Esercitare l'ascolto.
Intorno ai culmini della disperazione: il suicidio mancato del giovane Emil Cioran.
di Giovanni Rotiroti

"Ho scritto questo libro nel 1933, all'età di ventidue anni, in una città che amavo, Sibiu, in Transilvania. Avevo finito gli studi, e per ingannare i miei genitori, ma anche per ingannare me stesso, feci finta di lavorare a una tesi. Devo confessare che il gergo filosofico lusingava la mia vanità, e mi rendeva sprezzante verso chiunque usasse un linguaggio normale. A tutto questo pose termine uno sconvolgimento interiore che finì col rovinare tutti i miei progetti.
Il fenomeno capitale, il disastro per eccellenza è la veglia ininterrotta, questo nulla senza tregua. Per ore e ore passeggiavo di notte nelle strade deserte, o talvolta in quelle dove bazzicavano prostitute solitarie, compagne ideali nei momenti di supremo smarrimento. L'insonnia è una vertiginosa lucidità che riuscirebbe a trasformare il paradiso stesso in luogo di tortura. Qualsiasi cosa è preferibile a questo allerta permanente, a questa criminale assenza di oblio. È durante quelle notti infernali che ho capito la futilità della filosofia. Le ore di veglia sono, in sostanza, un'interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero, è la coscienza esasperata da se stessa, una dichiarazione di guerra, un infernale ultimatum della mente a se medesima. Camminare vi impedisce di lambiccarvi con interrogativi senza risposta, mentre a letto si rimugina l'insolubile fino alla vertigine.
Ecco in quale condizione di spirito ho concepito questo libro, che è stato per me una liberazione di esplosione salutare. Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti".

Così Emil Cioran nel 1990 ricordava la genesi del suo primo libro, Ai culmini della disperazione, scritto in Romania nel 1933 e pubblicato un anno dopo. Un inganno ordito nei confronti dei genitori e di se stesso, la fine degli studi universitari, il congedo dal gergo filosofico, l'insonnia, le passeggiate notturne, l'amore mercenario, la domanda che preme in attesa di risposte che tardano, la vertigine infernale del pensiero, l'angoscia, la contesa, la scrittura e il suicidio mancato. Sfogliando il volume si trovano corpose riflessioni sul suicidio:

"Ogni forma di follia è determinata dalle condizioni organiche e dal temperamento. E poiché la maggioranza dei folli si trova fra i depressi, per forza di cose la depressione è più diffusa degli stati di esaltazione allegra e traboccante. Nei depressi è così frequente la melanconia nera che quasi tutti hanno una tendenza al suicidio- soluzione, questa, quanto mai difficile finché non si è pazzi" (tr. it. p. 31).

"Quanta viltà in coloro che pretendono che il suicidio sia un'affermazione della vita! Per giustificare la loro mancanza di coraggio s'inventano le ragioni più diverse, a discolpa della loro impotenza. In realtà, non c'è una volontà o una decisione razionale di suicidarsi, ma solo cause organiche e intime che predestinano a un tale gesto.
I suicidi hanno per la morte un'inclinazione patologica, cui resistono lucidamente senza riuscire a sopprimerla. In loro la vita ha raggiunto un tale squilibrio, che nessun argomento d'ordine razionale potrebbe più consolidarla. Non si arriva alla decisione di suicidarsi solo per aver riflettuto sull'inutilità del mondo o sul niente della vita. E se mi si opporrà l'esempio di quei saggi dell'antichità che si suicidavano in solitudine, risponderò che poterono farlo solo perché avevano liquidato in loro stessi ogni palpito di vita, distrutto ogni gioia di esistere e soppresso ogni tentazione. Se le lunghe riflessioni sulla morte o su altre questioni insidiose assestano alla vita un colpo più o meno mortale, non è meno vero che questo genere di pensieri non può affliggere che un essere già minato. Non ci si suicida per ragioni esterne, ma per uno squilibrio interno, organico. Le medesime avversità lasciano certuni indifferenti, segnano altri, e altri ancora portano al suicidio. Per essere ossessionati dall'idea del suicidio occorre un tale tormento, un tale supplizio e un crollo delle barriere interiori così violento, che della vita resta solo una vertigine rovinosa, un turbine tragico, un'agitazione bizzarra. Come potrebbe il suicidio essere un'affermazione della vita?"

Cioran non è convinto che si arrivi al suicidio perché si è spinti dalle delusioni, o da un eccesso di desiderio. Il suicida è in realtà incapace di vivere, cioè è incapace di sostenere la morte che non muore che è la vita stessa. Questa morte, che è nella vita, questa morte vitale, si apre nel teatro drammatico della propria soggettività sotto forma di "ambizioni, speranze, dolori o disperazioni": un inquieto domandare. Essi rappresentano solo gli effetti-sintomo di tale esperienza. Questa incapacità di vivere la propria morte nella vita rappresenta, da parte dell'aspirante suicida, l'impossibilità ultima di affermare la vita. Questo è il senso del pensiero del suicidio, non "un capriccio", e neanche passione per la necrofilia, ma l'impossibilità stessa di far fronte alla rivelazione "più spaventosa", alla "tragedia interiore" che è il fondamento stesso della propria soggettività. Non poter più vivere la morte che è nella vita significa essere abbandonati al mondo soli senza certezze né rimedi e nell'incapacità di danzare sull'abisso. Ci sono alternative praticabili se non pensare all'idea del suicidio? Senza convertire questo vuoto interrogante in scrittura? Senza saper morire giorno per giorno e rimanere dunque soffocati eliminando la morte dalla vita, le note dalla partitura musicale, le parole dalla scrittura?

