OSCAR WILDE

IL RITRATTO DI DORIAN GRAY II


VI

"Immagino che tu abbia saputo la novità, Basil," disse quella sera Lord Henry, appena Hallward entrò in una stanzetta privata del Bristol dove era stato apparecchiato per tre.
"No, Harry," rispose l'artista consegnando cappello e soprabito al cameriere ossequioso. "Di che cosa si tratta? Niente politica, spero. Non mi interessa. In tutta la Camera dei comuni non c'è quasi nemmeno una persona che meriti un ritratto, anche se molti migliorerebbero alquanto con un'imbiancatina."
"Dorian Gray si è fidanzato," disse Lord Henry osservandolo attentamente mentre parlava.
Hallward sussultò, poi si accigliò. "Dorian fidanzato," esclamò. "Impossibile!"
"È verissimo!"
"Con chi?"
"Con un'attricetta o roba del genere."
"Non posso crederlo, Dorian è troppo assennato."
"Dorian è troppo saggio per non fare qualche sciocchezza di tanto in tanto, mio caro Basil."
"Il matrimonio non è una cosa che si possa fare di tanto in tanto, Harry."
"Fuorché in America," replicò distrattamente Lord Henry. "Ma non ho detto che si è sposato. Ho detto che si è fidanzato. C'è una grande differenza. Io ho il netto ricordo di essere sposato, ma non ricordo affatto di essere stato fidanzato. Sono incline a pensare di non esserlo stato mai."
"Ma pensa alla nascita, alla posizione e alla ricchezza di Dorian. Sarebbe assurdo per lui sposare una persona di ceto tanto inferiore."
"Se vuoi che sposi questa ragazza devi dirgli solo questo, Basil. Allora lo farà senz'altro. Quando un uomo commette un'enorme sciocchezza, la commette sempre per i più nobili motivi:"
"Spero che sia una brava ragazza, Harry. Non vorrei vedere Dorian legato a una creatura spregevole, che potrebbe degradare la sua natura e rovinargli l'intelletto."
"Oh, è più che brava... è bella," mormorò Lord Henry, sorseggiando un bicchiere di vermouth e arancia amara. "Dorian dice che è bella e in questo non gli capita spesso di sbagliare. Il tuo ritratto ha fatto maturare in fretta in lui la capacità di apprezzare l'aspetto degli altri. Ha avuto anche questo effetto, tra le altre cose. La vedremo stasera, se il giovanotto non dimenticherà di venire all'appuntamento."
"Dici sul serio?"
"Assolutamente sul serio, Basil. Sarei meschino se pensassi di poter essere più serio di quanto sono in questo momento."
"Ma approvi questa cosa, Harry?" domandò il pittore, muovendosi per la stanza e mordendosi il labbro. "Non è possibile che l'approvi. È una stupida infatuazione."
"Non approvo né disapprovo, mai. È un atteggiamento assurdo nei confronti della vita. Non veniamo al mondo per sciorinare i nostri pregiudizi morali. Non bado mai a quello che dicono le persone comuni e non mi intrometto mai nel comportamento delle persone affascinanti. Se una persona mi affascina, qualunque sia il modo di esprimersi da lei scelto, lo trovo assolutamente piacevole. Dorian Gray si innamora di una bella ragazza che recita la parte di Giulietta e si propone di sposarla? Perché no? Se sposasse Messalina non sarebbe meno interessante. Sai che non sono un paladino del matrimonio: il vero svantaggio del matrimonio è quello di rendere altruisti e gli altruisti sono privi di colore. Mancano di individualità. Tuttavia nel matrimonio il carattere di alcuni si fa più complesso: mantengono il loro egotismo e vi aggiungono molti altri ego. Sono costretti ad avere più di una vita. Raggiungono un maggior livello organizzativo e un elevato livello organizzativo è, a mio avviso, lo scopo dell'esistenza umana. Inoltre, ogni esperienza ha il suo valore e, qualunque cosa si possa dire contro il matrimonio, senza dubbio è un'esperienza. Spero che Dorian Gray sposi questa ragazza, la adori appassionatamente per sei mesi, e poi improvvisamente rimanga affascinato da qualcun'altra. Sarebbe uno studio meraviglioso."
"Non pensi una sola parola di quello che hai detto, Harry, e lo sai. Se Dorian Gray si rovinasse la vita, nessuno proverebbe più dispiacere di te. Sei molto migliore di ciò che pretendi di essere."
Lord Henry rise. "A noi tutti piace pensare bene degli altri perché abbiamo paura di noi stessi. La base dell'ottimismo è il puro terrore. Pensiamo di essere generosi perché attribuiamo al nostro prossimo le virtù che ci potrebbero essere utili. Lodiamo il banchiere per poterci permettere il conto scoperto e troviamo buone qualità nel bandito di strada nella speranza che ci risparmi le tasche. Sono convinto di tutto ciò che ho detto. Verso l'ottimismo nutro il più grande disprezzo. E per quanto riguarda la vita rovinata, l'unica ad esserlo è quella il cui sviluppo si arresta. Se vuoi guastare un carattere, devi solo correggerlo. Per quanto riguarda il matrimonio, evidentemente sarebbe una stupidaggine, ma un uomo e una donna possono stringere altri e più interessanti legami. Io li incoraggerei certamente. Hanno il fascino dell'eleganza. Ma ecco Dorian Gray. Lui ti spiegherà meglio di me."
"Mio caro Harry, mio caro Basil, dovete congratularvi con me!" disse il giovane togliendosi il soprabito da sera dai risvolti di seta e stringendo la mano agli amici. "Non sono mai stato tanto felice. Naturalmente è stata una cosa improvvisa, come tutte le cose veramente deliziose e tuttavia mi pare l'unica che ho atteso tutta la vita." Ardeva dall'eccitazione e dal piacere e appariva eccezionalmente bello.
"Spero che sarai molto felice, Dorian," disse Hallward, "ma non ti perdono di non avermi detto nulla del tuo fidanzamento. A Henry lo hai fatto sapere."
"E io non ti perdono di essere venuto in ritardo a pranzo," interruppe Lord Henry, posando una mano sulla spalla del giovane e sorridendo. "Venite, vediamo com'è il nuovo chef, poi ci racconterai com'è successo."
"Non c'è molto da dire in realtà." esclamò Dorian, mentre si sistemavano intorno al tavolo rotondo. "È successo semplicemente questo, Harry: dopo averti lasciato ieri sera, mi sono vestito, ho pranzato in quel ristorantino italiano di Rupert Street che mi hai fatto conoscere e alle otto sono andato a teatro. Sibyl recitava la parte di Rosalind. Naturalmente le scene erano orrende e Orlando era assurdo. Ma Sibyl! Avresti dovuto vederla! Quando entrò in scena vestita da ragazzo era semplicemente meravigliosa. Indossava un farsetto di velluto color muschio con le maniche color cannella, calzoncini marroni trapuntati e aderenti, un grazioso berrettino verde con una penna di falco fermata da un gioiello e una mantellina orlata di rosso scuro con un cappuccio. Mai m'era sembrata più deliziosa. Aveva tutta la grazia delicata di quella statuetta di Tanagra che c'è nel tuo studio, Basil. I capelli le incorniciavano il volto come foglie scure intorno a una pallida rosa. E la recitazione... beh, la vedrai questa sera. È un'attrice nata. Me ne stavo in quel minuscolo palco completamente avvinto. Ho dimenticato di essere a Londra nel diciannovesimo secolo. Ero lontano col mio amore in una foresta che nessun uomo aveva mai visto. Dopo lo spettacolo andai dietro il palcoscenico e le parlai. Mentre eravamo seduti vicini, improvvisamente le apparve negli occhi un'espressione che non avevo mai visto. Avvicinai le mie labbra alle sue. Ci baciammo. Non so descriverti quello che provai in quel momento. Mi parve che tutta la mia vita si fosse concentrata in un unico punto perfetto di rosea gioia. Lei tremava tutta e vibrava come un bianco narciso. Poi cadde sulle ginocchia e mi baciò le mani. Sento che non dovrei dirvi tutte queste cose, ma non posso farne a meno. Naturalmente il nostro fidanzamento è segreto di tomba. Lei non ne ha parlato nemmeno a sua madre. Non so che cosa diranno i miei tutori. Lord Radley si infurierà di certo. Non me ne importa. Tra meno di un anno sarò maggiorenne e allora potrò fare quel che vorrò. Ho avuto ragione, vero Basil, a prendere il mio amore dalla poesia e a trovare mia moglie in una commedia di Shakespeare? Le labbra cui Shakespeare insegnò a parlare mi hanno sussurrato nell'orecchio il loro segreto. Le braccia di Rosalind mi hanno allacciato e ho baciato Giulietta sulla bocca."
"Sì, Dorian, immagino che tu abbia ragione," disse lentamente Hallward.
"Oggi l'hai vista?" domandò Lord Henry.
Dorian Gray scosse il capo. "L'ho lasciata nella foresta di Arden, la ritroverò in un giardino di Verona."
Lord Henry sorseggiò il suo champagne con aria pensosa. "Quando esattamente hai pronunciato la parola matrimonio, Dorian? E lei che cosa ti ha risposto? Forse te ne sei completamente dimenticato."
"Mio caro Harry, non ho trattato la cosa come una transazione commerciale e non le ho fatto nessuna proposta formale. Le ho detto che l'amavo e lei mi ha detto che non si sentiva degna di diventare mia moglie. Non si sentiva degna! Ma se il mondo intero non vale nulla al suo confronto!"
"Le donne sono prodigiosamente pratiche," mormorò Lord Henry, "molto più pratiche di noi. In situazioni del genere noi dimentichiamo spesso di accennare al matrimonio e loro ce lo ricordano sempre."
Hallward gli posò una mano sul braccio. "Non dire queste cose, Harry. Hai contrariato Dorian. Lui non è come gli altri: non pensa mai male di nessuno. Ha un carattere troppo elevato."
Lord Henry lanciò un'occhiata attraverso la tavola. "Dorian non è mai contrariato con me," rispose. "Ho fatto questa domanda per la migliore delle ragioni, per l'unica ragione che, in realtà, giustifica una domanda: pura curiosità. Secondo una mia teoria, sono sempre le donne che ci propongono il matrimonio e non noi che lo proponiamo loro. Salvo, naturalmente, tra i borghesi, ma i borghesi non sono moderni."
Dorian Gray rise e scosse il capo. "Sei proprio incorreggibile, Harry, ma non importa, è impossibile arrabbiarsi con te. Quando vedrai Sibyl Vane, capirai che chi volesse farle del male sarebbe un bruto, un bruto senza cuore. Non posso capire come si possa desiderare di avvilire chi si ama. Io amo Sibyl Vane, voglio porla su un piedistallo d'oro e vedere il mondo adorare la mia donna. Che cos'è il matrimonio? Un voto irrevocabile. Per questo tu ne ridi. Ah! Non riderne. Proprio un voto irrevocabile io voglio prendere. La sua fiducia mi rende fedele, la sua certezza mi rende buono. Quando sono con lei, mi rammarico di tutto ciò che mi hai insegnato. Divento diverso dalla persona che tu conosci. Sono cambiato, e basta una carezza di Sibyl Vane per farmi dimenticare te e tutte le tue erronee, affascinanti, velenose e deliziose teorie."
"Le quali sono...?" domandò Lord Henry, servendosi l'insalata.
"Oh, le tue teorie sulla vita, sull'amore, sul piacere. Tutte le tue teorie, in realtà, Harry."
"Il piacere è l'unica cosa su cui meriti di avere una teoria," rispose Lord Henry con la voce lenta e melodiosa. "Ma mi dispiace non poter vantare l'originalità della mia. Appartiene alla natura, non a me. Il piacere è la prova della natura, il suo cenno di approvazione. Quando siamo felici, siamo sempre buoni, ma quando siamo buoni non sempre siamo felici."
"Ah, ma che cosa intendi con buoni?" esclamò Basil Hallward.
"Sì," gli fece eco Dorian appoggiandosi allo schienale della poltrona e guardando Lord Henry sopra il fitto mazzo di iris purpuree posto al centro della tavola, "che cosa intendi con buoni, Harry?"
"Essere buoni significa essere in armonia con noi stessi," rispose Lord Henry, toccando il fragile stelo del bicchiere con le dita pallide e sottili. "Siamo in disaccordo invece, quando siamo costretti ad essere in armonia con gli altri. La propria vita: questa è la cosa importante. E per quanto riguarda la vita del prossimo, se uno vuol fare il saccente o il puritano, può sfoggiare il punto di vista morale che ha su di lui, però la cosa non lo riguarda. Inoltre l'individualismo si prefigge il più elevato degli obiettivi. La morale moderna consiste nell'accettare i valori stabiliti della nostra epoca. Secondo me, per qualunque persona colta, accettare i valori stabiliti della sua epoca è una manifestazione della più rozza immoralità."
"Ma se uno vive esclusivamente per se stesso, Harry, non ti pare che paghi un prezzo terribile?" obiettò il pittore.
"Sì, oggi tutto ci costa troppo. Immagino che la vera tragedia dei poveri è che non possono permettersi altro lusso che il sacrificio. I bei peccati, come le belle cose, sono privilegio dei ricchi."
"Non si paga solo con il denaro."
"E con che cosa, Basil?"
"Oh! Con il rimorso, con la sofferenza, con... ecco, con la coscienza della propria degradazione."
Lord Henry si strinse nelle spalle. "Caro amico, l'arte medievale è affascinante, ma le emozioni medievali sono passate di moda. Si possono usare nei romanzi, naturalmente. Ma allora le sole cose che si possono usare nei romanzi sono quelle che non si adoperano più nella realtà. Credimi, nessun uomo civile rimpiange mai un piacere e nessun uomo incivile sa che cosa è un piacere."
"So che cosa è un piacere," esclamò Dorian Gray. "È adorare qualcuno."
"È certamente meglio che essere adorato," rispose Lord Henry, giocherellando con un frutto. "Essere adorati è una seccatura. Le donne ci trattano proprio come gli esseri umani trattano i loro dei. Ci adorano e non fanno altro che seccarci chiedendoci di fare qualcosa per loro."
"Avrei dovuto dire che qualunque cosa ci chiedano, ce lo hanno dato in precedenza," mormorò gravemente il giovane. "Le donne creano in noi l'amore, hanno il diritto di chiedere che venga loro restituito."
"Assolutamente vero, Dorian," esclamò Hallward.
"Non c'è nulla di assolutamente vero," disse Lord Henry.
"Questo lo è," lo interruppe Dorian. "Devi ammetterlo, Harry: le donne danno agli uomini la parte più preziosa della loro vita."
"Può darsi," sospirò Lord Henry, "ma invariabilmente la vogliono indietro in spiccioli. Questo è il guaio. Le donne, come ha detto un francese di spirito, ci ispirano il desiderio di creare capolavori e ci impediscono sempre di realizzarli."
"Harry, sei orribile! Non so perché mi piaci tanto."
"Ti piacerò sempre, Dorian," replicò Lord Henry. "Prendete il caffè, amici?... Cameriere, ci porti caffè, fine champagne e sigarette. No, lasci perdere le sigarette; ne ho io. Basil, non ti permetto di fumare il sigaro, devi prendere una sigaretta. La sigaretta è il modello perfetto di un piacere perfetto: è squisita e ti lascia insoddisfatto. Che cosa si può volere di più? Sì, Dorian, mi vorrai sempre molto bene. Per te io rappresento tutti i peccati che non hai mai avuto il coraggio di commettere."
Che assurdità dici, Harry!" esclamò il giovane, accendendo la sigaretta alla fiamma che usciva dalla bocca del drago d'argento che il cameriere aveva posato sulla tavola. "Andiamo a teatro. Quando Sibyl entrerà in scena avrai un nuovo ideale di vita. Rappresenterà per te qualcosa che non hai mai conosciuto."
"Io ho conosciuto tutto," disse Lord Henry, con un'espressione stanca negli occhi, "ma sono sempre pronto a provare nuove emozioni. Temo, tuttavia, che almeno per me non ce ne siano più. Però questa tua meravigliosa ragazza potrebbe ancora farmi provare un brivido. Mi piace moltissimo il teatro: è tanto più reale della vita. Andiamo. Dorian, tu verrai con me. Mi dispiace moltissimo, Basil, ma la carrozza ha solo due posti. Dovrai seguirci in vettura."
Si alzarono, indossarono i soprabiti e bevvero il caffè in piedi. Il pittore era silenzioso e preoccupato. Un'atmosfera di tristezza lo avvolgeva. Non poteva sopportare l'idea di questo matrimonio, tuttavia gli sembrava la cosa migliore tra le tante che avrebbero potuto accadere. Pochi minuti dopo scesero tutti. Salì in vettura da solo, come era stato deciso, e osservò i fanali luminosi della piccola carrozza che lo precedeva. Fu preso da una strana sensazione di vuoto. Sentiva che Dorian Gray non sarebbe più stato per lui quello che era stato in passato. La vita si era messa tra di loro... Gli occhi gli si oscurarono e le strade affollate e piene di luci si fecero confuse. Quando la vettura arrivò davanti al teatro, gli sembrò di essere invecchiato di anni.


