Raffaele De Grada

L’incontro Busoni-Boccioni

Un documento eccezionale

 

Quando scrissi la mia monografia su Umberto Boccioni («Boccioni - Il mito del moderno», Club del Libro, 1962, poi ripubblicata integralmente nelle edizioni De Agostini) possedevo ben pochi documenti oltre quelli che mi erano forniti dagli «Archivi del Futurismo», editi da M. Drudi Gambillo e T. Fiori nel 1958. Gli scritti più recenti su Boccioni erano un breve saggio di Argan e uno di M. Calvesi che pubblicò più tardi (1983) un testo definitivo, insieme a E. Coen, dopo che Zeno Birolli aveva raccolto nel 1971 per Feltrinelli gli scritti editi e inediti di Boccioni.
Il mio libro e poi quello di Guido Ballo (Il Saggiatore, 1964) dettero un serio impulso, bisogna riconoscerlo, agli studi boccioniani: Boccioni, questo mitico personaggio che era stato considerato come il promotore del Futurismo, accanto a F.T. Marinetti, fu studiato nella complessità delle sue origini divisioniste e, prima, di quelle che potevano essere collegate ai fenomeni dell’art nouveau e del decadentismo fine Ottocento. Non mi pento di aver messo allora in luce, agli inizi degli anni Sessanta, il fenomeno Boccioni come una delle più rilevanti espressioni di quella ‘intelligenza’ che agli inizi del nostro secolo si dimostrò insofferente sia del corso egemone del positivismo ottocentesco sia dell’idealismo tardo romantico, trovando sbocco in un anarchismo suggestivo che nel nostro paese portò tanti intellettuali verso il nazionalismo e il fascismo. Suggerimenti essenziali per l’analisi di quel periodo erano stati forniti da Antonio Gramsci i cui Quaderni del carcere erano stati pubblicati dieci anni prima.
Ma tutto ciò che era stato scritto e detto su Boccioni, sia sul periodo prefuturista (fino al 1910) sia sul secondo periodo, quello della frenetica attività di pittore, scultore, scrittore d’arte e agitatore di idee, si trovava di fronte a una barriera di incertezze palesi circa la trasformazione della sua arte negli anni ultimi della breve vita, quelli in cui la società europea fu coinvolta nella prima grande tragedia del nostro secolo, la guerra mondiale 1914-1918. Quale era stato il processo, brevissimo come se il fato dell’imminente morte l’avesse dominato, che aveva condotto Boccioni dalla irruente attività di futurista a un placato ritorno alla figurazione di cui le opere dipinte a Pallanza nel 1916 sono la prova più palese?
La recente pubblicazione delle lettere tra il grande musicista Ferruccio Busoni e Boccioni, rinvenute negli archivi di Berlino da Laureto Rodoni, accompagnate da un suo saggio di illuminante filologia (Alberti editore, Verbania, 1998-99), ci offre la chiave di lettura di quel periodo boccioniano tanto difficile da spiegare con i mezzi della pura analisi stilistica delle opere.
Ci ripromettiamo un discorso più completo quando la Società dei Verbanisti organizzerà il convegno su questo tema. Ma già fin d’ora è da segnalare l’eccezionale dialettica creativa tra il musicista che nelle ardite composizioni della «Sonatina seconda» e del «Nocturne Symphonique» sembra accettare i suggerimenti atonali dell’estetica futurista e il pittore che già nelle opere del 1914, come il «Bevitore», «Sotto il pergolato di Napoli», «I Selciatori», mostra di tener conto del dibattito di idee intervenuto tra lui e Busoni.
Boccioni aveva manifestato il suo nuovo orientamento nel 1915; si pensi all’acquarello del ritratto de «La Madre» che aveva indotto Busoni a chiedergli il proprio ritratto che il pittore dipingerà a Pallanza l’anno dopo. Nelle visite allo studio Busoni aveva acquistato Il lutto del 1910, opera di derivazione da Munch. Accanto alle inevitabili delusioni (la guerra, i rapporti difficili nel gruppo futurista), sono tutti elementi che ci portano a considerare in modo naturale il distacco di Boccioni dall’ottimismo superficiale del primo futurismo. Del resto anche Carrà subì lo stesso passaggio, ancora ben lontano da qualsiasi “ritorno all’ordine”. Si intuisce dai carteggi dell’epoca che i due amici fossero assai sconfortati dal manierismo dei seguaci, mentre Busoni meditava, come dichiara più volte “una nuova classicità”. Boccioni temeva che dalla stessa guerra derivasse una nuova retorica, non dissimile da quella del sentimentalismo tardo romantico, una sorta di quella che Carrà chiamo “guerra-pittura”.
Boccioni la guerra l’aveva fatta davvero nel drappello dei volontari futuristi, con Funi, Sironi, Erba e ora, nell’attesa di una nuova chiamata al fronte alla quale, per la dignità delle proprie idee nazionaliste, egli non intendeva affatto sottrarsi, misurava tutto l’assurdo di quella tragedia anche se non aveva il coraggio di confessarlo.
Il carteggio Busoni-Boccioni, ora pubblicato da Laureto Rodoni, ci dà la misura interiore di un dramma consumato nell’intimo dell’estroverso Boccioni; in Busoni egli trovò il mentore di una trasformazione profonda che nelle settimane di tregua, entrambi ospiti del marchese Silvio della Valle di Casanova, gli dette la forza di dipingere il grande ritratto di Busoni e gli altri pochi dipinti, paesaggi e il ritratto di Gerda Busoni, presagio di futuri sviluppi. La morte del pittore per la caduta da cavallo a Sorte interruppe il futuro.
Resta da sciogliere un nodo essenziale dell’arte del nostro secolo che le lettere ora pubblicate ci aiutano ad approfondire e in un certo senso a risolvere. Cercheremo di farlo in un modo più approfondito, con l’impegno che ci siamo preso circa quarant’anni or sono.
Articolo apparso nella rivista annuale Verbanus, nª 20, 1999.