"Mi meraviglio che si ricerchino ancora le motivazioni del suicidio, così da stabilire una gerarchia, o allo scopo di trovargli delle giustificazioni, quando non per svalutarlo. Non so concepire idiozia più grande che volerlo classificare in base alla nobiltà o alla volgarità delle ragioni. Il fatto di togliersi la vita non è di per sé abbastanza grave da rendere meschino indagarne i motivi? Nutro il più grande disprezzo per coloro che deridono il suicidio per amore, non comprendendo che un amore irrealizzabile significa, per chi ama, l'annientamento del suo essere, una totale perdita di senso, un'impossibilità di continuare a vivere. Quando ami con tutto te stesso, un amore inappagato non può condurti che al crollo. Le passioni grandi e impossibili portano alla morte più rapidamente delle gravi deficienze organiche. Perché se in queste ultime ci si consuma in un'agonia progressiva, nelle altre ci si spegne in un attimo. La mia ammirazione va solo a due categorie di uomini: quelli che potrebbero impazzire in qualsiasi momento e quelli che in qualsiasi momento sarebbero capaci di suicidarsi. Solo costoro mi impressionano, perché soltanto in loro fervono grandi passioni e si compiono grandi trasfigurazioni".

Cioran si oppone a coloro "che hanno un sentimento positivo della vita", che vivono "nella certezza di ogni istante, incantati dal loro passato, dal loro presente e dal loro futuro". Scrive che:"Solo gli esseri costantemente e drammaticamente in contatto con le realtà ultime mi colpiscono davvero". Chi sono questi esseri? Sono soggetti sempre pronti a non cedere facilmente all'identificazione con l'altro? Si può resistere a un'identificazione? Come si trova un fondo assoluto su cui costruire un'esistenza, un pensiero che non faccia i conti con la propria morte? Si può essere padroni del proprio fondamento? Il tratto etico del pensiero del suicidio di Cioran è quello di non essere ricattati dalle vie d'uscita pronte per l'uso della salvezza. Da qualche parte si deve entrare. Lì bisogna andare. Alla morte che non muore, alla mancanza, al vuoto interiore si deve dare una sembianza, una parola, una nota, incontrare il fondamento svincolato dal fondato: il suicidio come promessa, come prova ultima, come risorsa umana per dirlo, pensarlo, scriverlo, il suicidio come possibilità, come libertà sullo sfondo, come responsabilità vincolante per il soggetto. Cioran pratica il paradosso e l'aporia come echi profondi del vuoto.

"Perché non mi suicido? Perché la morte mi disgusta tanto quanto la vita. Sono un uomo da gettare tra le fiamme. Non capisco assolutamente che cosa io ci stia a fare quaggiù. In questo preciso istante avverto il bisogno di gridare, di cacciare un urlo che atterrisca e faccia tremare l'intero universo. Sento montare in me un tuono spaventoso, e mi stupisco di non esplodere per annientare il mondo, che risucchierei per sempre nel mio nulla. Mi sento l'essere più terribile che sia mai esistito nella storia, una bestia apocalittica traboccante di fiamme e di tenebre, di slanci e di disperazione. Sono una belva dal sorriso grottesco, che si raccoglie in sé fino all'illusione e si dilata all'infinito, che muore e cresce nello stesso tempo, attratta da niente e da tutto, esaltata tra la speranza del niente e la disperazione del tutto, nutrita di fragranze e veleni, divorata dall'amore e dall'odio, annientata dalle luci e dalle ombre. Il mio simbolo è la morte della luce e la fiamma della morte. In me si estingue ogni scintilla per rinascere tuono e lampo. Le stesse tenebre non bruciano in me?" (pp. 66-68)

"Dio non ha forse punito l'uomo privandolo del sonno e dandogli la conoscenza? La pena più dura di certe carceri non consiste nell'impedire di dormire? I pazzi soffrono spesso di insonnia; così si spiegano le loro tremende depressioni, il loro disgusto della vita e la tendenza al suicidio. Quando non si può chiudere occhio è impossibile amare la vita. E questa sensazione- che nasce in certi momenti di veglia irriducibile- di sprofondare, di inabissarsi come un palombaro del nulla, non denota una forma di follia? Chi si toglie la vita, gettandosi in acqua o nel vuoto, è sicuramente spinto da un impulso cieco, irresistibilmente attratto dagli abissi". (p. 100)

"Sopravvivere alle tensioni organiche e agli stati animo al limite è segno d'idiozia, non di resistenza. A che pro, dopo simili tensioni, continuare a vivere, ritornare alla piattezza dell'esistenza? Non è solo dopo l'esperienza del nulla e della disperazione che la sopravvivenza mi appare come un nonsenso, ma anche dopo l'intensità voluttuosa dell'eros. Non capirò mai perché nessuno si tolga la vita all'acme del piacere, né senta che sopravvivere è banale e volgare. Questo brivido straordinariamente intenso - ma così fugace dovrebbe consumare il nostro essere in un batter d'occhio. E poiché non ci finisce, perché non ci finiamo noi? Ci sono tanti modi di morire, ma nessuno ha abbastanza coraggio o originalità per scegliere una morte sessuale che, senza essere meno radicale delle altre, avrebbe almeno il vantaggio di precipitarci nel nulla in pieno godimento. Perché lasciarsi sfuggire queste vie, trascurare queste occasioni? Basterebbe una scintilla di spietata lucidità nel pieno del totale abbandono perché una morte del genere non sembrasse più un'illusione o una fantasia deviata". (p. 125)

