DA SCARLATTI A... TRONCON

Conversando con Carlo Grante

Vigone (TO), luglio 2000

di Simone Monge




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Capita raramente di incontrare musicisti che sappiano far dialogare teoria e prassi con esiti di eccezionale qualità artistica. Ascoltato un concerto di Carlo Grante e fatte con lui poche parole, ci si accorge subito che questo è il caso. Abbiamo dunque incontrato il pianista, romano d'adozione aquilano d'origini, per conoscere meglio le sue idee sulla musica e sul pianoforte. Spunto d'avvio della conversazione quel monstrum del repertorio pianistico che sono gli "Studies on Chopin's Etudes" di Godowsky.

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SM: Da bambino amavi improvvisare. Poi sei arrivato a fare musiche in cui il margine di improvvisazione è ridotto al minimo. Penso agli Studi di Chopin-Godowsky in cui la materia musicale da dominare è tale da non lasciare molti spazi all'interprete. Che cosa ti ha portato a questa musica?
CG: Me li aveva chiesti un'etichetta londinese. In principio si trattava di incidere musiche di Sorabji. Chi ama Sorabji, ama anche Godowsky, Busoni, Alkan: un filo rosso unisce questi autori. Sorabji bisognava trascriverlo dal manoscritto, ci voleva del tempo e così la scelta è caduta sugli "Studi di Chopin-Godowsky". L'attenzione complessiva per Godowski è nata dopo.
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SM: Avevi già realizzato un'integrale degli "Studi sugli Studi di Chopin" di Leopold Godowsky. Perché ripeterla oggi?

CG: È stato inevitabile, avendo iniziato a registrare per la Music and Arts l'integrale delle musiche pianistiche di Godowsky. Questa nuova versione mi soddisfa comunque di più. Per la prima avevo dovuto impararli apposta. Qui invece li ho potuti studiare con più calma e li ho rodati molto in concerto.
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SM: Qual è la reazione del pubblico di fronte a questi brani?
CG: Dipende. Recentemente ne ho suonati alcuni al "Festival Neuhaus" di Saratov, in Russia (Neuhaus era stato allievo di Godowsky). Hanno suscitato molto più interesse Scarlatti e "Ciaccona" di Bach-Busoni: il pubblico russo ama un messaggio diretto, poetico e pensa sempre per immagini, per evocazioni. In Godowsky invece non c'è un messaggio: la sua musica è una speculazione compositivo-strumentale molto specifica e specialistica. Altrove ha successo, il pubblico è ammirato dalle difficoltà, sbalordito dalla capacità di utilizzare il materiale latente nella composizione originale, insomma dalla fantasia "culinaria" di Godowsky.

