Sergio Sablich

ANALISI DELL'OPERA «TURANDOT»

da S.Sablich, BUSONI, EDT, Torino, 1982


INTRODUZIONE
pp. 216 ss.

«Arlecchino» andò in scena per la prima volta allo Stadttheater di Zurigo l'11 maggio 1917, sotto la direzione dell'autore e con il famoso attore austriaco Alexander Moissi nella parte recitata del protagonista. Faceva serata con esso la favola cinese in due atti «Turandot», espressamente composta per l'occasione. Poiché infatti l'atto unico «Arlecchino» non riempiva una intera serata, si era posto il problema di quale lavoro affiancargli; e non avendo trovato una soluzione che lo soddisfacesse, Busoni aveva deciso di rifondere a tal fine in un'opera teatrale quelle musiche che, nate nel 1904 come Suite da concerto ispirata alla fiaba di Carlo Gozzi, già erano servite nel 1911 come musica di scena per una rappresentazione berlinese della fiaba medesima. In soli tre mesi di lavoro, tra la fine del 1916 e il marzo 1917, sia il testo, condotto sull'originale ma steso in tedesco, sia la partitura furono messi a punto, così che l'opera potè essere presentata, sempre sotto la direzione dell'autore, alla scadenza prevista.
«Turandot» è l'ideale pendant dell'«Arlecchino» e, benché composta dopo, quasi la sua indispensabile premessa: non per niente Busoni volle che alla prima esecuzione, e ogniqualvolta i due lavori comparissero insieme, essa precedesse il «capriccio teatrale». Comuni a entrambi sono: la presenza caratterizzante delle maschere della Commedia dell'Arte, seppure qui filtrata attraverso il lontano e immaginario Oriente che fa da sfondo alla favola cinese di Gozzi; quel misto di serio e di burlesco, di «fuor del tempo» e di attuale, che li contraddistingue; il rivestimento musicale oscillante tra forme della tradizione e innesti o tagli di fattura moderna, sovente modernissima; su tutto però la vibrante, talora aspra polemica contro il teatro musicale ottocentesco, romantico e naturalista, nella «Turandot» tanto più accentuata e sferzante quanto spogliata da deliberati intenti parodistici o da confessioni amaramente sarcastiche.
Che la «fiaba teatrale» gozziana, con il suo «continuo e variopinto alternarsi di passione e di gioco, di realtà e di irrealtà, di atmosfera quotidiana e di fantasia esotica», avesse potuto affascinare Busoni, non è cosa che meravigli conoscendo i suoi gusti e le sue idee sul teatro, musicale e non; ma che ora quella fiaba potesse dar vita a una creazione teatrale originale e indipendente, suprema incarnazione di quelle idee purificate da ogni orpello programmatico, e per di più svelare le virtualità sceniche e la perfetta aderenza ai nuovi compiti di musiche composte molti anni prima e non espressamente per il teatro, appare fatto quanto meno sorprendente e prova ulteriore della interna coerenza della sua poetica.
Per la stesura del libretto Busoni non prese in considerazione la più famosa delle rielaborazioni romantiche della «Turandot», quella di Schíller (1801) cui si era ispirato anche Carl Maria von Weber per le sue musiche di scena composte nel 1809. Ad essa, assai più umanizzata ed elevata nel tono poetico, caricata di note patetiche e semitragiche (non a caso fu questa versione di Schiller, nella traduzione italiana del 1857 di Andrea Maffei, ad attrarre Puccini verso quella che sarebbe rimasta la sua ultima opera incompiuta), mancava proprio «la sensazione che si tratta sempre di un gioco - persino nelle scene che confinano con la tragedia»: sensazione che per Busoní era invece «l'essenziale».
Si volse dunque al testo originale di Gozzi; ridusse la trama alle sue linee essenziali abolendo personaggi ed eventi secondari, ma mantenne inalterato il carattere fiabesco del soggetto, un carattere già di per sé promettentemente musicale, e anzi accentuò attraverso situazioni eminentemente musicali, dedotte dal testo stesso, gli elementi propriamente magici e illusionistici, fantastici e irreali. Soprattutto si giovò della presenza delle maschere della Commedia dell'Arte, rappresentate dall'eunuco Truffaldíno, da Pantalone e da Tartaglia, non soltanto per conferire vivacità e umorismo alla vicenda, ma anche per distruggere, «gettando un ponte tra il pubblico veneziano e l'Oriente fittizio della scena», ogni impressione realistica e sentimentale.
Questo ruolo di mediatore è affidato anzitutto a Pantalone, «che impersona lo spirito del veneziano e che con le sue allusioni alla città natale e le sue locuzioni dialettali ricorda costantemente l'ambiente reale circostante». Per Pantalone, che in Gozzi si esprime in dialetto veneziano, Busoni arrivò addirittura a inventare una sorta di lingua dialettale tedesca, grottesca e caricaturale. Così anche gli altri personaggi d'invenzione della vicenda non hanno modo di uscire dai limiti prefissati, uníformandosi a ciò che Busoni chiamava «la piacevole menzogna della scena».
