ITALO ALIGHIERO CHUSANO

TEATRO DI PROSA NELLA BERLINO DI BUSONI

Italo Alighiero Chiusano e Sergio Sablich in memoriam.


La Berlino in cui (pur tra mille assenze e tournées) Ferruccio Busoni dimorò stabilmente quella tra ii 1894 e il 1914; poi quella dei suoi ultimi anni: 1920-1924. Guardandola nel suo complesso, ci riferiremo dunque al suo trentennio 1894-1924. Quanto al "teatro di prosa", intendiamo quello parlato, drammatico, lasciando da parte il teatro musicale, il balletto, l'operetta e anche la rivista.
Dunque, un trentennio. Chi conosca anche solo superficialmente la storia del teatro germanico sa che quegli anni (dalla fine dell'Ottocento guglielmino al consolidarsi, ahimè solo affimero!, della repubblica di Weimar) sono i più gloriosi che Berlino teatrale abbia mai vissuto. Certo, non Berlino soltanto, né per gli storici né per Ferruccio Busoni: di quest'ultimo ricordiamo che visse anche nell'altro polo della sua vita teatrale tedesca di allora, quello di Vienna, oltre che in due importanti centri teatrali come Lipsia e, durante la guerra mondiale, Zurigo (culla, proprio in quegli anni, del movimento Dada). Limitandoci tuttavia a Berlino: una città che in quel periodo anche dal solo punto di vista della scena di prosa, potrebbe giustificare un convegno di studi esteso a parecchie giornate.
Il mio, in questa sede, non può essere che un velocissimo volo d'uccello, per di più ristretto quasi esclusivamente alla produzione creativa degli autori tedeschi. Il che riduce molto il discorso, quando si sappia che più di una volta la vera attrazione di una serata o stagione berlinese fu la rappresentazione di un testo scespiriano o di un dramma russo, di una tragedia greca o di un "dramma intimo" di Strindberg. Ma Not kennt kein Gebot (Necessità non conosce legge), come dicono i tedeschi.
Dunque che cosa passò, di veramente nuovo e caratteristico, come proposta culturale e come movimento d'arte, sulle scene berlinesi da quei primi anni Novanta in poi? Pochissimo tempo prima, proprio a Berlino, era avvenuto un fatto d'importanza storica. Nel 1889 era stato fondato, dall'uomo di teatro e regista Otto Brahm, un teatro privato, "Die Freie Bühne", traduzione anche nel titolo del Théâtre Libre parigino di André Antoine. In quello stesso 1889, il 20 ottobre, si ebbe una rappresentazione privata che inaugurò tutto un movimento teatrale e letterario. Mi riferisco alla prima del dramma di un giovane esordiente, Gerhart Hauptmann, Vor Sonnenaufgang (Prima dell'aurora), capostipite tedesco del naturalismo. Come si sa, il naturalismo prevalse poi per alcuni anni sulle scene e nei libri di quel fine secolo, sia pure affiancato e contrastato da altri indirizzi. Ma anche un uomo di tutt'altra estrazione però di finissimo intuito come il vecchio Theodor Fontane ci vide il fatto nuovo, determinante di quel tempo.
Arrivando a Berlino cinque anni dopo quella storica Uraufführung, Ferruccio Busoni ebbe tutte le possibilità, se ne avesso avuto voglia, di sorbirsi drammi naturalistici di prima scelta: il che significa limitarsi a Gerhart Hauptmann o, parecchio più in giù, ai primi lavori di Arno Holz e Johannes Schlaf, trascurando magari del tutto la lezione banalizzata a kitsch che del naturalismo seppero dare, pur tra enormi successi, un Hermann Sudermann o un Max Halbe. Per limitarci al solo Hauptmann, che divenne presto un idolo nazionale e internazionale tanto da meritarsi nel 1912 il premio Nobel, le scene berlinesi furono quasi sempre quelle che tennero a battesimo i suoi nuovi testi in sedi come il Deutsches Theater, il Königliches Schauspielhaus, il Lessingtheater. Per limitarci ad alcune opere di spiccho, Die Weber (I tessitori), Der Biberpelz (La pelliccia di castoro), Fuhrmann Henschel (Il vetturale Henschel), Rose Bernd, Die Ratten (I ratti). Il naturalismo teatrale, e non solo in Germania, diede poche cose più robuste, meglio realizzate di queste.
