IN ATTESA DELLA CRONOLOGIA... 


LA BIOGRAFIA DI GUIDO GUERRINI

LONDRA - PARIGI - ROMA

E il «nulla osta» fu dato. Nel gennaio 1922 Busoni si recò a Londra, anche per provvedere un poco di danaro che non fosse quello svalutatissimo dall'inflazione tedesca. Altro scopo del viaggio era quello di presentare al suo fianco, in concerti a due pianoforti, l'allievo Egon Petri, a cui il Maestro si era proposto di aprire le porte della grande carriera. Lo fece quindi suonare insieme a lui, e solo, tanto a Parigi quanto a Londra, trovando commovente godimento nel mettere a disposizione del discepolo la sua ricchissima esperienza. Ora che gli si annunzia il tramonto e che anche la professione del concertista gli sta venendo in uggia, trova piacevole continuare la lotta in favore di un giovane a cui egli ha trasmesso la miglior parte di sé.
Dopo Londra, dove il Maestro incide anche altri dischi grammofonici, egli tiene concerti a Glaskow, Manchester, Bradford, e quindi a Parigi, dove il Maestro ottiene forse i più formidabili successi di tutta la sua carriera, con ovazioni che si protraevano per decine di minuti consecutivi. [Nemmeno tali successi, però, riuscivano ad accecare il maestro che, pur adorando Parigi, sapeva giudicare i parigini: «È terribile - scriveva a Gerda - constatare come ci si senta sempre stranieri in questo Paese; come questa gente sappia automaticamente accettare tutto senza dare in cambio nulla... Quale grande potere vi è in questa attitudine difensiva!»].
A Parigi Busoni potè anche presentate al pubblico due composizioni che gli erano particolarmente care. Il Concerto in sol min. di Mendelssohn e quello in re bem. di Saint-Saëns, che il Maestro eseguì quasi ad intima commemorazione dell'autore, morto nel dicembre precedente.
(Una parentesi: mentre comprendiamo perfettamente l'ammirazione che Busoni nutriva per Mendelssohn, musicista di classe, di stile aristocratico, di fortissima tecnica e di gusto squisito, riusciamo con difficoltà a giustificare la passione del Maestro per l'arte di Saint-Saëns che, fatte rare eccezioni nella sua produzione, manca quasi assolutamente di quello spirito di ricerca, di quell'auto-controllo stilistico, di quella originalità, che costituiscono i canoni fondamentali di tutta l'arte busoniana. Ma, a parte il peso che in ciò poteva avere una personale amicizia [e il Busoni sentiva in modo eccezionale i vincoli dell'amicizia], il Dent crede di poter spiegare il fenomeno col fatto che Busoni vedeva, nella triade Gounod - Bizet - Saint-Saëns, i tre diretti discendenti di Rossini - Cherubini - Mendelssohn i quali, alla loro volta, sarebbero derivati, più o meno direttamente, da Mozart. Non sappiamo se questa tesi sia propria del Dent o se dello stesso Busoni; tuttavia, se possiamo ammettere qualche analogia fra Gounod e Rossini, fra Saint-Saëns e Mendelssohn, molto più arduo ci sembra poter sostenere una parentela artistica fra Cherubini e Bizet. Sappiamo ad ogni modo che in Saint-Saëns Busoni ammirava sopratutto la padronanza tecnica, tanto da vedere in lui «le grand seigneur de la technique». E in ciò aveva pienamente ragione).
Di questo periodo sono alcuni episodi, narrati dal Philipp, e che ci sembrano degni di essere riferiti. Il primo ci dà prova della eccezionale memoria del Maestro il quale, invitato a suonare con l'orchestra il Concerto di Mendelssohn, che egli non eseguiva da venticinque anni, se ne fece prestare una copia da Philipp, tanto per rinfrescarsi la memoria sulle entrate, e, dopo soli tre giorni, lo eseguì in pubblico e, s'intende, senza musica. Questo spiega come egli potesse avere a memoria un repertorio che comprendeva quasi tutta la più importante letteratura pianistica e come, assistendo a concorsi internazionali o dando lezioni a concertisti di tutti i Paesi, potesse eseguire a memoria ogni composizione presentata da candidati o da allievi, e sempre discutendone nelle varie lingue degli interessati).
