PIER PAOLO PASOLINI

FRAMMENTO INEDITO

L'OPERA OMNIA

MERIDIANI - MONDADORI

FERRUCCIO BUSONI HOMEPAGE

In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. Non perché io sia fanaticamente per la non-violenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anch'essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza né fisica né morale semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura cioè alla mia cultura.
C'è una sola eccezione. E voglio ricordarla. Si tratta di una decina d'anni fa. Ero stato invitato a un dibattito alla «Casa dello studente» di Roma. Per strada - era verso sera - un gruppo di fascisti mi ha aggredito. Mi hanno gettato addosso un barattolo di biacca, e hanno cominciato a menare le mani e a insultare. C'erano con me dei giovani compagni; ed è stata soprattutto la violenza usata contro di loro che mi ha esasperato. Abbiamo risposto con altrettanta violenza, ed essi hanno battuto in ritirata. Io ho cominciato a inseguire il più scalmanato. La nostra corsa è durata per più di un chiometro attraverso il quartiere di San Lorenzo. Quando stavo per raggiungerlo, egli è salito su un tram, dove, malgrado i calci che egli mi sferrava dal predellino, son riuscito a salire anch'io. Allora egli è tornato a fuggire ed è saltato dal tram in corsa dall'uscita anteriore. Cosa che ho fatto anch'io. È ripresa la corsa forsennata attraverso San Lorenzo, finché egli è scomparso dentro un garage, dove non l'ho più trovato, visto che si era dileguato, a quanto pare, per una porticina del retro. A quel punto però, probabilmente, anche se lo avessi acciuffato, non avrei fatto più niente. La rabbia cieca mi era ormai passata. Ed era stata la prima e l'unica volta nella mia vita che, a tale rabbia cieca, avevo ceduto. Ma l'indignazione suscitata in me da quel miserabile fascista di dieci anni fa non è nulla in confronto all'indignazione che ha suscitato in me in questi giorni, un articolo di un sedicente antifascista: cioè il vicedirettore della «Stampa», Casalegno.
In un suo articolo, scritto ricorrendo a tutti i peggiori luoghi comuni «giornalistici» che sarebbero stati vecchi anche per l'ironia di Dostoevskij nel 1869 - egli polemizza contro me, Moravia, Parise e Pannella per un nostro dibattito sul film Fascista di Nico Naldini (c'era alla tavoli rotonda organizzata da «Panorama» anche Riccardo Lombardi: ma Lombardi è un politico, non è uno scrittore. Quindi Casalegno non lo tocca).
L'articolo di Casalegno è uscito sulla «Stampa» del 22 ottobre 1974. Quindi in questo momento è già vecchio. Se ci torno sopra è perché l'argomento non mi sembra esaurito.
L'attacco di Casalegno contro di me si basa su due punti:

A) Gli intellettuali sono dei «traditori» perché giocano «con le idee e i fatti per faziosità, snobismo, ricerca del successo, paura di lasciarsi distanziare dall'ultima moda».

B) Io avrei «nostalgia di un passato anche tinto di nero», e Almirante, a quella tavola rotonda, «non avrebbe saputo dir meglio di me».

Poiché il primo comma riguarda gli intellettuali in generale, mentre il secondo riguarda la mia persona, ed è quindi, almeno apparentemente, meno importante, comincerò da quest'ultimo, ma non vi dedicherò che poche righe.