Ma, mi direte, Busoni fu sempre antinaturalista, e perciò quel teatro non poteva interessarlo. È vero. Ma se le opere che ho elencate, e che vanno dal 1893 al 1911, sono tutte di stretta osservanza naturalistica, Hauptmann ne produsse anche altre di tutt'altro tono e sapore, che a Busoni dovevano certo dire di più. Ad esempio, Hanneles Himmelfahrt (L'ascensione di Hannele), di radice naturalistica ma che poi si apre a un surreale delirio misticheggiante, o Die versunkene Glocke (La campana sommersa), in cui l'elemento fiabesco e simbolico domina da cima a fondo (ricordiamo che Ottorino Respighi ne trarrà un'opera in musica), oppure Und Pippa tanzt! (E Pippa balla!), connubio talvolta indigesto ma suggestivo tra l'incanto della fiaba e un certo simbolismo filosofico.
Non occorreva però che Busoni (quest'ipotetico Busoni che, nella mia ignoranza specifica, mi diverto ad accompagnare a teatro nella "sua" Berlino) andasse a pescare le venature non naturalistiche o decisamente surreali in un autore come Hauptmann, che il meglio di sé continuò pur sempre a darlo nel calco sia pur genialmente trasfigurato della nuda realtà. Molto più vicino gli poteva essere, per la sua angolosità satirica, la sua malizia arlecchinesca, un autore come Frank Wedekind, anch'egli - come lo stesso Busoni - ancorato a un mestiere artigianale collaudato, ma tutto proiettato su orizzonti nuovi e, possiamo dirlo, rivoluzionari. Come autore e, non meno, come allucinato e dissacrante attore, Wedekind in quegli anni faceva vedere i sorci verdi a Berlino, alla Germania, a quel tanto o poco di Europa che già s'interessava a lui. Erdgeist (Spirito della terra, il suo capolavoro su Lulù) era stato rappresentato nel 1898 in una città dove sappiamo che Busoni fece soggiorno: Lipsia. Ma nel 1907 Berlino lo riprendeva al Kleines Theater. Nel 1899, a Berlino, si vide quel capolavoro di atto unico che è Der Kammersänger (Il cantante da camera); nel 1906 ai Kammerspiele del Deutsches Theater andò in scena Frühlings Erwachen (Risveglio di primavera); nel 1907, al Deutsches Theater, Der Marquis von Keith (Il marchese di Keith). E fermiamoci qui. Che terremoto, in questi lavori; e che serate burrascose, quelle in cui furono rappresentati, con strascichi di discussioni e di censura!
Ma a questo punto, nel discorso sugli autori e i testi s'inserisce di prepotenza un mago che degli autori e dei testi fu soltanto il servitore, anche se come certi ministri di un tempo che, con la loro genialità, facevano apparire pateticamente nullo il loro re. Parlo del regista e direttore teatrale massimo di quegli anni, Max Reinhardt. Lo inserisco a questo punto perché se anche egli diede il suo ausilio all'ascesa di Hauptmann, fu invece determinante nell'imporre un autore scomodo e precorritore come Frank Wedekind. Né soltanto lui. Reinhardt, vero uomo-orchestra della regia moderna, non poteva accontentarsi delle proposte fono-fotografiche del naturalismo. E così è grazie a lui che vennero tenuti a battesimo i movimenti che, nei primi due decenni del nostro secolo, si opposero al naturalismo stesso, rivendicando le ragioni della fantasia, del sogno, del soggettivismo, della musicalità, dello stile. Tra questi autori, che in Germania vennero anche definiti neoromantici, emerge Hugo von Hofmannsthai, del quale ad esempio Reinhardt mise in scena nel 1903 quell'isterica rivisitazione degli antichi che è l'Elektra (poi destinata a ispirare la musica di Richard Strauss), quel delizioso poema dell'amore saggio, dell'amore non avventuroso che è Christmas Heimreise (Il ritorno a casa di Cristina), quella scintillante e malinconica commedia (con sovrapposta anche troppo sfarzosa musica di Strauss) che è Der Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa). Dell'entourage di Reinhardt fu anche Richard Beer-Hofmann, di cui il Mago mise in scena un testo neoelisabettiano allora molto influente come Der Graf von Charolais (Il conte di Charolais). E, per scendere a un livello più modesto, ma con effetti spettacolari che non lasciarono indifferente nessuno, come dimendicare quel Das Mirakel (Il miracolo) di Karl Gustav Vollmoeller, in cui sacra rappresentazione e balletto si sposarono in uno show indimenticabile, ambientato nella pista del circo Busch?
