle, par fissato per incanto nella roccia, cercai il tuo sepolcro e non lo trovai tra i pochi e miseri tumuli, che non hanno fiori, perché sono già mezzo rovinati o forse anche perché il vento, che quassù soffia così spesso, non permette una tranquilla fioritura. Ma quando cercai la porta della chiesa e qualcuno che mi mostrasse la tua tomba, vidi presso al muro del campanile, in un angolo protetto dalla tormenta, un piccolo tumulo, ricoperto di petunie di un violetto cupo. Sulla misera crocetta di legno grossolano, non si leggeva nessuna iscrizione, se non le iniziali appena visibili, segnate dalla goffa mano di un contadino: R. M. R.
Caro, caro Rainer – questa piccola croce sopra il tuo tumulo, mi ha commosso profondamente, più di tutto quel che di triste e di penoso m'è mai capitato nella vita! Ma anche in questa occasione la tua parola ha saputo arginare il mio dolore, le mie calde lacrime: la tua parola, che, come un messaggio del tuo mondo, m'ha illuminato d'improvviso il cuore: "...la povertà è una gran luce che viene dall'intimo..."
Qui riposavi tu, che hai saputo cosa fosse il pellegrinaggio, la povertà, e la morte, più della maggior parte degli uomini, – e forse è questa l'ultima ragione della tua vita e della tua immortalità: che tu sia cioè tumulato, lontano dal mondo, in una quiete sublime, in cui non parlano che le bufere, o tace il chiaro di luna, come il fresco delle mattine luminose, come l'aria scintillante nel meriggio estivo, o il soave trapassar del cielo dalla luce solare allo splendore delle stelle.
Ho carezzato con le mani la terra, sotto cui dormi, e ti ho parlato. Ti ho detto che la mia vita ha avuto da te una intima ricchezza e una benedizione senza pari, poiché m'hai insegnato a vedere e a comprendere. M'hai insegnato quel che sia la grandezza e il dolore, la felicità e la rinuncia; m'hai insegnato quel che sia la bontà, la durezza – mi hai aperto tutte le porte della vita e soltanto per questo ho potuto percorrere la mia esistenza sinché non l'ho sentita piena e giustificata; certo, soltanto lontano da te ho potuto trovare la mia strada, verso quel mondo indiviso, verso quel cuor nobile che avevo implorato per me in un'ora sconsolata e che alcuni anni dopo mi fu concesso, come per miracolo, dal destino. Tutto questo t'ho detto sulla tua tomba – e mi pareva tu mi perdonassi ora anche l'ultimo sospiro di nostalgia, che poteva esser rimasto forse ancora in qualche modo nell'inesplorabile rapporto tra noi due, che ormai tu sapessi perché solo un legame soprannaturale potesse esistere senza interruzione tra di noi.
Ma il soprannaturale ha le sue leggi ed è esposto a tutti i malintesi del mondo, è però profondamente ancorato nelle leggi misteriose dell'eternità e là soltanto ha validità e compimento.
E l'ultima parola che ti rivolgo è come la prima, quella della letterina che, per la prima volta, un giorno, mandai in un luogo, che m'era ignoto – una parola che ora viene a te, valicando lontananze umanamente immisurabili, oltre le stelle – una parola che custodirò viva nel mio cuore, sino al mio ultimo respiro:

Grazie!

BENVENUTA.