ALFREDO GARGIULO

«LA SERA FIESOLANA»
DI GABRIELE D'ANNUNZIO



C'è in Alcyone una poesia, La sera fiesolana, che merita di essere tutta esaminata, non solo per le bellezze grandi che contiene, ma anche perché è il tipo di quelle liriche del terzo libro delle Laudi, che si scindono in più altre, ciascuna bella per sé, e tenute insieme da un lievissimo legame esteriore, oltre, s'intende, il titolo. Ricordo che quand'io lessi la prima volta La sera fiesolana, la trovai bellissima, senza riserve; tanto è insignificante il legame esteriore e tanto potente è l'individualità di ciascuna strofa. Ecco la prima:


Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso nella man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!


Si vede subito che la freschezza delle parole, simile a quella del fruscìo che fan le foglie, eccetera, è un semplice pretesto per lo sviluppo dell'immagine: questa è così ricca e così completa, così chiusa in sé e perfetta, e predominante, che alla freschezza delle parole non ci si pensa più affatto. Del resto, come immaginare non una generica freschezza di parole ma una freschezza determinata con tanti particolari? Resta solo la splendida immagine. Non ancora si vede la luna, ma è «prossima alle soglie cerule»: nasce tra umidi vapori, preceduta da un velo, che essa distende davanti a sé. Nel silenzio, è in quel glauco e umido albore che noi sentiamo la pace della campagna sotto il cielo; e là «il nostro sogno si giace». Di là partono l'anima e il sentimento che investono la campagna: pare che questa sia già tutta dominata dalla notte sopravvenuta, «già si senta da lei (dalla luna) sommersa nel notturno gelo»; «senza vederla» beva da lei la «sperata pace». Nel giorno vivido e travagliato non sperò con noi la terra questo glauco silenzio? Il silenzio è profondissimo: la strofa, ad esprimerlo, comincia col «fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s'attarda all'opra lenta». Poiché l'anima di tutto il paesaggio è il cielo, poiché là «il nostro sogno si giace», efficacissimo è quel senso di avvicinamento al cielo che dà l'uomo sull'alto della scala. La scala s'annera, il fusto s'inargenta: sono i chiari e gli oscuri, gli unici toni più forti del paesaggio, su cui lentamente dilaga l'albore grigio-perlaceo. Prorompe dalla visione la laude, sintesi della visione stessa, con una mirabile personificazione della sera: «Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo!». La sera ha un viso, che è di perla; e due occhi, evanescenti, vaporati di lagrime. Si noti come riposi la visione nella strofa fino alla laude, ascendendo ed allargandosi, senza neppure il respiro d'una virgola, col solo respiro dell'ultimo verso «senza vederla», che è una cadenza melodiosa, una dolce pausa trapassante nell'impeto lirico della laude. La seconda strofa è un altro paesaggio, del tutto diverso, che comincia anch'esso con un pretesto (questi pretesti sono i legami esteriori delle strofe):


Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su il grano che non è biondo ancòra
e non è verde,
e su 'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi,
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!


Più dolce è questa strofa e più tenera, rispetto alla prima, più austera. È più ricca di suoni e più celere. Un'infinita dolcezza ha la pioggia di giugno, verso sera: tenue, tepida, quasi s'invola mentre sta per cadere e appena cade, fuggitiva. Potrebbe sembrare troppo lunga e particolareggiata l'enumerazione degli alberi e della verdura su cui cade; i gelsi, gli olmi, le viti, i pini, il grano, il fieno, gli olivi, con tutte le loro determinazioni. Ma qui è il caso in cui ha predominio l'onda musicale e il valor simbolico dei suoni. Bisogna sentirla così; e così la sente chi vi penetra dentro. Il « bruire » della pioggia si propaga per tutta la strofa, attenuando musicalmente il senso preciso delle parole. E poi, tutto quel verde, che sembra enumerato, acquista forza di sintesi nella laude; che è bella quanto quella prima strofa: «Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!». Quella vegetazione odorosa e bagnata costituisce le vesti aulenti della sera (in verità della terra; ma la terra è disciolta, come paesaggio, nella sera). Come (e qui la similitudine è sublime poesia) il salce il fien che odora, così quel cinto cinge la sera! Con un altro lieve pretesto segue l'ultima strofa:


Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!


