FEDELE D'AMICO

L'UTOPIA DI FERRUCCIO BUSONI
E IL "DOKTOR FAUST"


Fedele D'Amico e Sergio Sablich in memoriam.


Quale fu l'utopia di Busoni? Diversamente da altri compositori dell'Otto e del Novecento, che hanno consegnato la loro poetica quasi soltanto alle loro opere, Busoni ha ampiamente teorizzato sulla sua, oltre che sulla musica in genere, fin dalla giovinezza; facendo anzi precedere, come Wagner, la teoria alla pratica. Senonché non tutta la sua teoria è passata nella sua pratica, solo in parte la poetica dichiarata nei suoi scritti coincide con quella riconoscibile nelle sue opere; ma appunto questo divario sollecita al massimo il nostro interesse, perché non soltanto illumina il personaggio ma smaschera aspetti fondamentali della musica del suo e del nostro tempo.
Che cosa auspica Busoni in sede teorica? Essenzialmente, un aumento progressivo e continuo dei mezzi espressivi. Teorizza ad esempio un aumento illimitato delle note (cominciando con l'introduzione dei terzi e quindi sesti di tono), e sulla stessa linea auspica perfezionamenti negli strumenti musicali, e si entusiasma quando apprende che in America è stato inventato uno strumento elettrico con cui si possono costruire suoni di qualsiasi altezza, in questo scorgendo un mirabile arricchimento del lessico musicale; e propone nuove scale. Analogamente preme per una musica di forme estremamente libere, sino all'atematismo.
Senonché questa aspirazione all'incondizionato non è per lui fine a se stessa, è soltanto indispensabile mezzo ad uno scopo; e questo scopo è il raggiungimento di un'espressione, in quanto liberata da ogni costrizione, supremamente serena, superiore alle passioni, affrancata da ogni sensualità e "soggettivismo", olimpica. Ora nell'atto di auspicare, a realizzazione di tali ideali, l'allargamento ad infinitum dei mezzi, Busoni non si avvede di cadere in una contraddizione radicale. Non considera che lo stesso linguaggio verbale, con le sue decine di migliaia di vocaboli, si basa sopra un numero di fonemi limitatissimo, pena l'incomunicabilità ossia il suo annientamento in quanto linguaggio; e che analogamente il linguaggio musicale si fonda sopra un sistema di suoni detti note, ognuno dei quali può assumere una fisionomia rispetto agli altri, e con ciò esercitare una funzione organica, solo in quanto è legato ad essi da reciproci rapporti "semplici", ossia non complicati oltre quella misura in cui riescono identificabili dalla nostra percezione come organicamente rilevanti. Motivo per cui quell'allargamento, quando non conduca all'insignificanza pura e semplice, potrà rappresentare soltanto stati di caos, vertigine, angoscia e simili, dunque appunto l'opposto della vagheggiata serenità olimpica. L'utopia consisté appunto in questa contraddizione: credere che da quei presupposti potesse sortire altro che l'opposto di quanto egli assegnava alla sua musica, e all'avvenire della musica in genere.
Ora di questa contraddizione Busoni non dette mai segno d'avere cognizione propriamente critica, cioè tale da lasciarsi teorizzare; ma ciò non gl'impedì di viverla drammaticamente nei fatti. Fu così che l'apparizione di Schönberg sulle prime lo affascinò, come una realizzazione radicale dei suoi principi (alla quale il massimo avvicinamento, nel suo proprio "oeuvre", si dette appunto in quel torno di tempo, con il Nocturne symphonique e soprattutto con la Sonatina seconda, entrambi 1912), ma per poi ispirargli un malcelato sgomento: tanto i risultati spirituali erano diversi da quelli da lui perseguiti. La strada su cui Schönberg avanzava eroicamente, in obbedienza alla propria vocazione storica, era infatti testimonianza alquanto grave sulla natura della meta a cui quelle aspirazioni linguistiche conducevano, e che non era la sua. Busoni mantenne tuttavia la propria, ma accettando di controllare i "mezzi" in funzione di essa, ossia serbando gli sperimentalismi allo stato di tensione interna ad un linguaggio tanto per intenderci - tradizionale. Così non affrontò mai i terzi di tono (tanto meno alcunché di simile allo strumento elettrico del dottor Cahill), non rinunciò al tematismo, mantenne chiare simmetrie formali ed eventualmente forme chiuse.
Gli empirei a cui mirava li perseguì dunque, essenzialmente, per via d'evasioni, astensioni: veto al crescendo, diminuendo, accelerando, rallentando, tonalità continuamente mutevole anche se sempre riaffermata (e ben difficilmente ambigua), eccetera. Ora questo spirito di evasione si documenta eminentemente nella sua poetica dell'opera lirica. Leggiamo infatti nell'Abbozzo di una nuova estetica della musica: "In quali momenti la musica è indispensabile a teatro? Ecco la risposta precisa: nelle danze, nelle marce, nelle canzoni e quando nell'azione interviene il soprannaturale" [Abbozzo di una nuova estetica delta musica]. La sarcastica risposta di Schonberg (che troviamo nelle sue note manoscritte in margine all'opuscolo di Busoni, pubblicate in facsimile nel 1974 dall'Insel Verlag a cura di H. H. Stuckenschmidt) suona semplicemente: "In nessuno" ("Nirgends"); che chiaramente vale: indispensabile la musica è soltanto a ciò che il compositore decide, non esistono luoghi privilegiati ad accoglierla. Infatti danze, marce e canzoni esigono la musica nel teatro drammatico, anzi nella vita, un'opera nasce appunto quando pretende di investire "tutto". Ma nello stesso saggio Busoni parla (situazioni "soprannaturali" a parte) di un'altra possibile funzione della musica nell'opera: quella di dar voce a ciò che accade nell'animo dei personaggi, oppure di segnalare ciò che si svolge fuori scena (la gondolata dei Racconti di Hoffmann mentre in scena c'è un duello che la musica ignora), ma non mai ad esprimere ciò che lo spettatore "vede". E questo a quale fine? A quello di sottrarre la musica a tentazioni d'immedesimazione realistica, giacché l'opera si giustifica solo nell'irreale, e gli spettatori debbono venir dissuasi dalla loro inclinazione ad esigere dalla scena le forti emozioni realistiche che "mancato alla loro mediocre esistenza, certo anche perché il coraggio vien [loro] meno di fronte a quei conflitti a cui aspirerebbero" [Ibidem]: essi dovranno dunque avvertire di trovarsi davanti ad una finzione, e non identificarsi con gli eroi né con le situazioni della scena.
Sarebbe facile rispondere a Busoni che l'arte è stata inventata appunto per farci vivere in proprio situazioni, sentimenti e passioni che di per sé la nostra mediocre, o almeno particolare esistenza, da sé non riuscirebbe a sperimentare; e che questa partecipazione o identificazione ha luogo precisamente perché un'azione ci si presenta come una rappresentazione simbolica, ossia come una finzione; mentre non avverrebbe davanti al nudo "vero", almeno finché lo considerassimo soltanto tale. Ma in realtà il discorso di Busoni va preso in senso metaforico. Quel ch'egli intende dire è che per lui il "problema dell'opera" non consiste nelle alternative che ci si usa porre almeno da Wagner in poi - forme chiuse o aperte, aria o recitativo, canto o orchestra e simili - ma nel far sì che un'opera ci si presenti come un disinteressato gioco librato al disopra della vita e delle passioni, al quale i "fatti" valgano solo come pretesto. "Finzione" per lui significa questo, e divieto di immedesimarsi nei personaggi invito a vivere quel gioco come tale.
I meccanismi atti a produrre questa sorta di estraniazione variano, nelle quattro opere di Busoni, di volta in volta. Così ad esempio nell'Arlecchino il gioco è tra la nostalgia dell'antico teatro comico italiano, musicale e non, e la sua parodia; mentre Turandot è prelibato gioco di specchi fra un marionettismo di fondo e un'enigmatica magia lirica.
Ben altro il caso del Doktor Faust, dove l'assunto è incomparabilmente più ambizioso, un'allegoria di quello stesso spirito di ricerca ad infinitum che ha condotto l'autore a sognare lo sviluppo incondizionato dei mezzi espressivi; ai quali siamo tentati d'immaginare che venga ora assegnato il compito di mettere in scena, per speculum et in aenigmate, la loro propria avventura.
Ma stavolta, quali meccanismi d'estraniazione siano messi in opera non si saprebbe dire. Possiamo al massimo supporre che una funzione del genere Busoni intendesse affidare al frazionamento dell'opera in quadri tra loro discontinui, e perciò tali da "non" sedurre lo spettatore all'emotivo procedere di un'azione vera e propria. Busoni sottolinea questa discontinuità intitolando Hauptspiel gli ultimi tre quadri (con l'interludio che ne collega il primo al secondo) e invitandoci a considerare come introduttivi nientemeno che i primi tre (oltretutto preceduti da una sinfonia con coro e da un'allocuzione senza musica del "poeta allo spettatore") sotto i titoli, rispettivamente, di Preludio I, Preludio II e Intermezzo. Poco importa ora che di queste distinzioni lo spettatore non abbia il minimo sospetto. Importa però, purtroppo, che la discontinuità fra i vari quadri o pezzi sinfonici che gli sfilano davanti non gli appaia significativa; giacché per apparirgli tale essa dovrebbe proiettarsi in riferimento ad un centro ideale comunque suggerito. Il quale invece non si fa vivo; né per contro, a dare spicco alle singole situazioni, vale il canto, a differenza che in Arlecchino, Turandot e anche Brautwahl, qui stranamente anodino sempre.
Abbiamo dunque soltanto una serie di pagine sinfoniche, o sinfonico-corali, in sé notevoli ed eventualmente notevolissime - in buona parte centonizzate da precedenti musiche di Busoni - che però non avviano ad un'immagine centrale simbolica del tutto, ma comunque propongono una complessiva fisionomia. Il che spiega come, nonostante l'alta qualità di quasi tutte le sue pagine, e nonostante il linguaggio tutt'altro che difficile, ancora a sessant'anni dalla nascita quest'opera non abbia raggiunto la diffusione di altre linguisticamente tanto più ardue quali, non diciamo un Wozzeck, ma una Lulu o un Moses und Aron.
Sulla carta, è vero, un punto focale ci è additato, il catartico momento in cui la poetica busoniana della serenità radiosa dovrebbe realizzare se stessa: ed è la finale risoluzione della rinascita, il fanciullo nudo. Senonché problematica assai, anzitutto, si presentava una catarsi affidata non ad un'immagine di quiete ma ad un inno allo spirito di ricerca, (era qui, stavolta l"utopia"?). Sta poi il fatto che di questa scena - anche se il progetto che per la prima volta ce n'è stato così bene descritto ieri c'interessa non poco - la musica non fu composta. Ma quand'anche lo fosse stata? Nulla l'aveva preparata; sì che sarebbe davvero caduta sull'opera come un deus a machina. Motivo per cui ogni volta che si ascolta il Doktor Faust, nonostante le innumerevoli attrattive che la sua musica offre può venir fatto di pensare: "Sollte diese Oper verunglückt sein?"