JAKOB WASSERMANN

IN MEMORIAM FERRUCCIO BUSONI

TRADUZIONE DI SERGIO SABLICH
TESTO IN LINGUA ORIGINALE


Il curatore di questo sito, Laureto Rodoni, ringrazia di cuore il Prof. Dr. Sergio Sablich per il permesso di pubblicazione della seguente traduzione, che mi ha gentilmente concesso. Il testo di Wassermann è tratto dal volume BUSONI pubblicato da EDT, pp. 308-318.




JAKOB WASSERMANN NEL 1905

Jakob Wassermann (1873-1934), scrittore austriaco di romanzi un tempo largamente popolari, stese questo ricordo di Busoni sotto l'impressione immediata della sua morte. Con lui Busoni aveva stretto nel dopoguerra profonda amicizia, tanto da dedicargli la propria raccolta di scritti intitolata Von der Einheit der Musik (Dell'unità della musica) con queste parole: «A Jakob Wassermann / al Maestro / modestamente questi tentativi / all'amico / fiduciosamente queste confessioni / dedica F. B. / nell'anno 1922». Apparsa presso l'editore Fischer di Berlino nel 1925, la testimonianza di Wassermann, pur non priva di fascino poetico e di calorosa partecipazione in prima persona, si sottrae volutamente a qualsiasi intento agiografico e mira invece a fornire dell'uomo e dell'artista un ritratto intriso di toccante naturalezza e pervaso di finissime, illuminanti osservazioni. (S. Sablich, p. 308)
Non riusciamo a convincerci che quest'uomo unico non viva più; non possiamo crederlo così di colpo, anche prescindendo dai sentimenti che tale perdita desta in noi. L'esistenza di un uomo geniale ha in sé qualcosa di così soggiogante e vero che la sua fine appare come un'ingiusta perfidia del destino, o come se la natura volesse rinnegare e limitare se stessa. Più di quanto essi stessi talvolta non ne siano consapevoli, gli individui in tutto il loro essere dipendono dagli esemplari più sviluppati della specie.
Quando lo incontrai per la prima volta, Busoni aveva trentotto anni: un uomo di straordinaria bellezza, molto curato, assai raffinato, innalzato dal plauso del mondo intero, illuminato dall'amore di allievi, ammiratori e seguaci, ma ciononostante ancora soprattutto un virtuoso, per quanto un virtuoso eminente, con tutti i segni distintivi di una raggiunta sovranità; pieno di forza, di nerbo, di intensità, di ardore spirituale, tutto questo però appena come in embrione rispetto alla futura piena coscienza e conquista di sé.


FERRUCCIO BUSONI ED EMILIO ANZOLETTI © ARCHIVIO PRIVATO

Da quel giorno nacque un'amicizia che considero fra gli eventi più fortunati e straordinari della mia vita.
Quando lo vidi per l'ultima volta nel dicembre 1922, aveva cinquantasei anni e mostrava già i segni della vecchiaia: il nobile volto sfigurato, la bocca visibilmente sciupata, la fronte stupenda coronata di capelli candidi; già toccato dalla malattia mortale, commovente per l'avvertibile imminenza del crollo fisico, più ancora però per la grandezza di un atteggiamento vitale e spirituale che costringeva anche gli estranei e gli insensibili a inchinarsi di fronte a lui.

Nei diciotto anni intercorsi fra questi due incontri, potei essere testimone di una evoluzione interiore assolutamente ineguagliabile, di una trasformazione perfetta e compiuta, donde finì per risultare una personalità dal carattere e dal valore esemplari; riassumendo: un fenomeno che chiude un'epoca, una figura posta all'inizio di una nuova era.
