CÉLESTIN DELIÈGE

LIMITI RAZIONALI
DI UN'ESTETICA DELLA LIBERTÀ

Il curatore di questa Website ringrazia di cuore il prof. Célestin Deliège per il generoso permesso di pubblicazione di questo suo saggio, nell'ambito di un progetto per ricordare la figura e l'opera del musicologo Sergio Sablich prematuramente scomparso il 7 marzo 2005.


Ovunque gli artisti si rallegrano meno
del regno delle libertà recentemente
conquistate di quanto non aspirino di
nuovo a un preteso ordine altrettanto
fragile.

Th. W. Adorno Estetica

 

Si trattava di un'estetica, non di un linguaggio, nel celebre scritto di Busoni: Abbozzo di una nuova estetica della musica (1907). Con il passare del tempo si resta sorpresi, in effetti, di come Busoni sia stato così poco toccato dal movimento viennese del superamento del sistema tonale. Certo, egli può occasionalmente ricorrere a delle strutture pseudo-atonali, ma conviene insistere sulla radice pseudo. Dinanzi all'opera di Busoni il nostro parere è che il suo sogno fosse, in realtà, quello di una disinibizione, e il risultato, un sorprendente sviluppo di un irresistibile bisogno d'estroversione.
Questo comportamento psicologico non era nuovo all'inizio del secolo, esso risaliva in realtà alla crescita considerevole del virtuosismo avvenuta con Paganini e sprattutto con Liszt, a cui ciascuno pensa immediatamente appena si tratta di Busoni. Del resto la filiazione tra pezzi così pieni di fantasia come Après tine lecture du Dante di Liszt e il Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra di Busoni, senza dubbio una delle sue composizioni più disinibite, era stata assicurata da musiche altrettanto spontanee come certi pezzi per organo di Reubke. E cominciando da là, da questa forma di liberazione delle manifestazioni inconscie, con una volontà spesso molto decisa di esteriorizzare quanto precedentemente non era stato osato, che si è definito parzialmente l'espressionismo, estetica da cui l'arte di Busoni dipende incontestabilmente.
Ma è pur vero che significherebbe ridurre la portata dell'estetica di Busoni il farla derivare esclusivamente dall'ondata di virtuosismo che sommerge l'Europa centrale soprattutto nella seconda metà del XIX secolo e limitare il suo tentativo all'euforia estroversa del Concerto. Doktor Faust è un'opera diversamente controllata dal compositore; vi leggiamo i tratti di liberazione sotto un'altra luce, anche se impossibile non trovarvi lo smalto delle tecniche virtuosistiche.
Se si pensa alla parsimonia classica, a quell'economia di mezzi che sarà il segreto della sua coerenza, il passo compiuto nel Doktor Faust è naturalmente enorme. Ma altri fattori avevano agito nel frattempo ed erano già venuti ad insidiare l'ordine parsimonioso del classicismo: soprattutto il trattamento motivico venne abbandonato nello stile rapsodico che incoraggia la moltiplicazione dei dati tematici. Un tale stile era anch'esso legato all'espansione del virtuosismo ma anche all'organizzazione interna dell'opera le cui sole ouvertures, anche quando conservavano la forma sonata, moltiplicavano tuttavia il numero degli episodi tematici caratteristici per familiarizzare lo spettatore con il contenuto dei momenti principali. Nel Doktor Faust Busoni effettivamente si ricollega allo stile rapsodico ma aggiungendovi questa volta un carattere non trascurabile, cioè il passaggio dalla rapsodia tematica alla rapsodia di stili.
La rapsodia tradizionale aveva favorito la forma chiusa senza, del resto - forse, aspirare a realizzarla veramente. La forma chiusa è un fenomeno tardivo a cui Busoni prende parte dopo essere stato preceduto su questa via da Stravinskij, un musicista che gli resterà perfettamente estraneo. Ma Doktor Faust, contrariamente alle forme chiuse del nostro secolo, è costruito su successioni di stili, passando da un linguaggio modale alla tonalità tradizionale e giungendo fino alle soglie del mondo atonale; passando da un contrappunto iper-cromatico alla più semplice armonia diatonica e compiendo talvolta queste diverse trasformazioni in brevi tratti di tempo.