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Heinrich Neuhaus
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SM: Dopo aver ascoltato tutti gli Chopin-Godowsky, tornando agli originali di Chopin, che tu pure hai in repertorio, sembra di vedere qualcosa di più, come li si osservasse con una lente di ingrandimento. C'è un valore pedagogico oltreché virtuosistico in queste rielaborazioni godowskyane e secondo te che cosa prioritariamente si prefiggeva Godowsky con questi lavori? [cfr. saggio di Francesco Scarpellini Pancrazi]
CG: Da un lato c'è un'espansione delle risorse pianistiche e tecniche, un miglioramento mentale e muscolare, dall'altro la capacità di mettere in luce fatti strutturali. Ad esempio prendiamo lo "Studio op. 10/1": qual è il tema? Molto acutamente Gavoty diceva: più che una melodia c'è un melos dato dall'armonia che viene arpeggiata. Altri pensano che il tema, a mo' di corale, sia nella sinistra. Godowsky, nel suo "Studio n° 2" per mano sinistra, molto intelligentemente costruisce con gli accordi di base un tema. Prendiamo ancora lo "Studio op. 10/5". Il disegno della mano destra si basa su sviluppi di tre note, però la struttura modulare si compone di due note che s'alternano, una bassa e una alta. Quindi metricamente può essere scomposto a due a due, mentre ritmicamente è raggruppato a tre a tre. Godowsky esamina queste possibilità e dà una sua lettura. Questi sono due esempi, ma sono numerosissimi i casi in cui la realizzazione di Godowsky mette in luce fatti strutturali.
SM: È una situazione paradossale: quello che sembra un lavoro di complicazione e di paludamento, in realtà è lavoro di chiarificazione.
CG: In Godowsky ci sono sempre tutte e due le cose: chiarificazione estrema e elaborazione. Peccato la reputazione di questi "Studi" sia quella di opere difficili; non si pensa mai ad essi come capolavori compositivi. Anche perché i termini stessi "trascrizione", "arrangiamento" etc. suonano male. Questi sono "studi sugli studi": è qualcosa che non aveva precedenti ed è molto più un operazione da compositore d'avanguardia che non da compositore tradizionale.
SM: Forse si potrebbe considerare come antecedente il Liszt alle prese con le tre redazioni dei suoi "Studi". Resta il fatto che Liszt evolveva il suo linguaggio personale, mentre Godowsky "rifletteva" da saggista su un punto d'arrivo del pianismo ottocentesco. Noto che il numero di battute degli originali solitamente non viene alterato in Godowsky. Mi pare comunque si possa parlare quasi mai di "trascrizione".
CG: Gli "Studi" di Chopin vengono trasformati, ad esempio lo "Studio op. 25/4" diventa in Godowsky una Polacca, ma le proporzioni sono quelle originali.
SM: Ritieni che conoscere gli "Studi" di Chopin/Godowsky sia indispensabile per un giovane pianista professionista?
CG: Non c'è niente di così difficile nel suonarli. Godowsky si adatta allo strumento dal punto di vista delle sonorità, della diteggiatura e della posizione, non richiede mai di fare cose fisicamente impossibili. La difficoltà è semmai nella minuziosa attenzione a tutte le richieste di ordine polifonico. Con Godowsky la polifonia diventa trascendentale. Credo il punto di partenza di questa polifonia trascendentale sia lo "Studio n° 96" del "Gradus" di Muzio Clementi. Altri punti fermi in tal senso sono i vari esercizi di Blanchet, di Friedman e soprattutto le 51 "Übungen" di Brahms.
SM: Nel caso degli "Studi per sola mano sinistra" - ventitré in tutto - mi pare il discorso sia più pronunciatamente didattico.
CG: Limitando le risorse fisiche a una mano sola Godowsky realizzava come dei test strumentali con l'obiettivo di espandere il pianismo a due mani. In questo senso il manifesto del pianismo di Godowsky è lo Studio n° 24, il secondo sull'op. 25/1, per cui scrive "come una composizione a quattro mani". Alcuni "Studi" per mano sinistra, tipo il n° 3 sull'op. 10/2 , sono utili soprattuto come esercizio tecnico. Lo stesso direi per i numeri 22, 23, 31, 44, 45a. Altri, come la Tarantella e il Capriccio sull'op. 10/5 (nn. 9-10 ) o i numeri 25, 32, 34 su "Studi" dell'op. 25, sono, analogamente al n° 24, adattamenti con melodie aggiunte, in verità un po' leziose. I più interessanti sono quelli in cui Godowsky prende come punto di partenza un'idea di Chopin per dimostrare "guardate fin dove si può arrivare".
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Leopold Godowsky
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SM: L'aspetto più sperimentale dal punto di vista compositivo mi sembra ravvisabile in quelle sovrapposizioni "ivesiane" che caratterizzano studi come "Badinage", il n° 47, che combina gli originali op. 10/5 e op. 25/9: la compresenza di linee procura come un'ebbrezza, dà quasi alla testa.
CG: Sono gli studi più geniali, indubbiamente. Ma sono cose che faceva anche Busoni, ad esempio quando sovrapponeva Fuga e Preludio del I Libro del "Clavicembalo ben temperato", creando una fuga figurata. Nulla di satirico: è una bellissima composizione che richiede un forte controllo intellettuale per rispettare accentuazione, inflessioni diverse di ciascuna linea, compresenza di tocchi differenziati. Appunto qualcosa di molto simile a uno studio come "Badinage". Questo è il vero pianismo di alto livello cui volevano tendere Godowsky e Busoni.
SM: Godowsky suonava questi "Studi"?
CG: Sì. Purtroppo non abbiamo testimonianze fonografiche.
SM: Ventisette gli "Studi" di Chopin, cinquantaquattro gli "Studi" sugli Studi di Godowsky. Uno soltanto è rimasto intatto, non rielaborato, l'op. 25/7. Hai una spiegazione al riguardo?
CG: Non saprei. Forse ha avuto paura di "rovinarlo", toccandolo. Lo Studio cosiddetto "del violoncello" tutt'al più lo si potrebbe trascrivere per mano sinistra, ma, a ben vedere, sarebbe del tutto inutile.
SM: Ci sono ancora degli "Studi" inediti. Pensi di occupartene?
CG: Sì.
SM: E il caso del "Triplo Studio" che Hamelin ha cercato di ricostruire?
CG: Mi pare più interessante l'"Etude en forme de Chopin" di Alistair Hinton. [Alistair Hinton has composed a combination of the three A minor studies, calling it "Étude en forme de Chopin" (Op 26, 1992). In addition, it includes reminiscences of several other Chopin Etudes.]
SM: Il destino di chi suona queste musiche è di essere etichettato come pianista-superman, che tuttavia frequenta questo repertorio eccentrico, per aggirare l'ostacolo dei grandi classici. Ti senti etichettato?
CG: In America, ahimè, sì! In Russia invece hanno posto l'accento sul "pianismo di qualità", più che non su quello "di facilità virtuosistica", cioè su un pianismo che dimostra la capacità di venire a capo di alcune problematiche, le stesse che poi si trovano nella musica di Xenakis, di Ferneyhough, di Finnissy, autori contemporanei la cui scrittura mira ad una saturazione sia di eventi sonori, sia di particolari tecnico-strumentali. Per Godowsky, come per gli altri autori che ho citato, la cui musica è veramente satura dal punto di vista polifonico e poliritmico, non credo si debba parlare di musica virtuosistica, ma di musica complessa, che non lascia spazio al virtuosismo, proprio perché si deve essere troppo attenti al dettaglio.
SM: Dunque non c'è spazio neanche per il narcisismo?
CG: Non c'è spazio per tuffarsi, per fare il giocoliere, l'atleta. Godowsky porta al supremo controllo mentale-muscolare, non al virtuosismo.
SM: In questo senso vedi un erede di Godowsky?