Non è qui il caso di discutere che cosa egli nel corso del suo itinerario di testimone, esecutore e interprete prima, artista creatore poi, abbia o non abbia raggiunto; se ciò che egli ha realizzato stesse e stia o meno in corretto rapporto con la sua volontà immensa, con forze e tensioni uniche, con la mèta fissata così lontano e così in alto. A questo riguardo tutto è ancora in sospeso, domanda, dubbio e verdetto. Manca la competenza: a me anzitutto, al singolo soprattutto, al contemporaneo probabilmente. Il futuro giudicherà, i posteri raggiungeranno la sicurezza. Le opere sono organismi. Conformemente alla forza vitale che contengono, si aprono alla vita con irremovibile volontà. Certi sono soltanto, in questo caso, l'ardente entusiasmo di colui che le creò, il suo rigore sacerdotale, la sua intima convinzione, prima di tutto la sua rinuncia e il suo sacrificio. Ingannarsi su ciò non è possibile; su ciò anche la natura mente di rado. Il punto in cui uomo e opera divengono una cosa sola, è esattamente quello in cui la conoscenza riceve il suo divieto, e allora l'ultima parola è pronunciata da chi ama.
Il padre di Busoni era italiano, tedesca della Carinzia la madre. La mescolanza del sangue decise del suo destino e del suo carattere. Essa dette forma alla sua indole, orientamento al suo spirito, volo e fuoco al suo temperamento; essa segnò anche un dissidio profndissirno nella sua anima. La Germania divenne per lui patria d'adozione, dolorosamente conquistata in conflitti che appartengono alla storia del nostro tempo, così singolarmente come era accaduto ad Adalbert von Chamisso.

Tedesca la lingua, nel cui ritmo e lessico egli seppe immedesimarsi a tal punto da poter esprimere in essa per iscritto, con raffinata purezza, i suoi significativi pensieri; tedesca la formazione, nell'alto senso di un ideale umanistico oggi spento. Esse crearono l'atmosfera nella quale soltanto egli avrebbe potuto fiorire: la musica tedesca, ai vertici Bach e Mozart, fu il suo credo e il suo faro.
Si oppose a tutto ciò che venisse dal sud, anche a quella parte di esso che sentiva in se stesso: ed era molto. Lo combatté, lo represse e lo temette quasi come un fuggiasco teme l'inseguitore; non voleva che glielo ricordassero, come se per lui fosse un peso o un'ombra. Eppure, quanti tratti italiani erano in lui, quanta grazia latina in un semplice saluto, in un inchino. Distinzione, questa parola che sempre più va perdendo il suo significato positivo, gli si addiceva in modo seducente. Un giorno, a Zurigo, mi portò con sé a una prova del suo bel Concerto per clarinetto. Sedeva vicino al podio e ascoltava. Non dimenticherò mai il modo in cui alla fine dell'esecuzione si avvicinò al direttore, un italiano molto giovane, gli strinse la mano, gli parlò e ringraziò anche i professori dell'orchestra: «Maestro» in tutto e per tutto, obiettivo e per nulla severo; sereno, disinvolto e senza incombere. I musicisti gli si fecero d'attorno. Egli rispondeva con gentilezza alle loro domande, esprimeva educatamente i suoi desideri, proprio come davanti a suoi pari, con fermezza ma senza la minima traccia di affettazione e di degnazione, atteggiamenti che non conosceva neppure. Il suo rispetto per ogni attività artistica, anche la più subordinata e modesta, era così grande che dimostrava la stessa cortesia al più umile come al più importante dei suoi collaboratori.
Essere artista era per lui un concetto di rango. Istintivamente considerava l'artista un compagno; garantiva per lui, per così dire, e chiunque ai suoi occhi potesse rivendicare questo titolo gli appariva difensore e rappresentante di ciò che egli stesso creava e desiderava. In questo era del tutto latino, e si sarebbe fatto ingannare dieci volte piuttosto che una sola correre il rischio di essere ingiusto oppure precipitoso nel giudizio. Ricordo che talvolta mi interrogava con commovente timidezza sulle qualità e sui lavori di qualche giovane scrittore; un libro, un saggio, una poesia gli erano capitati sotto gli occhi e avevano suscitato il suo interesse; ma non osava ancora sbilanciarsi e cercava un appoggio alla sua opinione oscillante.