In altra occasione, parlando con Philipp di pezzi da eseguirsi in caso di bis, Busoni gli suonò lo Scherzo in do diesis minore di Chopin. Ma lo eseguì alla meglio, come la memoria glielo suggeriva dopo decenni che non lo aveva più avuto sottomano. Più che una esecuzione, ne uscì una specie di improvvisazione, di ricostruzione, con la quale il Busoni riesprimeva a se stesso la composizione chopiniana. Ebbene: il Philipp, che pure non aveva mai approvato il modo con cui Busoni interpretava Chopin, afferma di essere rimasto, quella volta, affascinato dalla poesia e dalla profondità di pensiero trasfusi dal Maestro in quell'opera ch'egli ricordava appena. Ma conclude però: quando, dopo alcuni giorni, il pezzo fu dal Busoni eseguito in concerto, dopo essere stato ristudiato e messo a punto, «la magica impressione era sfumata; la composizione appariva contraffatta e distorta dalla super-intellettualizzazione. Egli ci aveva pensato su».
Altri due episodi - avvenuti sempre in quel soggiorno a Parigi - ci dicono della dignità artistica del Maestro e del suo disprezzo pel denaro.
Un alto diplomatico francese, ricchissimo ed entusiasta di Busoni, lo invitò a voler suonare in casa sua. Chiedesse lui il compenso, stabilisse lui il numero degli invitati, dei quali preventivamente gli sarebbe stata sottoposta la nota per l'approvazione. Proprio come ad un Principe. Busoni rispose con una sola parola, quella così cara ai francesi: «Jamais!».
Rifiutò pure l'invito, fattogli dall'ambasciatore dell'Argentina, di recarsi in Sud-America per un giro di concerti. Sarebbe stato ospite dello stesso Ambasciatore per tutta la sua permanenza e arbitro assoluto sulla scelta delle città, sui programmi, sugli itinerari, sulla durata del viaggio, ecc. Oltre a tutte le spese per sé e per la moglie, avrebbe potuto realizzare, in pochi mesi, un guadagno di parecchi milioni, il che gli avrebbe permesso di sistemare definitivamente la sua famiglia, anche per l'incerto avvenire. Busoni rifiutò secco, con queste parole: «Forse m'avete preso pel commesso viaggiatore della Campanella» ? [Un'altra ragione, pur essa nobilissima, trattenne il Maestro dal viaggio nel Sud-America: finire il «Faust». E questa egli la confidò soltanto a Gerda: «Lasciami terminare «Faust» e dopo andremo anche in Sud-America».]
Dopo Parigi, Roma. Quivi Busoni tiene un ciclo di sei concerti, che rimangono storici e dei quali uno è tenuto per gli studenti Universitari in un'Aula dello Studio Romano. [Ci si riferisce che in quella occasione fu offerta al Maestro la direzione nel R. Conservatorio di Firenze. Nessun documento abbiamo potuto rintracciare su queste interessanti trattative che, con ogni probabilità, si svolsero verbalmente durante quel soggiorno romano di F. B.]
Nel viaggio di ritorno, Busoni dà un concerto ad Amburgo, città che egli ama particolarmente, ove Werner Wolff gli esegue, in un concerto dato in onore del Maestro, «Sarabanda e Corteo», già presentati anche a Parigi durante il suo ultimo soggiorno.
Giunto a Berlino, Busoni dirige il suo ultimo concerto, in cui Frieda Kwast suona il «Konzertstück» con la nuova appendice (Romanza e Scherzoso), dedicata ad Alfredo Casella. Il lavoro, presentato col nuovo titolo di «Concertino», appare disuguale, poiché mentre la prima parte, di trent'anni più giovane, ha carattere brahmsiano, la seconda, appartenendo all'ultima maniera, è leggera, fine, fluida, e melodicamente italiana.
Il viaggio e questi ultimi concerti hanno stancato enormemente il Maestro, che porta seco gli strascichi di un'influenza londinese. Glie n'è rimasto un malessere come «un basso continuo e ostinato con qualche variazione». Il riprendere il lavoro di composizione, il «far ripartire la macchina», dopo così lunga parentesi e in così scadenti condizioni fisiche, richiede eccezionale forza di volontà. Fortunatamente il suo spirito è rimasto alerte e fiducioso (e lo rimarrà fino all'ultimo), così che il lavoro ridiviene il suo grande conforto, il suo ultimo rifugio.