Il pensiero di Cioran è un pensare al limite, ai culmini della disperazione, alle soglie del profilarsi della morte stessa: "Se gli uomini un giorno arriveranno a non sopportare più la monotonia, la piattezza e la volgarità dell'esistenza, allora ogni esperienza estrema diventerà un motivo di suicidio. L'impossibilità di sopravvivere a un'esaltazione straordinaria annienterà, come nell'apocalisse, ogni traccia di esistenza". Qual è il rischio? Non meravigliarsi più, non interrogarsi più dopo aver ascoltato, non circumnavigare più quel vuoto dopo averlo attraversato. Non mettersi più alla prova. Vivere il fastidio di volersi ad ogni modo disfare di quella domanda. Bruciarla subito, sottrarsi allo scivolamento incessante del domandare anche quando ciò provoca sofferenza. L'idea del suicidio in Cioran attraversa potentemente la questione del dolore e del desiderio. Egli si rivolge con le parole di Giobbe nel domandare e la risposta in eccesso che si dà è quella del Qohelet. La religione privata di Cioran. Il pensiero del suicidio ne è il sintomo. La scrittura del suicidio di Cioran non cura i sintomi, non è guarigione, anche se sul piano dell'esistenza può aver avuto effetti terapeutici come egli stesso confessa, ma la sua scrittura ha permesso a questi sintomi la possibilità di trasformarsi, di seguire le loro trasformazioni, di incanalarsi diversamente dall'acting out come atto mancato, lapsus del pensiero.

Come il giovane Cioran, la fenomenologia, la psicanalisi, l'antropologia, la religione, l'etica hanno interrogato il suicidio senza eludere la tragicità della domanda. Si sono fornite molte risposte a riguardo. Alessandro Guidi in apertura al Notes Magico (annuario del centro di ascolto e orientamento psicoanalitico, n. 2, Firenze, Editrice Clinamen, 2002) pubblica uno studio su "Il caso Sylvia Plath" dal titolo Il suicidio come messaggio d'amore. Nella parte iniziale del saggio viene presentata la clinica del suicidio. L'atto suicidario presenta alcune caratteristiche fondamentali. Come atto radicale del soggetto in risposta alla pulsione di morte immanente alla vita, il suicidio soddisfa illusoriamente la stessa pulsione in modo definitivo attraverso investimenti libidici che procurano una forma di godimento; esso crea negli altri, familiari, amici, amanti, opinione pubblica effetti privati e sociali di angoscia; consiste nell'appello e nella domanda che il soggetto rivolge all'Altro e la risposta in quanto tale non torna mai indietro, risulta inutile, non viene accolta. In genere questa domanda è una domanda d'amore che cade nel vuoto della risposta, viene incompresa o negata e si risolve nel suicidio come soddisfazione definitiva nella morte che regge la domanda stessa. "Per il suicida la morte diventa l'Altro da cui essere amati e il godimento della vita una rinuncia definitiva ed un ritiro da qualunque investimento libidico. Per arrivare all'atto suicidario il soggetto costruisce una lunga preparazione fatta di crisi ripetute e di appelli di aiuto all'Altro che ogni volta cadono nel vuoto e sottraggono così progressivamente il quantitativo economico-libidico a disposizione del soggetto inconscio per godere della vita".

Cioran come mai non si è suicidato? Cosa è mancato all'apologeta del suicidio nel suo mettere in atto l'ipotesi suicidaria, quale divieto ha impedito al soggetto il passaggio all'acting out? Mancanza di coraggio, depressione recitata? Si è scritto molto su questo argomento e si sono tentate varie interpretazioni. Un fatto rimane. Cioran non si è mai stancato di pensare per tutta la vita al suicidio e di testimoniare per iscritto tale evento, fin quando ha potuto. Fin quando gli è stato possibile. La domanda è rimasta aperta per tutti i suoi anni ed è stata consegnata alla scrittura. Tale interrogativo riguarda dunque anche il segreto. La scrittura di un segreto? La scrittura forse conserva un messaggio d'amore e questo messaggio d'amore è un segreto. A chi è rivolto questo segreto? Il messaggio d'amore è arrivato al destinatario? Non lo sappiamo.

Ma torniamo al primo libro di Cioran. Vediamo come è stato accolto il volume in Romania attraverso le testimonianze dell'epoca. Al culmine della disperazione, pubblicato nel 1934 è stato premiato dalla critica insieme alla raccolta di saggi No di Eugen Ionescu e al Mathesis e le gioie semplici di Noica. Un ruolo decisivo per la pubblicazione del libro l'ha avuto Petru Comarnescu il quale aveva promosso nel 1932 l'associazione di arte, lettere e filosofia "Criterion". Questo movimento culturale con tutte le sue contraddizioni durò ancora due anni, fino al 1934, ed ebbe un ruolo determinante per la cultura dell'epoca. L'esperienza si chiuse a causa della "diaspora della giovane generazione". Molti di questi giovani intellettuali passarono a posizioni politiche di "sinistra" come Eugen Ionescu, Mihail Sebastian, lo stesso Comarnescu e altri come Eliade, Noica, Dan Botta e Cioran passarono a posizioni di "destra". La collaborazione d'un tempo non fu più possibile, afferma Comarnescu. Come mai questa virata? Questione di padri, si può azzardare, almeno per Cioran. Un nome fatale: Nae Ionescu.

Questo professore dell'Università di Bucarest ha lasciato una pesante eredità. Ha contato molto. Come Cioran ricorderà più tardi nei Cahiers: un "fallito" che si realizzava nella "vita" senza elevarsi o abbassarsi a un'"opera" (p. 832). Nel 1937 Cioran dedica un "esercizio di ammirazione", un ritratto di questa figura in un articolo dal titolo Nae Ionescu e il dramma della lucidità, sulla rivista "Vremea":