Ciò non significa però che egli mantenesse sempre un atteggiamento così urbano anche nella sua cerchia fidata, fra amici o anche di fronte a visitatori curiosi. Conversatore appassionato, difendeva le sue idee con estrema testardaggine, talvolta con accanimento, e quanto più si spingeva nel paradosso, cosa che capitava soprattutto quando il contraddittore lo provocava più dell'oggetto del contraddire, tanto più si manteneva fermo nella sua convinzione; allora si faceva aggressivo fino all'offesa ed era capace di sommergere l'avversario con caustico scherno. Non la finiva mai di prendere in giro e di punzecchiare e di scoppiare in fragorose risate, battendosi le cosce, agitandosi in ainose contorsioni del corpo e scoccando lampi d'ira dagli occhi. Spesso ciò dava la strana impressione che egli volesse far scontare all'interlocutore la debolezza dei suoi argomenti, soprattutto che volesse vendicarsi sulla inadeguatezza di un mondo, sulla debolezza e l'irrisolutezza in cui egli scorgeva o credeva fermo quel mondo alla luce della propria esistenza e delle proprie azioni. Quella contro cui egli così ferocemente si accaniva era soltanto la vittima casuale e innocente della sua ira regale. Poteva però anche avvenire che, se qualcuno faceva cadere nel discorso una parola autorevole, egli di colpo si interrompesse, vuoi perché rispettava chi l'aveva pronunciata, vuoi perché l'obiezione lo sorprendeva e lo convertiva. D'un tratto si faceva mansueto, si scusava quasi con umiltà, diventava tenero, attento e docile, per infine sprofondarsi in silenziose meditazioni.
Ma non si arrendeva facilmente. La sua esperienza del mondo e la sua conoscenza degli uomini erano multiformi, la sua cultura eccezionale: in questo campo possedeva armi più che sufficienti. Di ogni paese aveva impressa nella memoria la letteratura, e alle proprie conoscenze e opinioni aggiungeva volentieri la parola di un poeta amato. Fra le sue lettere a me indirizzate molte per esempio si diffondono sui pregi del romanzo I miserabili di V. Hugo, che ammirava immensamente; se io gli rispondevo esprimendo qualche timida riserva, egli non risparmiava né tempo né fatica per farmela rimangiare; sì, era perfino capace di appellarsi al mio retto giudizio e di supplicarmi come un fanciullo al quale sia stato fatto un torto, così che io cedevo su molti punti pur di non affliggerlo troppo.
Tanto da vicino lo toccava ogni persona, ogni grande manifestazione, da considerarle questioni che riguardavano la sua più intima personalità.
Che dolore non poter più ricevere queste lettere! Esse avevano una loro inconfondibile eloquenza già nella calligrafia singolarmente orgogliosa ed espressiva. Era evidente la cura con la quale ogni lettera era aggiunta all'altra, quasi dipinta, e quest'ordine, quest'attenzione e questa chiarezza manifestavano anch'esse rispetto. Si vedeva bene che lo scrivere non era per lui occupazione naturale né tanto meno abituale, e che si era educato ad assolverla con scrupolo e precisione, soprattutto perché convinto di dover dimostrare all'amico che quando gli scriveva per lui era un giorno di festa, una gioia. E tanto valeva anche per il contenuto. Le cose personali passavano in secondo piano se appena egli temeva con esse di pesare sugli altri o di suscitare preoccupazioni. A questo riguardo non ho mai conosciuto uomo di maggiore discrezione. Senz'altro c'entrava anche l'orgoglio: ed egli era molto orgoglioso. Non amava mettere in piazza i fatti suoi; detestava quel che si intende per affari, commerci e attività. Non si lamentava mai, neppure per la sua salute; mai recriminava su una delusione subita, su una speranza fallita. Per lui erano importanti soltanto le relazioni spirituali, i contatti intellettuali, gli scambi d'idee e il modo d'intendere la vita. Solo nell'ultima lettera che ricevetti da lui trapelano rassegnazione e malinconia, sebbene rifiutasse anche soltanto di ammettere la malattia che allora già lo distruggeva.