IL NUOVO STILE
Le risorse dei pianoforti francesi, - che Busoni ha usato per la prima volta a Parigi, perché costrettovi, - con le loro doti di leggerezza, di fluidità, di gentilezza, hanno suggerito al Maestro nuove possibilità pianistiche. E poiché ogni occasione gli fa intravedere nuove risorse per la sua arte, riprende il mai dimesso proposito di creare un a nuovo stile pianistico».
Per avviare la macchina si dedica alla composizione di piccole cose: uno Studio per la «Klavierübung» (composto, pur prevedendo lo scandalo, su temi del «Faust» di Gounod), e varie cadenze pei Concerti di Mozart, dei quali ha in animo di curare, quando gli sia possibile, un'edizione completa, come ha fatto per Liszt e per Bach.
In maggio, assillato dalle insistenze dei dirigenti l'Accademia Filarmonica di Berlino, vi esegue il Concerto in mi bemolle di Beethoven. Ma questa sua interpretazione solleva, fra la critica, discussioni a non finire, tanto essa appare arbitraria e anti-tradizionale. Il Maestro rimane sorpreso di tutto ciò, non essendosi reso il minimo conto della sua strana metamorfosi estetica. Ne sorte sbigottito e quasi avvilito, e con la rivelazione che il pianoforte non lo interessa più, se non come mezzo per esprimere il suo io artistico attraverso la musica, sua o altrui.
Da ciò una specie di crisi di coscienza. Domanda consiglio a Philipp:

Forse mi sono dedicato troppo a Bach, a Mozart, a Liszt. Vorrei ora emanciparmi da essi. Schumann ormai non mi serve più, Beethoven soltanto con uno sforzo e attraverso una severa selezione. Chopin mi ha attratto e respinto durante tutta la vita; ho ascoltato troppo spesso la sua musica prostituita, profanata, volgarizzata. Egli è divenuto come una piccola isola intorno alla quale le acque salgono sempre più, fino a che soltanto due o tre cime ne emergono: gli Studi, i Preludi e, forse, le Ballate. Vorrei sapere che cosa scegliere pel mio nuovo repertorio.

Philipp suggerisce Alkan e Scriabin. Ma Busoni ha già sofferta e superata, a suo tempo, la crisi alkaniana e, quanto a Scriabin - ch'egli conosce assai bene fin dai tempi di Mosca - lo giudica «un'indigestione di Chopin».
Questi dubbi e queste incertezze non fanno che allontanarlo sempre più dal pianoforte, che del resto non dovrà più suonare in pubblico. Quella della Filarmonica è stata l'ultima apparizione del più grande pianista che mai sia esistito.

L'ULTIMA BATTAGLIA
Riprende il «Faust» e si dedica, nel contempo, ai suoi discepoli di composizione. È il tempo in cui il Maestro sente quanto grande danno derivi ai giovani dalla nuova musica francese, e dedica ogni sforzo per allontanarli dal contagio dello stile impressionistico. È questa la sua ultima, accanita, disperata battaglia in difesa della grande arte, che egli vede compromessa e deturpata ogni giorno più da un'insensata frenesia di ricerche cerebrali ed eccentriche. Alchimia, non più arte.
Rifiorisce in lui, sempre più ardente, il culto per la musica pura, essenziale, lineare, quella infine che è nata nella sua Terra e che ora, in matura coscienza d'artista, egli giudica la sola vera, la sola grande ed incorruttibile, l'unica che abbia ancora il potere di risollevare i travagliati spiriti di quel torbido e turbinoso dopo-guerra.

