GINO AGNESE

MORTE DI BOCCIONI

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La mattina del 24 luglio 1916 Boccioni mostra la sua cartolina di richiamo alle armi a un sottufficiale della Mobilitazione, Distretto di Milano. Il sottufficiale consulta un elenco di nomi, gli consegna un biglietto con tagliando e gli dice: «Partirai con gli altri subito per Verona. Poi raggiungerete il Chievo, che è poco fuori città. Là è di stanza il 29° Reggimento d'Artiglieria da Campagna, al quale sei stato assegnato. Difficilmente ti manderanno al fronte prima d'una dozzina di settimane, quanto dura l'addestramento. Ma tutto può essere». A Verona vive Amelia, con Guido. «Bene, così potrò andare qualche volta a casa di mia sorella, e ne sarà felice nostra madre» pensa fra sé Boccioni piacevolmente sorpreso. E pare proprio che il destino abbia voluto riservargli un riguardo.
Anche Russolo è sotto le armi a Verona. Sarà presto sottotenente degli alpini come Erba. E come Sant'Elia, decorato da pochi giorni della Medaglia d'Argento. Sembrava un signorino, Sant'Elia, in quella sua uniforme accuratamente sagomata e ricca di bottoni dorati, abbastanza differente da quella d'ordinanza. Ne aveva disegnato il figurino e se l'era fatta confezionare da un sarto di Como. Alla Mobilitazione gli dettero però un cicchetto, che ascoltò sogli attenti. «In trincea così, vestito da zerbino? Puah!» Al contrario, il 6 luglio scorso, sul Monte Zebio di Asiago, il sottotenente Antonio Sant'Elia, alla testa d'un plotone di ventenni lanciabombe, s'è rivelato un leone. «È rimasto ferito, ma guarirà» hanno detto a Boccioni. E Marinetti? Marinetti è a Firenze, con i giovani dell'«Italia Futurista». Aspetta di esser chiamato per il Corso Allievi Ufficiali, come Sironi. Invece, Boccioni parte da soldato semplice. Un onore e una delusione, allo stesso tempo. Non desidera speciali attenzioni, Boccioni. Vuole essere uno dei tanti che tornano in guerra, e nient'altro. Ma avrebbe voluto essere ufficiale, tanto che in primavera seguì un corso d'un mese per prepararsi agli esami di cultura generale, per il sottotenentato; un corso che è obbligatorio per quelli che, come lui, non hanno un diploma in cornice. E tuttavia parte artigliere e basta, senza neanche la «V» di caporale sulla giabba.
Erano almeno quattro mesi che il richiamo alle armi degli «anziani» del 1882 veniva rinviato. Boccioni perciò aveva preparato tutto - fuorché le cose destinate allo zaino, s'intende - parecchio tempo prima di andare a San Remigio. Si era assicurato di aver firmato ogni sua opera, persino i foglietti con gli schizzi di nessun conto, di modo che, nel peggiore dei casi, la madre potesse vendere al meglio, e andare avanti per un po'. Poi aveva riscritto una sorta di testamento, già preparato l'anno precedente, quando era stato arruolato nel Battaglione dei Volontari Ciclisti: il testamento per cui Marinetti, superstizioso come un gitano, s'era rabbuiato e l'aveva preso in giro. E ora, nel giorno e mezzo ch'è rimasto a Milano tornando dall'Isolino, Boccioni ha salutato non soltanto le persone più care al suo cuore, ma anche altre, che comunque sono entrate nella sua vita, conservandovi un posto. Tra queste, Carlo Carrà, col quale s'è lasciato prendere al laccio dai ricordi, imprevedutamente. Carrà che molti anni dopo ricorderà così l'incontro: «Lo vedo là sulla strada [...] al margine di un isolotto di luce elettrica, fra larghe ombre sdraiate a lui d'intorno, nella immensità della notte. Mi parlava delle ore prime della nostra fraternità, quando la sera, a lavoro finito, ci si rimescolava l'anima nei problemi estetici. Si sentiva entrambi che c'eravamo negli ultimi tempi troppo tormentati; e avremmo voluto scaricare tutto il tenero che ci gonfiava di commozione in quella sua vigilia di partenza...»