Scrive: «Oggi è il primo maggio. Nel mezzo del cammin della mia vita questo giorno era ogni anno uno dei più belli. Il fastidio dei viaggi era finito. Potevo stare dove mi paresse: di preferenza nuovamente a casa, per riprendere il mio lavoro. La stagione diventava più bella, mettevo a profitto la mia libertà passeggiando a lungo per le vie. Ero sempre lieto di vivere e con mia somma sorpresa sopportavo qualsiasi cosa. Per trent'anni non ho mai consultato un medico. Le mie capacità si accrescevano di continuo. Mi sentivo dappertutto un po' a casa mia, e dappertutto ero un po' conosciuto. Fino al 1914 non mi ero mai interessato di politica, di guerra. Soltanto l'arte cattiva riusciva a contrariarmi, soltanto un periodo sterile poteva preoccuparmi e intristirmi. E anche durante la guerra ho conservato il mio atteggiamento solito. Ma la sua fine mi ha rivelato la devastazione, senza che io fossi più abbastanza forte per affrontare questa nuova situazione, né abbastanza giovane per sopportarne il peso. Questo stato d'animo si è manifestato apparentemente senza trapasso e ha messo a soqquadro la mia vita, come un frego nero che non avevo tracciato io questa volta, come invece ero solito fare prima. Questa è in gran parte la storia della mia malattia...»
Credo che a questo proposito non si ingannasse, almeno non fondamentalmente. Fu senz'altro uno sconvolgimento dello spirito ad annientarlo, sebbene in nessun periodo della sua vita egli avesse avuto riguardi per il suo fisico. Non lo interpellava, non se ne curava; lo considerava quasi un servo, che in ogni condizione debba obbedire in silenzio. E quando un giorno questo servo si ribellò, il padrone assistette alla ribellione meravigliato e alquanto sconcertato. Non volle ascoltare gli avvertimenti, prendere in considerazione i sintomi, per quanto nel suo intimo ci debba esser stato un profondo spavento che nascondeva a se stesso; lo indica già il fatto che egli da tanti mesi non sapesse decidersi a finire il Faust: alla conclusione mancano due scene, sento dire. Forse temeva di doversene andare, una volta finita quest'opera che considerava la più importante della sua vita.
Non amava il paesaggio, non amava abbandonarsi alla natura. In ciò era del tutto italiano: l'italiano non va a passeggio. Alberi, prati, giardini, per lui non significavano niente; silenzio della natura, bellezza della natura: parole che lo facevano sorridere. Quel che egli amava era la città: il traffico delle strade, l'arrivo dei treni alla stazione. Là poteva perdersi, poteva sognare; fuori no: il «fuori» in lui non esisteva. Quel che amava era una osteria fuori mano, dove potesse sedere da solo o anche con amici; e poi, soprattutto, la stanza con i suoi libri.

Era un appassionato collezionista di libri, e la sua biblioteca è probabilmente una delle più preziose che esistano oggi. I libri per lui erano compagni, esseri viventi che trattava con tenerezza e dei cui difetti parlava addirittura con una specie di indulgenza paterna, una volta che fossero in suo possesso.
Quando sedeva al pianoforte scompariva dalla sua persona ogni traccia di grazia latina e di leggerezza mondana. Allora si manifestava l'elemento nordico, il controllo, la severità e l'energia che erano in lui. Accanto alla nobiltà, che gli veniva dall'assoluto magisterio, anche il dolore, che mai taceva in lui, di dipendere da un mezzo di espressione che non gli bastava più, la cui incompiutezza e popolarità lo riempivano di esasperazione, addirittura di disgusto, e nel quale però si fondava non solo la fama di cui godeva presso la gran massa dei consumatori di musica del vecchio e del nuovo mondo, ma anche la sicurezza materiale.