VERSO IL RIPOSO
Col ritorno del freddo un nuovo attacco del male riassale Busoni, che si persuade finalmente ad invocare un medico. Da medici e da medicine egli è sempre rifuggito, come da cose spaventosissime. Mai nella vita ha voluto sottoporsi a visite o a cure, preferendo a volte sofferenze lunghe e gravi. Unica eccezione, la visita fattagli da un medico di Zurigo nel 1918, il cui ottimistico verdetto risultò poi fatalmente errato.
Ma ora che il male sta rivelandosi in tutta la sua gravità, il Maestro vince ogni repulsione e si sottomette, docilmente, ad una rigida cura; diviene, anzi, amico fiduciosissimo del proprio medico. Forse egli spera ancora che il male possa essere vinto; né d'altra parte il pensiero della morte lo spaventa. Già da vari anni va posandovi il pensiero, con serena fierezza, da buon combattente. Fin dal 1919, ad un amico che, vedendolo così deperito, gli proponeva di prendersi un riposo, rispondeva con un cosciente sorriso: «Eh, sì, non dubitare che presto il riposo dovrò prendermelo, e lungo!».
Di sospendere completamente il lavoro, però, non vuole sentirne parlare; e d'altra parte il suo medico lo conosce troppo bene per imporgli un sacrificio che sarebbe certamente più dannoso che utile. Si viene così ad una transazione: il Maestro potrà occuparsi, ma con moderazione, così da non perdere il contatto con la propria arte, ch'è tutta la sua vita. Si dedica in quel tempo a piccoli lavori, a revisioni, ad abbozzi, a progetti. E moltissimo si dedica alla lettura, sempre scegliendo autori originali, che l'amico Philipp da Parigi gli invia continuamente.
Nell'autunno del 1922 vuole occuparsi anche del Festival che la Società Intenzionale di Musica Contemporanea tiene a Donaueschingen. Non potendo intervenirvi personalmente, vi manda la moglie perché lo rappresenti e gliene riferisca. Si propone intanto di collaborare all'attività dell'Associazione, non appena guarito, come pianista o come direttore o come membro di Giuria, in qualunque modo infine possa rendersi utile ai giovani. Ancora e sempre, dunque, pur diffidandone e rimproverandoli, egli parteggia pei giovani, lotta per essi, si schiera in loro difesa.
Impaziente di poter udire realizzato qualche brano del «Faust», e conscio ormai che l'opera intera non potrà vederla rappresentata, si mette in trattative con l'Andreae per un'esecuzione di qualche frammento a Zurigo. Ma poi, dopo che l'Andreae ha aderito con la solita entusiastica devozione, egli stesso vi rinuncia. «Non sono abbastanza quotato » dice « per correre un rischio di questo genere». (L'accoglienza ostile che aveva ricevuto a Berlino con «Sarabanda e Corteo», diretti dal Furtwängler, era stato un provvidenziale avvertimento). Trascorrono così altri cinque mesi senza che il «Faust» proceda di un passo, ché quel lavoro è ormai troppo pesante per le esauste energie del Maestro. Quale doloroso sacrificio! «La pazienza e la rassegnazione sono per me le medicine più repellenti». Soltanto la speranza di poter riprendere il lavoro dell'opera gli dà rassegnazione.
Pel momento si accontenta di preparare la completa edizione dei Concerti per pianoforte di Mozart, che intende curare in collaborazione con Egon Petri. L'edizione dovrebbe essere impostata su tre doppi pentagrammi: nel primo l'originale di Mozart (nella parte solistica); nel secondo ancora la parte solistica, ma nella revisione di Busoni; e nel terzo la parte orchestrale, ridotta per un secondo pianoforte da Petri. Purtroppo anche questo progetto rimase ineseguito, come tanti altri.
Dovette pure rinunciare a un giro di concerti in Inghilterra, già fissato pel febbraio 1923. E non fu lieve sacrificio pel Maestro che vedeva sempre più precaria la situazione finanziaria della famiglia. Anche le cose della Germania lo impensierivano: la vita sempre più difficile, lo stato della finanza disastroso, tutto un complesso per cui il Paese veniva staccandosi gradatamente dal resto del continente, e non solo nel campo materiale, ma anche in quello spirituale.
Busoni pensa ancora una volta di cambiar residenza; ma dove andare, se l'Italia gli ha chiuse le porte, e la Francia dimostra verso lui tanta diffidenza? In Inghilterra? Non è quello il Paese anti-artistico per eccellenza, «un pays contre l'art»? E come affrontare in quel momento le ingenti spese e i disagi di un mutamento di residenza a così grande distanza?
A primavera, dopo un notevole miglioramento, spera di poter fare una corsa a Parigi, non per tenervi concerti, ma per salutare gli amici e riprendere contatto con quell'ambiente che tanto sa incitarlo ed eccitarlo. Ma il medico non permette, e anche questa volta egli deve rinunciare. Scrive in quel tempo tre Studietti per pianoforte, nello stile polifonico, da inserire in appendice alla «Klavierübung», di cui sta già rivedendo le prove di stampa. Inizia pure la trascrizione a due pianoforti del «Tanzwalzer».
Tutto ciò, s'intende, soltanto per ingannare il tempo e attenuare il disagio morale che gli viene dal non poter riprendere il «Faust». Vuole pur mascherare a sé e agli altri la demoralizzazione entro cui si sente immergere. Anche lo stato dei suoi nervi diviene sempre più penoso; e se pur riesce a dominarsi nel contatto quotidiano col mondo esterno, ha con la moglie e con qualche intimo scoppio di disperazione.
Si apparta sempre più, si isola, si chiude in sé stesso, continuando tuttavia ad anelare alla vita.