Ma allora non bisogna interrogare Richard Strauss? Qui certamente vi è un precedente di rilievo. Fin dall'epoca dei poemi sinfonici Strauss collega le tonalità senza una grande logica, essenzialmente preoccupato dai bisogni dettati dalle sue visioni extra-musicali. E in Salome ed Elektra si precisa un'altra ben nota evoluzione; Strauss collega liberamente e cromaticamente, se ne ha bisogno, tutte le armonie e con un'indifferenza assoluta rispetto a quella che deve essere la mediante (maggiore o minore) in funzione di grado fondamentale nella tonalità in corso. Strauss si mostrerà molto rispettoso delle regole sulla condotta delle voci ma questa condotta, che dovrebbe mirare alla salvaguardia della morfologia degli accordi cosiddetti "classificati", si rivelerà talvolta, per esempio nell'apertura di Salome, del tutto indifferente alle modalità di collegamento di queste morfologie tradizionali. Strauss giungerà infine alle soglie dell'atonalità, ma solo eccezionalmente: si dice perfino che qui egli avesse la sensazione di trovarsi in pericolo.
Questi tratti che molto sommariamente abbiamo ricordato in Strauss li ritroviamo nel Doktor Faust, ma questa volta generalizzati; la nozione di "pericolo" è qui completamente ignorata. Busoni evolve dal semplice al complesso e dal complesso al più semplice, come avveniva nei poemi sinfonici di Strauss, con la sola preoccupazione dell'efficacia drammatica. Ma aggiungiamo subito che il punto di vista busoniano si iscrive in quella realtà rappresentata dal dramma che si svolge sotto gli occhi dello spettatore, mentre in Strauss l'assenza di logica segnalata nel collegamento delle tonalità risulta da una finzione metafisica o semplicemente "romanzata", aperta alle intepretazioni più contraddittorie da un'ascoltatore all'altro.
Questa affermazione non rischia di apparire riduttiva rispetto all'impatto storico del Doktor Faust? Al contrario, è sempre molto importante ricondurre l'azione di un artista a quella dei suoi predecessori e comprenderla partendo di là, altrimenti l'origine dell'emergenza dei fatti ci resta completamente estranea. Partendo da Liszt e dalla scuola del virtuosismo comprendiamo l'intensità delle folgoranti schegge che percorrono il dramma; vediamo come possiamo sentirci talvolta sulle tracce del verismo, estetica tuttavia ripudiata dal compositore, ci rendiamo conto del senso dei gesti di abbondanza e della pletora innegabile. Attraverso Strauss verifichiamo le fluttuazioni del linguaggio e anche la continuità del recitativo. E infine, partendo da queste due fonti insieme vediamo nascere l'espressionismo sotto quella forma che assume con l'azione di Busoni nel Doktor Faust.
Ma questo insieme di precedenti ci permette di accedere solo ad una parte della realtà, cioè alla sua possibilità. Ora, ciò che resta l'aspetto specifico dell'opera si trova nella rapsodia stilistica di cui si è appena trattato ed anche nei dettagli di cui gli episodi sono oggetto. Da questo punto di vista, che non potrebbe venir confuso con alcuna estetica precedente, Busoni potrebbe apparire come il precursore delle correnti che al giorno d'oggi affermano spesso, con la scappatoia della citazione, la possibilità di far coincidere più linguaggi all'interno di una stessa composizione. Non è escluso che un giorno si troverà qualche musicologo per tracciare un confronto tra Doktor Faust e il Votre Faust d'Henri Pousseur. Bisogna vedervi qualche segreto disegno dell'inferno, qualche manifestazione ludica dell'esibizione dei suoi fasti?