FERRUCCIO BUSONI MENTRE SUONA BEETHOVEN - STAMPA DI KAPP

Mi sia permesso citare le parole che una attenta osservatrice scrisse dopo aver udito suonare Busoni, non in concerto, ma a casa sua; è impossibile renderne l'impressione in modo più esatto e più significativo di questo: «L'uomo la cui immagine voglio risvegliare in te con questa lettera, si è degnato una sera di fare quel che egli, sviato malvolentieri da se stesso, scuotendo la testa e con impazienza chiama l'equivoco, ossia sedersi al pianoforte per far piacere all'amico. Io stavo rannicchiata presso la finestra, preparata alle cose più sublimi. La figura, l'atteggiamento, quanto eran già degni da soli di venerazione! Esecutore e strumento si fusero in uno, e quest'uno era un mago, io lo sentivo, mentre una piena d'estasi mi sommergeva. Ma egli non vuole più essere un mago, egli è il signore del Divino Fanciullo; mai lo sentii più nobile di quando le sue mani demoniache ammaliavano, nobile oltre la magia, mentre la nobiltà tragica fiammeggiava sopra il suo capo candido come un diadema. Così si manifesta ciò che egli con deliberata concisione definisce equivoco. E quando esclama: 'A cinquant'anni devo studiare come a quindici, non è una vergogna?', quando lo grida dardeggiando d'ira, c'è più disgusto della forza propria della magia che rabbia per l'eccesso della richiesta. Poi però questo disgusto lo innalza fino all'unicità; in forza di questo disgusto egli è un modello per tutti coloro che esigono la purificazione con serietà, senza che in essi possa morire il desiderio di ammaliare. Che inesorabilità in lui, che conoscenza, che umiltà! E vedi già qui anche la necessità che lo spinge verso una raffigurazione del Faust tale da rappresentare il culmine della sua vita creativa. Se non te ne parlo, attribuiscilo al mio timore di oltrepassare quei confini che una voce interna mi pone...».
Il disgusto di cui qui si parla aumentò negli ultimi anni fino a divenire qualcosa di morboso: ogni insistente richiesta che lo volesse incatenare allo strumento suscitava la sua diffidenza e la sua avversione. Respinse le offerte di impresari americani, che gli avrebbero assicurato compensi principeschi ed economicamente lo avrebbero messo al sicuro per molti anni. Ma egli disprezzava il danaro. Mai lo sentii parlare di soldi; per lui non erano degni neanche di un pensiero. Come si esprimeva lui, preferiva vivere in povertà piuttosto che vendersi alla plebe musicale. La causa prima di ciò non stava soltanto nella paura dell'«equivoco», nel disappunto e nella scontentezza per essere considerato e richiesto come qualcosa che egli non era più e che non poteva più essere: il virtuoso, l'attore, il solista, il mero mediatore e rivelatore di musiche altrui; né derivava dal sentimento di una rinuncia a un diritto acquisito; non c'entrava l'ambizione, di cui egli si era già liberato combattendola e superandola in sé.
Si trattava d'altro, di qualcosa di più alto: dell'unità, della totalità dell'arte e della totalità dell'uomo. Così come nella sua opera non si era sottomesso al culto del particolare, ritmo o armonia o linea melodica, aspirando invece a ciò che egli chiamava «la sfera», anche come uomo non voleva obbligarsi e scindersi in nessuna regione dello spirito o dell'attività privata: non si poteva essere un pianista o un compositore o uno scrittore o un insegnante o un direttore d'orchestra, ma si aveva il dovere di completarsi nell'arte come uomo in tutte queste direzioni.
Il fatto che ciò non fosse filosofia o dottrina, ma esperienza ogni giorno rinnovata, e che perciò essa diventasse un'esperienza anche per coloro che lo circondavano ansiosi di apprendere e di assimilare, spiega il miracolo del suo influsso, della forza spirituale che da lui emanava e dell'adorazione di cui era fatto oggetto soprattutto da parte dei giovani. Aveva accordato i loro animi con la docilità e l'ubbidienza, rendendosi padrone dei loro cuori. Gli erano grati che il loro cuore avesse un padrone, poiché l'epoca nella quale viviamo aveva già distrutto nella maggior parte di loro tutte le immagini divine; e credendo in qualcosa e dandosi fiduciosamente a lui non erano più soltanto i suoi allievi, ché sarebbe dire troppo poco, ma anche i suoi discepoli e le sue creature.