Sono stato costretto a divenire un eremita - scrive alla baronessa Oppenheimer - per quanto io senta una potente attrazione verso la vita, un irresistibile impulso a partecipare alla vita e al lavoro degli altri...

Questo suo stato di nervi esacerbò in Busoni la passione alla polemica. E polemiche ingaggiò con nemici e con amici, e anche per cose di poco conto. Una fra le più acerbe l'ebbe con Alfredo Casella, che si era rivolto a lui come autorevolissimo italiano, perché difendesse la posizione dei suoi connazionali, assai trascurati nella Rassegna Internazionale di Musica Contemporanea che si doveva svolgere a Salzburg. Casella però aveva avuto il torto di scrivergli in tedesco; in tedesco proprio a Busoni, così fiero della sua toscanità e che manteneva sempre la propria lingua lucida e forbita nello studio costante di tutti i classici, da Dante a Manzoni! Ma Casella lo aveva fatto soltanto per rispetto alla forma, in quanto si rivolgeva a Busoni come al Presidente della Sezione Tedesca della Società. Contemporaneamente, e privatamente, gli aveva scritto in italiano. Ciò non di meno l'effetto fu disastroso e la reazione violenta. Busoni rispose, in pieno italiano, che prima di accusare i musicisti esteri pensassero gli italiani alle loro colpe. E avessero fra loro maggior senso di solidarietà, anziché «dire l'ira di Dio l'uno dell'altro». «D'altra parte» proseguiva «una vera scuola musicale italiana, al momento presente, non esiste. Uno imita Strauss, un altro Debussy, un terzo si gingilla con Strawinsky, e Wagner rimane il Dalai Lama. Naturalmente gli altri Paesi preferiscono gli originali a queste sbiadite copie». In seguito, a chi aveva risposto protestando pel modo sprezzante col quale il Maestro trattava i suoi conterranei, egli replicò che ciò provava ancor più i suoi sentimenti nazionali, e che il suo amor proprio di italiano era maggiormente ferito da una simile falsa situazione. Alceo Toni ne scrisse sul «Popolo d'Italia», Casella ribatté, poi tutto si chiarì e pacificò. Le parole del Maestro sembrarono allora dettare soltanto da astio o da incomprensione (e non è escluso che un fondo di risentimento potesse esservi). Oggi, tuttavia, a vent'anni di distanza, si deve pur riconoscere che il giudizio era giusto, anche se espresso crudamente; e si può anche pensare che quelle parole, allora cocenti, abbiano poi servito, insieme ad altri moti convergenti allo stesso fine, a risvegliare nei compositori italiani la coscienza nazionale, in quel momento tanto tiepida.