VII

Per qualche strano motivo, quella sera il teatro era gremito e il grasso impresario ebreo che li accolse sulla porta era raggiante. Un sorriso untuoso e tremulo gli andava da un orecchio all'altro. Li scortò fino al loro palco con una sorta di pomposa umiltà, agitando le grasse mani ingioiellate e parlando a voce altissima. Dorian Gray lo detestava più che mai. Gli sembrava di essere venuto a cercare Miranda e di aver trovato Calibano. A Lord Henry, al contrario, l'ebreo piacque abbastanza, o almeno così disse. Volle stringergli la mano assicurandogli che era orgoglioso di conoscere un uomo che aveva scoperto un vero genio e che si era rovinato per un poeta. Hallward si divertiva ad osservare le facce in platea. Il caldo era opprimente e l'enorme lampadario fiammeggiava come una dalia mostruosa dai gialli petali di fuoco. I giovani in loggione si erano tolti la giacca e l'avevano appoggiata al parapetto. Si parlavano da un capo all'altro del teatro dividendo le arance con le ragazze vistosamente vestite che avevano a fianco. Alcune donne ridevano in platea con voci sgradevolmente acute e stridenti. Dal bar si sentiva provenire lo schiocco delle bottiglie stappate.
"Che posto per trovare la propria divinità!" disse Lord Henry.
"Sì!" rispose Dorian Gray. "L'ho trovata qui e lei è davvero divina, più di ogni essere vivente. Quando recita ci si dimentica tutto. Questi individui rozzi e ordinari, dall'espressione volgare e dai gesti brutali, si trasformano completamente quando lei è in scena. Rimangono lì silenziosi a guardarla. Lei li fa piangere e ridere come vuole, li fa rispondere come un violino. Infonde loro uno spirito e si sente che sono fatti del nostro stesso sangue e della nostra stessa carne."
"Nostro stesso sangue e nostra stessa carne! Oh, spero di no!" esclamò Lord Henry, che esaminava con il binocolo da teatro il pubblico del loggione.
"Non dargli retta, Dorian," disse il pittore. "Capisco quello che vuoi dire e credo in questa ragazza. Chiunque tu ami deve essere meraviglioso e qualunque ragazza ottenga gli effetti che tu dici deve essere bella e nobile d'animo. Spiritualizzare la propria epoca; ecco una cosa che vale la pena di fare. Se questa ragazza può dare un'anima a chi ha vissuto finora senza averne una, se può dare il senso della bellezza a chi ha vissuto una vita sordida e sgradevole, se lo può strappare dalla sua condizione d'egoismo e suscitare in lui lacrime per sofferenze e pene che non sono le sue, merita tutta la tua adorazione, merita l'adorazione del mondo intero. Questo matrimonio è assolutamente giusto. Prima non lo credevo, ma ora lo riconosco. Gli dei hanno fatto Sibyl Vane per te. Senza di lei saresti stato incompleto."
"Grazie, Basil," disse Dorian Gray, stringendogli una mano. "Sapevo che tu mi avresti capito. Harry è talmente cinico che mi terrorizza. Ma ecco l'orchestra: è spaventosa, ma dura solo cinque minuti. Poi il sipario si alzerà e vedrai la ragazza a cui sto per dedicare tutta la mia vita, la ragazza cui ho donato tutto ciò che ho di buono."
Un quarto d'ora dopo, tra un lungo scroscio di applausi, Sibyl Vane entrò in scena. Sì, pensò Lord Henry, era certamente bella da vedere, una delle più belle creature che avesse mai visto. Nella sua timida grazia, negli occhi stupiti c'era qualcosa di un cerbiatto. Quando diede uno sguardo alla sala affollata ed entusiasta, un leggero rossore le salì alle guance, simile al riflesso di una rosa in uno specchio d'argento. Arretrò leggermente e un fremito parve muoverle le labbra. Basil Hallward balzò in piedi e cominciò ad applaudire. Dorian Gray sedeva immobile, fissandola come in sogno. Lord Henry la osservava nel binocolo, mormorando: "Incantevole! Incantevole!"
La scena rappresentava un salone nella casa dei Capuleti e Romeo, in abito da pellegrino, era entrato con Mercuzio e altri amici. L'orchestra fece del suo meglio per tirar fuori alcuni accordi e la danza incominciò. In mezzo al gruppo di attori goffi e malvestiti, Sibyl Vane si muoveva come una creatura di un mondo superiore. Il suo corpo ondeggiava nella danza come una pianta nell'acqua. Le curve della gola erano quelle di un bianco giglio. Le mani sembravano di fresco avorio. E tuttavia sembrava stranamente distratta. Non mostrò alcun segno di gioia quando i suoi occhi si posarono su Romeo. Le poche parole che doveva dire:

Buon pellegrino, fate troppo torto alla vostra mano, che in ciò dimostra cortese devozione; perché anche i santi hanno mani che i pellegrini possono toccare e palma contro palma è il bacio del palmiere santo.

e il breve dialogo successivo vennero recitati in forma nettamente artificiosa. La voce era squisita, ma il tono era assolutamente falso. Sbagliato di colore, toglieva ogni vita ai versi, rendendo la passione irreale. Dorian Gray la osservava, pallido. Non capiva ed era angosciato. Gli amici non osavano dirgli nulla: avevano l'impressione che Sibyl Vane non avesse nessuna qualità ed erano terribilmente delusi.
Sapevano però che una Giulietta la si può giudicare soltanto nella scena del balcone del secondo atto e l'aspettavano: se cadeva, non aveva proprio nessuna stoffa.
Era affascinante quando apparve sotto la luce della luna, non si poteva negarlo, ma la recitazione artificiosa era insopportabile e divenne sempre peggiore. I suoi gesti erano assurdamente teatrali e pronunciava ogni frase con enfasi eccessiva. Il bel passo:

Tu sai che la maschera della notte è sul mio viso, altrimenti un rossore di fanciulla dipingerebbe la mia guancia per ciò che tu mi hai udito dire questa notte.

fu declamato con la sgradevole precisione di una studentessa impostata da un'insegnante di dizione di seconda categoria. Quando si sporse dal balcone e giunse a quei meravigliosi versi:

Sebbene tu sia la mia gioia, non ne traggo alcuna da questo nostro patto, questa notte: è troppo sconsiderato, troppo inatteso, troppo improvviso, troppo simile al lampo che cessa di esistere prima che si sia finito di dire "lampeggia". Amore, buona notte; e questo bocciolo d'amore, maturando al soffio dell'estate, potrà divenire un magnifico fiore per l'ora del nostro prossimo incontro.