"Ho iniziato a decifrare il turbamento che ispira la presenza del professor Nae Ionescu, quando mi sono reso conto che esistono in determinati uomini irradiazioni personali di cui vorresti cadere vittima, non essere più tu, morire nella vita dell'altro. Quell'infinito personale di incanto che ti fa abbandonare l'orgoglio dell'individuazione e cercare di divenire il tutto nell'altro. Qualcosa di simile ha avvertito Nietzsche alla presenza di Wagner, attaccandolo più tardi non per gelosia, ma per istinto di conservazione. Riguardo a ciò che ognuno di noi deve divenire, gli uomini più pericolosi sono proprio quelli che amiamo di più.
Quante volte, in vibranti accenti di affetto, Nae Ionescu mi è sembrato l'unico uomo per cui sia degno poter rinunciare! Ovvero la tentazione di vivere la sua vita. E sarei insincero se non dicessi che tantissimi sono i giovani che vivono in lui. La gente che lo conosce solo superficialmente parla di "demonismo", come se Nae Ionescu si sforzasse di guadagnare la nostra ammirazione solo per annullarci. Come gli sarebbe stato facile! Doveva solo dare "il via libero" ai suoi dubbi e ai suoi tormenti. E quante volte, tuttavia, ci ha permesso di commettere l'errore solo per il fatto di avere un debole per la vita e forse anche per il fatto che non ci sia mai stato finora un professore che abbia insegnato solo i dubbi.
Il fascino dell'esistenza di Nae Ionescu ha, tuttavia, un suo fondamento più profondo e più paradossale. Accanto a questa tendenza di perderti in lui, di scivolare su tutti i suoi conflitti, non ho mai conosciuto un altro uomo che ti costringa a essere soprattutto te stesso. Una strana alternanza di tendenze, che spiega il perché senza di lui non si possa più vivere. Quanti di noi avrebbero avuto il coraggio di tante negazioni, di tante solitudini, se non ci avesse preceduto prima nelle cattive conoscenze e non fosse già invecchiato in esse! A Berlino, quando mi era venuto lo schifo della storia e della conoscenza, pensai una volta di scrivere una tesi di dottorato che avesse come argomento le lacrime. Ne parlai con tantissimi amici e ci siamo messi d'accordo che l'unico professore dell'universo che avrebbe accettato questa tesi sarebbe stato Nae Ionescu. Per paradosso, vi chiederete? No, per tragedia e per lucidità.
Alcune volte ho sentito dire anche questo: d'accordo, ma lui non crede a niente. Che ingenuità! Egli sa che il fatto di credere non è tutto. È per questo che gli uomini parlano di nichilismo. L'obiezione che io gli farei invece riguarda il fatto che lui ha trovato qualcosa in questo mondo per cui credere. Come a dire che egli non abbia tratto le ultime conclusioni? Anch'io cosa non darei per poter credere che egli non crede a niente![...].
Fino a che punto, mi chiedo, egli è condannato alla lucidità? Nessuno ha insistito più di lui sul dramma del sapere. È il solo professore dal quale ho imparato quale grande perdita sia per noi la conoscenza. La rottura dell'equilibrio originario attraverso lo spirito e la disintegrazione dell'essere attraverso la coscienza sono i frutti di una tentazione demiurgica.
Ma la demiurgia umana è una parola che conduce verso la catastrofe. Fintanto che rimaniamo nei quadri della condizione umana, la salvezza non esiste. Ogni uomo, dal momento che sa di esistere, non può più salvarsi, se non negando il proprio principio di individuazione. È in questo modo che Nae Ionescu trova nell'individuazione la fonte del male, della caduta, del naufragio dell'esistenza. Il fatto che attraverso l'amore superiamo i conflitti legati alla nostra soggettività in quanto tale oppure che mediante l'azione usciamo da noi stessi entrando nella sfera dell'oggettività - cosa contano queste soluzioni di fronte al tragico dell'umano, al tormento della coscienza, al male essenziale di sapere che si vive anche attraverso questo non poter vivere più!
Nae Ionescu si è reso conto che per poter vivere è necessario ingannare la propria lucidità con diverse "formule di equilibrio": Dio, nazione ecc.... E così, uno dei più lucidi che sia stato dalle nostre parti è riuscito a integrarsi nella storia, a "aderirvi", adombrando volontariamente la propria lucidità. La partecipazione alla lotta con la decisione, non attraverso l'istinto, spiega il perché negli ultimi dieci anni egli sia stato al centro della nostra vita politica, senza essere tuttavia ciò che si dice un uomo politico. Egli, infatti, è stato molto più di questo.
La storia è fatta di questi capo-plotoni ispirati. Ecco perché Nae Ionescu non si potrà mai realizzare direttamente nella storia. Il gregge possiede l'istinto e avverte che alcune sono le vie della vita mentre altre appartengono allo spirito; e inoltre sa che, per ogni uomo lucido, il mondo esiste per concessione".

Cioran scrive: "Una cosa è credere, altra è avere la volontà di credere. Nel primo caso, si vive felici in Dio, nel secondo si pensa a lui. La coscienza ha trasformato l'assoluto in una funzione della disperazione". Dal "conflitto insolubile" del bisogno di credere nasce "una delusione metafisica, la cui conseguenza immediata è la passione per l'immanenza. Solo così posso spiegarmi il desiderio di potenza di Nae Ionescu e l'estraneo equivoco della sua passione politica. Per lui l'orientamento verso il concreto, verso la realtà storica, l'ossessione della Romania non sono il frutto dell'istinto". Ciò che offre Nae Ionescu al giovane Cioran non è un dio perfetto, ma un dio che lascia resti, che si degrada nel mondo che scava nell'immanenza. È un dio che è segnato dal tempo, quello dell'ombra: "la gioia della caduta, la partecipazione vogliosa per il peccato dell'essere, per l'immediato e il divenire? Lo scacco dell'esperienza dell'assoluto è la fonte della passione per dell'immanenza. Quando Dio non ti ha preso in braccio, ti consoli con la sfrenatezza della temporalità. Il silenzio divino porta gli uomini" a sfinirsi nella politica. Le lezioni di Nae Ionescu hanno avuto l'effetto di "risposte trascendenti al tormento e alle domande che tardano". Vengono dall'alto di una cattedra, sprofondano nella battaglia intellettuale e politica, hanno il carattere tentatore e l'insidia dell'eresia. L'ombra della certezza incerta di Nae cade sull'io del giovane Cioran. I contrari si mescolano ma diventano un assoluto. Il maestro "è un uomo intelligente, ma distruttivo". Offre al discepolo una redenzione impossibile. Qualcosa si incrina. Qual è l'esito? Il "turbinoso incanto, l'irresistibile estraneità". "L'autodistruzione voglio dire". La passione per l'immanenza sospende la trascendenza nella formazione spirituale del giovane Cioran e questo è un gesto e un evento pericoloso. Dio si pone fuori dall'interrogare, non c'è né può esserci spazio per la domanda. Il bisogno di credere viene alla luce e si trasforma in ossessione, in "disprezzo continuo del temporale". Il bisogno di credere come bisogno di redenzione, di assoluto. Cioran se ne avvede, avverte la "lucidità" del maestro come una follia. Scrive: "Redenzione? Ma la lucidità è un crimine contro il Paradiso e nel grande giudizio non esiste sentenza più grave ... Tutte le lucidità sono criminali". Forse è troppo tardi. Siamo nel 1937. Alcune pagine sono state già scritte. "E io ero solo un modesto studente, che si presentava con il maestro per ricevere insieme la sicura condanna...".