GLI ULTIMI VIAGGI
Nell'estate, avendo la clemente stagione rinvigorito ancora un poco la salute del Maestro, gli viene concesso di recarsi per qualche giorno a Weimar, onde assistere ad un convegno musicale. E là che Busoni ascolta per la prima,- e crediamo per l'ultima volta, l'«Histoire du Soldat» di Strawinsky. Quel genere di musica non può non entusiasmare il Maestro che, come abbiamo visto, sta proprio allora lottando contro ogni enfasi, contro ogni pletoricità, contro ogni atteggiamento espressionistico o impressionistico, per riportare l'arte ad essenziale purezza.
Nel sentire l'Histoire du Soldat «mi sentivo ritornare fanciullo. Si dimentica musica e letteratura, per essere soltanto commossi. Vi è qualcosa che raggiunge il suo scopo. Guai però imitarlo! ».
Busoni non perde mai per un minuto il suo grande equilibrio artistico. Egli sa bene che l'ammirazione deve saper rispettare i confini della imitazione.

In ottobre il Maestro può trascorrere con la moglie qualche giorno a Parigi. Egli vuol visitare gli amici, Gerda desidera far visitare da un medico il marito. Impresa, come già sappiamo, non facile e per la quale la signora ha a sostegno prezioso Philipp. Purtroppo lo specialista consultato confida a Philipp che Busoni è condannato. Potrebbe forse prolungare la sua vita di qualche mese cessando immediatamente e in modo assoluto l'uso del vino e del tabacco, ma non vi è speranza alcuna che la sua fibra, ormai logorata dal male e dalle fatiche, possa riprendersi.
Il Maestro comprende perfettamente la verità, -che forse egli ha già, e prima d'altri, intuita - quasi a gareggiar in velocità con la morte, si dà più intensamente al lavoro, non trascurando nemmeno lo studio del pianoforte. Ma in questa pratica si avvede a un tratto di andar perdendo ogni facoltà tattile nei polpastrelli delle dita. È la fine.
Costretto a rinunciare a qualsiasi impegno professionale (aveva già progettato nuovi programmi per un giro di concerti in Inghilterra, con l'inclusione delle «Romanze senza parole» di Mendelssohn e coi «Notturni» di Field), insofferente al pensiero di dover far ritorno a Berlino, impedito al lavoro, gli sembra allora di lottare contro una schiera di demoni che lo stringano sempre più inesorabili. Lo stato dei suoi nervi si aggrava, la sua ipersensibilità diviene quasi esasperazione di tutti i sensi. Unico sollievo l'assistenza di Gerda, sempre serena, dolce, fiduciosa, anche nella tragica avversità che la colpisce. In lui, sovrastanti sugli altri, due pensieri: terminare il «Faust»; raggiungere l'Italia per andarvi a morire. Quest'ultimo pensiero, anzi, gli diviene assillo. A mano a mano che vede accorciarsi il termine di esistenza assegnatagli, egli si sente più irresistibilmente risospinto verso la sua Terra. Rivede in se stesso, ora, suo padre degli ultimi anni, con le stesse insofferenze, con le stesse irrequietezze, ma anche con lo stesso fanatismo per tutto ciò che è italiano. Sempre più affascinante gli sembra la sua Patria lontana e obliosa di lui; sempre più attraente l'arte in essa fiorita; sempre più commoventi le melodie sbocciate laggiù. Potervi ritornare a godere ancora un po' di sole, ad ammirare ancora i dolci tramonti sui colli toscani! Laggiù certamente egli potrebbe anche terminare il «Faust». E gli risovviene Leonardo, e «lo scheletro con una torcia accesa in luogo del teschio». « Io penso che anche un corpo morto può ancora gettare luce verso l'alto». (Sono le parole dell'ultima lettera che il Maestro scrive).