Frequentano significava trovarsi in tensione continua, in uno stato di piacevole curiosità e sovente in una specie di timore. Ad ogni incontro, in ogni compagnia destava stupore, fosse per uno slancio o uno scatto inaspettato, fosse per un improvviso cambiamento d'umore o un'esplosione di odio contro tutto e tutti. Nello spazio di un'ora cambiava espressione mille volte: ora stanco, ora eccitato, ora sprezzante, ora affettuoso, ora chiuso in meditazione, ora fanciullescamente aperto. Rimase fino all'ultimo un bambino; talvolta somigliava a un ragazzo un po' fiducioso e un po' timido; talvolta era capriccioso come una bella donna. Con le donne che stimava veniva alla luce tutta la sua squisita cavalleria; soprattutto verso le signore più anziane il suo comportamento era estremamente galante, quasi devoto. Quando però la conversazione verteva su problemi artistici o spirituali non faceva alcuna distinzione fra uomini e donne; anzi, in questi casi diffidava di capacità e attitudini fino a toccare il limite della scortesia, e diventava completamente cinico di fronte alla arroganza e alla presunzione avvolta nella mondanità. Aveva un fiuto infallibile nel riconoscere la genuinità e vigilava in modo quasi pedante affinché i limiti, supposti o reali, posti dalla natura non venissero oltrepassati; forse talvolta era soltanto il suo pregiudizio a porre tali limiti; forse le esperienze, che nella vita di un idolo delle folle non mancano mai, l'avevano costretto a una posizione di cieca e ostinata difesa. A volte poteva anche perdonare e perfino ignorare una determinata frivolezza, se era accompagnata dalla bellezza e dalla grazia; d'altra parte, per esempio, trovava insopportabile una Madame de Staël, ributtante una George Sand, sgradevole, nonostante la sua innegabile genialità, una Elizabeth Browning, presuntuosa e larmoyante una Marie Baschkirtscheff.
Tutto ciò che era russo, per lui era sinonimo di amorfo, ciarliero, torbido, indiscreto, e gli faceva orrore. «Sconcezza asiatica» è il termine micidiale che egli usò una volta per definirlo. Poco prima che morisse gli scrissi che un lavoro di cui mi stavo occupando già da diverso tempo mi poneva di fronte a problemi affatto nuovi. Rispose: «Il nuovo piano della Sua ultima opera, così come Lei me lo accenna, mi convince senz'altro. Basta con Dostoevskij, si potrebbe intitolare; lui che sa sempre con esattezza quel che sente e pensa il suo personaggio e che non dubita mai che solo lui, Dostoevskij, lo pensi in modo giusto e profondo. Che arroganza!». Risi involontariamente quando lessi queste parole, tanto vivamente potevo raffigurarmi il suo atteggiamento quando aveva di queste uscite: disgustato, la testa gettata all'indietro, scuotendo i capelli bianchi e con una piccolissima, vaga inquietudine negli occhi.
Aveva molti tratti hoffmanniani; molto in lui ricordava il Kapellmeister Kreisler. Ciò che c'era di oscuro, di compresso, di appassionatamente fermentante nella sua natura affondava le radici nel romanticismo tedesco. Era un uomo demoniaco; mi servo malvolentieri di questa parola tanto equivocata, ma nel suo caso può essere valida e illuminante. Forse c'è un significato profondo nel fatto che egli si opponesse con tanta energia e fervore, come fece, a una personalità e a una figura d'artista come quella di Beethoven: dove c'è affinità di sangue e di spirito non può non esserci sgomento e paura. Siamo di fronte all'imperscrutabile, a qualcosa che si sottrae al contatto come alla riflessione. Se anche fosse possibile penetrano, strappare dalla benefica oscurità e sviscerare il più riposto segreto dell'anima, non significherebbe agire come egli vorrebbe: lo scomparso ne sarebbe sdegnato.