pronunciò le parole come se non significassero nulla. Non era nervosa, anzi pareva controllarsi perfettamente. La sua era semplicemente pessima recitazione: un completo fallimento.
Anche gli spettatori volgari e incolti della platea e del loggione persero ogni interesse alla rappresentazione. Cominciarono ad agitarsi, a parlare a voce alta e a fischiare. L'impresario ebreo, fermo in fondo alla prima galleria, pestava i piedi e bestemmiava, rabbioso. Solo Sibyl pareva impassibile.
Alla fine del secondo atto ci fu un uragano di fischi. Lord Henry si alzò e indossò il soprabito. "È molto bella, Dorian," disse, "ma non sa recitare. Andiamo."
"Vedrò la commedia fino alla fine," rispose il giovane con voce dura e amara. "Mi spiace moltissimo di averti fatto perdere la serata, Harry. Mi scuso con tutti e due."
"Mio caro Dorian, secondo me la signorina Vane non si sente bene," interruppe Hallward. "Verremo qualche altra sera."
"Vorrei che non si sentisse bene," replicò Dorian. "Ma mi pare che sia semplicemente fredda e priva di sensibilità. È cambiata completamente. Ieri sera era una grande artista, questa sera è solo un'attrice banale e priva di qualità."
"Non parlare così, chiunque sia la persona che ami, Dorian. L'amore è più meraviglioso dell'arte."
"Sono entrambi forme di imitazione," fece notare Lord Henry. "Ma andiamocene, Dorian, sei rimasto qui abbastanza. Una pessima recitazione è demoralizzante. A parte questo, non penso che vorrai far recitare tua moglie. E quindi che importanza ha se interpreta Giulietta come un burattino? È molto attraente e, se conosce tanto poco la vita quanto la recitazione, sarà un'esperienza piacevolissima. Ci sono solo due tipi di persone davvero affascinanti: quelle che sanno tutto e quelle che non sanno assolutamente nulla. Santo cielo, mio caro ragazzo, non assumere un'aria così tragica. Il segreto per restare giovani è di non aver mai un'emozione che non ci si addice. Vieni al club con Basil e con me. Fumeremo sigarette e brinderemo alla bellezza di Sibyl Vane. È bella, che cosa vuoi di più?"
"Vattene, Harry," esclamò il ragazzo. "Voglio restare solo. Basil, devi andartene. Ah! Non vedete che mi si spezza il cuore?" Calde lacrime gli salirono agli occhi, le labbra gli tremarono. Corse nel fondo del palco e si appoggiò al muro nascondendo il viso tra le mani.
"Andiamo, Basil," disse Lord Henry, con una strana tenerezza nella voce. E i due giovani uscirono insieme.
Qualche momento dopo le luci della ribalta si accesero e il sipario si alzò sul terzo atto. Dorian Gray ritornò alla sua poltrona. Era pallido, altero, indifferente. Lo spettacolo tirava avanti faticosamente e pareva non terminare mai Metà del pubblico se n'era andata strascicando pesantemente i piedi e ridendo. Era un fiasco completo. L'ultimo atto si svolse davanti ad una sala quasi vuota. Il sipario calò tra una risatina e alcuni gemiti.
Appena finito lo spettacolo, Dorian Gray si precipitò dietro il palcoscenico, nei camerini. La ragazza era là, sola, con un'espressione di trionfo in viso. Un fuoco squisito le illuminava lo sguardo. Intorno a lei c'era un'aura di splendore, le sue labbra socchiuse, sorridevano a qualche loro intimo segreto.
Quando Dorian entrò, lo guardò e fu come avvolta da un'espressione di infinita felicità. "Come ho recitato male stasera, Dorian!" esclamò.
"Orribilmente," rispose lui osservandola stupito, "orribilmente! Una cosa terribile. Non ti senti bene? Non hai idea di quel che è stato. Non immagini quel che ho sofferto."
La ragazza sorrise. "Dorian," rispose, indugiando sul nome con una lunga modulazione come se sui rossi petali della sua bocca esso fosse più dolce del miele. "Dorian, dovresti aver capito. Ma capisci, ora, non è vero?"
"Che cosa dovrei capire?" domandò lui incollerito.
"Perché ho recitato così male stasera. Perché reciterò sempre male, perché non reciterò più bene."
Dorian Gray si strinse nelle spalle. "Immagino che tu non stia bene. Non dovresti recitare quando ti senti così. Ti rendi ridicola. I miei amici si sono annoiati, io mi sono annoiato."
Sibyl pareva non ascoltarlo. Era trasfigurata dalla gioia, era dominata da un'estasi di felicità.
"Dorian, Dorian," esclamò, "prima di conoscerti, recitare era l'unica realtà della mia vita. Vivevo solo nel teatro, credevo che fosse tutto vero. Una sera ero Rosalind, un'altra sera Porzia. La gioia di Beatrice era la mia gioia, ed erano anche mie le sofferenze di Cordelia. Credevo a tutto. Le persone mediocri che recitavano con me mi sembravano simili a dei, le scene dipinte erano il mio mondo. Conoscevo solo ombre e le credevo reali. Poi sei venuto tu, oh, mio dolcissimo amore, e hai liberato la mia anima dalla prigione. Mi hai insegnato che cos'è la realtà. Stasera, per la prima volta in vita mia, ho visto fino in fondo la falsità, la mistificazione, la stupidità della vuota parata in cui avevo sempre recitato. Questa sera per la prima volta mi sono resa conto che Romeo era ripugnante, vecchio, truccato, che la luce della luna nel giardino era falsa, lo scenario era volgare, mentre le parole che dovevo pronunciare erano irreali, non erano mie, non erano le parole che volevo dire. Tu mi hai dato qualche cosa di più elevato, qualche cosa di cui ogni arte è solo un riflesso. Mi hai fatto capire che cosa è veramente l'amore. Amore mio! Amore mio! Principe Azzurro! Principe della Vita! Le ombre mi nauseano, ormai. Tu sei per me più di quanto potranno mai essere tutte le arti. Che cosa ho a che fare con i pupazzi di una commedia? Quando sono entrata in scena questa sera, non riuscivo a capire come mai avevo perduto tutte le mie capacità. Pensavo che sarei stata meravigliosa e scoprii che non sapevo fare nulla. Improvvisamente, nell'anima mi baluginò il significato di tutto questo e il saperlo fu per me una sensazione deliziosa. Li sentivo fischiare e sorridevo. Che cosa possono sapere loro di un amore come il nostro? Portami via, Dorian... portami via con te in un posto dove possiamo essere assolutamente soli. Odio il palcoscenico. Potrei imitare una passione che non sento, ma non una che mi arde come fuoco. Oh, Dorian, Dorian, capisci ora che cosa significa? Se anche potessi farlo, sarebbe una profanazione per me recitare la parte dell'innamorata. Me lo hai fatto capire tu."
Dorian Gray si lasciò cadere sul divano e distolse il viso. "Tu hai ucciso il mio amore," mormorò.
Lei lo guardò stupita e rise. Dorian non rispose. Si avvicinò a lui e con le piccole dita gli accarezzò i capelli, poi si inginocchiò portando le sue mani alle labbra. Lui le ritrasse e rabbrividì.
Poi si alzò e si avvicinò alla porta. "Sì," esclamò, "hai ucciso il mio amore. Prima stimolavi la mia immaginazione, ora non stimoli nemmeno la mia curiosità. Semplicemente, non provochi in me nessuna reazione. Ti amavo perché eri meravigliosa, perché eri intelligente e dotata, perché facevi vivere i sogni di grandi poeti e rafforzavi e materializzavi le ombre dell'arte. Hai gettato via tutto, sei stupida e superficiale. Mio Dio! Che pazzo sono stato ad amarti! Che stupido sono stato! Adesso non sei più nulla per me. Non ti rivedrò più, non ti penserò più, non pronuncerò più il tuo nome. Tu non sai che cosa rappresentavi per me una volta. Come mai... oh, non riesco a pensarci! Vorrei non aver mai posato lo sguardo su di te! Tu hai rovinato il più bell'episodio d'amore della mia vita. Come conosci poco l'amore se pensi che guasti la tua arte! Senza di essa non sei nulla. Ti avrei resa famosa, splendida, magnifica. Il mondo ti avrebbe adorata e tu avresti portato il mio nome. Che cosa sei adesso? Un'attrice di terz'ordine dal viso grazioso."
La ragazza impallidì e fu scossa da un tremito. Si strinse le mani e la voce le si bloccò in gola. "Non dirai sul serio, Dorian?" mormorò. "Stai recitando."
"Recitare! Lo lascio fare a te. Sei così brava," rispose lui, amaro. Sibyl si rialzò e con una pietosa espressione di sofferenza si avvicinò a lui. Gli posò una mano sul braccio e lo guardò negli occhi. Lui la respinse. "Non toccarmi!" disse con forza.
Con un fievole gemito Sibyl si gettò ai suoi piedi e rimase immobile come un fiore calpestato. "Dorian! Dorian! Non lasciarmi!" sussurrò. "Mi dispiace tanto di non aver recitato bene. Ho pensato a te tutto il tempo. Ma proverò... davvero, proverò. Mi ha travolto così improvvisamente, il mio amore per te. Credo che non me ne sarei mai resa conto se non mi avessi baciata... se non ci fossimo baciati. Baciami ancora, amore mio. Non andartene via. Non potrei sopportarlo. Oh, non andartene via. Mio fratello... no, non importa, non diceva sul serio, scherzava... Ma tu, oh, non puoi perdonarmi questa sera? Lavorerò intensamente e cercherò di migliorare. Non essere crudele con me perché ti amo più di qualunque cosa al mondo. Dopo tutto, solo per una volta non ti ho soddisfatto. Ma hai perfettamente ragione, Dorian. Avrei dovuto comportarmi più da artista. Sono stata sciocca, ma non potevo farne a meno. Oh, non lasciarmi, non lasciarmi." Fu scossa da singhiozzi appassionati. Era rannicchiata sul pavimento come una bestiola ferita e Dorian Gray la guardava dall'alto con quei suoi occhi meravigliosi. Le labbra finemente cesellate erano piegate in un'espressione di squisito disprezzo. Vi è sempre qualche cosa di ridicolo nelle emozioni delle persone che non si amano più. Sibyl Vane gli sembrava assurdamente melodrammatica. Le sue lacrime e i suoi singhiozzi lo infastidivano.
"Me ne vado," disse alla fine con la sua voce calma e chiara. "Non vorrei essere scortese, ma non posso rivederti più. Mi hai deluso."
Sibyl piangeva silenziosamente; non rispose, ma si trascinò più vicino a lui. Allungò ciecamente le piccole mani come se volesse cercarlo. Dorian si voltò di scatto e lasciò la stanza. Pochi istanti dopo era uscito dal teatro.
Non seppe mai bene dove fosse andato. Ricordò di aver vagato per strade debolmente illuminate, di aver superato desolati portici bui e case dall'aspetto sinistro. Donne dalle voci rauche e dalle aspre risate lo avevano chiamato. Ubriachi vacillanti bestemmiavano e parlavano tra sé come scimmie mostruose. Aveva visto bambini grotteschi rannicchiati sulle soglie e udito grida e maledizioni provenire da cortili oscuri.
Alle prime luci dell'alba si trovò vicino al Covent Garden. L'oscurità scompariva e, arrossendo di pallidi fuochi, il cielo si incavava trasformandosi in una perla perfetta. Carri enormi, colmi di gigli ondeggianti, rotolavano rumorosamente sulle strade lucide e vuote. L'aria era intrisa del profumo dei fiori e la loro bellezza sembrava attutire la sua sofferenza. Li seguì nel mercato e osservò gli uomini scaricare i cassoni. Un carrettiere dalla camicia bianca gli offrì delle ciliege. Lo ringraziò domandandosi stupito perché non avesse accettato dei soldi e si mise a mangiarle distrattamente. Erano state colte a mezzanotte e la freschezza della luna le aveva penetrate. Una lunga fila di ragazzi che portavano ceste di tulipani screziati e di rose gialle e rosse gli passò davanti, cercando di avanzare tra le grandi cataste di verdure color verde giada. Sotto il porticato dai grigi pilastri scoloriti dal sole, un gruppo di ragazze sudice e a testa nuda, aspettava che l'asta finisse. Altre si affollavano intorno alla porta girevole del caffè della piazza. I massicci cavalli da tiro sdrucciolavano e scalpitavano sulle pietre irregolari, scuotendo le campanelle dei finimenti. Alcuni carrettieri dormivano sdraiati su una pila di sacchi. I colombi dal collo iridescente e dalle zampe rosa correvano intorno beccando.
Dopo un poco fece segno a una carrozza e si fece portare a casa. Indugiò per qualche momento sulla soglia, osservando la piazza silenziosa, le finestre chiuse e vuote, le persiane sbarrate. Adesso il cielo era un puro opale e su questo sfondo i tetti delle case brillavano come argento. Da un camino di fronte saliva un sottile filo di fumo, che si svolgeva come un nastro viola nell'aria color madreperla.
Nella grande lanterna veneziana dorata, predata da una gondola dogale, che pendeva dal soffitto del grande vestibolo rivestito di quercia, ardevano ancora tremolando le fiammelle di tre beccucci: parevano sottili petali azzurri di fiamma, orlati di fuoco bianco. Li spense e, gettati sulla tavola soprabito e cappello, attraversò la biblioteca dirigendosi verso la porta della camera da letto, una vasta stanza ottagonale al pianterreno che, nella sua nuova passione per il lusso, da poco aveva arredato da solo, appendendovi alcuni insoliti arazzi rinascimentali scoperti in una soffitta abbandonata di Selby Royal. Mentre abbassava la maniglia lo sguardo gli cadde sul ritratto dipinto da Basil Hallward. Arretrò sorpreso, poi entrò nella sua camera con un'espressione leggermente perplessa. Sbottonò la giacca e parve esitare; alla fine ritornò indietro, si avvicinò al quadro e lo osservò. Nella luce pallida che filtrava dalle tende di seta color crema, il volto gli sembrò leggermente cambiato: l'espressione era diversa. Si sarebbe detto che la bocca avesse assunto una nota di crudeltà. Era davvero strano.
Si voltò, si diresse verso la finestra e scostò la tenda. L'alba luminosa inondò la stanza spazzando le ombre fantastiche negli angoli polverosi, dove esse si nascosero tremando. Ma la strana espressione che aveva notato sul volto del ritratto parve rimanervi e, anzi, rafforzarsi. La tremula, ardente luce del sole gli mostrava le rughe di crudeltà intorno alla bocca chiare come se si stesse guardando in uno specchio dopo aver commesso qualche cosa di spaventoso.
Trasalì e, preso dal tavolo uno specchio ovale dalla cornice di amorini d'avorio, uno dei tanti regali di Lord Henry, guardò ansiosamente nella lucida profondità. Nessuna ruga simile deformava le labbra rosse. Che cosa significava?
Si strofinò gli occhi e, avvicinatosi al quadro, lo esaminò di nuovo. Il quadro non mostrava il minimo segno di cambiamento e tuttavia l'espressione complessiva era alterata. Non era la sua immaginazione: il fatto era di un'orribile evidenza.
Si gettò su una poltrona e cominciò a pensare. Improvvisamente, come un lampo, gli attraversò la mente quello che aveva detto nello studio di Basil Hallward il giorno in cui il quadro era stato finito. Sì, lo ricordava perfettamente. Aveva espresso il folle desiderio di poter restar giovane lasciando che il ritratto invecchiasse al posto suo, di conservare intatta la sua bellezza lasciando che il volto sulla tela reggesse il peso delle sue passioni e dei suoi peccati, che le rughe della sofferenza e della riflessione segnassero l'immagine dipinta permettendogli di conservare il bocciolo delicato e la grazia della sua adolescenza di cui da poco era consapevole. Ma certo il suo desiderio non era stato esaudito: queste cose erano impossibili. Gli pareva mostruoso anche solo pensarle. Tuttavia aveva davanti a sé il ritratto con quella nota di crudeltà nelle labbra.
Crudeltà! Era stato crudele? Colpa della ragazza, non sua. L'aveva sognata come una grande artista, le aveva donato il suo amore pensando che lei fosse grande, e lei lo aveva deluso. Si era mostrata frivola e indegna. Tuttavia, una sensazione di infinito rimpianto lo colse mentre la ricordava abbandonata ai suoi piedi singhiozzante come un bambino. Ricordò con quanta cattiveria l'aveva guardata. Perché era fatto così? Perché aveva ricevuto un'anima simile? Ma anche lui aveva sofferto. Durante quelle tre tremende ore dello spettacolo aveva vissuto secoli di dolore, eternità di torture. La sua vita valeva bene quella di lei. Sibyl gli aveva inflitto un momento di sofferenza insopportabile, anche se lui l'aveva ferita inguaribilmente. Inoltre, le donne sopportano il dolore meglio degli uomini. Vivono delle loro emozioni. Quando si prendono un amante lo fanno semplicemente per avere qualcuno cui fare scenate. Glielo aveva detto Lord Henry, e Lord Henry conosceva le donne. Perché darsi pensiero per Sibyl Vane? Non significava più nulla per lui ormai.
Ma il quadro? Che cosa poteva pensarne? Custodiva il segreto della sua vita e raccontava la sua storia. Gli aveva insegnato ad amare la propria bellezza. Gli avrebbe anche insegnato ad amare la propria anima? Lo avrebbe potuto guardare ancora?
No, era solo un'illusione dovuta ai suoi sensi turbati. L'orribile notte trascorsa aveva lasciato dietro di sé i suoi fantasmi. Improvvisamente gli era caduta nel cervello quella minuscola goccia scarlatta che porta gli uomini alla pazzia. Il quadro non aveva subito nessun cambiamento, era folle pensarlo.
E tuttavia lo aveva davanti agli occhi, con quel bel viso contorto e il sorriso crudele. I capelli luminosi rilucevano sotto i raggi del primo sole, gli occhi azzurri erano fissi nei suoi. Fu sopraffatto da un senso d'infinita pietà, non per se stesso, ma per l'immagine dipinta di se stesso. Già si era alterata e lo sarebbe stata ancora di più. L'oro si sarebbe spento in grigio, le sue rose rosse e bianche sarebbero appassite. Per ogni peccato commesso, una macchia avrebbe contaminato e deteriorato la sua bellezza. Ma non avrebbe peccato. Il quadro, mutato o immutato, sarebbe stato il simbolo visibile della sua coscienza. Avrebbe resistito alla tentazione. Non avrebbe più rivisto Lord Henry... o perlomeno non avrebbe più ascoltato quelle sue sottili e velenose teorie che nel giardino di Basil Hallward avevano stimolato per la prima volta in lui la passione per le cose impossibili. Sarebbe ritornato da Sibyl Vane, le avrebbe chiesto perdono, l'avrebbe sposata, avrebbe cercato di amarla ancora. Sì, questo era il suo dovere. Lei doveva aver sofferto più di lui. Povera piccola! Era stato egoista e crudele con lei. Il fascino che aveva esercitato su di lui sarebbe risorto. Insieme sarebbero stati felici. La sua vita con lei sarebbe stata bella e pura.
Si alzò dalla poltrona e portò un grande paravento proprio davanti al ritratto. Gli lanciò un'occhiata e rabbrividì. "Che cosa orribile!" mormorò tra sé. Si diresse alla porta finestra e l'aprì. Uscì e, camminando sull'erba, trasse un profondo respiro. L'aria fresca del mattino parve allontanare tutte le sue cupe passioni. Pensava solo a Sibyl. Un debole eco del suo amore ritornò in lui. Ripeté più volte il suo nome. Gli uccelli che cantavano nel giardino bagnato di rugiada sembravano parlare di lei ai fiori.