Parte, Boccioni, con gli antichi sentimenti d'interventista, ma non è sereno. È preoccupato che la madre non recuperi la buona salute; ed è un tormento l'idea che, se una pallottola austriaca dovesse bucargli il cuore, ella sarebbe costretta a piangerlo in miseria, forse ospite a carico di Guido Callegari, il buon marito di Amelia, o forse, chissà, ricoverata in un ospizio, degente in un cronicario. Poi certamente l'addolora il forzato abbandono del suo lavoro, proprio adesso. E di tutto ciò ha scritto a Ferruccio Busoni appena saputo d'esser destinato a Verona, anche perché il maestro gli deve il compenso del ritratto, che però manderà all'indirizzo di Milano, di modo che la madre possa custodirlo, o viverne:
«Purtroppo non Le posso scrivere nulla che riguardi progetti di lavoro. La mia "classe" è richiamata, io sono stato dichiarato abile e assegnato all'Artiglieria da Campagna. Quest'attività mi va, sono contento. Lo sarei completamente se non vi si opponesse il desiderio di lavorare, che da che siamo stati insieme non mi abbandona più e che mi faceva vagheggiare un periodo produttivo. Per di più c'è mia madre, e a parte il suo ben comprensibile dolore resta in me il cruccio di lasciarla sola con mezzi scarsi, che ora non sono più in grado di integrare... [...] Solamente dopo un'istruzione di tre mesi andrò al fronte. La mamma non lo sa; e se Lei le scrive non tocchi questo tasto... Speriamo non mi accada nulla di serio».
Il Chievo, ove Boccioni arriva dopo una giornata di tradotta e dopo quasi un'ora di carretta, è una manciata di case in riva all'Adige, a cinque chilometri da Verona, verso ovest. Un sobborgo ai limiti d'un territorio vasto, in gran parte pianeggiante, prescelto per la stanza e per le manovre del 29° Reggimento d'Artiglieria da Campagna, una unità costituita a Verona un anno e mezzo prima, che ha dato buona prova combattendo in maggio a ovest di Rovereto. Il 29° è formato da due Gruppi di batterie ippotrainate. Quindi, all'incirca, ha in dotazione una trentina di cannoni da 75/906 e da 75/911, mobili su due ruote, ai quali però vanno aggiunti i pezzi di una batteria d'assedio, fatta di vecchie bocche da fuoco, e alcune nuovissime bombarde.
Per l'appunto: tra i compiti del Reggimento in cui è inquadrato Boccioni c'è anche quello di fornire alla Prima Armata una quota di uomini che in futuro faranno parte del più recente corpo del Regio Esercito: il corpo dei bombardieri. Infatti, anche lo Stato Maggiore italiano, dopo il tedesco e il francese, ha riportato nei teatri di guerra le antiche bombarde, ovviamente in versione moderna. Ma se non tutti gli artiglieri del 29° hanno sicura confidenza con i cannoni, figuriamoci quanti di essi conoscono l'arma che, sorprendentemente recuperata da lontananze secolari, viene ora impiegata molto avanti sul fronte per neutralizzare le difese dei trinceramenti nemici; pochi, pochissimi.
Boccioni, quando si presenta al Reggimento, viene accolto col rispetto suggerito dalla sua fama. Tuttavia la condizione di soldato è uguale per tutti. «Lei va per adesso in una squadra che, agli ordini di un sottufficiale, si cura di due pezzi. Ma presto sarà chiamato a doveri meno gravosi, più adeguati alla sua figura». La squadra è comandata da un sergente maggiore, Felice Pirovano. Governa quattro coppie di cavalli, impiegate per il traino dei due cannoni, e deve garantire che tutto sia a posto per quando l'ufficiale ordina la fine dell'esercitazione «in bianco» o comanda che si spari per davvero e grida «fuoco!»
