Guido Guerrini

IL MAESTRO

[...] Ferruccio Busoni fu, fra i grandi Maestri, uno dei più potenti plasmatori di anime, uno dei più generosi dispensatori di sé stesso, uno degli spiriti più affascinanti e inobliabili. Noi che lo avemmo Maestro (e non fummo moltissimi), lo ricordiamo ancora con la stessa commossa adorazione che ci legava a lui tant'anni or sono. Ancora oggi, fra i suoi ex-allievi, ci si cerca, ci si scopre, ci si trova, quasi a ricercar l'un nell'altro qualcosa di lui. E ad ogni incontro la sua figura ritorna fra noi come un tempo, i suoi occhi celesti ci guardano ancora limpidi e tristi, riudiamo la sua voce calda e suasiva, e per un momento l'illusione di poterci abbandonare ancora a quella strapotente personalità, ci ridà un senso di giovane baldanza.
Degli allievi di lui - e oggi i più hanno, se pur li hanno, i capelli bianchi - tutti conservano il marchio della sua scuola. Se pianisti: l'amore per Mozart, l'ammirazione per Liszt, l'adorazione per Bach, il gusto dei programmi insoliti e solidi. Se compositori: la logica della costruzione, la esperienza e il gusto contrappuntistico, la ricerca armonica e timbrica.
Egli aveva la divina facoltà di rendere «incandescente» tutto ciò che passava attraverso il suo spirito. I problemi più ardui o i soggetti anche puramente tecnici, trattati da lui, divenivano cosa viva e affascinante.
Perfino le regole di contrappunto severo (e Busoni è stato l'ultimo formidabile contrappuntista del nostro tempo) divenivano, in mano sua, saporito lievito di grande arte. Anzi: uno dei lati più interessanti del suo cervello era appunto questa facoltà di affrontare e risolvere i problemi tecnici più aridi, per rinverdirli, e farli ingemmare e fiorire. E tanto più meccanico appariva il gioco armonico o contrappuntistico che ci si proponeva, tanto più egli, e noi con lui, si ostinava a trasformarlo in cosa d'arte.
S'intende che le sue non erano, e non potevano essere, lezioni nel senso pedagogico della parola. (Si parla qui di lezioni di composizione, ché non sappiamo come le cose si svolgessero nel campo del pianoforte). Chi si rivolgeva a lui per apprendere, doveva aver superato tutta la parte puramente meccanica della composizione.
Chi scrive fu allievo di Ferruccio Busoni per quasi due anni, e dopo, per corrispondenza, fino alla sua morte, poiché Egli, fino agli ultimi giorni, gli fece dono del suo consiglio e del suo affetto. Perché, per i suoi discepoli, Busoni continuava ad essere il Maestro anche a studi compiuti. Seguiva la loro attività e la loro evoluzione con vigilanza affettuosa ed inflessibile. Per ogni lavoro che gli si mandasse (la prima copia era sempre per lui) egli ci scriveva subito una lunga lettera, con giudizi precisi, consigli, appunti. Né mancava mai quel tanto di compiacimento o di lode che servisse a rendere meglio accette le immancabili critiche. Lettere colme di sentenze estetiche, di profezie che hanno trovato piena ragione nel tempo. Ma tutto espresso con semplicità, con dolcezza, e sempre in uno stile letterario accuratissimo e in un italiano perfetto. (Agli allievi di altre Nazioni, le lettere erano, s'intende, scritte nelle rispettive lingue).
Durante i due anni di scuola, prendemmo lezione da lui un po' dovunque e sempre in modo particolarissimo. Qualche volta anche in classe. Ma assai di più in treno, per via, a tavola, ovunque infine vi fosse l'opportunità di ascoltare la parola o di ammirare l'attività del Maestro. In Busoni, l'opera del Maestro si svolgeva in un campo vastissimo e mai limitato alla musica. Lo Schuh, che pure gli fu discepolo, ricorda: «Nei suoi corsi d'insegnamento egli non curava soltanto lo strumento o la musica, ma mirava sempre alla totalità dell'arte e dell'umanità». Perciò le lezioni si svolgevano un po' in tutti i settori: da quello letterario a quello filosofico, da quello estetico a quello morale-sociale. E più ancora che con la parola detta, egli amò propagare il suo sapere e consigliare e guidare attraverso corrispondenze epistolari, che sono spesso dei veri piccoli Trattati di pedagogia.
Prima condizione imposta dal Maestro ai discepoli, era quella di portare a lezione una certa quantità di lavoro. Egli non ammetteva (lo ricordino gli studenti di composizione di oggi) che ci si recasse a scuola col fogliolino delle otto e sedici battute. Si andasse a lezione magari una volta al mese, ma con un lavoro finito, fosse un Tempo di Sonata, o un pezzo sinfonico o una scena d'opera. Perché la lezione consisteva, «doveva consistere» sopratutto in una discussione estetica fra Maestro e discepolo. Anzi il Maestro partiva quasi sempre dal proponimento di non voler entrare in questioni tecniche, poiché - diceva lui - «il risultato estetico può giustificar l'impiego di tutti i mezzi tecnici». Per il contrappunto, non occorre dirlo, la pietra di tutti i paragoni era J. S. Bach.
Tutto Bach, dimostrato da lui, diveniva arte universale e moderna, dalle Invenzioni a due voci alle grandi composizioni organistiche, dalle Cantate alle Passioni. Di ogni opera bachiana egli sapeva svelare qualche parte «inespressa ma esistente» che la avvicinava allo spirito di tutti i tempi. (Molte di queste parti «inespresse», sono state da lui rivelate e fissate nella sua revisione del Clavicembalo e in moltissime delle sue trascrizioni da Corali o da composizioni organistiche). Oltre a Bach, amava e portava ad esempio i polifonisti italiani del Cinque e Seicento, con predilezione pel Monteverdi dei Madrigali.
Armonicamente era di un'arditezza inaudita, ma ferreamente logica. E a noi, che allora ci reputavamo progrediti per aver assimilato l'armonistica di Strauss e di Debussy, egli rivelo pel primo le teorie dello Schönberg, dimostrandoci anche le loro derivazioni e sviluppi e possibilità. In parecchie occasioni ci parlò anche di musica a terzi di tono, ch'egli appunto in quel tempo stava tentando di realizzare. E non occorre dire che noi pure dedicammo non poche notti a tali studi che poi, sia fortuna o sia disgrazia, non portarono a nulla.
Un altro aspetto della rnusica lo interessava particolarmente:
la strumentazione. Anche per questa, come per tutto il resto, egli amava ed ammirava sopratutto la ricerca del nuovo. Non poteva sopportare la «cosa solita». Fosse pure pazzesco, un tentativo di far cosa originale e inedita lo attraeva sempre .
(Non è difficile comprendere come questa fortissima tendenza e ammirazione pel nuovo e per l'originale, portata in iscuola, rappresentasse anche un pericolo, specie pei giovani di scarsa personalità. Ma di quelli, a dire il vero, il Maestro pensava non fosse il caso di preoccuparsi eccessivamente.)
Dinanzi alla partitura Busoni sapeva sempre mettersi nei panni dell'allievo. Egli sperava ogni volta che l'alunno avesse visto e realizzato qualcosa che a lui sfuggiva. Affacciava magari qualche dubbio, ma sempre ripromettendosi la prova pratica, la quale, il più delle volte, avvalorava il suo dubbio. E in tal caso era sempre con grande malinconia, ch'egli esclamava: «Avevo visto giusto! Assolutamente non suona!». E nella sua voce era l'amarezza di una disillusione.
Sulla orchestrazione Busoni ci ha lasciato preziosissimi appunti, in uno scritto pubblicato nel 1922 a Berlino, presso l'editore Hesse, e che fa parte di una collana raccolta sotto il titolo «Von der Einheit der Musik» (Dell'unità nella musica). Ecco alcune delle geniali regole:

Prima di tutto bisognerebbe insistere sul fatto, e imprimerlo nella mente dell'allievo, che esistono due specie di orchestrazione: «l'orchestrazione assoluta», richiesta e prescritta dal pensiero musicale, e la «strumenta2ione » di una frase in origine solo astrattamente musicale o pensata per un altro strumento. La prima è la sola autentica, la seconda fa parte degli «arrangiamenti.» [...]
[...]
Bisogna mettere l'allievo in grado di abbozzare tutto il lavoro in tutti i suoi particolari, nel senso della «orchestrazione assoluta». E questi momenti sono sempre gli stessi: note tenute dei corni, tremoli dei'timpani, squilli di tromba; le «malattie d'infanzia dello strumentatore». [...]

[...]
una regola, che non ho trovata ancora citata da alcuno, e che pure ho trovato sempre confermata dalle partiture di Mozart e di Wagner è che ogni strumento, sia che entri solo o in gruppi, «deve cominciare e portare sino alla fine la sua frase», così che questa formi sempre un'immagine chiusa. Ciò non solo è più bello, ma suona meglio.

Bisogna insegnare quelia necessaria disposizione che nell'orchestra assume la funzione del «pedale» nel pianoforte. A volte si suona il pianoforte senza pedale, ma per lo più il piede destro accorre continuamente in aiuto, riempiendo, legando; per tacere degli effetti speciali del pedale. Questo «piede destro» è indispensabile anche nell'orchestra. A questo bisognerebbe dedicare un capitolo a parte.