"Se Nae Ionescu era di un temperamento nervoso ed esplosivo, il dramma che vive sarebbe troppo evidente e troppo accessibile. La calma apparente gli dona, tuttavia, la gravità e il senso dell'irreparabile. Quando parla della condizione umana come naufragio, catastrofe, peccato, le parole hanno un patetico ritegno e sembra che un pianto di campane si sia smarrito in un trattato di logica...
Il gesto ispirato di Mircea Eliade, di mettere insieme in un volume una parte degli articoli del professore, che definiscono non un istante, ma un'epoca, è avvenuto in un momento cruciale della Romania. In questi anni si deciderà tutto. Quando quasi tutti gli intellettuali si sono defilati, Nae Ionescu è stato invece presente, al centro della Romania. Che la Romania non sia che un mezzo per essere te stesso, per rinunciare a te oppure che essa sia al contrario una preda del "serpente della demiurgia", questo è un altro conto. Non credo che Nae Ionescu sia così poco pessimista da considerare gli altri uomini nient'altro che pretesti e, con essi, tutta la storia. Da lui ho appreso che l'esistenza è una caduta e non c'è nessuno che mi potrebbe fermare nel trarre la conclusione che lo scopo della vita sia il tormento, l'autotortura, la voluttà satanica. Ed è anche vero, tuttavia, che non tutti sono stati menati verso una autodistruzione bella e appassionante". (Tratto da Vremea, anno X, n. 490, 6 giugno 1937, p. 4.)

La lucidità, la lucidità di un folle, questa è l'eredità di Nae Ionescu. La lucidità che deborda ogni sapere nella messa in scena di un delirio frenetico. Lucidità cannibalica. Crono mangia i propri figli. Ecco ciò che ha saputo donare a una generazione di giovani talenti. Cosa se ne farà il giovane Cioran di questa lucidità, di questo lascito paterno?

La lucidità è l'essenza della follia, è la vera vertigine, per Cioran, e si gioca nei termini scavati dal soggetto. Lucidità: la parola dopo l'estasi, la fine del delirio. La lucidità del tempo e nel tempo. Essa si esprime attraverso la noia, nella caduta: i globuli rossi, quelli vitali scompaiono, prende corpo l'anemia mortale della scrittura, che si inscrive nella bianca spazialità del frammento. Tempo e anemia scandiscono il corso di una vita sradicata, riguardano il soggetto stesso nel suo statuto antropologico, la mutazione ben più radicale di quella del registro linguistico, l'esperienza del fuori, del farsi scrittura. Lucidità designa il luogo di un intervallo tra due accessi, tra quello del delirio o della follia e quello della fine del delirio, lo sfebbramento dalla follia. La lucidità scava questo intervallo che è precario, perché la follia (linguistica) ritorna sempre, e Cioran sa che egli non potrà starvi, per troppo tempo, sa che non potrà arroccarsi su questa posizione perché, per lui, ciò è insostenibile. Lucidità, infatti, non è la coscienza: la relazione determinata dall'io con un oggetto. Cioran scrive: "La coscienza non è la lucidità. La lucidità, monopolio dell'uomo, rappresenta la soluzione del processo di rottura fra lo spirito e il mondo; è necessariamente coscienza della coscienza e, se ci distinguiamo dagli animali, il merito o la colpa è suo" (La Chute dans le temps). La condizione essenziale della lucidità è la lacerazione. Segna il luogo della discontinuità tra il discorso del mondo e il discorso del discorso. La lucidità pone in risalto la spaccatura che c'è tra la parola e il suo oggetto. Non è creare la convenzione del linguaggio ma ricordare appunto, in momenti privilegiati (estasi, mistica, poesia), che si tratta di convenzione illusoria, di abitare un incanto, un sortilegio, cioè l'inettitudine al piacere che non sia sancito dal desiderio vincolato ai meccanismi del linguaggio, ovvero l'impossibilità di un desiderio muto. Forse sta qui il tragico di Cioran su coordinate balcaniche naeioneschiane. Lucidità rivela il funzionamento della finzione linguistica garante dell'ordine del mondo. Il delirio svanisce e il soggetto lucido rimane come separato dal mondo e dagli uomini solo per alcuni momenti. Egli tornerà a produrre i medesimi meccanismi della vita ma non ne avrà più i mezzi. Sarà condannato all'estraneità, all'incarnazione del vuoto, fuori dal gioco e fuori dal tempo, sospeso in un sapere senza certezze. Disinganno e risveglio, esperienza e rivelazione? Mistica balcanico-orientale? forse, ma senza il mito della redenzione. Non solo: il soggetto lucido è minacciato dall'angoscia del vuoto, darebbe la vita per un'illusione convincente. "La lucidità è l'equivalente negativo dell'estasi", scrive Cioran, ovvero la stessa pienezza che si incide come una ferita sul nulla. Spogliata dell'illusione, la lucidità mette a nudo le radici delle teorie. Lo sguardo penetra e denuda l'opacità del suo oggetto, volatilizza le argomentazioni che lo proteggono. Visione chiaroveggente, percezione dell'irrealtà. Non c'è passione per il rimedio. Crollo psicoterapeutico del mito della guarigione. Cioran fa diagnosi ma è una diagnosi che esclude l'idea della cura: "L'essere vivente coglie esistenza dappertutto; a partire dal momento in cui si sveglia, a partire dal momento in cui non è più natura, incomincia a scoprire il falso nell'apparente, l'apparente nel reale e finisce per sospettare dell'idea stessa di realtà" (La Chute dans le temps). Il sospetto e il dubbio precedono la diagnosi che segnala la deficienza del manto verbale che copre il sovrano del mondo. Si grida che il re è nudo, ma poi si finisce per dubitare della sua stessa regalità, della sua realtà. "Si vive solo per mancanza di sapere. Da quando si sa, non si concorda più con nulla" (La Chute dans le temps).

