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da Il Manifesto Cade oggi
il centenario della nascita del filosofo francese. Tra le ragioni della sua
marginalità, l'egemonia filosofica di Heidegger e l'affermazione dello strutturalismo.
Sartre ha sempre difeso il carattere resistente a ogni determinismo della
soggettività. Sta forse in questo anacronismo l'attualità del suo insegnamento
e dell'etica implicata: non rinunciare mai alla dimensione singolare della
responsabilità
MASSIMO RECALCATI
Salvare Sartre? Mi pongo questa domanda nel centenario della sua nascita
non come una domanda rituale, di maniera, di circostanza. Mi pongo questa
domanda non solo teoreticamente ma anche, se si vuole, pateticamente. Cosa
resterà in me, cosa è davvero indimenticabile per me, di Sartre? Per alcune
generazioni, la mia è quella del movimento del `77, Sartre è stato un maestro
e un padre. È stato un cattivo maestro o un cattivo padre, come decretava
inesorabilmente L'osservatore romano all'indomani della sua morte? Un padre
che non ha avuto padre, che ci ha insegnato che la libertà è innanzitutto
una condanna, ovvero una condizione di sradicamento e di assenza di garanzia
dalla quale non ci si può sottrarre. Un padre che ha minato al fondamento
ogni rappresentazione ideale del fondamento, ivi compreso quella edipica,
dunque quella del Padre.
Al di là dell'Edipo
Sartre ha aperto in effetti a suo modo il campo vorticoso dell'al di là
dell'Edipo; ha abitato l'al di là del sogno freudiano del Padre «tutto amore»,
come direbbe Lacan. Ci ha riportati così alla nostra responsabilità, al nostro
essere pascalianamente imbarcati nell'esistenza, «soli e senza scuse», scriveva.
Fu per questa ragione un critico severo di ogni forma di determinismo, compreso
quello della psicoanalisi. Rimproverò (e non sarebbe il caso oggi, dopo Lacan,
di aggiungere anche «giustamente»?) a Freud di non intendere la temporalità
dell'esistenza e di ridurre l'avvenire a una determinazione univoca e senza
scampo del passato. Sfuggiva a Freud, ha fatto notare in più occasioni Sartre,
che il senso del mio passato dipende in realtà dalla mia apertura verso il
futuro, ovvero da come la mia esistenza lo significherà retroattivamente.
Per questo poteva sostenere il paradosso secondo il quale ciascuno di noi,
in fondo, sceglie di essere nato.
Nell'Essere e il nulla era alla psichiatria fenomenologica di Binswanger
che egli riconosceva la possibilità di fare esistere un'altra psicoanalisi
(definita «psicoanalisi esistenziale»), finalmente emancipata dal rigido
determinismo delle scienze della natura. Non sarà però Binswanger a proseguire
su questa strada, ma nemmeno Cooper e Laing che pure appoggiarono la loro
critica alla psichiatria tradizionale sulle tesi sartriane. Sarà piuttosto
Lacan, al quale Sartre non a caso riconoscerà una concezione dell'inconscio
«molto più interessante» di quella freudiana, a riprendere questa idea che
l'inconscio non è un dio oscuro che governa il soggetto, che esso non è già
tutto scritto nell'infanzia, ma che è piuttosto possibilità dell'inedito,
dell'incontro, dell'invenzione, dell'apertura creativa verso l'avvenire.
Un destino di marginalità
In un contrasto spietato con la straordinaria partecipazione di pubblico
alle iniziative dedicate al centenario della sua nascita, non si può non
constatare la marginalità estrema di Sartre e della sua opera nella cultura
contemporanea (strano sintomo: l'assenza di Sartre nel dibattito filosofico
contemporaneo non compromette l'amore, soprattutto dei giovani, per Sartre).
Non sarebbe del tutto fuori luogo rievocare la cruda battuta di Marx nei
confronti del triste destino a cui i cosiddetti hegeliani (di destra e di
sinistra) avevano, dopo i fasti dorati del suo magistero, abbandonato cinicamente
il loro maestro ridotto, appunto, a un «cane morto». Non è forse Sartre,
al di là delle celebrazioni rituali di cui è protagonista in questa breve
stagione, un «cane morto» della cultura contemporanea? Cosa dunque ha spinto
Sartre, celebrato sino agli anni `50 come una delle figure dominanti nella
cultura occidentale, come un vero e proprio maître à penser, verso un destino
di marginalità?