Una buona partitura deve essere fatta in modo da comprendere in sé, senza speciali aggiunte da parte dell'esecutore, le gradazioni di suono. La voce centrale da «mettere in rilievo» deve essere «strumentata», non suonata più forte. Il «crescendo» deve risultare dall'ordinamento degli strumenti, il «tema» deve illuminarsi da sé.

Ci si renda conto infine che la musica orchestrale è decisamente «musica destinata a vasti pubblici» e che i suoi effetti devono essere calcolati tenendo conto di ciò. Come la musica da camera è destinata a effetti intimi, la musica virtuosistica alla sala grande o piccola, la musica corale aile associazioni, feste e solennità, la banda alle strade e piazze, così la musica orchestrale porta il sigillo della grande sala pubblica, senza la quale non può esistere.
[...] («Die Musik», Berlino, nov. 1905).

L'amore di Busoni per i giovani fu il vero amore di Maestro, quello cioè che per educare non teme di ferire. La critica più spietata era in lui il maggior segno di considerazione e di affetto. Per questo, soltanto pochi dei suoi discepoli lo seguirono, poi, nella vita. In generale la gioventù del suo tempo non lo comprese o gli fu avversa, in parte proprio perché intollerante dei suoi rudi mezzi educativi.
Egli stessò, del resto, ha ben chiarito la sua posizione rispetto ai giovani.

In tutti i tempi esiste la gioventù ed è sempre la stessa: dapprima credente, entusiasta, generosa ed ubbidiente; poi superiore, egocentrica, sprezzante e allontanante, finché una nuova gioventù non ne prenda il posto. Alla gioventù va il mio amore e così sarà anche in futuro. I suoi piani irrealizzabili, le sue domande ardite, le sue obbiezioni disarmanti le sue fiere contraddizioni, i suoi cuori che pulsano veloci, scavano la terra e vi spargono nuove sementi.
Coloro che guidano la gioventù, si dovrebbero sentire come il suolo che accoglie senza volontà il nuovo seme, produce con forza e matura piante rigogliose. Il mio rispetto va alla gioventù e a lei la mia gratitudine. Molto bello, ma purtroppo ottimistico. La gioventù è per lo più conservativa e le sue promesse sono fallaci. La vecchiaia è limitata, benevola o mordace. I «buoni» sono soli ad ogni età. Sentito così il 3 agosto 1909. (Quaderno Busoniano dell'«Anbruch», 1921).

Da questi pensieri esce chiara la generosa dedizione del Maestro ai discepoli; ma anche il suo freddo modo di analizzare l'animo loro e non sempre ottimisticamente.
Non era facile penetrare nell'animo di lui, sempre un po' chiuso e scontroso. Perciò pochi, fra gli allievi, lo compresero. Ma questi pochi non poterono fare a meno di adorarlo e gli rimasero poi fedeli, ciecamente e devotamente, anche dopo la morte.
Uno fra i più intimi, Philipp Jarnach, in occasione di quello che sarebbe stato il 60° compleanno del Maestro, scrisse di lui sui «Berliner Borsen» del 1° aprile 1926:

Ferruccio Busoni compirebbe oggi sessanta anni. Il mondo artistico si rende conto ora di quanto si è perduto con la scomparsa di questo uomo straordinario. Il mondo sa, ora, quanto ancora da lui si poteva sperare, da lui che doveva andarsene proprio al momento della sua migliore realizzazione. Questo vivificatore dei misteri musicali del passato, questo annunciatore di nuove e più chiare espressioni musicali del presente, ha lasciato una mole di lavoro di cui l'importanza si va scoprendo a poco a poco. Quali umiliazioni dovette sopportare da vivo, quali torti gli furono fatti da una confederazione di pedanti, è capitolo che rimane amdato ai biografi. Egli però soffrì assai meno d'essere stato misconosciuto che per essergli stata menomata - dalla mancata comprensione dell'opera sua - la possibilità di ulteriori sviluppi della sua arte...
Il suo senso di indipendenza e la sua coscienza artistica, che non accettavano nulla a metà, diedero spesso impressione di superbia e di durezza. Ma nel fondo della sua anima egli era pieno di umiltà, in cospetto di tutto ciò che fosse grande e «vero».

Oggi una nuova generazione di artisti ha saputo ricevere l'eredità di Busoni. Il quale non fu un Maestro, nel ristretto senso della parola, mancandogli ogni gretto senso didattico, né possedendo la virtù, essenziale per un pedagogo, dell'obbiettività. Egli, che era passato da una scuola teorica assai complicata, non credeva a sistemi d'insegnamento. Egli pensava che soltanto uno spirito indipendente può penetrare nel profondo dell'artigianato e mutarlo in arte e non in «mestiere».
[...] Il suo stesso esempio di dare nuova vita a schemi di Bach e di Mozart è stato di grande impulso ai giovani.
[GUERRINI, pp. 231 ss.]