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CG: Questo atteggiamento lo ritrovo in Michael Finnissy. Lui ha ammirato Godowsky per tutta la vita, l'ha studiato, l'ha sviscerato, l'ha analizzato a fondo. Le sue composizioni mi sembrano molto influenzate dalla poliritmica, dalla polidinamica, dalla polifonia godowskyane. E faccio notare che Finnissy non è un nostalgico o un neoromantico, per carità! Anzi la sua musica a volte risulta indecifrabile anche per noi. In generale direi che nella sua musica c'è poca presenza di pattern, di formule reiterative, calzanti. Paul Howard mi pare dicesse che Chopin era paragonabile a Godowsky eccetto che in due punti, e cioè nei finali di I Ballata e dello "Studio op. 25/11" in cui Chopin "si permette" di fare scale ascendenti per moto parallelo di quattro ottave. Tanto è diventata famosa questa scala che Rachmaninov nell' "Etude-tableaux" in sol minore op. 33/8 la riproduce in chiara allusione. Godowsky non ammetteva quella reiteratività. E per Finnissy è lo stesso: tutto ciò che è inerziale, reiterativo e non invece puntuale e frontale, è sterile.
SM: Ma allora la ripresa di materiali preesistenti come si giustifica?
CG: La citazione non viene reiterata, ma rimetabolizzata. Ne "L'affaire Moro" Sciascia illustra la differenza-similitudine fra il "Don Chisciotte" di Cervantes e quello di Miguel de Unamuno. La stessa espressione, le stesse parole hanno un significato diverso a seconda dell'una o dell'altra opera. E letto de Unamuno, non si leggerà più Cervantes allo stesso modo. Nel contesto godowskyano il passaggio di Chopin preso tale e quale ha sempre un significato diverso rispetto a quello originale.
SM: Quasi un Goethe che riscrive l'euripidea "Ifigenia in Tauride"?
CG: Sì, rimetabolizzare senza reiterare, questa è la ricetta di Godowsky.
SM: E il caso degli Studi mimetizzati in cui il carattere viene completamente modificato in mazurca, notturno, polacca etc.?
CG: Quella è un'altra faccenda, quello è feticismo, è amore per i collants dell'amante, amore per un pezzo suonato tante volte da desiderare di impadronirsene: "tanto amo quello studio che su quel background armonico ci improvviso su", un po' come avrebbero fatto Davis e Parker. Si prenda il caso dello "Studio n° 34 'Mazurca'" sull'op. 25/5 dove Godowsky fa un hemiola in levare che chiarifica la hemiola nascosta in battere dell'originale: questo è più che feticismo.
SM: Ma il gioco trasformistico stravolge o svela potenzialità nascoste?
CG: Non credo vi sia l'intento programmatico di "stravolgere". È questa capacità di inventare su strutture melodiche preesistenti che prende il sopravvento e trasporta la fantasia del compositore.
SM: Qui dunque l'intento chiarificatore passa in secondo piano?
CG: È la musica stessa che partendo dalle viscere della composizione originaria comincia a germinare e a trascinarti lontano. Nella Siciliana dalla Sonata in sol minore per violino solo di Bach, Godowsky fa succedere tante di quelle cose che la Siciliana quasi scompare. È la foga creativa che prende il sopravvento.