VIII

Quando si svegliò, mezzogiorno era passato da un pezzo. Il suo cameriere era già entrato diverse volte in punta di piedi per vedere se il padrone accennava a svegliarsi, chiedendosi come mai dormisse così a lungo. Finalmente il campanello squillò e Victor entrò silenziosamente con una tazza di tè e una pila di lettere posate su un piccolo vassoio di antica porcellana di Sevres; scostò le tende di seta color verde oliva rigate di un azzurro luminoso tese sulle tre grandi finestre.
"Monsieur ha dormito bene questa mattina," disse con un sorriso.
"Che ora è Victor?" domandò Dorian Gray.
"L'una e un quarto, signore."
Com'era tardi! Si sollevò a sedere e, dopo aver bevuto un po' di tè, scorse le lettere. Una, di Lord Henry, era stata consegnata a mano in mattinata. Esitò un attimo, poi la mise da parte. Aprì le altre pigramente: la solita collezione di cartoncini, di inviti a pranzo, di biglietti per visioni private, di programmi di concerti di beneficenza e simili, che piovono ogni mattina, durante la "Season", nella casa di ogni giovane alla moda. C'era un conto piuttosto salato, per un servizio da toilette d'argento cesellato Louis-Quinze: non aveva ancora avuto il coraggio di mandarlo ai suoi tutori, persone dalle idee molto antiquate che non si rendevano conto che viviamo in un'epoca in cui le cose superflue sono le uniche necessarie. C'erano inoltre diversi annunci redatti in termini molto cortesi di usurai di Jermyn Street che offrivano qualunque somma in prestito su semplice richiesta e al tasso più ragionevole.
Dopo circa dieci minuti si alzò e, gettata sulle spalle una ricca vestaglia di cashmere ricamata in seta, si trasferì nella stanza da bagno dal pavimento in onice. Dopo il lungo sonno, l'acqua fresca lo ristorò. Pareva aver dimenticato tutti gli avvenimenti della notte precedente. Una volta o due ebbe, ma come avvolta dall'irrealtà del sogno, la debole sensazione di aver partecipato a qualche oscuro dramma.
Appena vestito entrò in biblioteca e sedette a un tavolino rotondo vicino alla finestra aperta, sul quale era stata apparecchiata una leggera colazione alla francese. Era una splendida giornata. L'aria tiepida sembrava carica di aromi. Un'ape entrò nella stanza e ronzò attorno al vaso turchese pieno di rose color giallo zolfo che aveva davanti. Si sentiva completamente felice.
D'improvviso, lo sguardo gli cadde sul paravento che aveva sistemato davanti al ritratto e sussultò.
"Troppo freddo per Monsieur?" domandò il cameriere, mettendo un'omelette sulla tavola. "Devo chiudere la finestra?"
Dorian scosse il capo. "Non ho freddo," mormorò.
Allora era vero? Il ritratto era effettivamente cambiato? Oppure solo l'immaginazione gli aveva fatto vedere un'espressione malvagia là dove prima c'era un'espressione di gioia? Era proprio impossibile che una tela dipinta mutasse? Assurdo. Una storiella che un giorno avrebbe raccontato a Basil. Lo avrebbe fatto sorridere.
E tuttavia come era vivido il ricordo del fatto! Prima, nella debole luce dell'aurora, poi nella più chiara luce dell'alba, aveva visto la nota di crudeltà intorno alle labbra contorte. Aveva quasi paura che il cameriere lasciasse la stanza perché sapeva che, rimasto solo, avrebbe dovuto guardare il ritratto. Temeva quella certezza. Quando gli venne portato il caffè e l'uomo si voltò per andarsene, sentì impellente il desiderio di chiedergli di rimanere. Lo chiamò mentre stava chiudendo la porta. L'uomo si fermò in attesa dei suoi ordini. Dorian lo fissò per un momento. "Non sono in casa per nessuno, Victor," disse con un sospiro. L'uomo si inchinò e uscì.
Allora si alzò, si accese una sigaretta e si distese su un divano coperto di preziosi cuscini, situato di fronte al paravento. Era un antico paravento di cuoio spagnolo dorato, con impressioni e decorazioni stile Louis-Quatorze piuttosto ricche. Lo osservò con curiosità, domandandosi se in altre occasioni avesse celato il segreto di una vita.
Ma dopotutto, doveva proprio scostarlo? Perché non lasciarlo dov'era? A che cosa gli serviva sapere? Se la cosa era vera, era terribile. Se non lo era, perché preoccuparsene? Ma se per caso, o per qualche nefasta possibilità, altri sguardi avessero spiato dietro il paravento e notato l'orribile cambiamento? Che cosa avrebbe dovuto fare se Basil Hallward fosse venuto a chiedergli di vedere il suo quadro? Lo avrebbe fatto di certo. No, bisognava analizzare la cosa immediatamente. Qualunque cosa era meglio di quel terribile dubbio.
Si alzò e chiuse a chiave le due porte. Almeno sarebbe stato solo a guardare la maschera della sua vergogna. Quindi scostò il paravento e vide se stesso faccia a faccia. Era perfettamente vero: il ritratto era mutato.
In seguito ricordò spesso e sempre con non poca meraviglia, di essersi dapprima trovato ad esaminare il quadro con un interesse quasi scientifico. Gli sembrava incredibile che un simile mutamento potesse avvenire. E tuttavia era un fatto reale. C'era forse qualche sottile affinità tra gli atomi che si erano raccolti in forma di colore sulla tela e l'anima che era in lui? Era possibile che essi realizzassero ciò che l'anima pensava? Che dessero corpo a ciò che essa sognava? Oppure c'era qualche altro e più terribile motivo? Rabbrividì, sentì di aver paura e, tornato sul divano, rimase disteso, fissando il ritratto con un senso di nausea e di orrore.
Sentiva, comunque, che il ritratto aveva fatto almeno una cosa per lui. Gli aveva fatto capire quanto fosse stato ingiusto e crudele nei confronti di Sibyl Vane. Ma non era troppo tardi per riparare: poteva ancora diventare sua moglie. Il suo amore irreale ed egoista avrebbe ceduto a una più elevata influenza, si sarebbe trasformato in una più nobile passione e il ritratto che Basil Hallward aveva dipinto gli sarebbe stato di guida nella vita, sarebbe stato per lui quello che la santità è per alcuni e, per tutti, il timor di Dio. Esistono narcotici per il rimorso, droghe che possono addormentare il senso morale, ma qui c'era il simbolo palese della degradazione del peccato, il segno sempre presente delle rovine che gli uomini infliggono alla loro anima.
Batterono le tre, poi le quattro, poi la mezz'ora fece squillare i suoi due colpi, ma Dorian Gray non si mosse. Cercava di raccogliere i fili scarlatti della vita, di tesserli in uno schema, di trovare la strada nel sanguigno labirinto delle passioni in cui vagava. Non sapeva che cosa fare né cosa pensare. Alla fine, sedette al tavolo e scrisse una lettera appassionata alla ragazza che aveva amato, implorando il suo perdono e accusandosi di follia. Coprì pagine e pagine di sfrenate parole di rimorso e di ancor più sfrenate parole di dolore. C'è una voluttà nell'autoaccusa. Quando ci rimproveriamo sentiamo che nessun altro ha il diritto di farlo. È la confessione, non il prete, a impartirci l'assoluzione. Quando Dorian Gray ebbe finito la lettera sentì di esser stato perdonato.
Improvvisamente sentì bussare alla porta, poi la voce di Lord Henry provenire da fuori. "Mio caro ragazzo, devo vederti. Fammi entrare subito. Non posso lasciarti chiuso qui in questo modo."
Dapprima non rispose, ma rimase assolutamente immobile. I colpi però continuavano, sempre più forti. Sì, era meglio far entrare Lord Henry, spiegargli la nuova vita che intendeva condurre, litigare con lui se necessario, rompere se era inevitabile. Balzò in piedi, tirò in fretta il paravento davanti al quadro e girò la chiave.
"Sono così dispiaciuto per tutta la faccenda, Dorian," disse Lord Henry entrando. "Ma devi cercare di non pensarci."
"Parli di Sibyl Vane?" domandò il giovane.
"Sì, naturalmente," rispose Lord Henry, affondando in una poltrona e togliendosi lentamente i guanti gialli. "È spaventoso, sotto un certo aspetto, ma non è stata colpa tua. Dimmi, ieri sera dopo la fine dello spettacolo sei andato a trovarla nel camerino?"
"Sì."
"Ne ero sicuro. Le hai fatto una scenata?"
"Sono stato brutale, Harry, assolutamente brutale. Ma adesso tutto è sistemato. Adesso non sono più addolorato per quello che è successo. Mi ha insegnato a conoscermi meglio."
"Ah, Dorian, sono così contento che tu la prenda in questo modo! Temevo di trovarti sprofondato nel rimorso e intento a strapparti quei tuoi bei riccioli biondi."
"Sono passato attraverso tutte queste fasi," disse Dorian, scuotendo il capo e sorridendo. "Adesso però, sono perfettamente felice. Tanto per cominciare so che cos'è la coscienza. Non è quello che mi avevi detto tu: è la cosa più divina che ci sia in noi. Non riderne, Harry, non riderne più... davanti a me, almeno. Voglio essere buono. Non posso sopportare l'idea che la mia anima sia ripugnante."
"Un'affascinante base artistica per la morale, Dorian! Me ne congratulo. Ma come intendi cominciare?"
"Sposando Sibyl Vane."
"Sposando Sibyl Vane!" esclamò Lord Henry, balzando in piedi e fissandolo con un'espressione perplessa e meravigliata. "Ma, mio caro Dorian..."
"Sì, Harry, so che cosa stai per dire. Qualche cosa di terribile a proposito del matrimonio. Non dirla. Non dirmi mai più cose del genere. Due giorni fa ho chiesto a Sibyl di sposarmi e non intendo rompere la promessa. Sarà mia moglie!"
"Tua moglie! Dorian!... Non hai ricevuto la mia lettera? L'ho scritta questa mattina e l'ho fatta portare dal mio cameriere.
"La tua lettera? Oh, sì, ricordo. Non l'ho letta, Harry. Temevo che contenesse qualcosa di spiacevole. Tu, con i tuoi epigrammi fai a brandelli la vita."
"E allora non sai nulla?"
"Che cosa vuoi dire?"
Lord Henry attraversò la stanza e, sedutosi accanto a Dorian, gli prese le mani nelle sue e gliele tenne strette. "Dorian," disse, "la mia lettera... non spaventarti... l'ho scritta per dirti che Sibyl Vane è morta."
Un grido di dolore eruppe dalle labbra del giovane. Dorian balzò in piedi, strappando le mani dalla stretta di Lord Henry. "Morta! Sibyl morta! Non è vero! Che orrenda bugia! Come osi dirla?"