Nae Ionescu, ad un certo momento della vita di Cioran, ha saputo accogliere, come un padre, il messaggio d'amore di un figlio ma ha restituito la risposta nefasta della frenesia e dell'estremismo ideologico, lo spirito politico della crociata. Un cattivo padre che ha divorato i propri figli, ma anche un padre che ha saputo ascoltare in tempo la domanda. Ha condiviso dentro di sé il segreto, anche se di questo segreto non ne sapeva nulla. Era l'unico in quel particolare frangente, scrive Cioran, che avrebbe potuto accettare una tesi che avesse avuto come argomento "le lacrime".

Ritorniamo al primo libro di Cioran. Grazie all'americanista Comarnescu, Ai culmini della disperazione era stato pubblicato, premiato e anche letto e criticato. Le recensioni dell'epoca considerarono il volume di Cioran un'apologia del nulla e della sofferenza, un inno dionisiaco dedicato all'irrazionale e alla desolazione cosmica, l'espressione di una frenesia per l'amore della vita, una vertigine apocalittica di negazione totale (Septimiu Bucur).

Il libro testimonia che la vita è un'illusione e una vanità e che l'immanenza della morte nella vita determina il senso per l'agonia dell'esistenza, una morale del piacere camuffato, pomposamente rimosso e coperto da insoddisfazioni istintive ed economiche (Serban Cioculescu).

È la confessione di un romantico, la cui direzione lirica offre lo spettacolo di un irrazionalismo programmatico, voluttuoso e puerile; il libro di un irrazionalista mistico, la cui struttura vitalista, di un pessimismo assoluto, appartiene a un soggetto che apprende solo in prossimità della morte e dell'eternità senza alcuna presa in carico della storia, degli ideali morali, sociali e etnici (Al. Dima).

La filosofia del giovane Cioran, soggettivista e lirica, conduce alla verità dell'uomo malato di nervi, tormentato dalla presenza immediata e dolorosa della carne, esasperato dall'insonnia e ossessionato dalla maschera della follia e dallo spettro della morte; la disperazione ha un valore aporetico la cui radice è biologica: da qui l'irrazionalismo, l'anarchia assiologica, il nichilismo, il fatalismo, il pessimismo, gli attacchi all'equilibrio e alla salute; di qui, anche, il sentimento tragico della solitudine, la rivolta inutile, l'urlo, il parossismo disperante. La via d'uscita non promette guarigioni né salvezze: o l'amore per la donna e la scrittura o il suicidio (Traian Herseni).

Di negazione in negazione, Cioran arriva alla conclusione che non si può più vivere a ventiquattro anni; egli avverte la fine, l'agonia, la follia, la morte che copre, avvolge e seppellisce. La melanconia, l'eccitazione maniacale, l'estasi, la depressione sono momenti di passaggio, di evoluzione in una sequenza ciclotimica di sensazioni perverse e bizzarre. La lotta è impossibile perché le contraddizioni sono insanabili. L'unica strada percorribile: il crollo nel proprio abisso interiore e la confusione con un caos indefinito. Tuttavia, neppure il lirismo di Cioran ha un valore morale, perché l'autore vuole il ritorno alla barbarie quando non vi erano né religioni, né morali né gerarchie spirituali né norme culturali. Si tratta di una filosofia isterica ed esaltata, cospirativa e fanatica, un Eldorado della follia. La stanchezza intellettuale, desolata, scettica, disperante si traduce in una totale sfiducia nel mondo. Si ha a che fare con un caso patologico e sintomatico di isteria intellettuale, psicosi mestruale, contorsione individualista, autoflagellante, declamatoria, esisbizionista, macabra e anarchica, una nuova forma di follia che inizia ai culmini della disperazione e finisce con una borsa di studio e magari con un buon matrimonio. Tutti credono che nell'orizzonte della filosofia romena sia sorto un nuovo Zarathustra (Nicolae Rosu).