Probabilmente la musica è un'arte più tirannica delle altre. Per non esserne annientato, per mantenere integra la propria personalità e il proprio spirito, l'uomo nel quale e dal quale essa agisce deve opporre una forza fisica e morale enorme, straordinaria. Questa è la mia impressione, almeno stando a quello che l'esperienza mi ha insegnato. Molti soccombono, molti si arrestano appena raggiunto un certo limite, e non è affatto detto che il loro operato sia mediocre se non riescono a toccare una regione più alta, senza sapere perché. L'elemento che decide il destino dell'artista, all'inizio come alla fine, all'apice della spirale, è il modo in cui egli plasma la materia. La forma è il postulato immanente nelle cose, al quale la natura io richiama; che egli io avverta o no, che lo segua o meno, fino a che punto lo adempia, sono questioni che esulano dal vero e proprio campo dell'arte per addentrarsi in profondità nel corso e nel complesso dell'esistenza umana. Da ultimo, al limite, si tratta di una questione morale. Mi sembra che il musicista stia con la forma in un rapporto diverso da quello del pittore e del poeta. Gli appare più lontana, più velata o nascosta; egli la deve liberare da un intreccio di equivoci più complessi, spogliare di rivestimenti ingannevoli al fine di conquistarne l'essenza pura, la sola valida. Perciò egli deve per così dire procedere sempre fino ai confini estremi, confini umani e confini dell'autocoscienza spirituale, e ciò spiega anche perché i musicisti creatori si trovino così spesso al confine della società e siano più soli, più misteriosi, più strani, più stravaganti e ribelli di tutti gli altri che si dedicano alla creazione.
Nel caso di Ferruccio Busoni va anche aggiunto che egli, costituzionalmente e alla lettera, fu un uomo di frontiera. Apparteneva a due nazioni: l'una era la sua terra, l'altra la sua aria; là era cresciuto, ma soltanto qui poteva respirare. Non poteva fare a meno di nessuna delle due, né rinnegare quella, né rinunciare a questa. Al sud egli doveva la forma esteriore, al nord quella interiore. Entrambe l'avevano sospinto in avanti, ma non stava al centro di nessuna delle due, né nella patria naturale, dove aveva trascorso l'infanzia e di cui aveva parlato la lingua, né in quella di elezione, che lo aveva formato e gli aveva dato l'ambiente di lavoro e la coscienza di poter agire. Cercò di ricomporre i frammenti del dissidio, lavorando a questo scopo per tutta la vita. Era animato da una convinzione intima, che come uomo tra due razze avesse da compiere una missione di mediatore indirizzata verso un futuro lontano. L'ultimo decennio della sua vita lo pose di fronte alla prova più ardua che a un uomo di tal genere e con tali sentimenti si potesse presentare. Angoscia e disperazione lo colsero allo scoppio della guerra. La sanguinaria follia omicida che aveva invaso l'Europa lo riempì all'inizio di quel terrore che può provare un bambino sottratto da una casa in fiamme. Rimase in Svizzera e aspettò. Questa attesa fu percorsa dalla impazienza più frenetica che io abbia mai visto in un uomo. Riuniva i suoi allievi intorno a sé, riceveva le visite degli amici, e molti furono a più riprese agghiacciati testimoni del suo dolore e della sua titanica ribellione contro un evento mondiale che gli appariva del tutto insensato. Poi, conclusa la pace, quando riebbe quella libertà di movimento cui aveva dovuto rinunciare con ira aspra e impotente, tanto che il suo animo sconvolto aveva spesso cercato consolazione e oblio nel vino; quando questa prigionia in un paese che lo serrava da ogni lato circondandolo con le sue montagne come di una alta muraglia ebbe finalmente termine, non si volse verso la nazione vittoriosa, come avrebbe potuto senz'altro fare e come i più al suo posto avrebbero fatto, ma scelse invece quella sconfitta, atterrata, quasi proscritta, senza un attimo di indecisione, senza pensare al vantaggio e alla convenienza. Questa, mi sembra, è la sua azione umanamente più grande, e quando un giorno sarà riconosciuta come tale non le mancheranno gli onori. La povertà in cui è morto dopo aver vissuto per trent'anni come un gran signore è quasi una trasfigurazione di questo gesto.
