Guido Guerrini

BUSONI PIANISTA

Busoni, come pianista, deve essere assegnato al reparto «fenomeni». Chi ebbe la fortuna di ascoltarlo non lo ha più dimenticato e, al suo confronto, tutti gli altri pianisti, anche se grandissimi, gli saranno apparsi meschini [Diceva Philipp: «Di buoni pianisti ce ne sono tanti e tutti suonano bene... ma poi, lassù, lassù lassù, c'è Busoni».]
La sua tecnica, formidabile sotto ogni aspetto, gli permetteva di signoreggiare lo strumento e di far sembrare facili e semplici le più aspre difficoltà. Certamente fu questa portentosa maestria che gli conquistò l'entusiasmo dei grandi pubblici e la sua vastissima fama. Tecnica acquisita in lunghi anni di lavoro tenace, iniziato a 5-6 anni e mai rallentato fino alla piena maturità. Da ciò il raggiungimento di possibilità meccaniche che nessun pianista dei nostri tempi ha posseduto. La maggiore delle sue virtù fu «l'infallibilità». (Chi abbia seguito anche un'intera serie di suoi concerti, non ricorderà una nota falsa, un'incertezza di memoria, un accordo sbagliato). Seconda virtù: una forza muscolare e nervosa che gli permetteva di trarre dal pianoforte sonorità potenti, orchestrali, epiche, sonorità che afferravano l'ascoltatore, anche fisicamente. Più volte, ai suoi concerti, durante qualche progressivo aumento di sonorità, si vedeva il pubblico levarsi a poco a poco e, inavvertitamente, tutta la sala trovarsi in piedi, quasi sollevata dall'elevarsi stesso del suono. [Questo fenomeno era costante durante il famoso crescendo della Polacca in la bem. (op. 53) di Chopin.]
E nel contempo una dolcezza di tocco, una morbidezza, un velluto, una fluidità, una leggerezza, che trasformavano il pianoforte volta a volta in clavicembalo, in voce angelica, in arpa, in flauti. Queste due possibilità contrastanti, la potenza e la dolcezza, avevano fatto di Busoni il più famoso interprete di due autori in assoluta antitesi tra loro: Liszt e Mozart.
Non occorre dire quale risorsa rappresentasse per lui l'alternare queste due opposte risorse e il giocare con esse. Era nelle sue esecuzioni il fascino continuo dell'inatteso, dell'imprevisto, del chiaro-scuro impensato. Tempesta e sereno, tumulto e preghiera, grido e sussurro, epica e lirica, si alternavano incessantemente, offrendo vicendevole risalto alle varie fasi della composizione.
Il gioco del pedale poi era singolarissimo, sempre condotto con estrema accortezza ed anch'esso utilizzato come mezzo di varietà sonora. Nelle sue esecuzioni i brani adamantini si alternavano ad altri circonfusi di risonanze e di echi. Era quasi una serie di paesaggi, nitidi e precisi alcuni sotto una luce fredda, avvolti altri in nebbie luminose o sfocanti. Ma quali sfocature, quali aloni di colore, qual fascino di risonanze! Solo un musicista profondo e cosciente come Busoni poteva permettersi tale rischio, che avrebbe condotto qualunque altro o alla confusione o al grottesco. (Infatti, i pianisti che tentarono di imitar Busoni nel pericoloso gioco del pedale, chi più chi meno, naufragarono tutti). Queste risorse di tocco, di colore e di pedale costituivano, come abbiamo detto, il suo più irresistibile fascino; ma offrivano inoltre a Busoni la facoltà di rinnovarsi continuamente; egli era sempre «un altro», a seconda dello strumento che gli veniva sottoposto.
E quando lo strumento era scadente - come tante volte gli avvenne, specialmente in America - egli si compiaceva di trarre dagli stessi difetti di esso tutte le risorse possibili, divertendosi e a volte sorprendendosi egli stesso agli effetti inattesi.
Un altro dono, e certamente il più raro, di Busoni concertista, fu la facoltà di comunicare, immediatamente e ininterrottamente, col pubblico; quella virtù cioè, che non sai se sia fascino personale o forza ipnotica, potenza dominatrice o energia elettro-magnetica. Fin dal suo apparire sul palco - ed entrava sempre in atteggiamento quasi sacerdotale, il capo chino, lo sguardo basso, le mani intrecciate all'altezza del petto - passava sul pubblico un brivido; e un attimo di magico silenzio precedeva, come un'estasi, lo scoppio irrefrenabile degli applausi. Ovazioni che si protraevano per decine di minuti (specialmente dove egli teneva una serie di concerti), ma che non riuscivano a distrarre il Maestro il quale, sempre nella sua posa concentrata e assorta, sedeva al pianoforte ed attendeva il silenzio. [Il bisogno di concentrarsi e di immergersi nell'atmosfera dell'opera d'arte che andava a interpretare, si palesava già nel camerino. Negli intervalli il Maestro amava ricevere amici e ammiratori, svolgendo con essi una conversazione vivace e spiritosa, quasi sempre polilingue. Ma una decina di minuti prima di uscire, pregava di esser lasciato solo.]
Il suo volto, bellissimo sempre, dinanzi alla tastiera raggiava di luce interiore. Il profilo, fine e nobilissimo, si faceva pura espressione. Dagli occhi, socchiusi, trasparivano di tanto in tanto sprazzi di azzurro purissimo. Sedeva un po' discosto dal pianoforte, così da dominarlo completamente anche con lo sguardo, e le mani, più che posate, sembravano afferrate alla tastiera.
Il pubblico era immediatamente in suo potere; durante tutto il concerto esso non possedeva più alcuna libertà di azione. Soggiogato da rivelazioni sempre nuove (ogni musica anche conosciutissima diveniva, nelle interpretazioni busoniane, cosa mai udita), sorpreso da sonorità sempre varie, ípnotizzato da una miracolosa facoltà di «costruire la composizione», a blocchi massicci su basi architettoniche; ora dominato dal titano, ora attratto dal giocoliere, il pubblico non aveva più possibilità di ripresa se non a esecuzione finita. Allora poteva finalmente riaversi, ridestarsi come da un'ipnosi, ritrovar sé stesso, esprimersi in uno scoppio di entusiasmo.
Oualche volta vi era anche reazione. Fra il pubblico (specie negli ultimi tempi, il pubblico dei concerti busoniani era costituito in gran parte da musicisti), vi erano quelli che potevano notare le libertà di interpretazione, gli arbitri contro la convenzione, le «offese allo stile», e che volevano pure ribellarsi, protestare, opporsi in qualche modo al generale consenso. I più erano pianisti (e come tali giudicavano soggettivamente), altri erano i soliti miopi in perpetua opposizione a tutto ciò ch'è insolito; né capivano che quegli arbitri e quelle libertà costituivano proprio una delle maggiori, se non la prima, attrattiva dell'arte di Busoni.