Tra le diverse ragioni in gioco, non ultime quelle di tipo politico sulle
quali però non intendo soffermarmi, isolerei l'egemonia filosofica di Heidegger
e l'affermazione dello strutturalismo. Innanzitutto l'egemonia heideggeriana.
Sebbene l'esistenzialismo filosofico di Sartre si sia sviluppato proprio
a partire dalla radicalizzazione ontologica che l'analitica esistenziale
di Essere e tempo di Heidegger ha operato sulla nozione husserliana dell'intenzionalità
della coscienza (radicalizzazione che contribuisce in modo risolutivo a demolire
ogni rappresentazione solipsistica del soggetto mostrando come la realtà
umana sia fondamentalmente inclusa nel mondo), non si deve però dimenticare
la polemica che Heidegger stesso innescò contro Sartre nella sua Lettera
sull'umanismo quando, ribaltando criticamente la celebre proposizione dell'umanismo
sartiano, «noi siamo su un piano dove esistono solamente gli uomini», giunse
ad affermare che «noi siamo sul piano dove c'è principalmente l'essere».
Si trattava per Heidegger di tracciare una linea di demarcazione tra il proprio
pensiero e quello esistenzialista che in realtà si era costituito proprio
ispirandosi - indebitamente - alla sua opera. Ora, questo spostamento del
centro di gravità dall'uomo all'Essere, questa prospettiva ultraumanistica
che caratterizzerà la cosiddetta «svolta» di Heidegger, diventerà altresì
l'indice di una tendenza generale del pensiero contemporaneo a liquidare
la nozione stessa di soggetto ritenuta una scoria maligna della tradizione
umanistico-metafisica dell'occidente, di cui Sartre appariva fatalmente come
un epigono. In questa disputa con Heidegger l'esistenzialismo filosofico
di Sartre uscirà sconfitto. Il pensatore della differenza ontologica e della
verità dell'Essere condizionerà lo sviluppo della filosofia del secondo `900
in modo decisivo, mentre l'umanismo sartriano scivolerà lentamente in una
zona di oblio. È questa una constatazione amara per chi ha amato e ama Sartre,
ma difficile da contestare. La stessa lettura sartriana di Essere e tempo
che ha ispirato l'ontologia fenomenologica dell'Essere e il nulla apparirà
sempre più come una lettura storicamente datata, chiusa in un orizzonte cartesiano,
costretta nei limiti di una filosofia della coscienza, asfissiata da una
concezione idealistica della libertà e nei confronti della quale lo stesso
Sartre dovrà prendere successivamente le distanze (detto tra parentesi, e
per certi versi contro lo stesso Sartre, si tratta in realtà, secondo me,
di un'opera di straordinaria ricchezza e che meriterebbe una ripresa attenta).
La critica alla nozione di Io
La seconda grande ragione storico-filosofica della marginalità di Sartre
è relativa all'affermazione, avvenuta soprattutto nel corso degli anni `60,
della koinè strutturalista. Se per Heidegger l'esistenzialismo sartriano
costituiva un fraintendimento, una deviazione ingenuamente antropologica
dal solco del pensiero della differenza ontologica, anche per lo strutturalismo
di Foucault, di Althusser e di Lévi-Strauss, le nozioni di soggetto, di libertà
e di responsabilità apparivano irrimediabilmente compromesse con la ragione
filosofica classica rispetto alla quale esso intendeva operare, secondo una
immagine divenuta celebre di Althusser, una «rottura epistemologica». La
«morte dell'uomo» teorizzata da Foucault come risultato dell'affermazione
di dispositivi discorsivi irriducibili all'idea di un soggetto-autore, il
marxismo a-umanistico di Althusser che pone le Leggi del Capitale e la storia
come processi senza soggetto, come dimensioni eccentriche a ogni filosofia
della coscienza, le leggi transindividuali della parentela e dello scambio
simbolico che caratterizzano l'antropologia strutturale di Lévi-Strauss e
che decretano la subordinazione della libertà dell'uomo a funzioni simboliche
ad essa preesistenti, minano nei suoi fondamenti la centralità che Sartre
continua ad attribuire alla dimensione della scelta e della decisione singolare.