Al naturalismo non reagì però soltanto l'ondata liricheggiante, mitica, estetizzante degli autori appena ricordati. Più sottile, perché avvenuta dal di dentro, fu la reazione di quel psicologismo impressionistico di cui fu maestro il viennese Arthur Schnitzler. Come fu inarrivabile nelle magie barocche o arcaizzanti, l'austriaco Reinhardt fu grande anche nel rendere le sfumature ironiche e dolorose, tra sensuali e stoiche del medico-scrittore, che così attento ascolto seppe dare a Siegmund Freud e che sarebbe divenuto uno dei maestri europei del monologo interiore. Da Anatol a Liebelei, da Der grüne Kakadu (Il pappagallo verde) a Das welte Land (Terra sconfinata), sono diversi i testi schnitzleriani che, a Berlino o a Vienna, Reinhardt seppe porgere al pubblico con la giusta orchestrazione psicologico-musicale. A occhio e croce, ritengo che a Ferruccio Busoni dovesse suggerire molto quella specie di grande arlecchinata tragica che è Il pappagallo verde.
Ma, per intonare un richiamo busoniano almeno nei titoli, vorremmo ricordare che, tra i testi messi in scena da Reinhardt, c'è un Faust, prima e seconda parte (ovviamente, di Goethe), un Arlecchino servitore di due padroni (ovviamente, di Carlo Goldoni), una Turandot (ovviamente, di Gozzi-Schiller).
Ma non possiamo ancora congedarci da Reinhardt: nemmeno ora che comincia un mondo del tutto nuovo, quello dell'espressionismo. Abbiamo già visto quanto, attraverso singoli coraggiosi spettacoli o interi cicli di opere, Reinhardt abbia contribuito ad affermare Frank Wedekind, che degli espressionisti fu padre e precursore. Diciamo ancora che Reinhardt diede messinscene memorabili di un altro degli incubatori e maestri di quel movimento, lo svedese August Strindberg. Ma conviene ricordare che Reinhardt non fu certo il solo ma tra i più incisivi a riproporre ai tedeschi certi autori dell'ultimo Settecento o del primo Ottocento come Reinhold Lenz e Georg Büchner che, come allucinata frantumazione dello stile, come dinamismo quasi cinematografico del ritmo, come tagliente ma anche lirico sarcasmo critico, lasciarono ai futuri espressionisti ben poco da inventare.
Sarebbe già stato moltissimo. Ma Reinhardt andò oltre. Quando, nel 1911, mise in scena Die Hose (Le mutandine) di Carl Sternheim, aveva fatto un'opzione difficile per un autore che allora pareva astruso e scandaloso. Ma vi rimase fedele, inscenando di lui anche testi come Bürger Schippel (Il borghese Schippel) e Die Kassette (La cassetta). Un tipo di drammaturgia scattante, geometrica, ferocemente satirica, con personaggi burattineschi e deformati, che sarebbe piaciuta moltissimo agli autori espressionisti (e, faccio una delle mie solite ipotesi, fors'anche a Busoni).
Poi scocca l'ora degli espressionisti veri e propri, giovani e dirompenti, e Reinhardt non si tira indietro. Come aveva dato ai naturalisti le interpretazioni più mature, come ai simbolisti e neoromantici aveva spianato la strada del successo, così ora si batte a fianco di questa nuova ondata che vuoi sovvertire tutto, cominciando dagli strumenti e modi di far teatro: scenografia, recitazione, uso delle luci e delle musiche. Reinhardt, nella primavera del 1918, fonda "Das junge Deutschland", un'iniziativa che si propone di dare la parola ai nuovi drammaturghi. Ed eccoli passare per le sue mani di regista radicalmente trasformato, questi giovani dal nome oggi più o meno mitico: Oskar Kokoschka (Der brennende Dornbusch, Il roveto ardente), Reinhard Johannes Sorge (Der Bettler, Il mendicante), Reinhardt Goering (Seeschlacht, Battaglia navale), Else Lasker-Schfller (Die Wupper), Fritz von Unruh (Offiziere, Ufficiali; Ein Geschiecht, Una stirpe), Walter Hasenclever (Der Sohn, li figlio).
[Più lunga e ripetuta la frequentazione con quello che, di tutti gli espressionisti, fu il più scaltro artigiano, il più lucido costruttore di congegni filosofico-spettacolari, Georg Kaiser. Ricordiamo almeno, dei testi kaiseriani messi in scena da Reinhardt, Von moergens bis mitternachts (Dal mattino a mezzanotte), Brand im Opernhaus (Incendio al teatro dell'opera) e Kanzlist Krehler (Il cancelliere Krehler), tuttora considerati tra i suoi più validi.