È vero: Busoni aveva a volte atteggiamenti interpretativi che non potevano non offendere i «ben pensanti», i tradizionalisti, i cultori dell'ordine e dell'abitudine.
Specialmente in Chopin (ch'egli da giovane aveva sentito eseguire da Antonio Rubinstein) si compiaceva di grandiosità, di virilità, di atteggiamenti drammatici, che ferivano gli adoratori dello Chopin effeminato e tisico. Busoni dava all'arte del polacco un carattere maschio ed epico e le opere ne uscivano in blocchi, scandite e scolpite, con le melodie cantate quasí coralmente. Nel Trio della Marcia Funebre della Sonata in si bem. min., ad esempio, egli si compiaceva dare alla melodia - che tuttí interpretano come un pianto accorato - il tono di un canto quasi guerresco, come un «assolo» di tromba.
Per questo suo modo d'intendere Chopin, si spiega come egli suonasse di preferenza le cose di maggior mole (gli Studi, i Preludi, le Sonate), e poco e raramente le composizioni minori: Valzer, Mazurke, Notturni.
Anche con Beethoven si permetteva libertà non indifferenti. Più che altro in esso amava opporsi al convenzionale, al manierato, allo scolastico. Rendeva generalmente la composizione sotto veste strumentale, possedendo come nessuno la facoltà di trasformare il pianoforte in una orchestra. Ma chi non ha sentito la potenza drammatica della Sonata op. 57, la grandiosità della Hammerklaviersonate, l'irruenza della Patetìca, la distribuzione sonora delle diverse parti nella fuga della «106», non può immaginare di quale immaterializzazione, di quale spiritualizzazione fosse passibile uno strumento meccanico, sotto il dominio di Ferruccio Busoni.
Di Bach egli fu il più profondo conoscitore; lo dimostrano la sua edizione del Clavicembalo e le infinite revisioni e trascrizioni fatte su questo autore. Nelle esecuzioni di musica bachiana, la sua polifonia era miracolosa, a volte quasi paurosa. Le parti avevano, sotto le sue dite, il rilievo che, non corde, ma voci soltanto possono dare. Il gioco polivocale ne usciva tutto chiaro, evidente; ogni entrata, più che udibile, era «visibile», come se ad ogni voce nuova si spalancasse una porta e un nuovo personaggio entrasse e con tale autorità da offuscare tutti gli altri.
L'architettura della composizione assumeva così chiara evidenza, che se ne sentiva, attraverso l'audizione, quasi il peso della mole, coi suoi volumi, spazi, ombre ed aggetti.