In questo contesto, occorre ricordare, un caso a parte fu Lacan che non solo,
nell'ambito dello strutturalismo, difese strenuamente la dimensione irriducibile
della soggettività, ma fu anche l'unico a recuperare diversi motivi dell'esistenzialismo
sartriano: basti ricordare la critica alla nozione di io (moi) sviluppata
da Sartre nella Trascendenza dell'ego e ripresa da Lacan nella sua formulazione
dello stadio dello specchio o l'utilizzo lacaniano dell'idea sartriana che
l'oggetto del desiderio non sia esterno al desiderio ma interno, ovvero che
il desiderio sia nella sua struttura desiderio di desiderio, ma anche la
recezione della definizione lacaniana del soggetto come «mancanza a essere»,
che riprende esplicitamente la definizione sartriana del soggetto come «mancanza
d'essere».
Incenerito dalla critica heideggeriana, tritato dalla macchina strutturalista,
l'esistenzialismo di Sartre sembra così imbucarsi in un tunnel disperato.
Ma Sartre non restò insensibile alle critiche. Provò a dare maggior spessore
alla nozione di libertà; provò a renderla più stratificata, meno idealistica.
In questo movimento di ridefinizione della soggettività tenne conto di come
una filosofia della libertà, quale era, nella sua ispirazione etica di fondo,
l'esistenzialismo, non potesse non fare i conti con una filosofia materialistica
dei condizionamenti della libertà. Provò così a integrare la lezione di Marx
e quella di Freud per correggere l'eccessiva enfasi con la quale nell'Essere
e il nulla aveva celebrato il potere di trascendenza della libertà umana.
Dai Quaderni per una morale sino alla Critica della ragione dialettica
e nei saggi filosofici successivi alla pubblicazione di quest'ultima, l'impegno
teoretico di Sartre si definirà come uno sforzo originale per pensare insieme
singolare e universale. Di pensare insieme e non disgiunti Hegel e Kierkegaard:
la dimensione dell'universale della storia e quella della singolarità irripetibile
che pur essendo presa nelle maglie dell'universale storico è anche uno strappo
discontinuo di queste stesse maglie. La soggettività sartriana sembra così
rifondarsi mostrandosi come costantemente impegnata in un movimento di ripresa
singolare dei condizionamenti universali che la producono. Fu questo il suo
modo di non consegnare la nozione etica di soggettività né al primato ontologico
dell'Essere, né a quello inumano della struttura. Il soggetto respinto ai
bordi del sapere, demolito nella sua centralità, accusato di una sua compromissione
fatale con la ragione metafisica, cancellato dall'azione della struttura,
non viene in realtà mai abbandonato da Sartre.
L'esistenza va scoperta
Abusando di un gioco retorico, mi chiedo quali sono le due opere di Sartre
che oggi salverei. Salverei due opere che sono in realtà due risposte all'heideggerismo
ermeneutico e allo strutturalismo (e ai suoi epigoni). La prima opera è La
Nausea. Con questo romanzo filosofico del 1938 Sartre ha davvero strappato
per primo la filosofia alle biblioteche universitarie, conducendola sulle
strade, confrontandola con il reale sempre «di troppo» dell'esistenza. Invenzione,
creazione, immaginazione, scrittura. In questo modo Sartre provava a controbilanciare
il peso dell'esistenza che con lui, in quegli stessi anni, un altro grande
filosofo come Lévinas, stava scoprendo.
Ma come? L'esistenza è qualcosa che deve essere scoperta? Sì. È la tesi
di Sartre. È la curvatura tragica che egli ha imposto alla fenomenologia
di Husserl. L'esistenza è qui, è ovunque, l'esistenza è la mia stessa vita
ma, al tempo stesso, l'esistenza è coperta, occultata, velata. È solo un
urto, una rottura dei percorsi abitudinari del nostro rapporto col mondo,
che la può disvelare. Ma come è diversa la rivelazione sartriana dell'esistenza
da quella esaltata dal lirismo heideggeriano come disvelamento dell'Essere.