La prima lettera che Boccioni spedisce dal Chievo, appena arrivato, è per la madre. La rassicura, naturalmente. Prova a spegnerle nel cuore ogni preoccupazione, anche se dubita di riuscirvi. Sceglie parole acconce, le inclina in scrittura chiara e tenta di allontanare quell'ombra che le comparve sul volto quando venne l'ora della partenza; l'ombra che continuò a velarle di pena lo sguardo anche dopo l'abbraccio, nel vano dell'uscio; e che glielo vela ancora, di sicuro. Le scrive che sta bene, che è sereno, che i superiori sono cordiali, che potrà andare sovente a Verona da Amelia e che imparerà a montare, finalmente, poiché uno dei quattro cavalli che in pariglie trainano il cannone, quello che è davanti a destra, è sellato e porta il cavaliere: che sarà lui.
In verità la sua giornata di soldato è dura. Bisogna piegarsi alla fatica, seguire rituali superflui, sopportare i rabbuffi non soltanto d'un signor tenente, ma anche di qualche tarpano d'un graduato, che fuori della vita militare ti farebbe l'inchino. Spezza la schiena smontare e rimontare, per acquisirne pratica, il supporto a piastra d'una bombarda. Però non è tanto per questo che quasi tutti, potendo, non farebbero i serventi alle bombarde; quanto perché è un'arma che ti porta difilato in prima linea, dove c'è pressante urgenza del suo corto tiro curvo, che scassa e sconquassa gli apprestamenti austriaci. Ma così lontano dal fronte, pare fermarsi la danza delle ore. Mosche che ronzano nell'afa, la cenere delle passioni, l'acre sentore della creolina, le note del Silenzio, i turni di guardia nella notte e quella strana incombenza di eventi imprecisati che talvolta aleggia sull'accantonamento richiamando l'allegria di un rischio reale: perché è vero che gli apparecchi dell'imperatore potrebbero arrivare fin qui a Verona, a bombardare.
Si aprono però squarci di orgoglio e di allegria. Il 29 luglio manda una lettera a Vico Baer: «...mi hanno chiamato al Comando per mettermi "per deferenza" come mi han detto negli uffici. Ho cortesemente rifiutato dichiarando di voler fare il mio dovere in batteria. Anzi ho detto che per il prossimo sorteggio per i bombardieri (qui tutti hanno il terrore di questo sorteggio) tengano nota di me. Mi dissero con gentile premura di... non forzare il mio destino. La mia decisione suscitò meraviglia e ammirazione». Scoppia la sua risata, qualche volta. Ma quando un giorno è ammesso al Reggimento un fotografo, sorride forse per l'occasione. O forse no, veramente è di buon umore l'artigliere Boccioni Umberto, nel quale tutti ormai hanno riconosciuto «il ben noto pittore futurista». Eccolo dunque davanti all'obiettivo con il sacco della paglia in spalla: la paglia dello stallaggio, quotidiana incombenza della 5ª squadra. Sembra divertito di darsi a un'immagine franca e cameratesca. Ed eccolo poi in groppa al cavallo sellato del tiro a quattro che traina uno dei pezzi affidati al sergente Pirovano e ai suoi soldati: il cavallo che in realtà è una giumenta baia, a cui Boccioni ha dato nome Vermiglia, così riverberando su di essa la metafora rossa di «La città sale». «Qui, guardi qui!» Boccioni in sella a Vermiglia, dritto nel busto, si volta verso il fotografo e ride incontro alla gioia di quell'attimo. Ha i gambali di cuoio che dolcemente stringono i fianchi della cavalla, ha le scarpe infilate nelle staffe ma 'c'est un chevalier novice', come direbbe Apollinaire con spietata sufficienza: tanto che monta non calzando ancora gli speroni.
Vermiglia, chissà, avverte l'inesperienza del suo nuovo cavaliere, ma è tranquilla, è ubbidiente e gli regala il felice orgoglio di condurlo in groppa: un sogno che Boccioni aveva accarezzato finora invano nella vita, non soltanto quando andava con Marinetti all'ippodromo milanese a studiarvi il dinamismo dei cavalli in corsa, non soltanto quando, agl'inizi, si esercitava disegnandone l'anatomia. Però la madre, che conosce anche i suoi sogni, già in conclusione della prima lettera inviatagli al Reggimento gli aveva scritto: «Ti lascio alla raccomandazione di non essere imprudente quando andrai a cavallo perché tu meglio di me saprai che le bestie sono capricciose».