I tratti stilistici in questione sono chiaramente udibili. Spetta a me, tuttavia, precisarli con alcuni esempi che sceglierò dalle parti che precedono i tre quadri, dove essi si rivelano con più particolare evidenza.

Esempio I - La Symphonia. Il brano inizia nella più grande calma, esponendo un episodio modale la cui tonica è tuttavia poco definita (batt. 1-24). Ogni analisi seria dovrebbe parlare di una scala modale frigia con tonica mi. Tuttavia l'esame del discorso concreto dell'autore rende questa tonica molto precaria, è subito molto evidente la polarizzazione sul fa ed esiste anche una polarizzazione secondaria sul sol. Infine dobbiamo relativizzare questa visione razionale che ci fa parlare di scala frigia ed accontentarci forse di una posizione meno comoda dove si tratta semplicemente di modalità ambigua. Con ciò l'autore ha cercato di realizzare concretamente più che di evocare il colore metafisico nel quale si prepara ad immergere tutto il dramma?
Comunque l'atmosfera modale è rotta appena viene percepito il do diesis di oboe e corno inglese (batt. 25), scomparendo definitivamente con la polarizzazione sul do (batt. 26). Bisogna forse osservare qui uno dei fattori di coerenza costituito dalle diverse polarizzazioni, così numerose lungo tutta l'opera sulla tonica do che parlare di opera "in do maggiore" potrebbe a stento costituire un'esagerazione.
La polarizzazione sul do si ritroverà un istante dopo (batt. 29) ma in piena rottura con quanto viene nel frattempo percepito e in particolar modo con lo stretto diatonismo d'apertura, ecco (batt. 27 e 28) un canone a due voci che si direbbe atonale se non fosse così breve e se la parte superiore non partisse dal do per farvi presto ritorno. Ma il cromatismo di questo canone alla sesta maggiore è sorprendente, le due parti includono la totalità dei dodici suoni.
Nell'episodio immediatamente successivo (batt. 29-36) il do si definisce come tonica ma questa tonica è velata dalle discese cromatiche che la circondano ed è soprattutto contrastata da una discreta relazione di tritono con il sol bemolle, primo simbolo diabolico conforme alle antiche tradizioni, che si ritroverà nell'opera al momento della evocazione di Lucifero: richiamo dell'inferno parallelo a quello di Liszt nel suo accostarsi all'inferno dantesco. Alla fine dell'episodio il tritono è spostato verso il la e il mi bemolle. L'insieme dell'episodio lascia l'ascoltatore in una specie di "terra di nessuno" tra gli ambiti tonale e non-tonale.
L'episodio termina su un accordo di quarte e si aggancia subito (fine di batt. 36) ad aggregati armonici che mescolano la quarta giusta con la quarta eccedente, il tritono è inoltre di nuovo inteso melodicamente. Si tratta di quel tipo di aggregato che era nell'aria fin dall'inizio del secolo e che si ritrova anche in musiche di tendenze così opposte come quelle di Schönberg e Debussy. Questo passaggio che si svolge nelle zone alte dell'orchestra lascia rapidamente il posto al suo complementare nel registro grave (batt. 39-41) dove il la grave entra in relazione di tritono con il mi bemolle, qui fondamentale dell'accordo perfetto minore, quando un segnale di trombe per terze e forte viene a generare un secondo tritono tra il do e il sol bemolle dell'accordo perfetto.
Questa atmosfera è a sua volta interrotta da un'accelerazione che raddoppia il tempo. Un'ampia melodia degli archi sdoppiandosi talora in un leggero contrappunto con gli altri strumenti (batt. 41-87) e affermando ostinatamente il doppio trocheo di un 6/8 restituisce al diatonismo e alla tonalità fa loro prerogativa. Gli ampi intervalli (settime e seste) conferiscono al passaggio un carattere espressionista le cui armonie sembrano organizzate in funzione dell'evoluzione melodica. Questo tipo di melodia ritmata è frequente nell'opera, essa si fonda principalmente sul libero gioco delle appoggiature e su un'aderenza assoluta della struttura ritmica al quadro metrico.
Per un istante (batt. 88-95) il carattere rapsodico sembra interrompersi. Il tempo primo, in un'ampia progressione, ripresenta i tremoli dell'episodio di batt. 29-36, il ritmo trocaico di batt. 42-87 ed anche le quarte di batt. 36-38. La tonica do, cui si era momentaneamente sostituita quella di la, viene reintrodotta e mantenuta nell'episodio successivo (batt. 96-106) tornando al tempo raddoppiato e il cui accordo iniziale costituito da una piramide di sei quarte non è l'elemento meno sorprendente.
Ma la Symphonia si lega al coro d'apertura (batt. 107-116) con una specie di transizione molto complessa in cui la tonalità annega nel cromatismo di un contrappunto che pur lasciando sussistere le morfologie tonali le nega attraverso il contesto creato.
Un elemento tuttavia sembra rendere solidali questi contrasti stilistici, è il mantenimento dell'intensità generale del pezzo nella zona piano. Un altro tratto frequente che sarà mantenuto nell'insieme dell'opera è la frequente apparizione di progressioni melodiche che si inseriscono sempre nel quadro metrico e lo rafforzano; si tratta di un gesto di scrittura che può impoverire i contesti in cui appare.