Delle trascrizioni dall'organo egli è stato, ci sembra, il creatore. Non già perché prima di lui altri non ne avesse fatte (Liszt, Tausig, Thalberg si erano già misurati in ciò e con somma perizia), ma perché Busoni, anziché trarre dalle composízioni per organo dei pretesti di virtuosismo pianistico, come avevano fatto i predecessori, aveva affrontato e risolto il problema di riprodurre al pianoforte le sonorità dell'organo e di serbare alle composizioni bachiane quello stile gotico-tedesco ch' è il loro più caratteristico segno. Ma per giungere a questo occorreva la conoscenza contrappuntistica di Busoni; quella conoscenza che egli affermerà, come prova massima, nella Fantasia Contrappuntistica.

Anche della
tradizione pianistica mozartiana possiamo considerare Busoni come un vero e proprio rinnovatore. Rinnovatore in quanto, con ogni mezzo a sua disposizione, divulgò la grandezza del genio di Salzburg, in un tempo in cui essa era in decadenza; ed anche perché dimostrò per primo il vero modo di interpretarne le musiche. Lo studio di questo autore gli costò forse maggior fatica di quanto non gliene fosse costato quello di Liszt, e la fatica non ebbe sosta fino alla morte. Ma attraverso questa egli potè rivelare il vero Mozart, purificato da ogni barocchismo, umano e severo, a volte drammatico e sempre profondo, nella sua stupenda e purissima solidità.
Così pure si deve a Busoni
la riabilitazione di Franz Liszt, ch'egli difese e sostenne con costanza e maestria tali da costringere all'ammirazione anche per quelle composizioni che mai, senza la sua magica abilità, sarebbero state riesumate. Per raggiungerne la piena valorizzazione, egli diede a Liszt quel carattere lirico, fra italiano e ungherese, che forma la sua più saliente peculiarità; lo deterse da tutte quelle incrostazioni romantico-cerebrali che si erano venute formando sull'arte lisztiana durante tutto l'Ottocento; in una parola lo ricollocò sul trono. E anche ciò facendo vide chiaro e da artista: oggi la quotazione della musica lisztiana è, per suo merito, assai più elevata di quel che non fosse per il passato.
Si sono fatti alcuni paralleli fra Busoni e Liszt. Noi non avemmo la fortuna di udire suonare il grande ungherese e non possiamo giudicare. Ci sembra però che, per certi riguardi, il paragone sia inevitabile: poderosità interpretativa, virtuosismo, trascendenza, grandiosità sonora, orchestralità, magnetismo personale, ecc.
Busoni però, non amava questo confronto o, semmai, gli piacque precisare: «Liszt ed io siamo due piloni dello stesso ponte». In altra occasione affermò che la mèta di Liszt fu: «ascesa, liberazione, nobilitazione». E, non aggiungendo altro, lasciò intendere che quella era anche la sua stessa mèta. Infine soleva dire - e questo ci sembra davvero importante - che mentre Liszt era partito dall'italiano per andare verso il tedesco, egli, Busoni, aveva fatto il contrario. E ciò è perfettamente vero.