Il 31 luglio Boccioni va a Verona, e con sua sorella Amelia fa un'improvvisata a Russolo. Abbracci e baci nel parlatorio, tra parenti e soldati. Anche Russolo è oppresso dalla naia «complicata, bestiale noiosa»; ma restano vivi, del pari in lui, i sentimenti dell'interventista, che ne faranno un valoroso, al fronte. E della visita inattesa di Umberto scriverà: «Siamo stati circa un'ora assieme, lì dentro la caserma e abbiamo parlato... la stessa profonda meravigliosa comunità d'idee, la stessa profonda gioia di ritrovarsi assieme sempre...».
Cominciando agosto, il Reggimento è dimezzato. Uno dei due Gruppi di batterie, dei quali è costituito, è partito per la Val d'Astico, dove darà man forte a un'altra unità d'artiglieria impegnata su quel fronte. Al Chievo perciò si vivono giorni meno tesi, ed è più facile ottenere il permesso di libera uscita per mezza giornata: quello che a Boccioni occorre se vuole andare a pranzo dalla sorella, trattenersi un po' con lei e con Guido, e magari cercare a Verona una perduta conoscenza o una nuova compagnia. Insomma la naia, pur sempre ripetitiva e faticosa, gli sembra adesso meno pesante e meno irritante. Ciò anche perché è cordiale il suo rapporto con i commilitoni della squadra e della sezione, che è anch'essa la 5ª; e poi perché gli ufficiali - benché in qualche petto si affacci l'invidia - tengono in speciale conto l'artigliere così famoso, che è il migliore amico di Marinetti, che conosce D'Annunzio e il cui nome dev'essere noto, forse, persino a Sua Maestà Vittorio Emannele III.
Tuttavia anche nei giorni in cui l'orizzonte del Chievo gli si rivela più sereno, Boccioni resta della sua antica idea: l'idea che l'arte e la guerra appartengano a differenti sfere del sentire e dell'agire umani e che debbano, anzi, rimaner distinte: nel senso che «l'arte è sempre al di sopra e la guerra non la tocca». Egli ha sempre temuto che il sentire del combattente, tradotto in pittura o in scultura, divenga banale illustrazione; ha sempre paventato l'insidia d'una retorica celebrativa e bolsa. Infatti, nulla dipinse o plasmò che evocasse la passione patriottica del Battaglione dei Volontari Ciclisti o il tempo fervido della conquista di Dosso Casina. E ora che vive il tempo fiacco dell'accantonamento, a maggior ragione gli sembra che l'arte pulsi in un'altra dimensione, del tutto esterna alla stanca routine reggimentale, la quale così spesso gli fa salire in gola rabbia e disprezzo.
Marinetti, a proposito, è ancora con i giovani fiorentini dell'«Italia Futurista». O meglio: col caldo che fa, sarà in qualche posto del litorale toscano a fare i bagni. Ma dove? Per avere il suo indirizzo agostano, Boccioni scrive a Nina Angelini, che con la sorella è rimasta a Milano per custodire la Casa Rossa di corso Venezia, residenza del poeta e approdo dei futuristi. E alla Nina, con l'occasione, dice anche di spedire il libro di Longhi sulla sua scultura, e qualche altro volumetto delle Edizioni di «Poesia», a un ufficiale che è passato per Chievo ma che è in forza all'aviazione: il sottotenente, e scrittore, Giannetto Bongiovanni, della 73ª Squadriglia, che ha base nell'aeroporto Sant'Anna d'Alfaedo.