Diversamente dall'Essere di Heidegger, l'esistenza di Sartre non è, infatti,
linguaggio ma limite, bordo opaco, reale, scabrosamente irriducibile al linguaggio.
In questo senso Sartre riprende a suo modo proprio l'idea di Essere e tempo
dell'esistenza come gettata nel mondo, della fatticità dell'esistenza. Essere
presi, incagliati, assediati dall'esistenza che è dappertutto, «senza ragione»
e dalla quale è impossibile fuggire. Ma davvero allora l'esistenzialismo
è un umanismo? Davvero è una celebrazione ingenua dell'uomo come centro dell'universo?
Davvero la critica heideggeriana colpisce nel segno? Rileggiamo allora La
Nausea. Rileggiamo l'orrore, l'insensatezza, l'eccentricità scandalosa dell'esistenza.
Rileggiamo la critica spietata di Sartre alla retorica dell'umanismo attraverso
il celebre ritratto dell'autodidatta e degli abitanti di Bouville. Rileggiamo
la critica rigorosa nei confronti di qualunque giustificazione metafisica
dell'esistenza. Rileggiamo la dimensione etica di questa scoperta: niente
può giustificare la mia esistenza se non i miei atti.
Il suo Flaubert
L'idiota della famiglia è l'altra grande, e ultima, opera di Sartre, pubblicata
solo parzialmente in italiano, che salverei. L'ispirazione e la felicità
di scrittura sono qui pari solo all'intensità e alla raffinatezza con la
quale Sartre interroga la personalità variegata del suo Flaubert. Quest'opera
dalle dimensioni monumentali è la replica più rigorosa di Sartre allo strutturalismo
e alla sua negazione della soggettività. Il piano della costituzione passiva
del piccolo Gustave, le relazioni familiari che lo avvolgono, gli intrecci
storico-economici che ne costituiscono lo sfondo, le ideologie, la dimensione
fantasmatica del desiderio dell'Altro che lo cattura, l'epilessia ma anche
l'invenzione della scrittura come soluzione soggettiva capace di trasformare
un destino che lo vuole «idiota della famiglia» in un «genio». Tutto ciò
viene indagato e restituito da Sartre senza mai cedere alla tentazione deterministica,
senza mai ridurre l'uomo a un effetto delle cause che lo hanno costituito.
Ma cosa è, in fondo, un uomo? Lezione magistrale dell'ultimo Sartre: non
c'è nessuna essenza «uomo», ma solo esistenza, progetto, avventura avrebbe
detto all'apice della sua fama. Adesso, nel 1972, preso dal suo Flaubert,
può rispondere, senza annullare la verità di quella tesi ma riarticolandola
in una prospettiva nuova: un uomo non è altro di ciò che esso fa di quello
che gli altri hanno fatto di lui. La libertà è una deviazione, un piccolo
scarto («petit décalage») attraverso il quale una soggettività è obbligata
a reinventare a suo modo, secondo un movimento che Sartre chiama di «personalizzazione»,
ciò che l'Altro gli ha attribuito come destino.
Attualità di un anacronismo
La Nausea e il Flaubert - nell'attualità opere dimenticate o semplicemente
ignorate - interrogano in realtà uno dei fuochi essenziali della ragione
cosiddetta post-moderna e, probabilmente, attendono oggi il loro autentico
lettore: nel mondo dove le procedure universali e anonime del discorso tecnico-scientifico
colludono paradossalmente con l'affermazione incontrastata del mercato globale
nella tendenza a cancellare la singolarità soggettiva, davvero la loro lezione
etica si può dire esaurita? Heideggerismo e strutturalismo non appaiono forse
in ritardo rispetto all'esigenza di un nuovo pensiero del soggetto capace
di fare valere la sua funzione come irriducibile a ogni principio di universalità
(foss'anche quella della voce dell'Essere o della legge inumana della struttura)?
Sartre ha invece sempre difeso il carattere resistente a ogni determinismo
della soggettività.
Non è forse in questo anacronismo che possiamo ritrovare tutta l'attualità
del suo insegnamento? Nella presa di posizione etica radicale che esso comporta:
non rinunciare mai alla dimensione singolare della responsabilità.
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