LA MALATTIA
Sulla malattia che doveva condurre a morte Ferruccio Busoni si fecero infinite induzioni, supposizioni e chiacchiere, nella maggior parte false e calunniose. Si parlò di «delirium tremens», di alcoolismo cronico, di intossicazione da nicotina, di ricovero in un Reparto di intossicati, ecc. E i giornali d'Italia non furono in questa faccenda i meno pettegoli. Tutte queste calunnie non avevano alcun fondamento di verità. Sulla testimonianza del medico curante, Dottor Hans Meyer di Berlino, possiamo asserire che della malattia di Busoni non furono cause dirette né l'alcool né la nicotina.
Egli era affetto da un'infiammazione cronica di entrambi i reni e dei muscoli del cuore. Affezioni che risalivano certamente a molto tempo addietro, secondo che affermano i medici, e, molto probabilmente, erano dovute a qualche lesione giovanile. L'avversione di Busoni a farsi visitare da medici aveva fatto sì che la malattia fosse divenuta a poco a poco cronica e quindi incurabile e letale.
Del resto, chi abbia conosciuto da vicino Busoni sa bene che egli non fu mai un bevitore. Come italiano amava pasteggiare col vino, che considerava naturale bevanda, e di vino era fine intenditore. Amava i vini prelibati, pel gusto dell'aroma, pel piacere del bel colore, e si compiaceva più di poterne offrire che di berne egli stesso.
La sua eccentricità contribuì certo a far credere ch'egli amasse il vino più del necessario, in quanto aveva carissimo, e lo faceva spesso, sedersi ad un tavolo di ristorante insieme ad un gruppo di amici, per offrir loro qualche bottiglia di Champagne o di vino del Reno, o, se in Italia, un fiasco di Chianti. Il suo carattere esuberante ed espansivo, le sue fragorose risate, la sua effervescente conversazione, possono aver fatto credere a volte ch'egli avesse varcato i limiti della sobrietà, mentre forse non aveva nemmeno bevuto per intero il bicchiere della convenienza.
Avveniva pure che qualche volta, nell'intervallo del Concerto, se eccessivamente stanco o prostrato, si facesse portare una bottiglia di Champagne, di cui però beveva sì e no mezza coppa. E questo era bastato a far dire ch'egli non poteva suonare se non ebbro. Spesso, recandosi a cena dopo il concerto (Busoni non suonava se non digiuno), era seguito da un gruppo di amici e ammiratori a cui egli offriva, prodigalmente, vini prelibati. E molte volte gli amici, a fine della riunione, schieravano per celia le bottiglie vuote dinanzi al Maestro, per far credere, a chi osservasse di lontano, ch'egli le avesse vuotate da solo.
Da ciò le leggende cui abbiamo accennato.
Busoni teneva in troppa considerazione il proprio cervello, per lasciarselo ottenebrare dall'alcole, anche soltanto per un attimo. Egli anzi, da grande lavoratore, sostenne sempre la necessità della temperanza, e la predicò agli amici e ai discepoli e ne diede esempio. Una corrispondenza fra Max Reger e lui, ci prova che Busoni tentò con ogni argomento di distogliere il compositore tedesco dall'abitudine del bere; e non avrebbe certo potuto farlo, se egli stesso si fosse sentito accusabile dello stesso peccato.
Quanto al fumo, sì, Busoni fu forte fumatore, seppure non eccezionale. Con questo a suo vantaggio: ch'egli non fumò mai sigarette, ma soltanto sigari dolci e sopraffini.
Le analisi fatte durante la malattia non rivelarono, del resto, tracce alcune di avvelenamento per alcole, e minimissime di nicotinizzazione. Niente dunque «delirium tremens», niente «casa di salute per intossicati». La sua fine fu anzi serena e quasi dolce.
[Sulla propria malattia F. B. scriveva a Wassermann, dopo l'angoscioso periodo della grande guerra: «Non sono più abbastanza forte per resistere né abbastanza giovane per sopportare. Questo stato... ha segnato una cattiva linea attraverso la mia vita... Per la massima parte questa è la storia della mia malattia». Anche la signora Gerda, interrogata da chi scrive sulle vere cause della morte del Maestro, rispose: «Il cuore. Ma sopratutto l'angoscia sofferta durante la guerra». Noi pensiamo invece che anche in Busoni, come in tutti i grandi lavoratori, il fisico abbia prematuramente ceduto all'eccesso di fatica e di emozioni.]