N. Steinhardt in un testo dal titolo Negli abissi del caos infinito, invece di recensire esibisce, parodiando lo stile di Cioran, il "parossismo" di un'"erotica diabolica". Mihail Sebastian nel suo articolo si chiede: "È grave? Non so se sia grave. Non so se sia grave prima di tutto perché non so in che misura Cioran delira sinceramente. È un malato, un ipocondriaco, o un impostore? Il suo delirio è un delirio di natura biologica o solo un delirio letterario? Nel primo caso, il suo libro può essere almeno un documento di psicologia. Nel secondo caso, diventa soprattutto un esercizio di stile. Confesso di non poter dare una risposta categorica a questa domanda. Il caso Cioran è forse più complesso. Forse comprende anche elementi di inquietudine reale, di inquietudine organica, ma questi si complicano e si aggravano con una deformazione volontaria di atteggiamento. Chi può dire dove sia il limite tra l'essere malati e il voler essere malati? [...] Ho il sincero desiderio di comprendere il dramma di quest'uomo (se dramma si può chiamare!)". Impostura psicologica o metafisica? "È difficile credere nei suoi drammi. Abbiamo sempre il sentimento di trovarci coinvolti in una terribile farsa". Noica, l'amico anch'egli premiato lo stesso anno, scrive: "Neanch'io capisco bene il libro di Emil Cioran. Non capisco bene perché egli odi tutto, tutto ciò che è forma, tutto ciò che è composizione, tutto ciò che è. Non mi capacito come ci possa essere in uno spirito tanto gusto per l'inquietudine, tanto gusto per il disordine. [...] Ma non ho mai pensato neppure per un momento di porre in dubbio la sincerità del suo pensiero".

Nel 1934 Cioran, a ventiquattro anni, è già un "caso" nazionale. Il suo libro aveva destato scalpore e scaldato gli animi di tutti, amici e nemici. Egli aveva trascorso gli anni universitari a Bucarest, lontano da casa, frequentando assiduamente la biblioteca. "Forse, non ha lavorato sistematicamente -scrive Noica- compilando tutte le schede dei libri, ma ha letto enormemente e calorosamente". Comarnescu ricorda: "conosco tutti i suoi drammi interiori, perché ha sempre parlato sinceramente, senza reticenze, anche quando sbagliava. Figlio di un prete di Sibiu, venuto con una borsa di studio a Bucarest, Emil Cioran abitava alla casa dello studente Stanescu [...]. Qui non c'era tanto riscaldamento d'inverno e il cibo era molto relativo. Cioran passava tutto il tempo nella biblioteca della Fondazione, ora Biblioteca Universitaria di fronte al palazzo della Repubblica. A lui non interessavano le avventure amorose, i ricevimenti, i flirt. Mi diceva che, così com'era, al massimo poteva conquistare qualche cameriera da portare alla galleria, al Teatro Nazionale. Si è concentrato su letture sostanziali e su meditazioni filosofiche. Conoscendo il tedesco e il francese, ha letto molti libri di filosofia e di saggistica".

Ma da dove può nascere quest'inquietudine? Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai. Proviamo a chiederlo a un libro che Cioran leggeva segretamente nella biblioteca del padre.

" "Quand vous recevrez cette lettre, mon cher ami, j'aurai achevé de tuer mon père. Le pauvre homme agonise et mourra, dit-on, avant le jour.

Il est deux heures du matin. Je suis seul dans une chambre voisine, la vieille femme qui le garde m'ayant fait entendre qu'il valait mieux que les yeux du moribond ne me rencontrassent pas et qu'on m'avertirait quand il en serait temps.

Je ne sens actuellement aucune douleur ni aucune impression morale nettement distincte d'une confuse mélancolie, d'une indécise peur de ce qui va venir. J'ai déjà vu mourir et je sais que, demain, ce sera terrible. Mais, en ce moment, rien; les vagues de mon coeur sont immobiles. J'ai l'anésthésie d'un assommé. Impossible de prier, impossible de pleurer, impossible de lire. Je vous écris donc, puisqu'une âme livrée à son propre néant n'a d'autre ressource que l'imbécile gymnastique littéraire de le formuler.

Je suis parricide, pourtant, telle est l'unique vision de mon esprit! J'entends d'ici l'intolérable hoquet de cette agonie qui est véritablement mon oeuvre, - oeuvre de damné qui s'est imposée à moi avec le despotisme du destin!"

Léon Bloy, Le déséspéré, l'inizio di un libro, il terribile segreto inaccessibile nell'inferno del silenzio, la vergogna di un padre, la vergogna per il padre. La vocazione di un artista che non è quella per la fede. Terribile confusione, disperazione senza limiti. Sempre Bloy: "Déjà, dans toutes les conditions imaginables, un père et un fils sont comme deux âmes muettes qui se regardent de l'un à l'autre bord del l'abîme du flanc maternel, sans pouvoir presque jamais ni se parler ni s'étreindre, à cause, sans doute, de la pénitentielle immondicité de toute procréation humaine!". Quali parole per dirlo: "Seulement, il se mourrait de déséspoir et voilà mon parricide!". A chi rivolgere questo segreto inconfessato se non alla scrittura?

Bloy nei Cahiers è ricordato come lettura fatta da Cioran a Sibiu nel 1936. La sua rievocazione sta accanto a un frammento riferito alla morte dei genitori: "Mia madre è morta quasi disperata; mio padre in una disperazione completa. (Bisogna essere giusti: il loro destino, paragonato a quello di chi è morto nei campi di concentramento, sembra ed è invidiabile: sono morti tutti e due carichi di anni - e di malattie)" (p. 475).

Accanto a un'altra menzione di Bloy, Cioran annota anche: "La morte di mia madre ha smosso tutto il mio passato: si è ravvivato all'improvviso. Come i morti, ho anch'io la vita alle spalle.// Noi sentiamo la morte di un essere caro come un insulto personale, come un'umiliazione aggravata dal fatto che non si sa con chi prendersela: con la Natura, con Dio o con il defunto stesso. Sì, proprio così, ce l'abbiamo con lui, e non gli perdoniamo facilmente di aver fatto quella scelta. Avrebbe potuto aspettare un altro po', consultarci... dipendeva solo da lui essere ancora in vita. Perché questa precipitazione, questa sollecitudine, questa impazienza? Sarebbe ancora vivo se non si fosse così affrettato verso la morte, se non l'avesse accettata con tanta leggerezza" (p. 476)

Il padre di Cioran: "Ho motivo di credere che mio padre sia morto disperato. Uno o due anni prima di spegnersi, a un attore incontrato sulla scalinata della cattedrale di Sibiu ha raccontato che si chiedeva se, dopo tante ingiuste vicissitudini, Dio significasse ancora qualcosa per lui. A settant'anni passati, dopo cinquanta di carriera ecclesiastica, mettere seriamente in dubbio il dio che aveva servito! Per lui quello fu forse il vero risveglio dopo tanti anni di sonno".