Casalegno è giunto alle sue conclusioni estreme - che mi danno praticamente del parafascista - senza avere evidentemente letto nulla di quanto io ho scritto di «scandaloso» in proposito. È chiaro che egli si è attenuto alla semplificazione che dei vili e pericolosi imbecilli - tra cui, evidentemente, dei suoi amici - ne hanno fatto. Questa equivoca semplificazione - che ha, nei miei riguardi, non c'è dubbio, una matrice razzistica - aveva avuto all'inizio qualche diffusione: ma naturalmente, non poteva che restar soffocata sul nascere; e non poteva che stabilizzarsi negli ambienti e nelle teste peggiori.
Tutto ciò che io ho detto «scandalosamente» sul vecchio e nuovo fascismo è infatti quanto di più realmente antifascista si potesse dire. Questo ormai è divenuto chiaro a tutti. Ammettiamo tuttavia che qualcuno, per odio inveterato, per interesse politico o semplicemente per stupidità, continui a restare nell'equivoco. Ebbene mi chiedo se costui non dovrebbe pensarci due volte prima di gettare sulla mia persona il sospetto atroce di un sia pur stinto fascismo: se gettare oggi un simile sospetto su qualcuno significa coinvolgerlo non dico nell'atmosfera ridicola dei golpes, ma in quella delle bombe e delle stragi.
Soltanto un provocatore, una spia, un infame o un isterico può osare di gettare oggi il sospetto, anche il minimo sospetto, di «nostalgia per un passato tinto di nero» su qualcuno. Spero veramente, per lui, che Casalegno mi abbia additato al «linciaggio» per pura incoscienza; che non si sia reso conto di quello che ha fatto. Che in lui sia scattato solo il puro automatismo di un mestiere sia pur servile.
Riprenderò il discorso su questo secondo «punto» più avanti, per assumerlo a un livello più generale. È passo al primo.
Qui le osservazioni da fare sono due: a) Casalegno, per avere una così bassa opinione delle ragioni psicologiche che spingono gli intellettuali a interessarsi di problemi politici, non può conoscere le opere di quegli intellettuali; e non le può conoscere perché non le vuole conoscere; e non le vuole conoscere perché è un borghese che odia gli intellettuali. Basterebbe che egli leggesse - finalmente con un certo «amore» culturale - due pagine mie, o di Moravia, o di Parise - per avere almeno qualche esitazione sul proprio aprioristico disprezzo. b) (e di conseguenza): la «faziosità», lo «snobismo», la smaniosa «ricerca del successo» che Casalegno attribuisce a noi intellettuali, sono, tecnicamente, delle pure e semplici illazioni.
È facile screditare in limine e distruggere qualcuno attraverso delle illazioni (tanto più che l'uditorio è estremamente propenso, sempre, a trovarsi d'accordo a proposito del culturame). Su Casalegno io potrei per esempio ritorcere molto facilmente la «tecnica delle illazioni». Potrei molto logicamente cominciare col chiedermi: cosa ci sta a fare Casalegno alla «Stampa», il cui direttore è una persona rispettabile nel senso vero della parola, e a cui collaborano tanti miei amici, tra i più cari, da Soldati alla Ginzburg, da Siciliano a Pestelli? Cosa ci sta a fare Casalegno alla «Stampa» che, ormai da più di vent'anni, si è pronunciata sempre così favorevolmente sulle mie opere, che sono poi l'unica cosa che conta per stabilire le reali ragioni che spingono un autore ad intervenire anche fuori dal suo campo specifico? E a queste domande potrei rispondermi appunto con un'illazione: Casalegno sta lì alla «Stampa» a garantirne l'apertura a destra di fronte alla peggiore borghesia piemontese, e, praticamente, a fare il «guardiano» non dei finanziatori, ma dei «dipendenti dei finanziatori». Certamente questa illazione è ingiusta, come tutte le illazioni. Eppure non del tutto illogica, come non è illogico che in un intellettuale ci possa essere una certa dose di snobismo e di amore per il successo: sottoprodotti dell'ambizione, che però non hanno alcun potere di modificare quanto egli dice.
L'uomo d'ordine Casalegno (e qui giungo alle considerazioni generali) è stato travolto da due sindromi che sono quanto di peggio travolga oggi la borghesia italiana. La prima è l'odio per la cultura, che trascina a gridare ad ogni momento al «tradimento dei chierici»: cosa che fa, eternamente, dei rappresentanti del «culturame» degli «umori» additati al linciaggio. Infatti loro è la colpa delle spaventose condizioni economiche dell'Italia, loro è la colpa della minacciosa recessione in un mondo povero in cui i valori che risarcivano la povertà sono crollati, loro è la colpa della degradazione urbana e paesaggistica, loro è la colpa del mancato «sviluppo» trasformato in un disastro ecologico, loro è la colpa della politica clientelare e, al limite, della criminalità della Dc. Eh sì, perché la colpa non è certamente degli uomini di potere, queffi che Casalegno con tanto zelo difende.
L'altra sindrome, infamante, cui Casalegno non è stato capace di opporre alcuna dignitosa difesa, è la mania che ha preso gli italiani di darsi continuamente dei fascisti tra di loro. Probabilmente questa è una grande verità. Ma, nella fattispecie, caso per caso, tale accusa è criminale. Come ho detto, essa stabilisce automaticamente delle corresponsabilità in atti criminali e addirittura in stragi.
Ecco le ragioni della mia indignazione verso Casalegno, che, per la seconda volta in vita mia, mi ha fatto balenare una qualche idea di violenza.
Naturalmente non c'è da meravigliarsi che il «Popolo» sia intervenuto in difesa di Casalegno contro un rappresentante del «culturame», dando a costui, altrettanto naturalmente, del fascista. Ma - a proposito di necessaria violenza, e proprio evangelica - i finanziatori e i collaboratori del «Popolo» stiano attenti: è precisamente nel Mercato del Tempio, che essi vendono le loro merci e le loro parole.