La
carriera di virtuoso viene divisa dal Busoni stesso in tre periodi (quei tre periodi che per fatalità sembrano incasellare tutta l'attività degli uomini superiori). Fra il 1890 e il 1900 egli fece soltanto il virtuoso, percorrendo (sempre ad occhi apertissimi) metà del globo. Dalle lettere di quel tempo, ricchissime di osservazioni d'ogni genere, intuiamo il lievitare di una personalità che non tarderà a rivelarsi. Nel decennio successivo, dal 1900 al 1910, egli stesso confessa di aver trascorso un periodo in cui tentò di abbracciare tutto senza però riuscire a stringere nulla. Furono dunque in realtà venti anni di ricerca di sé stesso. Durante il primo decennio lo sorresse il giovanile entusiasmo, che trovava risorse nelle soddisfazioni personali, negli applausi, nei successi, ecc.; mentre durante il secondo decennio raggiunge una maturità spirituale per cui si rende conto che il virtuosismo in sé e per sé non può bastargli. Comincia a sentire l'avvilimento di essere soltanto un esecutore (sia pure eccellente); quasi prova vergogna dei suoi successi. Cerca quindi di affermarsi in qualcosa di meno effimero. Anela a uno stile d'interprete sempre più elevato e originale. Scrive in quel tempo: «Ora io non suono più con le mani». Ecco la grande mèta, la suprema! «Non suonar più con le mani», ma col cervello. Scrive ancora: «Si deve avere la ferma volontà di superare il virtuosismo.... ma per superare il virtuosismo si deve essere stati virtuosi».
Il dar concerti lo infastidisce e non soltanto per il tempo che il pianoforte gli sottrae alla composizione.

Trovo grottesco il fatto di dovermi vestir bene, per suonare tra poco due vecchi pezzi... È un ricominciare sempre daccapo, con vecchi trucchi... (Londra, 1908).

[...] è un imperdonabile e irreparabile spreco d'energia, tempo e pensiero, per l'effetto di un breve momento e di nessuna importanza su di un'accolta di persone insignificanti. (Les Moines, 1910).

Non potendo più rinunciare ai concerti - a cui lo obbliga ormai la fama sempre più vasta di pianista - sorge in lui il bisogno di farsi interprete eccezionale, per esprimere la propria personalità d'arte, sia pure attraverso musiche d'altri. Da ciò la inevitabilità di esecuzioni rivoluzionarie e antitradizionali. Creare dunque una nuova tradizione stilistica? Non sappiamo se il proposito sia stato proprio quello; ma, in parte almeno, quello ne è il risultato. Molte interpretazioni del Busoni, che allora facevano scandalo, oggi sono state accettate e codificate. E per Bach, Mozart, Liszt, possiamo dire che la tradizione busoniana faccia oggi testo definitivo.
Lo infastidivano e urtavano in generale le iperboli elogiative - fossero per lui o per altri - della critica. Specialmente gli dava sui nervi l'attributo di «genio pianistico» che allora si elargiva a qualsiasi promettente giovane. Per lui geni pianistici dovevano essere considerati soltanto i Beethoven, gli Chopin, i Liszt, che:

trovarono nuovi mezzi, effetti misteriosi, crearono difficoltà inverosimili, scrissero una propria letteratura... È certo sorprendente (a prima vista!) che un altro riesca in ciò che prima riusciva uno solo; ma non appena esistono schiere di «altri», il tutto si riduce a un fenomeno di darwinismo. Colui che al suo apparire è solo e trova subito dopo imitatori, colui che costringe i costruttori di pianoforte a nuovi principi e crea una letteratura nella quale pianisti di carriera non si ritrovano alla prima, a questi soltanto spetta il titolo di «genio pianistico». Ma in tal caso non gli vien dato.

Sull'arte di interpretare, Busoni ci ha lasciato norme e pensieri stupendi.

Il modo di eseguire partecipa di quella eccelsa libertà dalla quale discese l'arte della musica. Dove questa minacci di farsi terrena, esso la deve risollevare, aiutandola a ritrovare il suo primitivo stato di eterea indipendenza. La notazione, la scrittura della musica è sopratutto un ingegnoso espediente per fissare un'improvvisazione allo scopo di farla rivivere in un secondo tempo. Ma questa sta a quella come il ritratto al rnodello vivente. L'esecutore deve nuovamente sciogliere la rigidezza dei segni e ridar loro il movimento.
Ora i legislatori pretendono che l'esecutore riproduca questa rigidità di segni e stimano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si attiene ai segni.
Quello che l'ispirazione del compositore perde necessariamente per esser fissata coi segni, l'esecutore deve ricreare con la propria intuizione...