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SM: Veniamo a Busoni, autore di cui hai in programma la registrazione integrale delle opere. Sembra tuttora avere più influenza come modello il pianista che non il compositore.

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CG: In effetti continua ad essere più considerato come concertista, teorico ed esteta. Come compositore è più conosciuto per le trascrizioni che non per le opere originali, due cose in realtà molto legate fra loro. Dovrò presto occuparmi del riversamento di alcuni rulli di Busoni. Quando "si vede" Busoni suonare, si capisce quanto il suo pianismo sia legato al suo modo di comporre, non solo per l'attenzione al contrappunto, ma per la polifonia latente, invisibile. È quasi schenkeriano il suo modo di suonare: riesce a trovare un'integrità nascosta delle proporzioni, con grande raffinatezza sembra tradurre le proporzioni temporali in proporzioni spaziali. Per noi italiani è molto importante Busoni, perché la natura storico-artistica degli italiani è chiusa in questa forma cattolica di paura del peccato dove il peccato è il parossismo, l'esagerazione. La grandezza della interpretazione è nell'evitare di fare più che nel fare, mi pare dicesse Dallapiccola. Questo in Busoni si sente moltissimo. Si avverte da un lato la solidità di un pensiero classico quasi dogmatico, una sorta di purezza e di pace con se stessi nell'evitare il peccato, dall'altro la sua natura "gotica". La Fantasia contrappuntistica riassume in un certo senso questi due aspetti. Il Preludio-Corale è quasi classico e statuario, il groviglio contrappuntistico rappresenta il suo retaggio germanico.

SM: Kaikhosru Shapurji Sorabji è un altro dei tuoi autori prediletti. Buona parte della sua musica è ancora un capitolo oscuro, anche per il problema della difficile accessibilità. Sorabji costringe al costume antico di trascrivere a mano il brano, a quella che è poi una forma primaria di apprendimento.

CG: Sto trascrivendo dal manoscritto la "Sequenza ciclica". Quando l'avrò completata la registrerò. Il brano dura sulle sei ore. Molta sua musica non è pubblicata. Bisogna quindi ordinarla al Sorabji Archive e pagarla.

SM: Sorabji è noto anche per aver sempre impedito le esecuzioni pubbliche della sua musica.

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CG: È tipico di chi è un complessato, un frustrato. Sorabji non riusciva a farsi apprezzare come avrebbe desiderato e quindi si difendeva sfuggendo. Ma non escludo che questa storia di proibire le esecuzioni sia una stupidaggine. Altrimenti non si comprenderebbe come Sorabji abbia potuto dare l'assenso ad esecuzioni molto parziali e approssimative di sue opere importanti.
SM: È umanamente sostenibile l'impresa di suonare tutti i "100 Studi trascendentali" di Sorabji?
CG: Presto comincerò ad inciderli. Il problema è che sono ancora tutti manoscritti.
SM: È un corpus organico, c'è una concezione unitaria?
CG: Non proprio, ma alcuni sono addirittura collegati fra di loro.
SM: Quale legame c'è fra Sorabji e Godowsky?
CG: Non ci furono contatti diretti. Sorabji era un critico importante: in Gran Bretagna ha promosso la musica di Alkan, di Mahler, di Busoni. Lo stesso ha fatto con Godowsky con quel suo articolo molto significativo, "Leopold Godowsky as a creative transcriber" [in "Mi Contra Fa", Londra 1947]. Arrivò a dire che Godowsky restituiva alle composizioni per violino di Bach - che lui definiva "incubi" - la spiritualità mancante! Lo studio di Godowsky lo ha influenzato moltissimo anche come compositore. In Sorabji però c'è questo edonismo del sapore speziato, della musica piena di profumi inebrianti, che è sicuramente un po' malvagio. La spiritualità c'è, però il corpo è così malato, così vizioso, frustrato. Le sue composizioni annegano nella loro stessa ambizione.
SM: Abbiamo già parlato di Finnissy quale ideale prosecutore di una linea godowskyana. In principio erat Alkan?


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CG: Alcuni lo sostengono, ma non sono d'accordo. Trovo Alkan molto diverso da Godowsky, più vicino invece a Busoni per una forma "sarcastica" di ovvietà, che si ritrova anche in Berlioz. È quella che si ravvisa ad esempio nella trivialità di alcuni momenti del Concerto di Busoni, una volgarità così ovvia da non essere più triviale. Anche l'utilizzo del Dies irae nella Marcia al Patibolo della "Fantastica" è così ovvio da essere quasi deliberatamente brutto. In quanto a raffinatezza e capacità d'introspezione trovo Alkan agli antipodi di Godowsky e di Sorabji, che al contrario sembra vogliano scandagliare la struttura atomica della composizione.

