Sergio Sablich

BERLINO, 27.07.1924: BUSONI IST TOT


[...] Il problema della successione di Busoni alla cattedra di perfezionamento in Composizione presso l'Accademia delle Arti di Berlino, rimasta vacante alla sua morte, venne risolto chiamando al suo posto Arnold Schönberg, colui che per primo era stato interpellato per dare una conclusione all'incompiuto Doktor Faust. E benché la distanza fra i due artisti fosse vistosa, e poche cose li avessero accomunati in vita, è lecito vedere un segno quasi provvidenziale in questa coincidenza che, all'alba di eventi tragici per la storia tedesca, fornisce una traccia legando in una linea di continuità un magistero basato anzitutto su un altissimo senso del dovere e di responsabilità morale, prima ancora che artistica. E forse, a ben guardare, è possibile notare delle convergenze che avvicinano queste due figure al di là delle differenze specifiche che li distinguono come compositori.
La sorte che toccò a Busoni dopo la morte, avvenuta nel momento cruciale di un dramma che proprio a Berlino aveva il suo epicentro, fu quella di un rapido, inesorabile oblio. La dispersione delle sue opere e delle sue carte, nonostante il tentativo degli amici di fondare un Archivio che le raccogliesse, e perfino delle sue cose - la casa, i mobili, i libri, svenduti all'asta nel 1925 a prezzi ridicoli - è solo un aspetto della scomparsa di Busoni dall'orizzonte della vita musicale tedesca. Ma se senza dubbio le circostanze legate alla storia anche politica degli anni Venti contribuirono a determinare questa situazione, altri, più profondi motivi ne furono la causa principale.
Sarà interessante verificare da più punti di vista attraverso le relazioni del Convegno il grado di integrazione di Busoni nella cultura berlinese degli anni Venti. È mio parere che Busoni le rimanesse sostanzialmente estraneo, in una posizione di isolamento, critico e indifferentemente scettico verso ciò che lo circondava; è a prima vista curioso che soprattutto verso le avanguardie, che condividevano molti dei suoi principi di rinnovamento e di svecchiamento delle istituzioni, Busoni combattesse una battaglia tenace e per molti versi ingiusta. In realtà, Busoni vagheggiava un ideale di perfezione e di tonalità difficilmente praticabile e attuabile nelle condizioni oggettive del suo tempo: la "sua" Berlino era semmai ancora quella fin de siècle e degli anni Dieci, non quella irrequieta e conflittuale dei dopoguerra e degli anni Venti, nella quale era approdato come un naufrago scampato alla tempesta. A Berlino, in questi anni, la contraddizione è di casa ovunque, nel dibattito politico o idelogico, nel paesaggio urbano, negli eventi della vita quotidiana. È nelle sue manifestazioni, nella sua eterogeneità, nello scontro di elementi antagonistici incompatibili, che essa viene riconosciuta, vissuta e apprezzata. Nell'arte berlinese, che ne subisce il contraccolpo, l'opposizione tematica si esterna anche nel vocabolario delle forme e l'utilizzazione della contraddizione diventa un mezzo di espressione stilistica. Perciò l'arte degli anni Venti è, a Berlino, un'arte dello smontaggio e dei rimontaggio, nelle arti applicate, come nel cinema, nel teatro, nella letteratura e nella musica.
In uno dei suoi ultimi scritti, pubbl. postumo, Busoni notava:

I modernissimi si ingannano anche quando credono di poter rompere o di aver rotto con tutto ciò ch'è stato prima: non è così, nonostante la loro incrollabile persuasione... D'altro canto è innegabile che l'uomo ha gli occhi messi in tal modo da costringerlo a guardare in avanti; e che la sua esistenza è passabilmente giustificata soltanto se contribuisce a creare il presente. Triste destino è perciò vivere in tempi confusi, non chiaramente delineati e fluttuanti; i creatori condannati a cederci dentro ne risentono (Sguardo lieto, pp. 142-143).
Queste affermazioni illuminano in modo esemplare la contraddizione che sta al fondo della personalità di Busoni. Se la cultura della crisi non gli apparteneva, egli apparteneva alla cultura della crisi, delle cui ineluttabili conseguenze era perfettamente consapevole. Un mondo si spegneva con lui, travolgendo l'utopia della compiuta integrazione dell'individuo nell'universo, della rivoluzione permanente da condurre nel seno stesso della coscienza artistica con la perfezione inattaccabile di ciò che è destinato a durare come classico. «Qualche volta bisogna dar ragione anche ai bolscevichí (ma solo tra noi)» si lasciò andare a dire Busonì una volta (lettera a Jarnach, 22.3.20): ed era il massimo della concessione disposto a fare, nella vita come nell'arte.
La musica del nostro secolo deve molto a Busoni non soltanto per quanto egli ha intuito, prefigurato, profetato, prescritto, ma anche per l'esempio che ha saputo dare di un modello di artista che instancabilmente cerca, che continuamente si mette in discussione, che non si appaga di nessuna conquista e aspira verso l'ignoto, verso l'illimitato, verso l'ultima parola che manca. La tensione di questa ricerca, che si riflette in una musica di acuta intelligenza e di fertilità cospicua, è ciò che Busoni ha lasciato in eredità, intravedendo soltanto a tratti - e sapendocela comunicare - quella olimpica serenità situata negli spazi infiniti dell'empireo cui spetta il dominio nel regno assoluto dello spirito, secondo la sua visione dell'essenza della musica. Nessuna scuola, nessuna corrente, nessuna tendenza, nessun movimento ha potuto però trovare in Busoni il suo vero, unico maestro; e a tutti, viceversa, si possono attribuire idee o stimoli che partono da Busoni. Stando al paradigma di Boulez, Busoni è un compositore incompleto e storicamente morto; ancor più dimenticato perché nessuno l'ha fatto suo, nella concretezza di riferimenti specifici, musicali, linguistici e formali. E dunque giustamente dimenticato.
Tutto ciò è troppo palesemente semplice per essere incontestabilmente vero. Ritorniamo perciò al nostro punto di partenza: «Busoni e la Berlino degli anni Venti». In «Berlin - Ein Stadtschicksa», pubblicato nel 1910, Karl Scheffler sostiene che Berlino è una città condannata a un perpetuo divenire e priva di una propria esistenza [*].
Ma è proprio questo che ne costituisce il fascino e il potenziale creativo, conclude l'autore. Un destino storico sembra qui legarsi a uno individuale, sì da rendere lecita la domanda: Busoni è morto?


[*] KARL SCHEFFLER, Berlin - Ein Stadtschicksal, Berlino 1910, cit. in Berlino 1910-1933, a cura di Eberbard Roters, Milano 1983, p. 12.