Bongiovanni, raccontando della guerra degli aviatori, senza volere ha ridestato per qualche ora l'uggia rabbiosa che la vita di Reggimento ha messo in petto a Boccioni: la sua vita quotidiana di soldato d'una lontana retrovia, dove nulla mai s'innalza con un colpo d'ala. Invece, a Sant'Anna d'Alfaedo gli «Aviatik» della 73ª Squadriglia si tengono sempre pronti ad alzarsi in volo per fronteggiare eventuali incursioni austriache su Verona. «Sono in cinque, ma il comandante della 75a' Ferruccio Coppini» dice il sottotenente, «ha in mano un asso dell'aviazione: quel demonio di Guido Keller, che è un seguace di voi futuristi». Così Boccioni vola, sulle parole di Bongiovanni, assieme allo spericolato pilota che, diversamente da lui, non soltanto ha «la possibilità dell'eroismo» ma temerariamente la coltiva sfidando una volta di più, col suo biplano, la mitraglia nemica.
E sette giorni dopo, il 9 agosto, scrive nuovamente alla Nina. Per favore invii libri di Govoni e di Marinetti, e ancora il saggio di Longhi, a Giorgio Ferrante, un giovane veronese avviato agli studi di medicina ma innamorato della poesia. «Purtroppo d'una poesia svenevole» pensa tra sé Boccioni nel chiudere la lettera. Ma il diciottenne Ferrante - caro ad Amelia e a Guido, che gliel'hanno presentato - è anche affascinato dal Futurismo, di cui peraltro sa poco; ed è insomma un giovane che, già da quando al Liceo era studente di Guido, rivela una buona tempra e cattura la simpatia; sicché Boccioni ha piacere che venga a trovarlo fino al Chievo, gli porti qualcosa da Verona e lo ascolti accompagnandolo a bere un bicchiere di vino durante la libera uscita.
A Ferragosto la fortuna italiana sembra profilarsi sul fronte dell'Isonzo. Cadorna, nell'arco d'una settimana, vi ha spostato ingenti forze che erano impegnate nel Trentino - si parla di trecentomila uomini - e ha poi lanciato un'offensiva, che da una decina di giorni investe gli austriaci. Oltre il fiume tuonano i cannoni e le bombarde, e sulle alture a ovest di Gorizia vanno all'attacco i fanti. Presto il tricolore sventolerà sul Castello? Buone nuove giungono anche da altrove, per esempio dall'altipiano di Asiago; e come le altre allargano la loro eco nelle città d'Italia infuocate dal solleone.
Amelia e Guido Callegari hanno lasciato Verona e sono andati a cercare un po' di fresco: un breve periodo di riposo. Prima di partire hanno incaricato Giorgio Ferrante di tenersi in contatto con Boccioni e di portargli quel che gli dovesse occorrere, come ha fatto altre volte: dei giornali, qualche leccornia, un libro. Ha un'ottima bicicletta, l'allievo di Guido, e in mezz'oretta va da casa sua - via Pigna 1, vicino al Duomo scaligero - fino all'osteria più accogliente del Chievo, che è quella della località chiamata Sorte, non lontana da dove è accantonato in diversi fabbricati il 29° Reggimento. L'ultima volta, Giorgio Ferrante aveva parlato a Boccioni, tra l'altro, di un poeta vernacolo, Berto Barbarani. Boccioni non ne era rimasto granché persuaso. Anzi, gli era sorto il dubbio che Barbarani fosse un salice piangente, un piccolo Pellizza da Volpedo, della letteratura dialettale veronese. Ma nel salutarlo aveva detto: «Quando verrai il giorno 16 portami allora, oltre le altre cose, anche il Canzoniere di Barbarani».
Il 16 agosto è un mercoledì. Boccioni scrive una cartolina a Margherita Sarfatti. «I miei superiori sono con me di una estrema cortesia» le dice. E continua: «Grazie a loro sono sempre a cavallo e ciò mi svaga un poco». In libera uscita, all'ora convenuta, va all'osteria di Sorte, ma Ferrante non è ancora giunto. «Arriverà? O avrà avuto un contrattempo?» Ci sono, come sempre, avventori venuti da Verona per gustare ai tavoli dell'osteria la 'pastisada de caval' o i bolliti con la pearà. E ci sono dei militari del 29°, naturalmente. Boccioni s'intrattiene a chiacchierare con cinque o sei ufficiali, sottotenenti e tenenti, mentre il tempo passa e Ferrante non si vede. A un tratto, uno degli ufficiali lancia una proposta: «Perché non andiamo tutti insieme a fare un giro a cavallo? Boccioni, viene anche lei con noi?» Così Boccioni torna sui suoi passi, verso il Reggimento. Sellerà Vermiglia, col permesso del sergente Pirovano, e andrà con gli altri, spingendosi magari fino a Sorte, perché è anche possibile che Ferrante abbia male inteso l'ora dell'appuntamento e giunga nel frattempo.