Esempio 2 - Il primo coro. Non si può che restare colpiti dall'apparizione dell'ostinato e soprattutto dalla sua costituzione in accordi paralleli che producono una successione di quarte consecutive. Ma vi è di più, l'armonia formata dal coro è un aggregato costituito da una scala di cinque quinte contenute nello spazio si bemolle... re. La distribuzione progressiva dei suoni in questo spazio e l'accavallamento ritmico delle voci risultante dalle sfasature metriche disposte fra di esse, conferiscono alle articolazioni della parola "Pax" una periodicità molto elaborata. Questi tratti di scrittura, cui si aggiunge l'effetto di lontananza provocato dalla disposizione del coro fuori scena, presentano questo estratto come uno dei più originali della partitura. Ma in tal modo il carattere marcato di questo coro introduce uno stile che di nuovo lo distingue e l'individualizza fortemente.
Vorrei passare ora ad alcuni esempi più puntuali di eventi che sorprendono l'ascoltatore perché spezzano la continuità generalmente a favore dell'intensità drammatica.

Esempio 3 - (batt. 90-94). Fin dai primi interventi di Wagner si è potuto osservare che il canto esprime il carattere equivoco del personaggio ricorrendo ad ampi intervalli. In queste poche battute l'enigma aumenta quando vengono evocati i nomi degli spiriti infernali. Questo breve momento è sorprendente perché sospende per un attimo il contesto. I nomi vengono articolati su una successione di nove suoni distribuiti cromaticamente, conducendo il più grande intervallo melodico fino alla settima maggiore e il più grande scarto di registro fino alla decima. L'effetto di rottura è tanto più avvertito poiché soltanto i fiati sottolineano il canto all'unisono e la tonica do viene presto riaffermata.

Esempio 4 - Entrata degli studenti. Alla marcia. (batt. 182-203). Questa marcia d'apertura è costituita da processi eterogenei che fanno pensare alle tecniche di Charles Ives. La marcia propriamente detta è accompagnata da una serie di accordi di nona in rivolto e paralleli che non cercano in alcun modo di conciliarsi con essa. Con l'entrata del trio di studenti il processo si alleggerisce un po' ma gli aggregati di origine tonale resteranno fino alla fine dell'episodio praticamente senza un orientamento ben definito e arriveranno a conciliarsi tra di loro solo sporadicamente: la tonica re della melodia della marcia non è che implicita e finalmente cancellata dalla coda di violoncelli e contrabassi (batt. 199-203).