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SM: Quali altri compositori contemporanei ritieni si possano collocare in questa linea?
CG: Direi George Flynn, anche lui grande ammiratore della triade Busoni-Godowsky-Sorabji. Mi sta scrivendo un brano dal titolo "Glimpses in our inner lives". È sbalorditivo il suo impiego della tecnica cosiddetta "pitch-class". Consiste nell' utilizzare una classe di altezze come magma ordinato da cui poi l'orecchio riesce ad inferire un nesso analogo a quello cui siamo abituati normalmente

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nella musica tonale. Con questo ordine di altezze Flynn inventa, ricrea una tonalità.

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SM: Altro autore che tu presenti spesso in concerto è Paolo Troncon, che nei suoi "Sei Preludi e fughe" dimostra uno straordinario dominio di stilemi novecenteschi, senza però nostalgie o tentazioni neoclassiche.
CG: È una specie di debito, una forma di esercizio della memoria il suo. I Preludi e fughe di Troncon sono scaturiti da un rapporto di scambio e di collaborazione, in seguito alla prima stesura di una fuga "à la Shostakovich", la n° 4, detta demodé .
SM: Quella che finisce con l'accordo di Mi maggiore?

CG: Chi conclude in Italia con una triade maggiore deve sempre giustificarsi con un "demodé" o qualcosa del genere altrimenti lo prendono per un attardato o un anti-progressista, o semplicemente un "burino".
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Mi sono permesso di consigliargli la scrittura su più pentagrammi, che facilita molto la lettura di musiche complesse, e di dare alcuni input, ad esempio suggerendo dicomporre una fuga - la n° 1 - con un soggetto "bilineare", cioé già di per sè contrappuntato, con al suo interno contemporaneamente un soggetto e un controsoggetto. Quest'ultima idea potrebbe essere ulteriormente sviluppata, creando una fuga su un soggetto polifonico a sua volta sottoposto alle leggi del trattamento (imitazione, inversione etc.) già all'interno del soggetto stesso. Il soggetto in un certo senso dovrebbe essere una mini-fuga a sua volta germe di una super-fuga di dimensioni esplosive, utopiche.