Di un uomo simile non è rimasto dunque nient'altro che l'ombra? E che cos'è quest'ombra, che cosa significa dire: l'ombra? Una parola che ci siamo inventati per consolarci o rassegnarci, mentre il ricordo cerca rabbrividendo e brancolando la strada verso la sua figura.
O deve esserci prima un'ombra, perché possa sorgere la figura? Il breve tratto della vita e della coscienza umana è forse soltanto l'oscuro ponte fra la nebulosa che manda luce prima e l'altra che segue poi, ed esse sono ambedue fatte della stessa materia? Penso all'impressionante discorso che Goethe fece a Falk nell'anniversario della morte di Wieland. Se vogliamo lasciarci andare a supposizioni, disse Goethe, non vedo realmente che cosa potrebbe trattenere la monade alla quale dobbiamo la comparsa di Wieland sul nostro pianeta dal dar vita, nel suo nuovo stato, alle più alte combinazioni di questo universo. Con la cura, il fervore e lo spirito con i quali riunì in sé tante condizioni della storia del mondo, nulla le è interdetto. Non mi stupirei affatto, anzi ciò sarebbe del tutto conforme alle mie vedute, se un giorno, tra millenni, incontrassi di nuovo questo Wieland come una monade dell'universo, una stella di prima grandezza, e vedessi e fossi testimone della sua capacità di ravvivare e rallegrare con la sua leggiadra luce ogni cosa che gli si avvicinasse. Sarebbe davvero un compito piacevole per la monade del nostro Wieland, quello di raggiungere in luce e chiarezza l'essenza nebulosa di qualche cometa; del resto, pensando all'eternità di questo mondo, non è possibile immaginare altro destino per le monadi che quello di partecipare eternamente, a loro volta, alle gioie degli Dèi, come energie cooperanti in beatitudine alla creazione. Il divenire della creazione è affidato a loro. Chiamate o non chiamate, vengono da sé per ogni via, da tutti i monti, da tutti i mari, da tutte le stelle: chi può arrestarle? Sono sicuro, come ora qui mi si vede, di essere già esistito altre migliaia di volte, e ancora migliaia di volte spero di ritornare.
Nel medesimo senso, dopo aver rabbiosamente apostrofato attraverso la finestra un cane che abbaiava nella strada, urlandogli: «Fa' come vuoi, larva, non riuscirai mai a sottomettermi!», Goethe disse anche queste parole: «La bassa canaglia di questo mondo cerca di espandersi al di sopra delle masse; è un vero agglomerato di monadi quello con cui ci siamo scontrati in questo angolo del pianeta, e dovremmo aspettarci ben poco onore da questa compagnia se su altri pianeti le monadi lo venissero a sapere».
Così anche Shelley vide le sfere del mondo rotare animatamente attraverso lo spazio, incandescenti all'interno e luminose all'esterno; le vide come Raffaello le dipinse in S. Maria del Popolo a Roma, ognuna sovrastata e guidata dal proprio angelo, e assegnò al genio del suo amico Keats uno di questi troni vacanti, un sole senza padrone.
Per quanto sia quasi incomprensibile l'audacia con cui all'interno della concezione europea del mondo vengono stabilite posi una gerarchia e una trasformazione delle anime, una graduatoria di merito dell'immortalità, questo pensiero è sicuramente radicato nel profondo di ogni spirito che lotti per l'esistenza e tenda verso l'alto. Quel pensiero è però così delicato, così sacro e tanto bisognoso di difesa contro arbitrii e semplificazioni egoistiche, da non potersi quasi esprimere: forse solo quando ci sfiori ancora il respiro di un assente così caro...
Ho perso molto, qualcosa di insostituibile, un amico che mi amava e che amavo, che comprendeva e intuiva come pochi sanno fare. Le parole sono povere e vuote. Sarà possibile, Busoni, rivederci ancora un giorno, stelle nello spazio infinito?

Traduzione di Sergio Sablich



JAKOB WASSERMANN
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