Esempio 5 - Preludio II. In modo d'un adagio. (batt. 0-35). Questo preludio è un vero tratto espressionista caratteristico dell'epilogo della musica tonale. Il contrappunto fa pensare alle pratiche della scuola viennese e, più particolarmente senza dubbio, si è tentati di chiamare in causa le prime opere di Berg. Tuttavia gli ampi intervalli melodici di settima maggiore e di nona minore intervenendo in un quadro tonale appartengono alla pratica di Busoni. È la condotta delle voci qui la fonte principale dell'interesse polifonico. Da questo punto di vista il preludio è uno dei momenti più densi dell'opera ed anche uno dei pezzi più espressivi. Ma con il levarsi del sipario la tensione progressivamente si allenta e il dialogo di Faust con gli spiriti infernali si svolge secondo i canoni più consolidati della scena lirica del XIX secolo. Il sistema include perfino l'impiego di recitativi punteggiati da accordi orchestrali, perfetti o dissonanti, nella migliore tradizione del grand‑opéra.

Esempio 6 - Credo e Gloria (da batt. 846 alla fine del prologo). Un innegabile contrasto apparirà con il Credo che è, più particolarmente all'inizio, una libera interpretazione tonale della musica medievale. Il canto a cappella dei primi quattro versetti, con la sua forma sillabica, evoca l'atmosfera delle messe del XV secolo ma, evidentemente, non può trattarsi che di un'atmosfera: gli elementi cromatici dell'armonia ci dissuadono dal pensare ad un pastiche; ma soprattutto il coro è ben trattato come coro d'opera, si è colpiti, per esempio, dalla frequenza di accordi di quarta e sesta. Probabilmente ci si sentirà più orientati verso il pastiche ascoltando la ripresa del primo versetto con gli assoli vocali e strumentali (batt. 858): le imitazioni e la progressione tonale richiamano un po' il mottetto barocco. La risposta del coro raddoppiato dagli strumenti solisti (batt. 877-887) conferma questa impressione ma aggiungendovi già una nota teatrale più marcata.
I periodi descritti sono stati costruiti con una logica tonale che si incontra solo occasionalmente in quest'opera: partiti dalla tonica di si bemolle la dominante di questa tonalità è stata toccata alla fine dell'episodio a cappella, poi la dominante di questa dominante conclude la progressione dell'episodio dei solisti e la risposta del coro conduce alla dominante del relativo subito aperto sulla tonalità parallela maggiore sol. In questa tonalità si svolge l'accenno di un canone approssimativo tra contralti e bassi, sostenuti dall'organo. Il versetto Et resurrexit è ripartito tra le due voci. Il flauto lo riprende alla tonica (batt. 896) conferendogli la fisionomia di una cantilena gregoriana, dopo di che il versetto Et ascendit (batt. 898), intonato a due voci da contralti e soprani, pur mantenendo il senso tonale, lascia filtrare un'eco di polifonia medioevale attraverso le chiare successioni di quarte e quinte. Infine il Sedet ad dexteram Patris suona di nuovo a cappella (batt. 913) con il sostegno dell'organo, con un andamento accordale a tre voci come di coda, avanzando nuovamente di quinta nella progressione tonale e raggiungendo così la dominante di re. Quest'ordine non è mai sovvertito dai vari interventi di Faust che restano sempre molto statici.
Non insisterò sul versetto Et iterum. Esso prorompe, fiero (batt. 923) con un re minore molto deciso malgrado i frammenti cromatici che mai giungono a far vacillare il fondamento tonale. Come in Richard Strauss, le raffinatezze sono presto sostituite con la banalità e l'aneddoto. È l'effetto drammatico che deve prevalere irresistibilmente. L'entrata delle campane (batt. 967) conclude il Credo in uno sfarzo molto XIX secolo e prepara un Gloria (batt. 1008) regolato dalle stesse convenzioni.
Nonostante fosse sostenitore di un'estetica molto libertaria Busoni curava la forma delle scene. Il ritorno al do maggiore del preludio orchestrale del prologo condurrà nella calma la serenità di un Alleluja riaffermando per un istante brevissimo, insieme all'acquietarsi, le raffinatezze dell'inizio. La perorazione a cappella del coro si apre sulla tonalità di re minore dell'Intermezzo il cui assolo d'organo sarà l'oggetto del nostro ultimo esempio.