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SM: L'esempio di Troncon non può rappresentare un modello di risposta eticamente accettabile, proprio perché esente da compromessi o ammiccamenti, al problema del distacco fra pubblico e musica nuova che tanto ha tormentato la seconda metà del secolo appena trascorso?
CG: C'è molta musica contemporanea che sta in stallo, incomprensibile o comprensibile solo a chi la scrive, insomma fine a sè stessa. Alla Wigmore Hall di Londra ho suonato in prima mondiale una serie di "Studi" di Sorabji e i brani di Troncon: il pubblico era entusiasta. Ma ci vuole dedizione. Spesso chi suona la musica contemporanea s'arrangia, approssima troppo e la musica ne soffre. Tanto gli errori chi può capirli?
SM: Ma questo non è forse un difetto intrinseco a certa musica contemporanea, un difetto che smaschera la sua incomunicabilità?
CG: Se un compositore scrive nota per nota, a tavolino, a partire da pretesti iper-strutturali, senza sapere come suonerà la sua musica, suonare in un modo o nell'altro non fa tanta differenza. Ma se il compositore traduce sulla carta i suoni, quelli devono essere rispettati. Vogliamo fare una composizione su due piedi? Prendiamo alcuni "temi" e li mescoliamo facendoli soggiacere a delle leggi di assemblaggio strutturale seguendo certi criteri. C'è un disegno che noi conosciamo, è quello attraverso cui abbiamo strutturato il pezzo, ma noi non sappiamo come suona. Chiunque può essere un compositore, cioè può imparare delle tecniche di assemblaggio di note, ma pochi sono i compositori-veri-musicisti, che sanno scrivere ciò che il loro orecchio interno detta.
SM: Non pensi che l'astrarsi del processo compositivo come la tendenza agli eccessi strutturalistici che quasi alienano la composizione dalla sua realizzazione sonora, siano dipesi anche dalla frattura creatasi nella prima metà del Novecento fra le figure di interprete-esecutore e di compositore, prima spesso coincidenti?
CG: Sicuramente, ma non so se il rapporto possa essere ripristinato. Comunque può essere sufficiente che il compositore lavori accanto o per l'esecutore. Così nasce ciò che Finnissy compone per me: lui scrive a partire dal mio pianismo, mi confeziona i pezzi addosso come un abito. Lo stesso s'è fatto con Troncon.
SM: Componi?
CG: Mi sono riavvicinato alla composizione in questi ultimi tempi. Eseguirò fra breve un mio "Notturno" in stile sorabjiano e ho una Sonata in cantiere.
SM: Hai un repertorio vastissimo, indice di una notevole facilità di apprendimento: l'hai sviluppata nel tempo con studi specifici o è il frutto di una scuola?
CG: Tutte e due le cose. Io mi sono formato alla scuola di Silvestri e di Perticaroli. Poi c'è stata un'esperienza di studio a Londra con Alice Kezeradze-Pogorelich che ha avuto su di me un'influenza che definirei "dramatic", formidabile, decisiva. Con quel tipo di scuola si studia molto a mani separate, si sviluppa la mano muscolarmente in maniera ineccepibile e alla fine non si capisce dove finisca il lavoro mentale e dove cominci quello muscolare. La mano è sempre pronta a risolvere qualsiasi problema, però occorre un po' di tempo nella gestione e nella assimilazione del repertorio. Non è una scuola che favorisca il rapido apprendimento. Però, quando io ho cominciato a suonare, il pianoforte rappresentava per me soltanto un mezzo per fare musica, mi piaceva improvvisare, comporre, riprodurre ciò che ascoltavo e credo che questa cosa mi sia rimasta. Io vedo sempre prima la musica, il fatto tecnico è un percorso. Imparo molto velocemente e non è sempre un vantaggio. Comunque se per risolvere i problemi tecnici di un nuovo brano bastano poche ore, per dare solidità alla esecuzione-interpretazione occorre ovviamente molto più tempo. Si può lavorare sul "repertorio per sè stessi" oppure sul "repertorio per il repertorio". Egon Petri teneva fede a questa seconda linea, cercando l'integrità e la coerenza intellettuale del repertorio. Io sto con lui.
SM: Come lavoravi con la Kezeradze: su brani o su esercizi tecnici?
CG: Mi faceva studiare le scale iper-articolate, staccate, leggere etc. - a volte solo toccando i tasti e facendo rimbalzare il dito senza emettere suono - e poi i passaggi di pura digitalità, anche stando in piedi.
Lei aveva cristallizzato al massimo tutto ciò che aveva imparato in Russia dalla sua insegnante - studiò con un allieva di Siloti - facendone un sistema ferreo. Ciò che spesso aveva una radice espressiva, lo aveva fissato in vocabolario esecutivo, cioè: certe cose si fanno solo in un certo modo. Per quel che riguarda l'approccio tecnico la sua scuola era molto logica, razionale, una scuola che tecnicamente poggiava soprattutto sulla costruzione muscolare della mano, sulla leggerezza del braccio, sull'indipendenza digitale e sull'articolazione delle dita, quest'ultima forse la cosa più importante. Si articola sempre tutto, da vicino o da lontano. Il dito prima di suonare fa un percorso che precorre il suono e la mente lo deve preannunciare. Non c'è niente di spontaneo. È un modo di suonare molto simile a quello di Rachmaninov. Si sente in Rachmaninov che ogni nota è posizionata, che il modo di suonare è molto razionale, molto articolato e dettagliato, piuttosto ordinato nell'accentuazione del battere/levare, nel respiro prima del battere, nella spaziatura delle note fra di loro, ma anche molto libero. Ci sono degli stilemi: la nota in battere è più forte di quella in levare; la nota lunga ha più suono di quella corta, la nota lunga è più lunga e la nota corta è più corta del dovuto, l'intervallo ascendente e l'intervallo discendente poggiano molto su quello stilema dell'intonazione del suono, dell'intervallo che in Russia si chiama "intonatja". Siamo agli antipodi della scuola italiana, o meglio, della "scuola napoletana".
SM: Su che autori avete lavorato?
CG: Sui classici principalmente, Beethoven, Schumann, ma anche Prokofiev.
SM: I segni d'espressione venivano presi subito in considerazione?