Il sergente maggiore Pirovano acconsente. «Va bene signor Boccioni. Se le fa piacere...» Ma è preoccupato. Teme che stavolta Boccioni si allontani troppo, in sella a Vermiglia; e che possa finire nelle difficoltà di un terreno accidentato. Allora, intanto che Boccioni sella la giumenta e calza gli speroni - degli speroni un po' speciali, acquistati in una bottega pochi giorni prima - si rivolge con discrezione agli ufficiali che usciranno con lui: «Il signor Boccioni monta da poco. Non sa cavalcare. Vi prego di stargli al fianco». «Ma certamente, sergente». Escono tutti insieme e si dirigono verso Sorte. Vanno al passo e parlano del più e del meno, strada facendo, nella luce intensa del tardo pomeriggio; fino a quando uno degli ufficiali mette la sua cavalcatura al galoppo e se ne va, seguito dagli altri ma non da Boccioni che, contrariato e teso, procede piano nella polvere sollevata dal gruppo che si allontana.
Qualche carro lungo la via e intorno il silenzio dei campi. Boccioni prende la strada di Verona. Vuole percorrerne un tratto perché non esclude d'imbattersi in Ferrante, che può aver equivocato quando fissarono l'ora dell'appuntamento; e dunque è ben possibile che adesso pedali diretto all'osteria. Vermiglia è tranquilla. Il suo cavaliere le fa sentire gli speroni, ma sono pungenti carezze; e tiene le redini proprio come gli ha insegnato il sergente Pirovano, di modo che le mani strette a pugno sfiorino il collo della cavalla.
Viene il punto in cui la strada incrocia la ferrovia. Le sbarre sono alzate, subito dopo c'è una curva. Vermiglia supera il passaggio a livello, ma sbuca dalla curva - fracasso e clacson - un autocarro che la spaventa. Scarta, si blocca, avanza, scarta ancora. Boccioni d'istinto stringe la presa delle sue gambe e preme con gli speroni contro fianchi della giumenta; che s'impenna e lo disarciona. Cadendo batte la testa contro i sassi della strada, sviene e rimane con un piede impigliato in una staffa. Nessuno vede la scena. Vermiglia si calma, con un saltello passa una cunetta e se ne va a zonzo a cercare l'erba buona, trascinando il suo cavaliere che è esanime e ha i capelli insanguinati.
Lunghi minuti, un frinire di cicale. Poi si leva un grido. Una contadina che lavora in un campo vede Vermiglia, scorge il corpo in grigioverde, inerte, che la cavalla trascina, accorre e chiama la figlia che è nei pressi: «Anna! Anna! È caduto un cavaliere! Dell'acqua! Dell'acqua! Prendiamo dell'acqua!» Dal vicino passaggio a livello, allarmato dalle grida, arriva un ferroviere. Lo svincolano, tentano di farlo rinvenire. Lo adagiano sul ciglio della strada. Poi, con un'automobile, lo trasportano all'Ospedale Militare di Verona. Là - «presto! presto!» - lo spogliano dell'uniforme e scoprono che è ferito anche al petto, oltre che al capo. Però il sangue non ha macchiato un fazzoletto tricolore, una piccola bandiera, che aveva nella tasca interna della giabba. «Vicino al cuore». L'opera dei medici è pronta, ma vana. Umberto Boccioni non riprende conoscenza. E muore mentre si spande il primo chiarore del giorno nuovo: il 17 agosto 1916.
AGNESE, pp. 375-384, senza note. Per il testo integrale si rinvia il lettore al magnifico volume.