GESANG VOM REIGEN DER GEISTER

L'esprit en éveil de Busoni remarque, examine et évalue tout ce qui s'approche de lui. Son intérêt particulier pour la musique exotique est également éveillé en Amérique*, surtout par les recherches de son ancienne élève Natalie Curtis, qui se livre à une étude approfondie de la musique populaire indienne. Natalie Curtis lui montre quelques-unes des mélodies qu'elle a recueillies et Busoni les apprécie beaucoup. Trois travaux résultent de cette rencontre: ici «Fantaisie indienne» pour piano et orchestre, composée en 1913, le «Journal indien» pour piano, composé en 1915 et son second livre, le Chant de la ronde des esprits pour petit orchestre. Ces pièces restent au stade d'études, son travail sur les idiomes mélodiques qui lui sont étrangers ne le fait pas avancer, comme il le reconnaît en faisant son autocritique.
Dans l'oeuvre «Gesang» nous pouvons retrouver trois éléments musicaux pittoresques témoignant d'un programme: un mouvement de base bouillonnant, qui illustre le mouvement de l'eau; une ligne mélodique qui évolue de manière vagabonde et en se dilatant, représentative du chant lui-même. Le troisième élément, les figures en pizzicato, illustre les mouvements de danse. [BOOKLET CPO ORCHESTRAL WORKS]



Risalgono al tempo delle ultime tournées in America prima della guerra i nuovi contributi derivati dalla conoscenza delle melodie originali degli indiani pellirosse nordamericani, che una ex-allíeva di Busoni, Natalie Curtis, aveva raccolto e studiato. Busoni se ne entusiasmò e le impiegò in ben tre lavori molto affini tra loro: la Fantasia indiana per pianoforte e orchestra op. 44 (del 1913, opera di massiccia tessitura sinfonica e di spiccato virtuosismo, suddivisa in tre parti: «Fantasia», «Canzone» e «Finale»), e i due libri del «Diario indiano» (1915), il primo comprendente quattro studi per pianoforte, il secondo uno studio per piccola orchestra d'archi, sei strumenti a fiato e timpani dal suggestivo titolo Gesang vom Reigen der Geister (Canto della ronda degli spiriti) op. 47, quarta delle sei Elegie per orchestra. Non è difficile individuare la molla che spinse Busoni a tentare questi esperimenti: a parte una certa dose di curiosità innata e di anticonformismo tipico della sua natura, gli si era offerta l'opportunità di usare motivi, spunti e scale musicali per così dire vergini, non ancora sottoposti al condizionamento e ai vincoli della cultura occidentale. Ciò era coerente con una poetica che mirava ad ogni costo all'allargamento dei mezzi espressivi, nella accezione più ampia del termine. Non è dunque un caso che molti degli appunti sulla melodia, seme di un nuovo stile compositivo che sarebbe sbocciato con la «nuova classicità», risalgano all'epoca dello studio delle melodie indiane, da cui Busoni ebbe conferma di leggi interne ai fondamenti del linguaggio musicale: leggi appunto assolute, valide sotto diversi aspetti e forme in ogni patrimonio musicale.
Bisogna però aggiungere che sul piano pratico i risultati gli dettero ragione soltanto in parte, in misura senz'altro minore rispetto, per esempio, alle musiche per «Turandot». Se fu tipico dell'atteggiamento di tutta un'epoca il richiamarsi, nel momento stesso in cui il linguaggio e le forme tradizionali entravano in crisi, a civiltà extraeuropee non «contaminate» dalla tradizione occidentale, diversi furono i casi di chi si rifece al patrimonio nazionale e popolare della propria terra per ricercarvi un'identità originaria di cultura, e quelli di chi invece si rivolse a terre lontane e sconosciute per attingervi improbabili radici e nuove ragioni di vita. Ciò era forse tutt'al più possibile nella illusionistica finzione del teatro (Busoni stesso e al polo opposto Puccíni ne forniscono indubbio esempio), ma risultava assai più difficile, anche per un artista cosmopolita per vocazione come Busoni, sul piano della musica assoluta. Pur evitando, date le stesse premesse, la caduta nell'esotico e nell'illustrativo, Busoni non riuscì in questo caso ad abbattere le barriere di uno stile ibrido e scomposto, affastellato ed eccessivamente elaborato, troppo evidente e inconciliabile rimanendo la sproporzione fra il materiale folclorico originario e i fini dimostrativi, e a esso estranei, a cui quel materiale doveva servire dimostrativamente (del resto, la contraddizione non gli sfuggì, se più tardi ebbe ad affermare che «i motivi indiani non danno frutti né rendono molto»). Questo vale soprattutto per la «Fantasia indiana», con cui Busoni si illuse di portare, attraverso un innesto artificioso, nuova acqua al glorioso mulino del Concerto per pianoforte; mentre ne venne fuori una partitura calata in una sensibilità tutta occidentale, di stampo neoromantico, piena di colori accesi, di vigorosi intrecci contrappuntistici e di virtuosismo da battaglia: tutti effetti che nell'ultimo decennio egli aveva coraggiosamente messo da parte. I due libri del «Diario indiano», invece, soprattutto il secondo per piccola orchestra, guadagnarono assai dal carattere programmatico di studi di non grandi dimensioni; vi si rilevano più sottili mediazioni, e combinazioni strumentali e armoniche di indubbio fascino e originalità, nei limiti di una levigata, raffinata concisione. [SABLICH, pp. 180-181]