CG: Si tendeva a fare una trascrizione della dinamica. Il "forte" non è un risultato di decibel, ma di orchestrazione. Noi occidentali percepiamo il "forte" a seconda dello strumento che lo suona. Ad esempio un violoncello che suona nel registro acuto è uno strumento che sta strepitando. Nella loro scuola c'è un legame assoluto con gli strumenti ad arco e la loro dinamica. I segni non sono mai da riprodurre, li si interpreta, sempre. Dinamica e tipologia timbrica sono fortemente connesse.
SM: Hai un'attività didattica?
CG: La mia esperienza didattica nei conservatorî italiani è stata disastrosa, perché molti allievi non riescono a staccarsi dalle loro pessime abitudini: sono abituati ad un modo di suonare così inconsapevole e automatico. Alcuni però hanno dato in poco tempo risultati sbalorditivi. Il punto è questo. In Russia si insegna ad emancipare la mano e ad apprendere la tecnica come fenomeno psico-fisico e non meccanico. La tecnica è molto legata all'espressione. Si esagera tutto, ogni aspetto della scrittura corrisponde ad un'idea espressiva. Così il gesto ha tutt'altra motivazione. Il bambino che gioca non può imparare un gesto atletico, il bambino che tira la palla deve pensare di colpire la rete, mentre il ragazzo di vent'anni può imparare a pensare che cos'è l'estensore, il quadricipite, a come posizionare il piede. Altro aspetto fondamentale: in Russia ai bambini s'insegna ad immaginare di avere sotto le ascelle dei palloncini che fanno loro rimbalzare le braccia verso l'alto. In Italia s'educa invece allo scaricamento totale del peso. Qui è la differenza abissale.
SM: C'è forse di fondo l'idea che si possa ottenere così una cantabilità sul pianoforte più intensa?
CG: Il suono viene emesso prima che si tocchi il fondo tasto. Se si conosce bene la meccanica dello scappamento, questo interviene dopo aver colpito la corda e comunque a metà corsa il martello colpisce la corda. Ora è chiaro che il braccio deve scaricare e arrivare a fondo tasto, però una volta fatto ciò deve ritornare nella sua posizione ideale, che è di sospensione e di leggerezza. Qui si dice braccio sospeso = poca forza o tensione. Se si pensa non-appoggio = tensione, già la possibilità di seguire la scuola russa per un ragazzo è compromessa. Quando noi siamo in piedi non dobbiamo stare tesi, però dobbiamo avere una buona postura. Ma se ci è stato insegnato di stare sempre molto accasciati, volendo avere una buona postura ci dobbiamo tendere. Ciò procura delle contrazioni, che impediscono di suonare. Ci vuole molta fiducia nell'insegnante, bisogna pensare di ricominciare da capo. Bisogna pensare che la finalità è quella espressiva e che ogni gesto tecnico deve essere espressivo. Non bisogna fare domande di tipo bio-meccanico - questo è importantissimo - quando s'impara un gesto, ma si deve pensare al suo risultato e a come si fa. In Italia si è molto propensi a credere che la tecnica migliore sia quella che dà risposte meccaniche e muscolari e che impone un lavoro di pochissima tensione intellettiva, in cui l'automatismo procura quella che si chiama "memoria muscolare profonda". Il pezzo viene memorizzato tecnicamente, a livello muscolare e non intellettivo. Sono metodi proprio opposti. Quello che è giusto per la "scuola napoletana" è sbagliato per i russi.
SM: Cosa suggerisci ai tuoi allievi più dotati?
CG: Studiare molto Godowsky e Bach. Ma anche studiare a fondo il repertorio sinfonico, liederistico e l'opera, Wagner in particolare. Un giovane deve ascoltare moltissimo e approfondire, ma non solo il repertorio pianistico.
SM: Hai trascorso lunghi periodi di studio all'estero. Rientrando in Italia hai percepito un disagio?
CG: Un ambiente musicale qui in Italia non c'è, ci sono tanti bravissimi musicisti, ma non un vero ambiente musicale. E non parliamo dell'ambiente romano. Ai colleghi musicisti classici la musica classica non piace! Se si fa un viaggio in auto si ascolta tutto fuor che musica classica. La musica classica è noiosa: questo dice gente che insegna in Conservatorio. È un ambiente molto infantile: bella figura la fai suonando un po' di jazz o Piazzolla. Non paga in questo ambiente da festa paesana essere musicista classico. Ciò che fa un musicista classico si giustifica poco agli occhi di una città così ignorante, così pigra come Roma.
SM: Il presente in Italia non sembra riservarti grandi soddisfazioni. Viceversa nei tuoi ambiziosi progetti di integrali discografiche gli autori patrî hanno un posto importante. Penso a Platti, Scarlatti, Clementi, Busoni.
CG: Tutto è nato da un progetto iniziale con la casa discografica "Dante" per una serie dedicata ai "maestri italiani della tastiera".
SM: Martucci e Sgambati esulano dai tuoi interessi?
CG: Salterei a Casella. Ammiro tantissimo i "40 Studi di perfezionamento" di Gino Tagliapietra, anche se Busoni lo accusò di plagio proprio a questo proposito. In effetti dal punto di vista armonico sono incredibilmente simili al Busoni degli anni 1910-22. Mi piace soprattutto il modo in cui accosta la politonalità.
SM: Busoni però studi del genere non li ha quasi composti. A parte qualcosa nella "Klavierübung"...
CG: Sono studi direi più godowskyani, anche se non c'è in Busoni il desiderio di dare un senso compiuto. Però c'è quell'ambizione tipica del grande concertista che ha assimilato il grande repertorio. Forse per la stessa ragione tu trovi tanta ambizione polifonica in certo Beethoven, che da ragazzo suonava spesso il "Clavicembalo ben temperato". Fa parte della memoria dell'esecutore, non solo del compositore. Tu esalti cose che per te sono archetipiche, come uno scrittore esalta anche inconsapevolmente certa letteratura anteriore. Questa memoria cosciente-incosciente fa parte della natura più nascosta dell'opera d'arte. Mi sembra che questi esempi di trascrittori e di rivisitatori come Godowsky e Busoni siano molto interessanti proprio dal punto di vista psicologico e siano molto indicativi della natura del compositore-esecutore, dell'artista.
SM: Sei appena reduce dal Newport Music Festival, cui hai partecipato per la seconda volta. È una rassegna di concerti a cadenza molto intensiva con programmi mirati, spesso a tema, se non del tutto monografici. Pochi gli artisti "ospiti" nei consueti programmi classici, molto più numerosi invece sono gli artisti "residenti" che si sobbarcano l'impegno di eseguire un'enorme quantità di musica.