Questo brano ci sembra smentire in modo perentorio l'affermazione, già fatta da diversi musicologi, secondo la quale Busoni è stato un continuatore della tradizionale linea dei compositori-pianisti italiani: Sgambati, Martucci, M. E. Bossi, ecc. Se per Scuola tradizionale pianistica si vuole intendere una successione qualsiasi di pianisti compositori, il Busoni può farne parte e benissimo; ma se con questa definizione si intende di mettere su uno stesso piano íl carattere dell'arte busoniana con quello degli altri suoi predecessori e contemporanei, allora l'affermazione è errata. Sgambati, Martucci e M. E. Bossi, (e se ne potrebbero aggiungere anche altri, di quel tempo), furono rigidi custodi della tradizione pianistica, mentre Busoni ne fu invece un rivoluzionatore. Quelli furono compositori di imitazione straniera (fatta appena eccezione per
Martucci, nell'arte del quale troviamo nondimeno evidente derivazioni brahmsiane); questo, pur partendo anch'egli da Brahms, sviluppò una personalità assolutamente nuova. Quelli furono sopratutto compositoripianisti, cioè compositori-sul-pianoforte e pel-pianoforte (anche il Martucci delle Sinfonie, sotto vari aspetti, ci sembra tale), mentre questo preferì comporre musica quasi come arte astratta, né fu mai esclusivamente pianistico, nemmeno quando scrisse pel pianoforte. Quelli si servirono sempre di formule già esistenti; questo seppe crearne di sempre nuove, qualunque fosse il campo in cui intendeva creare. Busoni dunque ci sembra un fenomeno a sé. Ed è bene classificarlo come tale.
Il repertorio pianistico di Busoni fu incredibilmente vasto e non sembra verosimile che un solo cervello potesse contenerlo. Tanta parte della letteratura pianistica fu eseguita nei suoi concerti, che sarebbe forse più agevole e sbrigativo elencare le opere che ne mancano.
Egli suonò l'opera completa di Liszt e quasi tutto Bach, compresovi il Clavicembalo, quindici grandi trascrizioni Bach-Busoni, più la Fantasia e Fuga di Bach-Liszt e la Toccata e fuga di Bach-Tausig. (Non amava eseguire le Partite e le Suites). Di Beethoven ebbe in repertorio 13 Sonate, quattro dei cinque Concerti, le Variazioni in do minore, quelle in mi bem., quelle sul Valzer di Diabelli, più varie altre composizioni minori, comprese le Bagatelle. Di Chopin, come si è detto, suonò moltissimo ma non tutto, e di preferenza ne interpretò le opere grandiose, con assoluta preferenza per gli Studi, le Polacche, le Ballate, le Sonate. Suonò pure il Concerto e buon numero di Improvvisi e Notturni, ma pochissimi valzer e mazurke. Il resto del repertorio contiene gli autori più disparati; da Scarlatti a Schubert, da Schumann a Brahms, da Mendelssohn a Saint-Saëns, da Mozart (di cui eseguì, fra l'altro, undici Concerti) a Weber, da Ciaicowsky ad Alkan, a Hummel, Field, Goldmark, Golinelli, Fumagalli, ecc., ecc. oltre ad una moltitudine di trascrizioni, non escluse, nei primi tempi, anche quelle da opere.
Di sue composizioni ne eseguì più di cinquanta. Strano però a constatarsi come Busoni, banditore costante del nuovo e sostenitore della musica contemporanea, non eseguisse nessun lavoro moderno (tranne i propri), fatta eccezione per le due opere pianistiche più importanti di Franck.
A questo bagaglio si aggiungano le più importanti raccolte di Studi pedagogici e didattici, da Czerny a Cramer, da Clementi a Cesi, studi che egli amava far sentire agli allievi, eseguiti in modo superlativo. E questa enorme mole di lavori fu tutta eseguita in pubblico e «sempre a memoria».
Abbiamo già avuto occasione di constatare come la memoria di Busoni fosse sbalorditiva. Tale che gli permetteva non soltanto di apprendere, e in brevissimo tempo, qualunque musica, ma che gli consentì anche di farsi una cultura letteraria, filosofica, storica, filologica, bibliografica, enciclopedica infine, quale a pochi uomini fu dato raggiungere. Quella stessa memoria gli aveva pure consentito di parlare e scrivere correntemente e letterariamente, cinque lingue. [Busoni aveva una memoria ragionante, che riteneva cioè per intelligenza; non una memoria grafica.]
Sul «suonare a memoria» ecco il suo pensiero:

Io, vecchio concertista militante, sono arrivato alla convinzione che il suonare a memoria permetta in modo indiscutibile una maggior «libertà» di esecuzione... Si deve ccnoscere a memoria il pezzo se si vuol realizzare, nell'esecuzione, la giusta condotta delle parti. Ancora - e ogni pianista finito ve lo potrà confermare - una composizione di qualche importanza si imprime più presto nella memoria che nelle dita o nello spirito. Le eccezioni son molto rare...
Il nervosismo, cui più o meno ognuno soggiace, spesso o di rado agisce sulla sicurezza della memoria; non la memoria sul nervosismo. Se incomincia il nervosismo, la testa si confonde, la memoria vacilla; ma se si prende in aiuto la carta, il nervosismo si manifesta subito in altro modo: note false, mancanza di ritmo, acceleramento di tempi, ecc...
Così arrivo alla conclusione: per chi ha la vocazione di suonare in pubblico la memoria è tanto poco d'intralcio quanto, per esempio, in pubblico stesso. Ma colui pel quale il suonare a memoria è una barriera, sarà esitante anche in tutto il resto. Il primo presenta la letteratura musicale degli altri, il secondo sceglie alcuni pezzi per presentare sé stesso. Così la questione deve venire impostata in modo diverso: dove è il limite dal quale incomincia il diritto di suonare in pubblico?
(Berlino, 1898).

Attraverso un'esperienza concertistica e didattica vastissima, filtrata dal suo ingegno, Busoni era arrivato a conclusioni pedagogiche di altissimo interesse e di massimo rendimento. Lo stesso suo modo di studiare il pianoforte, specie negli ultimi anni, ci dice la misura della razionalità raggiunta. Studiava poco ma con una meticolosità tutta particolare. [Questo noi potemmo ascoltare, giovani, dalla stanza attigua al suo studio della Direzione del Liceo Musicale di Bologna.] Prendeva un frammento (tre o quattro battute), e lo passava più volte al rallentatore, quasi a rendersi un conto anatomico della costruzione musicale e del gioco muscolare delle sue mani. Poi a poco a poco lo accelerava fino a raggiungere la velocità voluta. Nient'altro. Passava così da un frammento di Liszt a uno di Beethoven, da uno di Bach a uno di Schumann, da uno di Mozart a uno di Scarlatti, intercalando spesso con brani di musiche sue. E una volta che gli chiedemmo come potesse eseguirli, e in quella maniera, senza studiare i lavori per intero, ci guardò meravigliato e protestò: «Ma io li studio e come, per intero! ma li studio nel mio cervello che, per fortuna dei miei vicini, non fa rumore».
Ma questo sistema, ripetiamo, era quello adottato nella maturità, e cioè quando già la sua tecnica era stata raggiunta e consolidata in pieno, attraverso un lavoro che ben rivelavano le sue mani: sviluppatissime, tutte muscoli e solcate da robusti cordoni di nervi e da grosse vene. Mani scavate, macerate nel lavoro, eppure spiritualissime; poderose come strumenti da officina, eppur sensibili come antenne di insetti, animate di intelligenza. Le stupende mani di Busoni furono forse la più esatta sintesi di tutto il suo Essere.

Ed ecco un dodecalogo dettato dal Maestro ai suoi allievi e che si vorrebbe appeso alle pareti di ogni classe di pianoforte [...]

Sempre sullo studio del pianoforte scrisse poi un capitoletto che riguarda precisamente le doti che si richiedono al pianista. Ne trascriviamo i passi principali.