Esempio 7 - Intermezzo. Preludio d'organo (batt. 1-64). Non è certo per farne una descrizione che prendo qui in esame quest'esempio, il cui solo interesse risiede nel suo stile parodistico. Certo ognuno avrà in mente altri esempi in cui l'organo illustra nell'opera l'ambiente della chiesa e le sue funzioni. In questo caso l'attenzione è maggiormente attratta forse per il particolare sviluppo dato all'episodio. Ma soprattutto bisogna qui ben distinguere due intenzioni: la creazione dell'atmosfera e la parodia dei modi di suonare dell'organista. In genere i direttori d'orchestra e i registi possiedono a sufficienza il senso del serio per mostrarsi sensibili alla prima di queste intenzioni, ma sembra che manchi loro un pizzico d'humor per godere della seconda; e poiché la lunghezza del pezzo sembra loro inutile, lo tagliano in tutta tranquillità. Per questo motivo il lettore curioso se ha qualche interesse a questo esempio dovrà rifarsi alla partitura.
Il preludio incontestabilmente potrebbe, almeno in teoria, essere separato dal suo contesto in vista di una esecuzione. Tuttavia non c'è dubbio che non potrebbe reggere come pezzo autonomo poiché non ostenterebbe di fatto che la sua intrinseca banalità. Nel corpo del dramma, al contrario, il pezzo assume un certo rilievo per il suo carattere parodistico che esibisce in pochi minuti tutta una serie di tics dell'organista e delle norme di scrittura proprie dello strumento.
L'inizio (batt. 1-16) dà l'impressione di una polifonia con entrata progressiva delle voci, ora certamente, non si tratta che di un'illusione di polifonia; una polifonia autentica non sarebbe stata probabilmente appagante, e in ogni caso non avrebbe creato l'aura richiesta dall'evocazione stereotipata del luogo di preghiera. La seconda parte (batt. 17-33) dà l'idea di un corale figurato le cui "virtù" polifoniche sono rafforzate dagli stretti. Ma nuovamente un tale progetto non è che simulato, non è che una finzione. La terza parte (batt. 34-49) è come un'improvvisazione su degli accordi configurazione al pedale all'inizio, con crescendo nella migliore tradizione dell'organo sinfonico e dell'uscita della funzione. La conclusione infine (batt. 50-64) non è che una perorazione nella stessa maniera prima della ripresa del pseudo‑corale che prepara il levarsi del sipario.
Riassumendo, l'atmosfera è vissuta attraverso una serie di clichés che sono le caricature della realtà, ottenute mediante una deliberata semplificazione dei mezzi e delle forme. Da questo punto di vista Busoni anticipava in realtà la musica da film che si giustifica precisamente con la ricerca di mezzi semplici e di immediata comprensione la cui efficacia è spesso proporzionata al grado di realismo di un'imitazione.