Due immagini ben distinte ha questa strofa, e senza visibile legame: le fonti dei fiumi e le colline. La seconda sovrasta, e fa dimenticare l'altra se qualcosa le congiunge è il solo pretesto «ti dirò». Il profilo di dolci colline, al vespro, un profilo preciso e puro, quale appare ritagliato sull'ultima luce di ponente, è una consolazione e una pace per lo spirito, che puramente lo contempla. Ma che dice quel profilo: Misterioso è il senso di pace e d'amore, che le colline ci danno col riposo delle loro linee sulla luce. Qualcosa ci dicono; ma che cosa? Il loro segreto è indicibile: «E ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s'incurvino come labbra che un divieto chiuda». Chi però le contempli a lungo e ripetutamente, sentendo crescere il fascino, crederà d'esser sul punto di strappar loro una maggior parte del loro mistero; crederà di sentirle avvicinare al proprio desiderio: «e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire, si che pare che ogni sera l'anima le possa amare d'amor più forte»: crescono la pace, la consolazione e l'amore; e il segreto è sempre di là! Una serenità purissima domina la strofa, anche nell'onda melodica. La laude giunge qui, conce prima, a sintetizzare: «Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime stelle!». Muore davvero puramente la sera in quell'ultima luce nitida e trasparente: il trapasso è fugace; le prime stelle palpitano: attendono! E come quest'attesa chiude il circolo del mistero, non svelato ma tanto consolante! Ora, perché queste tre strofe hanno avuto un titolo comune, La sera fiesolana? Che cosa contengono quei pretesti, «Fresche le mie parole», «Dolci le mie parole», «lo ti dirò»? Ben a ragione, quando la poesia fu pubblicata la prima volta nella Nuova Antologia, le tre strofe avevano un sottotitolo: La natività della luna, La pioggia di giugno, Le Colline; senonché quei sottotitoli dovevano essere titoli addirittura. E che le poesie sieno tre, non una, è confermato dalla laude che chiude ciascuna: il poeta ha tutta l'attenzione al paesaggio, e lo loda; del pretesto iniziale si dimentica. I paesaggi dell'Alcione sono puri paesaggi: voglio dire che il sentimento del poeta si esaurisce nella visione, e non si effonde durante, o prima o dopo, la visione, per sé stesso. Il paesaggio e l'anima che lo investe coincidono perfettamente. Il nostro poeta è qui un assoluto paesista. Solo i superficiali potrebbero chiedere che insieme con la visione del paesaggio il D'Annunzio esprimesse l'animo suo, il sentimento che il paesaggio gli suscita. Tale richiesta, che vorrebb'essere richiesta di spiritualità, sarebbe in sostanza richiesta «materiale»: si vorrebbe poter distinguere, diciamo così, tipo graficamente, dove il poeta esprime sé stesso e dove esprime il paesaggio. Domanda insulsa. La profonda spiritualità delle visioni paesistiche di Alcione dà luogo a una poesia così alta e così nuova nel mondo moderno, che poco importa il fastidio di doverla spesso liberare da titoli e sottotitoli, intrusioni superumane e pretesti di passioni umane. I paesaggi, potentemente individuali, si liberano, del resto, da sé. Se l'espressione non fosse arrischiata, direi che essi parlano e il poeta tace. Spesso il poeta si limita soltanto a dire, di fronte a una sua visione: «ti loderò», o «laudato sii» ; e non si effonde più di questo. Tal'altra introduce nel paesaggio delle invocazioni ad una donna; ma la donna resta estranea (si fondeva col paesaggio, invece, nelle Elegie romane). Ogni elemento umano, per dir così, sparisce; ma diventa umana la natura. Lo spirito scende tutto nella materia; ma la materia diventa tutto spirito.