"È vero, Dorian," disse Lord Henry, gravemente. "È su tutti i giornali del mattino. Ti ho scritto chiedendoti di non vedere nessuno prima di me. Ci sarà un'inchiesta, naturalmente, e tu non devi venire coinvolto. Con cose di questo genere a Parigi si diventa alla moda, ma a Londra la gente è piena di pregiudizi. Qui non bisogna mai fare il proprio debut con uno scandalo: bisogna tenerlo in serbo per rendere interessante la propria vecchiaia. Immagino che a teatro non sappiano chi sei. Se è così, tutto bene. Ti ha visto qualcuno nelle vicinanze del suo camerino? Questo è un punto importante."
Per qualche momento Dorian non rispose. Era raggelato dall'orrore. Infine balbettò con un fil di voce: "Harry, un'inchiesta, hai detto? Che cosa significa? Sibyl si è ... ? Oh, Harry, non posso sopportarlo! Presto. Dimmi tutto immediatamente."
"Sono sicuro che non si è trattato di un incidente, anche se al pubblico bisogna presentarlo sotto questa luce. Pare che mentre lasciava il teatro con la madre, verso le dodici e mezzo circa, abbia detto di aver dimenticato qualcosa di sopra. L'hanno attesa per un po', ma lei non scendeva. Alla fine l'hanno trovata distesa sul pavimento del camerino. Aveva inghiottito per sbaglio qualche cosa, qualche sostanza pericolosa che impiegano a teatro. Non so se si trattasse di acido prussico o di biacca di piombo. Acido prussico, penso, perché pare sia morta istantaneamente."
"Harry, Harry, è terribile!" esclamò il giovane.
"Sì, naturalmente è davvero tragico, ma tu non devi venire coinvolto. Ho letto sullo Standard che aveva diciassette anni. Avrei detto che fosse più giovane: aveva un'aria così da bambina, e pareva così poco esperta di teatro. Dorian, non devi permettere che questa faccenda ti demoralizzi. Devi venire a cena con me e dopo andremo all'Opera. C'è la Patti e ci saranno tutti. Puoi venire nel palco di mia sorella. Ci sono delle donne molto brillanti con lei."
"E così ho assassinato Sibyl Vane," disse Dorian Gray quasi parlando tra sé, "... l'ho assassinata indiscutibilmente, proprio come se avessi tagliato la sua piccola gola con un coltello. E tuttavia per questo le rose non sono meno belle, gli uccelli continuano a cantare allegramente nel mio giardino. E questa sera pranzerò con te, poi andremo all'Opera e poi, suppongo che ceneremo da qualche parte. Che incredibile tragedia è la vita! Se avessi letto tutto questo in un libro, Harry, credo che ne avrei pianto. E, non so come, adesso che è davvero successo, e proprio a me, mi sembra troppo straordinario per piangerne. Qui c'è la prima lettera d'amore appassionata che ho scritto in vita mia. Strano, che la mia prima lettera d'amore sia indirizzata a una ragazza morta. Chissà se hanno ancora delle sensazioni quei bianchi esseri silenziosi che noi chiamiamo morti? Sibyl! Può sentire, sapere, ascoltare? Oh, Harry, come l'amavo un tempo. Mi sembra che siano passati anni interi. Era tutto per me. Poi venne quell'orribile notte - davvero è stata appena la notte scorsa? - quando recitò così male e quasi mi si spezzò il cuore. Mi spiegò tutto: era straziante, ma non ne fui minimamente commosso. La credevo superficiale. Improvvisamente accadde qualche cosa che mi spaventò moltissimo. Non posso dirti di che cosa si tratta, ma è una cosa terribile. Decisi che sarei ritornato da lei. Sentivo di aver avuto torto. E ora è morta! Mio Dio, mio Dio! Harry, che cosa devo fare? Tu non sai quanto io sia in pericolo e non c'è nulla che mi possa sorreggere. Lei avrebbe potuto farlo. Non aveva nessun diritto di uccidersi. È stata un'egoista."
"Mio caro Dorian," rispose Lord Henry, prendendo una sigaretta dall'astuccio e levandosi di tasca una scatola di fiammiferi ricoperta d'oro, "l'unica influenza che una donna può esercitare su un uomo è quella di annoiarlo a un punto tale da fargli perdere ogni interesse alla vita. Se tu avessi sposato quella ragazza ti saresti rovinato. Naturalmente saresti stato gentile con lei: si può sempre essere gentili con chi non ci interessa affatto. Ma lei si sarebbe accorta subito di esserti del tutto indifferente e, quando una donna scopre questo atteggiamento nel marito, diventa terribilmente sciatta, oppure comincia a portare dei cappellini elegantissimi che le dovrà pagare il marito di un'altra. Tralascio di parlare dell'errore dal punto di vista della differenza sociale, un errore disastroso e che io naturalmente avrei impedito, ma ti assicuro che, comunque, la faccenda si sarebbe rivelata un fallimento completo."
"Suppongo di sì," mormorò il giovane, muovendosi avanti e indietro per la stanza, pallidissimo. "Ma pensavo che sarebbe stato mio dovere. Non è colpa mia se questa terribile tragedia mi ha impedito di fare quel che era giusto. Ricordo che una volta hai detto che c'è una fatalità nei buoni propositi: vengono sempre presi troppo tardi. A me è successo proprio questo."
"I buoni propositi sono inutili tentativi di interferire nelle leggi scientifiche. Nascono dalla pura vanità e il loro risultato è un nulla assoluto. Ogni tanto ci regalano una di quelle emozioni voluttuose e sterili che hanno un certo fascino per i deboli: è tutto quello che se ne può dire. Sono semplicemente assegni che gli uomini emettono su una banca dove non hanno un conto corrente."
"Harry," esclamò Dorian Gray, avvicinandosi e sedendosi accanto a lui, "perché non posso sentire questa tragedia come vorrei? Non penso di essere senza cuore. Tu credi che lo sia?"
"Hai fatto troppe sciocchezze in queste ultime due settimane per avere il diritto di ritenerti tale, Dorian," rispose Lord Henry, con il suo dolce, malinconico sorriso.
Il giovane aggrottò le sopracciglia. "Non mi piace questa spiegazione, Harry," replicò, "ma sono contento che tu non mi creda senza cuore. Non lo sono affatto, so di non esserlo. E tuttavia devo ammettere che questo avvenimento non mi ha colpito come avrebbe dovuto. Mi sembra soltanto la conclusione meravigliosa di una meravigliosa commedia. Ha in sé tutta la terribile bellezza di una tragedia greca, una tragedia nella quale ho avuto una parte importante, ma dalla quale sono uscito senza ferite."
"È una questione interessante," disse Lord Henry, che provava uno squisito piacere nel far vibrare l'inconsapevole egocentrismo del giovane, "una questione estremamente interessante. E immagino che la vera spiegazione sia questa. Spesso le tragedie della vita si verificano in una forma così priva di senso estetico che ci colpiscono con la loro assurda mancanza di significato, la totale mancanza di gusto. Ci colpiscono proprio come ci colpisce la volgarità. Ci danno un'impressione di pura forza bruta e contro questo ci rivoltiamo. A volte, tuttavia, una tragedia che possiede elementi di bellezza artistica attraversa la nostra vita. Se questi elementi di bellezza sono reali, l'insieme agisce semplicemente sulla nostra sensibilità all'effetto drammatico. Ci rendiamo conto improvvisamente di non essere più gli attori, ma gli spettatori della rappresentazione. O meglio, siamo l'una e l'altra cosa. Ci osserviamo e siamo avvinti dalla pura meraviglia dello spettacolo. In questo caso, che cosa è successo, in realtà? Qualcuno si è ucciso per amor tuo. Vorrei aver vissuto un'esperienza simile: mi avrebbe fatto amare l'amore per il resto della vita. Le persone che mi hanno adorato - non molte, ma qualcuna c'è stata - si sono sempre ostinate a vivere quando da molto tempo avevo cessato di interessarmi di loro, o loro di me. Sono diventate grasse e noiose e, quando le incontro, immediatamente tirano fuori i ricordi. Quell'incredibile memoria che hanno le donne! Che cosa spaventosa! Quale enorme ristagno intellettuale rivela! Si dovrebbero assorbire i colori della vita, mai ricordarne i particolari. I particolari sono sempre volgari."
"Devo seminare dei papaveri nel mio giardino," sospirò Dorian.
"Non ce né bisogno," replicò l'amico. "La vita ha sempre i papaveri nelle sue mani. Di tanto in tanto, naturalmente, le cose vanno per le lunghe. Una volta, per tutta la stagione non feci che portare violette come lutto artistico per una storia romantica che non voleva morire. Comunque morì, alla fine. Ho dimenticato che cosa la uccise. Probabilmente le decisione di lei di sacrificarmi il mondo intero. Questo è sempre un momento pauroso: ci colma del terrore dell'eternità. Bene - lo crederesti? - una settimana fa, a casa di Lady Hampshire, mi sono trovato a tavola accanto alla signora in questione e lei ha preteso di ritornare sulla faccenda, di rivangare il passato, di frugare nel futuro. Io avevo sepolto il mio romanzo in un letto di asfodeli, lei lo esumò e mi assicurò che le avevo rovinato la vita. Devo dire che mangiò a quattro palmenti e quindi non mi sentii angosciato. Ma che mancanza di gusto! L'unico fascino del passato è che è passato. Ma le donne non sanno mai quando è calata la tela. Vogliono sempre un sesto atto e, appena l'interesse per la rappresentazione è completamente esaurito, intendono continuare. Se potessero fare come vogliono, ogni commedia finirebbe tragicamente e ogni tragedia culminerebbe in una farsa. Sono artificiosamente affascinanti, ma non hanno senso artistico. Tu sei più fortunato di me. Dorian, ti assicuro che nessuna delle donne che ho conosciuto avrebbe fatto per me quello che ha fatto per te Sibyl Vane. Le donne mediocri si consolano sempre. Alcune lo fanno appassionandosi ai colori sentimentali. Non fidarti mai di una donna che veste in mauve, quale che sia la sua età, né di una donna che passati i trentacinque abbia la passione dei nastri rosa. Significa sempre che c'è dietro una storia. Altre si consolano moltissimo scoprendo improvvisamente le buone qualità del proprio marito. Ti ostentano la loro felicità coniugale come se fosse il più seducente dei peccati. Alcune si consolano con la religione. Una volta una donna mi disse che i misteri religiosi hanno tutto il fascino dei flirt, cosa che posso capire alla perfezione. Inoltre, nulla rende così vanitosi come sentirsi dare del peccatore. La coscienza ci rende tutti malati di egotismo. Sì, le consolazioni che una donna può trovare nella vita moderna sono infinite. In realtà, però, non ti ho ancora parlato della più importante."