Questi pochi esempi dovrebbero essere sufficienti ad illustrare il mio discorso. Quali conclusioni trame?
Si osserverà in primo luogo, senza dubbio, che fra le "liberazioni" del linguaggio, delle forme o delle estetiche, se ne sono presentate essenzialmente tre all'inizio del secolo. Una prima si è compiuta sotto la forma di un'aggressione contro un sistema in via di esaurimento, la tonalità. L'irrazionalità che ne derivò venne, si sa, rapidamente controllata con un atto di forza che fu, nelle intenzioni, condotta con una volontà di rigore estremamente razionale, dando luogo al serialismo. Un'altra direzione, appena meno aggressiva ma senza dubbio un po' meno raziobale nel principio, consistette in una degerarchizzazione delle funzioni tonali, una sorta di libertà che reintroduceva, di fatto, una percezione modale molto rinnovata rispetto alle vecchie tradizioni, questo fu il risultato dell'azione di Debussy e Stravinskij fino al 1918. Infine, una terza scelta fu quella di Busoni, storicamente condivisa con Ives, se non nei risultati almeno nelle intenzioni implicite, e che si potrebbe tradurre in un partito preso per l'eterogeneità. Molto meno di Ives, è vero, Busoni si è separato dal mondo tonale e, certamente ancor meno, ha cercato di raggiungere l'eterogeneità nella sovrapposizione di eventi contraddittori. Busoni raggiunge l'eterogeneo nella giustapposizione e, l'abbiamo già detto, gli imperativi sono quelli del dramma. Ogni stile gli è disponibile, la storia è diventata una specie di immenso serbatoio. L'irrazionale puro non appare praticamente nell'opera, ciascun momento si presta ad una descrizione chiara. Ma la sovrabbondanza dei materiali contraddittori messi in gioco conduce la sua estetica al limite inferiore della razionalità. Musicista del XIX secolo, Busoni continua ad esserlo per questo bisogno di conservare i riferimenti di un sistema armonico efficace, che ha dato prova della sua validità e che ha garantito l'espressione drammatica; ma musicista del XX secolo egli è anche per questo bisogno di fuga. Sfuggire alla tradizione ma con il suo aiuto; nutrire l'opera di questa forza secolare ma non lasciandogliene più che un ruolo di agente ausiliario. Forse così andò anche per forza di cose poiché l'individuo, anche dotato, non oltrepassa la tradizione con un semplice atto di volontà cosciente.
Ma resta ancora quell'ironia che Hegel avvertiva già nel romanticismo che nasceva alla sua epoca ma per lui già molto antico e che ha spesso finito per prendere il sopravvento nel riaffermarsi dei vecchi miti. Si poteva ancora, dopo tanti secoli di conoscenza consapevole della tradizione faustina e della sua traccia vissuta nella realtà quotidiana da un'esperienza quasi banale, ritrovare nel 1920 il mito di Faust in tutta la sua purezza originale? Anche opporre Mefistofele alla Chiesa, elemento epifenomenale del mito, certo, doveva già appartenere al comico della sociologia elementare del cristianesimo. Così, finalmente, quello spirito di parodia sul quale abbiamo posto l'accento a proposito del preludio d'organo dell'Intetmeao potrebbe eventualmente essere generalizzato a tutta l'opera, qualunque possa essere stata su questo punto la volontà del compositore. Non si possono, in effetti, manipolare i miti indipendentemente dal corso della storia e secondo delle intenzioni individuali. Quando Bach compone a gloria di Dio la correlazione tra l'ideale intravisto e il risultato sembra convincente. Quando Franck o Bruckner riprendono lo stesso progetto quella correlazione diventa subito infinitamente più sospetta. I miti dei nostri vecchi fondamenti culturali non possono essere più vissuti ai nostri giorni e rappresentati che attraverso un'imitazione di ciò che ha arrecato la loro esperienza. Quindi Busoni, in ultima ipotesi, non avrebbe favorito la demistificazione con questo superamento di ogni inibizione, consapevole o inconsapevole - altri ce lo diranno - che era egli stesso bloccato in una dialettica in cui l'irrazionale attacca la profondità delle credenze e la demistificazione insidia le ultime tracce di razionalità.


(Traduzione dal francese di Maurizio Romito)