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CG: Nel '95 suonai tutti gli "Studi di Chopin-Godowsky". Quest'anno [ndr: 2000] ho presentato in pochi giorni un repertorio smisurato: un recital di Bach rivisitato da Godowsky e da Busoni; un omaggio a Horowitz, in cui a "Carmen-Phantasy" e "Danse excentrique", che sono composizioni originali, ho dovuto affiancare "Danse macabre" da Saint Saëns e "Stars
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and stripes" da Sousa; la prima mondiale di Bachsche Nachdichtungen che Michael Finnissy ha scritto appositamente per me in occasione del 250° anniversario bachiano; un'ora e mezzo dopo aver eseguito "Grande Fantasia sulla Clochette" e "Fantasia sul Don Giovanni" di Liszt, più "Gran Galop chromatique" nelle versioni per due pianoforti rispettivamente a 4 e a 8 mani, ho dovuto suonare per il midnight-concert otto Lieder di Schubert/Godowsky. Per fortuna l'altra metà del concerto competeva a Frederic Chiu con otto Lieder di Schubert/Liszt. Poi, come di consueto, il festival prevedeva l'esecuzione integrale del repertorio pianistico e cameristico di un autore. Quest'anno era la volta di Saint Saëns. Quindi ho dovuto preparare le "Sei Bagatelle" e, in tempi molto stretti, provando con musicisti là residenti, molta musica da camera.
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SM: Secondo te è realizzabile qualcosa del genere nella attuale realtà musicale italiana?
CG: Là tutto si regge prevalentemente su sponsor e questo in Italia sarebbe già un problema. Un festival del genere non costa molto rispetto a tante produzioni italiane, però il rapporto qualità/costi là propende senza sprechi verso la qualità. Alla preparazione e gestione del festival lavora uno staff limitato, controllato e molto efficente, l'organizzazione è perfetta. I musicisti devono essere molto versatili, anzi direi che vengono scelti proprio per la flessibilità di repertorio e per l'affidabilità nella musica da camera. Ci sono dai due ai cinque concerti al giorno, in luoghi spesso diversi. L'anno scorso hanno fatto tutto il Rachmaninov cameristico e pianistico, Concerti compresi (naturalmente con un secondo pianoforte, perché il festival non prevede orchestra). Quest'anno sono state suonate quasi 800 composizioni diverse.
SM: Qualcosa del genere da noi non esiste. In Italia ha funzionato finora soltanto la formula "corsi estivi-rassegna concertistica".
CG: L'abbinamento serve per lo più a giustificare agli enti locali la richiesta di sovvenzioni. Molti corsi sono del tutto pretestuosi. Insomma bisogna raccontare che "questi corsi servono allo sviluppo culturale della provincia, della regione", bla, bla...ma sono quasi sempre scuse.
SM: Ti sembra ci sia in Italia qualche contesto in cui si possano fare proposte alternative? Come giudichi la programmazione delle società di concerti italiane?
CG: Se gli organizzatori fossero più indipendenti, se potessero soltanto pensare a creare una stagione interessante, piacevole e utile, dal punto di vista culturale e intellettuale, le cose andrebbero meglio. Spesso i direttori artistici sono anch'essi musicisti in carriera e quindi la stagione è del tutto casuale, viene fatta semplicemente perché fa loro comodo organizzarla in quel modo. Peggio ancora quando per attirare il pubblico si fanno cose di frontiera.