No! La tecnica non è e non sarà mai l'alfa e l'omega dell'arte pianistica, e nemmeno delle altre arti. Tuttavia prèdico naturalmente ai miei scolari: fatevi una tecnica e che sia ben solida... Una tecnica perfetta in sé e per sé la troviamo in tante pianole ben costruite. Eppure un grande pianista deve essere prima di tutto un forte tecnico. Ma la tecnica, che è, in fondo, soltanto una parte dell'arte pianistica, non sta solo nelle dita o nelle articolazioni o nella forza e nella resistenza. La più grande tecnica ha sede nel cervello e si compone di geometria, valutazione delle distanze e ordine sapiente. Ma anche con ciò siamo appena al principio, perché alla vera tecnica appartiene anche il tocco e sopratutto l'uso del pedale.
Al grande artista inoltre occorre un'intelligenza non comune, cultura, una vasta educazione in tutte le discipline musicali e letterarie, e nelle questioni della vita. L'artista deve avere anche carattere. Se manca una di queste qualità, la lacuna si manifesta in ogni frase che egli eseguisce. Si aggiungano ancora: sentimento, temperamento, fantasia, poesia e infine quel magnetismo personale che alle volte rende capaci di portare allo stesso stato d'animo quattromila persone estranee, riunite dal caso...
Ma prima di tutto si tenga presente [la necessità di] una qualità essenziale: colui per la cui anima non è passata una vita, non dominerà mai il linguaggio dell'arte.

Pur con tutta la sua grande passione pel pianoforte e tutta la sua fama e tutti gli onori che il mondo intero gli tributò, negli ultimi suoi anni il più grande virtuoso del pianoforte, avendo già raggiunta la possibilità di comunicare col mondo esteriore attraverso la sua arte di creatore, guardava dall'alto la meschinità della sua gloriosa carriera concertistica e ne sentiva quasi vergogna.

Marco Enrico Bossi, conosciuto soprattutto dagli organisti, non é stato solo un organista, ma pianista, direttore, compositore e didatta apprezzato e stimato in tutto il mondo, oltre ad essere stato direttore di ben tre Conservatori in Italia.
Della sua monumentale produzione musicale oggi purtroppo si conoscono e forse vengono eseguite solo una decina delle sue opere, ma credetemi, vale la pena di scoprire questo grande musicista .

Nacque a Salo' di Garda da Pietro, organista di quella Cattedrale.
1871-78: istruito dal padre in seguito si iscrive al Liceo Musicale di Bologna e poi al R.Conservatorio di Milano, suoi maestri: Sangalli (pianoforte), Dominiceti e Ponchielli (composizione).
1879: consegue il diploma di pianista con Gran Premio. Si reca a Londra per tenervi concerti, ed intuisce quanto insufficiente ed empirica sia in Italia l'esplicazione dell'arte organistica, operandone la radicale riforma, al suo ritorno in patria.
1881: Diplomatosi in composizione, vince il Concorso Bonetti con l'opera in un atto "Paquita" e viene nominato Maestro di Cappella ed Organista del Duomo di Como.
1890: Occupa la cattedra d'organo e di armonia nel R.Conservatorio di Napoli.
1895-1902 - È eletto Direttore del Liceo B.Marcello di Venezia, ove insegna anche organo e composizione.
continua alla prossima informazione.
1896- Viene officiato dal ministro della P.I. on. Gianturco ad organizzare e dirigere, il 24 ottobre nella Basilica di S.Maria degli Angeli in Roma, l'esecuzione musicale per il matrimonio Petrovich-Savoia.(verranno eseguite sue musiche)
1898-1902: per  quattro anni consecutivi, nella stagione estiva, tiene l'ufficio di organista di S.M. la Regina Margherita, a Gressoney.
1902- Succede a Martucci nella Direzione del Liceo Musicale di Bologna.
1916- È chiamato alla direzione del R.Liceo di S.Cecilia in Roma.
1923- lascia la direzione di Roma per dedicarsi esclusivamente alla sua libera attività di Organista e Compositore.
1924- Si reca negli Stati Uniti per un grande ciclo di concerti d'organo.
1925- (20-21 febbraio) muore quasi improvvisamente durante il viaggio di ritorno.