A questo punto dobbiamo interrompere la nostra lunga deambulazione in compagnia di Max Reinhardt per nominare, se non altro alcuni altri maestri di regia e direzione teatrale che furono attivi nella Berlino degli anni espressionisti. Determinante per il nuovo modo di usare il palcoscenico al servizio di quei nuovissimi testi fu Karl Heinz Martin, specie per la messinscena della Wandlung (La metamorfosi) di Ernst Toller al teatro "Die Tribühne", nel 1919. Ma di più lunga e sostanziosa influenza fu Jurgen Fehling, che come regista principe dell'espressionismo si rivelò nel 1921 mettendo in scena, dello stesso Toller, Masse Mensch (L'uomo massa) alla Volksbühne. Le sue scene nude, i suoi chiaroscuri netti, le sue famosissime scale, la recitazione a vivide macchie di colore saranno il distintivo di questo maestro che dominerà per decenni, a partire dal 1922, sulla ribalta dello Staatstheater.
Un'accoppiata eccezionale, Fehling-Brecht, Busoni la mancò nel 1924, per pochi mesi: fu Das Leben Eduard II (La vita di Edoardo II) che lo stesso Brecht, in collaborazione con Lion Feuchtwanger, aveva tratto da Marlowe. Del ciclone Brecht, prima di morire, Busoni avrebbe però potuto gustare una primizia senza muoversi da Berlino, vedendosi al Deutsches Theater Trommeln in der Nacht (Tamburi nella notte) per la regia di Otto Falckenberg. Quello che di Brecht e di Fehling venne in seguito cade dopo quel 27 luglio 1924 che è la data della morte di Busoni.
Ma del teatro politico di quegli anni il nostro avrebbe potuto ancora vedere qualcosa di grosso. Alludo a Erwin Piscator, che a Berlino fondò Das proletarische Theater (1919-21), poi diresse la celebre Volksbühne (1923-27), prendendola dalle mani di quel Friedrich Kayssler che ci aveva ospitato importanti "prime" di Georg Kaiser e di Ernst Toller. Busoni poteva assistere a Fahnen (Bandiere) di Alfons Paquet, dramma documentario sulla soffocazione della tivolta anarchica di Chicago nel 1886. Un inizio, ma già con tutto il macchinario e gli espedienti (striscioni, proiezioni cinematografiche, lanterne magiche, didascalie) che più tardi Piscator avrebbe ingigantito fino al virtuosismo più babilonese, sia pure al servizio della rivoluzione proletaria.
Che cosa il teatro espressionista e di agitazione politica abbia potuto suggerire a Ferruccio Busoni, io non lo so: immagino, signori musicologi ed esperti, che lo sappiate voi. Se posso fare un'ennesima ipotesi, direi che di quel tipo di spettacolo lo abbia respinto l'empito enfatico, il coinvolgimento dittatoriale dei sentimenti, la pesantezza ora cruda ora sentimentale, insomma quel certo che di "ricattatorio" che c'è in tutti quei movimenti culturali che decidono di far piazza pulita di tutta la tradizione e fondare un mondo nuovo di cui si sia scoperto che è l'unico giusto. Dovrebbero invece averlo attirato e forse incantato il rifiuto di ogni flou, di ogni obesità tra il romantico e il wagneriano, l'audacia di far nuovo anche correndo rischi.
Forse però Busoni poté sentirsi ancor meglio ispirato da un altro tipo di spettacolo, che sempre meno siamo disposti a considerare trascurabile: il cabaret. Dall'«Überbrettl» di Ernst von Wolzogen, ancora in area naturalista, allo "Schall und Rauch" fondato - ancora! -da Max Reinhardt (ma come dimenticare "Die elf Scharfrichter" di Frank Wedekind e gli spettacoli di Karl Valentin a Monaco?), alla curiosità di Busoni si potevano offrire infiniti pretesti per incontrarsi, se così possiamo dire, con la versione tedesca della commedia dell'arte, cui suoi Arlecchini e Pulcinella in dialetto berlinese o monacense, all'insegna di quello sberleffo, di quel filtraggio della cultura in chiave ironica che a Busoni piaceva tanto, in area italiana, nella commedia delle antiche maschere o nelle fiabe di Carlo Gozzi o nel Falstaff verdiano (che fu per lui, come si sa, decisivo).
Ma a questo punto l'outsider dei "forse" e dei "potrebbe darsi" ha già parlato abbastanza. Restituisco perciò la parola a chi, sul tema Busoni e dintorni, abbia una conoscenza più specifica. Signori, vi ringrazio.