La madre di Cioran: "La morte di mia madre è come la mia morte, poiché lei mi ha trasmesso tutte le sue infermità. So come regolarmi circa il mio futuro. Vi è nella mia famiglia una propensione allo scoraggiamento; di tutti noi, nostra madre era la più forte, la più intrepida. Con che tenacia, dunque, ha resistito alla morte!" (p. 472). "Tutto quello che ho di buono e di cattivo, tutto quello che sono, l'ho preso da mia madre. Ho ereditato i suoi malanni, la sua malinconia, le sue contraddizioni, tutto. Fisicamente sono identico a lei. Ma in me ogni suo carattere si è aggravato ed esasperato. Sono il suo successo e la sua sconfitta" (p. 471).

Cioran avverte nei Cahiers che sapere che il padre di Baudelaire era un prete non significa nulla, non spiega nulla. È vero. Non chiarisce assolutamente niente, se con questo si intende capire l'arte, il mistero della creazione. Ma interrogarsi sul Padre consente di ascoltare l'articolazione della domanda, il darsi di un domandare, l'ontologia di un segreto che si ascolta nell'accenno e nella fuga come nelle sonate di Bach che tanto Cioran amava ascoltare. Egli dice che dopo la psicanalisi non si può più pretendere di essere innocenti, non si possono più formulare interpretazioni, ma non si può neppure impedire di tracciare l'ascolto di un domandare soprattutto quando ci si affida al dispositivo differenziale di una scrittura. Il tema della colpa, della confessione, dell'abbandono, del prendere corpo del pensiero nell'atto dello scrivere, la sofferenza, il lutto, l'angoscia, la morte: Cioran è tutto questo. Che spazio dare alle parole e quale orecchio per accoglierle?

"L'attacco di noia che ebbi a cinque anni (1916), un pomeriggio che non dimenticherò mai, fu il primo vero risveglio della coscienza. È a quel pomeriggio che risale la mia nascita in quanto essere cosciente. Che cos'ero prima? Un essere e basta. Il mio io inizia con questa ferita che è anche una rivelazione, in cui è ben visibile la duplice natura della noia. D'un tratto ho sentito la presenza del nulla nel mio sangue, nelle mie ossa, nel mio respiro, e in tutto ciò che mi circondava, ero vuoto come gli oggetti. Non c'erano più né cielo né terra, bensì un'immensa distesa di tempo, di tempo mummificato.

Senza la noia non avrei avuto identità. È stato grazie a lei e per causa sua che ho potuto conoscermi. Se non l'avessi mai provata, non mi conoscerei affatto, non saprei chi sono. La noia è l'incontro con se stessi - attraverso la percezione della propria nullità.

Sono nato quel pomeriggio d'estate in cui avevo cinque anni e mi fu dato di assistere allo svuotamento dell'universo che avveniva sotto i miei occhi.

La noia è morbosa e si ripete spesso, se diventa cronica. La noia può essere una crisi o un'avventura organica, una fantasia, un episodio metafisico; come tale non ha nessuna influenza; ma se si organizza, se diventa cronica, soggioga tutto l'essere" (pp.848-849)

Si assiste alla nascita di una vocazione. Si è chiamati al pensiero, si sente la propria legge e si va via con il proprio segreto. Cioran vuole procurarsi il libro di Otto Rank, Trauma della nascita. Chiede alla psicanalisi una spiegazione che essa non può dare sui libri. Gli fa dire: "Blake: "È meglio soffocare un bambino nella culla piuttosto che serbare in cuore un desiderio non soddisfatto". Qui c'è già tutta la psicoanalisi" (p. 848). Ma cos'ha Cioran se non dei libri? La biblioteca del padre e della madre. Scritture. Scritture da decifrare, interrogare, storie da mettere insieme. "Una vocazione non si inventa, non si fabbrica. Bisogna avere coraggio [...]" (p. 849) anche nello stare da soli. Non c'è più nessuno per ascoltare. Neanche un padre: Emilian Cioran, durante la prima guerra mondiale, separato dalla famiglia, viene deportato dagli Ungheresi a Sopron sulla frontiera austriaca a causa delle sue opinioni nazionaliste. La storia entra nell'esistenza del piccolo Emil. Anch'egli è soggetto alla storia, alla storia di un padre che non può essere lì. Forse non sta a lui accogliere la domanda. Il padre se non si disperde, divora.

Quale strada apre alla vocazione, se non la via che va anche dentro la Storia? Il mistero di un incontro tra la vita e la parola, in cui l'altro è venuto incontro, ha fatto irruzione. Come sopravvivere a questo? Non c'è via d'uscita. Si deve entrare dalla porta stretta del padre. "Ciò che il padre ha demolito il figlio lo ricostruisce; ai dubbi dell'uno si sostituiscono le certezze dell'altro. Il rampollo, non potendo andare più in là del genitore, ha cambiato direzione, anzi ha rifatto lo stesso cammino in senso inverso, ha letto il padre a ritroso. Tutto ciò che questi ha combattuto viene celebrato, magnificato dall'altro. Va aggiunto però che nel padre la negazione era a base di angoscia, di lucidità eccessiva, quasi tremante. Esisteva una possibilità di preghiera. Ma per un'altra generazione" (p. 1014). Cioran commenta così i pensieri di François Rostand. Chi è il padre? Chi è il figlio?

"Indubbiamente sono il prodotto dei miei genitori; ma la colpa di ciò che io sono non è loro". (p. 1016)

 

 

http://www.ilcounseling.it