E del resto questi limiti, in sé tutt'altro che angusti o improduttivi, sono programmaticamente ricordati in un breve prologo, tratto dal Festzug di Goethe, che Altoum recita prima dell'inizio dell'opera; lo sfarzo e la signorilità del suo aspetto, egli dice, non ingannino: Altoum è soltanto un «monarca della scena», venuto dal lontano Oriente e innalzato sul trono dalla favola, e sua figlia, la bella principessa Turandot che siede al suo fianco, soltanto una ragazza un po' testarda e un po' capricciosa che si diverte, a suon di indovinelli, a mettere in angustie il prossimo con la sua bellezza e la sua perfida sottigliezza.
Che poi il lavoro, come sempre in Busoni, non sia affatto un vuoto gioco esteriore o illustrativo, un mero divertimento o, come vorrebbe la Selden-Goth, una «settecentesca buffoneria», è altro discorso. Il divertimento che Busoni vuole suscitare e di natura estetica e culturale, mira cioè a far riflettere e a «dire cose importanti in una forma divertente», come aveva saputo fare Mozart. Per questo, benché egli amasse presentare la sua «Turandot» come «un esempio della nuova Commedia dell'Arte» (e in parte lo e davvero, poiché risponde alle sollecitazioni delle nostalgie ítalianeggianti della sua cultura e della sua poetica), un primo punto di riferimento va ricercato nella tradizione della farsa di carattere magico austriaca e tedesca, e in particolare in quella Zauberoper di cui il «Flauto magico» è la suprema espressione.
Adottando la struttura del Singspiel mozartiano, con la sua alternanza di parti parlate, di numeri cantati in forma chiusa e di pezzi, anche assai sviluppati, puramente musicali, Busoni conferisce unità e varietà formale alla sua creazione; tenendo distinti i ruoli e i compiti di ogni specifico mezzo espressivo, può rivestirli dei simboli che a ciascuno di essi sono propri e nello stesso tempo mantenere, ancor più accentuato, quell'equilibrio composito caratteristico del dramma fiabesco. Ciò che a Mozart era riuscito in modo insuperabile, Busoni lo tenta in prospettiva moderna, forse inattuale: mozartiano non è soltanto il gesto, ma anche l'impulso che, per quanto mascherato, lo spinge a dipingere il personaggio dell'imperatore Altoum con i tratti di Sarastro, e persino il finto eroe Kalaf con quelli di Tamino (nell'«Arioso» del primo quadro dell'atto primo), e a far rivivere le stilizzate situazioni della favola d'altri tempi e luoghi con intrepido, lucido distacco.
Lo spessore sinfonico dell'orchestra, non solo negli inserti strumentali - certo conseguenza della quasi integrale rifusione dei brani della Suite -, il costante riaffiorare di stili e maniere del passato, sia pure in modo più criptico ed elaborato rispetto all'«Arlecchino», l'uso di scale, modi, motivi e inflessioni orientali, di sapore esotico, da un lato coerente con il soggetto cinese e fantastico, dall'altro visto come mezzo di ampliamento della ricerca composita (soprattutto armonica) in una chiave decisamente moderna e anticonvenzionale, sono alcuni dei principali aspetti della partitura della «Turandot». Vi abbondano i ritmi di marcia e di danza, talvolta accompagnati da geniali soluzioni armoniche e timbriche, altre volte ossatura di pagine in cui il flusso melodico (altro aspetto qui in primo piano) rompe la fitta rete armonica e contrappuntística per affermarsi con energica icasticità.
Ogni situazione e ogni personaggio sono contraddistinti da un linguaggio e da una forma, senza che per questo vada perduta l'unità stilistica e costruttiva dell'insieme: fonte di definizione psicologica e di contrasti fertilissimi, essi non sono principi rigidi, ma elementi di analisi e di sintesi insieme, mezzi espressivi che variano di continuò e impercettibilmente a seconda del contesto
Condensando la trama alle sole parti essenziali, Busoni sceglie le situazioni drammatiche di per se stesse più concisamente identificabili e le sviluppa musicalmente in forme nettamente definite. Così il primo atto, suddiviso in due quadri, ha il compito di presentare, con l'ambiente e i personaggi, le premesse della vicenda e il suo svolgimento fino alla scena degli enigmi, in cui essa tocca l'apice. Il modo in cui questo intreccio di elementi illustrativi e drammatici si concentra in forme musicali autonome è già di per se sintomatico delle intenzioni di Busoni.