"Qual è, Harry?" domandò il giovane stancamente.
"Oh, la più ovvia. Rubare l'ammiratore a un'altra quando si è perso il proprio. Nella buona società questo rimette sempre a nuovo una donna. Ma davvero, Dorian, quanto doveva essere diversa Sibyl Vane da tutte le donne che si incontrano! Secondo me c'è qualche cosa di perfetto nella sua morte. Sono lieto di vivere in un secolo in cui avvengono simili prodigi. Ci fanno credere alla realtà delle cose che tutti noi trattiamo con leggerezza, come il senso del romantico, la passione e l'amore."
"Dimentichi che sono stato tremendamente crudele con lei."
"Temo che le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà brutale, più di ogni altra cosa. Hanno istinti meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma loro rimangono egualmente delle schiave alla ricerca del padrone. Amano essere dominate. Sono certo che sarai stato splendido. Non ti ho mai visto veramente in collera, ma riesco a immaginare come dovevi essere bello. E, dopotutto, due giorni fa mi hai detto una cosa che allora mi era sembrata una pura fantasia ma di cui oggi vedo l'assoluta verità e che rappresenta la chiave di tutto."
"Di che cosa si trattava, Harry?"
"Mi hai detto che per te Sibyl Vane rappresentava tutte le eroine sentimentali: che una sera era Desdemona, un'altra sera Ofelia; che se moriva come Giulietta, tornava in vita come Imogene."
"Adesso non tornerà più in vita," mormorò il giovane nascondendo il viso tra le mani.
"No, non ritornerà più in vita. Ha recitato la sua ultima parte. Ma devi vedere quella morte solitaria nel misero camerino solo come un singolare fosco frammento di una tragedia del tempo di re Giacomo, come una meravigliosa scena di Webster, di Ford, o di Cyril Tourneur. Quella ragazza non è mai realmente vissuta e quindi non è mai realmente morta. Per te, almeno, è sempre stata un sogno, un fantasma che volteggiava nelle commedie di Shakespeare abbellendole con la sua presenza, uno strumento che rendeva più ricca e gioiosa la musica di Shakespeare. Nel momento in cui toccò la vita reale la rovinò, e questa a sua volta rovinò lei. Per questo è scomparsa. Piangi per Ofelia, se vuoi, cospargiti il capo di cenere perché Cordelia è stata strangolata, maledici il cielo perché la figlia di Brabantio è morta, ma non sprecare lacrime per Sibyl Vane: è meno reale di tutti questi personaggi."
Ci fu un silenzio. La sera addensava l'oscurità nella stanza. Silenziosamente, con piedi d'argento, le ombre entravano furtive dal giardino e i colori abbandonavano, stanchi, le cose.
Dopo qualche tempo Dorian Gray sollevò lo sguardo. "Mi hai rivelato a me stesso, Harry," mormorò con una sorta di respiro di sollievo. "Tutto quello che hai detto lo sentivo, ma in un certo qual modo ne avevo paura e non riuscivo a chiarirmelo. Come mi conosci bene! Ma non parleremo più di quello che è successo. È stata una meravigliosa esperienza. È tutto. Chissà se la vita ha ancora in serbo per me qualcosa di altrettanto meraviglioso."
"La vita ha tutto in serbo per te, Dorian. Non c'è nulla che tu, con la tua straordinaria bellezza, non possa fare."
"Ma supponi che diventi brutto, vecchio e rugoso. Che cosa succederebbe in questo caso?"
"Ah, in questo caso," disse Lord Henry alzandosi per andarsene, "... allora, mio caro Dorian, dovresti lottare per vincere. Adesso la vittoria ti viene incontro. No, devi conservare la tua bellezza. Viviamo in un'epoca che legge troppo per essere saggia e che pensa troppo per essere bella. Non possiamo risparmiarti. E adesso indossa un abito più adatto e fatti portare al club. Siamo piuttosto in ritardo."
"Penso che ti raggiungerò all'Opera, Harry. Mi sento troppo spossato per mangiare. Qual è il numero del palco di tua sorella?"
"Ventisette, mi pare. È nel primo ordine. Troverai il nome sulla porta. Mi dispiace che tu non venga a pranzo."
"Non me la sento," disse Dorian distrattamente. "Ma ti sono davvero riconoscente per tutto quello che mi hai detto. Sei senz'altro il mio migliore amico. Nessuno mi ha mai capito come te."
"La nostra amicizia è solo all'inizio, Dorian," rispose Lord Henry stringendogli la mano. "Arrivederci. Spero di vederti prima delle nove e mezzo. Ricorda: canta la Patti."
Mentre la porta si chiudeva dietro di lui, Dorian Gray suonò il campanello e pochi minuti dopo Victor apparve con le lampade e abbassò gli scuri. Attese, impaziente, che l'uomo se ne andasse: pareva indugiare interminabilmente su ogni cosa.
Appena uscito, si precipitò verso il paravento e lo scostò. No, non erano avvenuti altri cambiamenti. Aveva saputo la notizia della morte di Sibyl Vane prima di lui. Sapeva gli avvenimenti della sua vita nel momento in cui si verificavano. Quella viziosa espressione di crudeltà che deturpava la bella linea della sua bocca senza dubbio era apparsa nell'attimo in cui la ragazza aveva inghiottito il veleno. Oppure il quadro rimaneva indifferente alle conseguenze e si limitava a registrare ciò che passava nella sua anima? Si domandò se fosse possibile, sperandolo, di poter vedere un giorno avvenire il cambiamento proprio sotto i suoi occhi, e nello sperarlo rabbrividì.
Povera Sibyl! Che storia patetica! Aveva spesso imitato la morte sulla scena, poi la morte in persona l'aveva toccata e portata via con sé. Come aveva recitato quell'orribile ultima scena? Lo aveva maledetto mentre moriva? No; era morta per amor suo e d'ora in poi l'amore gli sarebbe stato sempre sacro. Sibyl, sacrificando la vita, aveva espiato tutto. Non avrebbe più pensato a quel che gli aveva fatto sopportare quell'orribile sera a teatro. Avrebbe pensato a lei solo come a una meravigliosa figura tragica, mandata sulla scena del mondo per mostrare la suprema realtà dell'amore. Una meravigliosa figura tragica? Ricordando il suo aspetto infantile, i suoi modi amabili e imprevedibili, la sua timida grazia tremante, gli salirono le lacrime agli occhi. Si asciugò bruscamente le lacrime e guardò di nuovo il quadro.
Sentì che il momento di fare la sua scelta era irrevocabilmente giunto. Oppure la scelta era già stata fatta? Sì, la vita aveva deciso per lui: la vita e la sua infinita curiosità per la vita. Eterna giovinezza, passioni infinite, piaceri sottili e segreti, gioie sfrenate e ancor più sfrenati peccati: tutte queste cose sarebbero state sue. Il ritratto avrebbe portato il peso della sua vergogna: nient'altro.
Fu sopraffatto da un senso di dolore al pensiero dell'infamia riservata al bel volto del ritratto. Una volta, in un'infantile canzonatura di Narciso, aveva baciato, o finto di baciare, quelle labbra dipinte che ora gli sorridevano con espressione così crudele. Per mattine e mattine era rimasto seduto di fronte al ritratto, stupito della sua bellezza. A volte gli sembrava di esserne innamorato. E ora il suo destino era quello di alterarsi a ogni stato d'animo cui si fosse abbandonato? Sarebbe divenuto una cosa mostruosa e ignobile da nascondere in una stanza chiusa a chiave, da tener lontana dalla luce del sole che tanto spesso aveva reso più luminosa l'ondulata meraviglia d'oro dei suoi capelli? Che peccato! Che peccato!
Per un momento ebbe l'idea di pregare che l'orribile affinità tra lui e il quadro avesse fine. Era mutato come risposta a una sua preghiera, forse poteva mantenersi intatto come risposta ad un'altra preghiera. E tuttavia chi, conoscendo qualche cosa della vita, avrebbe rinunciato alla possibilità di rimaner giovane, per quanto fantastica potesse essere, o per quanto fatali fossero le conseguenze? D'altra parte, aveva davvero la possibilità di farlo? Era stata proprio la sua preghiera a determinare quella situazione? Non poteva essere in gioco qualche strano fenomeno scientifico? Se il pensiero poteva esercitare un'influenza su un organismo vivente, non avrebbe potuto esercitarla anche sulla materia morta e inorganica? Inoltre, anche se prive di pensieri o desideri consapevoli, le cose che stanno al di fuori di noi, non potrebbero vibrare all'unisono con i nostri sentimenti e le nostre passioni, non potrebbe un atomo legarsi all'altro nel segreto amore di una strana affinità? Ma il motivo non aveva nessuna importanza. Non avrebbe mai più tentato con una preghiera nessuna terribile potenza. Se il quadro doveva alterarsi, che si alterasse. Ecco tutto. Perché indagare troppo minuziosamente ?
Sarebbe stato un vero piacere osservarlo. Avrebbe potuto seguire la sua mente nei suoi segreti nascondigli. Il ritratto sarebbe stato il più magico degli specchi. Come gli aveva rivelato il suo corpo, gli avrebbe rivelato la sua anima. E quando per il quadro fosse giunto l'inverno, lui sarebbe stato ancora là dove la primavera freme sulla soglia dell'estate. Quando il sangue avrebbe abbandonato il suo volto, lasciando dietro di sé una pallida maschera di gesso dagli occhi offuscati, lui avrebbe conservato il fascino della giovinezza. Non un solo bocciolo della sua bellezza sarebbe mai appassito, non un impulso della sua vita sarebbe mai mancato. Come gli dei della Grecia, sarebbe stato forte, agile, pieno di vita. Che cosa importava quello che sarebbe successo all'immagine sulla tela? Lui sarebbe stato al sicuro. Questo solo contava.
Riportò il paravento davanti al quadro e, nel farlo, sorrise. Quindi si trasferì in camera da letto, dove il cameriere lo attendeva. Un'ora dopo era all'Opera e Lord Henry si chinava sulla sua poltrona.