LA FINE (27 luglio 1924)
Pur costretto al letto per periodi sempre più lunghi, egli vuole, fino a che la mano gli regge, dedicarsi al lavoro, nella speranza di poter terminare l'opera a cui manca ormai soltanto l'ultima scena. Il Teatro di Dresda attende la partitura per mettere in prova il lavoro, ed egli non sogna che di poterlo vedere rappresentato. Esso è come il suo testamento spirituale, la somma di tutte le sue esperienze, il corollario di tutto il suo gran lavorare. Egli ha coscienza che quell'opera contiene valori di innovazione e di solidità che assegneranno finalmente al suo nome il posto meritato nell'arengo dei grandi compositori.
Ma la malattia va ghermendolo ogni giorno più tenacemente, sì che il suo fisico a poco a poco crolla. Pure debolissimo, colto spesso da deliqui che gli tolgono coscienza per lunghe ore, egli mantiene serenità di spirito e calma assoluta. Col medico e coi pochi amici che vengono a tenergli compagnia (e sono per lo più i suoi ragazzi), ha ancora conversazione vivace e motti arguti, come un tempo.
Man mano che la malattia progredisce e che dilaga per Berlino la voce di una fine imminente, aumentano le visite di curiosi che a stento la signora Gerda riesce ad allontanare. E abbondano specialmente le ammiratrici, quella strana specie di infatuate che l'hanno seguìto e preceduto e circondato durante tutta la vita. Tanto che un giorno, dopo una di tali visite collettive, il Maestro dice a Gerda, fra la celia e l'amaro: «Tu puoi vedere dal mio 'entourage' quanto io sia caduto in basso.»
Alla fine di giugno le condizioni del Maestro si fanno allarmanti; le perdite di coscienza divengono più frequenti e prolungate; ogni risveglio lo trova più esausto, ma anche sempre più dolce e rassegnato.
Durante uno di questi «intervalli di morte», egli prende una mano alla sua compagna e le sussurra: «Cara Gerda, grazie per ogni giorno che siamo stati insieme». Ed è l'ultimo dei ringraziamenti ch'egli ha fatto ogni sera alla sua Donna, durante tutta la loro vita.
Da un deliquio passò al sonno eterno, un poco prima dell'alba del 27 luglio 1924.
L'Accademia delle Arti di Berlino gli eresse un monumento al Cimitero. Un gruppo di ammiratori e di amici, capeggiati da Paderewsky e da Strawinsky, fece scolpire un busto che fu posto nel grande corridoio del Liceo Musicale di Bologna; una lapide fu apposta sulla facciata della casa di Empoli ove il Maestro era nato; Firenze dedicò una via al suo nome.
E fu tutto. Per lui che aveva onorato e tenuto altissimo, in tutti i Paesi del mondo, il nome d'Italia.
Ora le sue opere stanno ravvivando intorno al suo nome quella fiamma che gli uomini, lui vivo, nemmeno seppero accendere.

[Da una lettera del 15 ottobre 1924, indirizzata a Felice Boghen dall'Ambasciatore d'Italia a Berlino, Conte Bosdari, apprendiamo che «il cadavere del compianto Maestro fu cremato e le ceneri debbono trovarsi nel deposito mortuario di Berlino». In quel tempo fu anche tentato, da un gruppo di amici italiani, di ottenere la traslazione delle ceneri in Italia. La lettera infatti continua: «Approvo il suo divisamento di promuovere il trasporto delle ceneri in Italia ed io la seconderò volentieri ove possibile». Non se ne fece poi nulla, fors'anche perché era stato subito eretto un monumento al Cimitero di Berlino. Sempre nella stessa lettera si accenna infine all'intenzione del Governo Italiano di acquistare la biblioteca del Maestro: «Quanto all'acquisto della biblioteca del compianto Maestro da parte del Regio Governo, io ne farò volentieri la proposta se la famiglia lo richiede (sic) e se essa m'invierà un catalogo da cui io possa formarmi un'idea dell'importanza dell'acquisto». Purtroppo anche quell'iniziativa naufragò e la preziosa raccolta fu venduta all'asta.