Sergio Sablich

Analisi di «Arlecchino»

QUARTO TEMPO

7. Scena, quartetto e melodramma
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Tutto per burla, naturalmente. Leandro non è affatto morto, anche se il Dottore e l'Abate, che incespicano sul suo corpo uscendo un po' alticci dall'osteria, inneggiano al miracolo nel riconoscerlo, più che vivo, risorto. Per prestargli soccorso invocano l'aiuto del vicinato, ma una dopo l'altra tutte le finestre, che si erano illuminate e popolate di teste curiose, si abbuiano e si richiudono (di qui l'aggiunta «ovvero Le finestre» che figura nel titolo): infatti, come commenta «con sacro sdegno» l'Abate, «decisamente l'uomo propende ad occultare la sua innata bontà».
Ma dove non arriva l'uomo, ecco manifestarsi la provvidenza: sarà l'intervento «provvidenziale» di un asino che traina una carretta a salvare la situazione e a portare via il cavaliere creduto morto, e con lui l'Abate, il Dottore e Colombina; non prima però che essi tutti insieme abbiano intonato un ultimo canto d'addio.
Questo Quartetto posto al centro del quarto tempo è non soltanto il momento più alto di tutta l'opera, ma anche, compositivamente, il punto cruciale in cui Busoni, per così dire, scopre le carte e assomma tutte le sue risorse di compositore moderno per dare vita a una pagina di impressionante rigore costruttivo e di arcana, commossa forza espressiva. Armonia, contrappunto e melodia si fondono in uno secondo quello stile di polifonica concentrazione tipico di Busoni, e si spengono, alla fine della parabola, nelle accorate movenze di una marcia funebre intrisa di malinconia struggente.
È soltanto un attimo: in un fulmineo trascolorare di affetti e di stati d'animo, altra cifra inconfondibile dell'arte busoniana, riappare Arlecchino, annunciato dal rullo del tamburo militare e da tre accordi in fortissimo gravidi di aspre tensioni armoniche. Altra pagina magistrale, il «Melodramma» (ossia melologo, dove alla declamazione in Sprechgesang si sovrappone il commento orchestrale) con il quale Arlecchino celebra la sua vittoria sul mondo intero si tinge di sarcastico disprezzo allorché egli, rivolgendosi al pubblico e su un tonante accordo di do maggiore, esclama: «Voi Arlecchini!».
Sergio SABLICH, «Busoni», Torino, EDT, 1982, pp. 212-213