IX

Il mattino dopo, mentre sedeva a colazione, entrò Basil Hallward.
"Sono contento di averti trovato, Dorian," disse con voce grave. "Ti ho cercato ieri sera e mi hanno detto che eri all'Opera. Naturalmente sapevo che era impossibile, ma avrei desiderato che avessi lasciato detto dove eri andato. Ho passato una serata tremenda; avevo quasi paura che a una tragedia ne seguisse un'altra. Avresti potuto telegrafarmi appena hai saputo la notizia. L'ho letta per caso nell'ultima edizione del Globe che ho trovato al club. Sono venuto qui immediatamente, mi sono sentito molto depresso non avendoti trovato. Non so dirti quanto sia addolorato: so quel che devi soffrire. Ma dov'eri? Sei andato a trovare la madre della ragazza? Per un momento ho pensato di raggiungerti là. Sul giornale c'era l'indirizzo: Euston Road, vero? Ma temevo di turbare un dolore che non ero in grado di alleviare. Povera donna! In che stato deve trovarsi! La sua unica figlia, oltretutto! Che cosa diceva?"
"Mio caro Basil, come faccio a saperlo?" mormorò Dorian Gray, sorseggiando con aria estremamente annoiata un vino chiarissimo da un delicato calice di vetro veneziano ornato di perline d'oro. "Ero all'opera. Avresti dovuto venirci anche tu. Ho conosciuto Lady Gwendolin, la sorella di Lord Henry. Eravamo nel suo palco. È una donna davvero affascinante e poi la Patti canta divinamente. Non parlare di queste cose spiacevoli. Se non si parla di una cosa, è come se non fosse mai avvenuta. Come dice Harry, è solo il parlarne che dà realtà alle cose. Devo precisare che non era figlia unica: c'è un maschio, un simpatico ragazzo, credo. Ma non lavora in teatro: fa il marinaio o qualcosa del genere. E ora parlami di te e di quello che stai dipingendo."
"Sei andato all'Opera?" disse Hallward, scandendo le parole e con una espressione di sofferenza trattenuta nella voce. "Sei andato all'Opera mentre Sibyl Vane giaceva priva di vita in una sordida camera d'affitto? Puoi parlarmi del, fascino di altre donne, della Patti che canta divinamente, prima ancora che la ragazza che amavi riposi in una tomba? Insomma, amico, cose orribili attendono quel suo corpicino bianco."
"Basta, Basil! Non voglio sentire queste cose!" esclamò Dorian alzandosi di scatto. "Non me ne parlare. Quel che è stato è stato. Il passato è passato."
"E, per te, ieri è il passato?"
"Che importanza ha l'effettivo trascorrere del tempo? Solo le persone superficiali impiegano anni per liberarsi da un'emozione. Chi sia padrone di sé può porre temine a una sofferenza con la stessa facilità con cui inventa un piacere. Non voglio essere in balia delle mie emozioni. Voglio servirmene, goderle e dominarle."
"È terribile, Dorian! Qualche cosa ti ha completamente trasformato! A vederti sei sempre il meraviglioso ragazzo che, ogni giorno, era solito venire nel mio studio a posare. Ma allora eri semplice, naturale, affettuoso, eri la creatura più innocente del mondo. Ora, non so che cosa ti è successo: parli come se non avessi né cuore né pietà. È l'influenza di Harry, lo vedo."
Il giovane arrossì e, avvicinandosi alla finestra, guardò per qualche istante il giardino verde che tremolava sotto l'intensa luce solare. "Basil, ad Harry io devo molto," disse alla fine, "più di quanto devo a te. Tu mi hai insegnato soltanto ad essere vanitoso."
"Bene, ne sono punito, Dorian... o lo sarò un giorno."
"Non capisco che cosa vuoi dire, Basil," esclamò Dorian voltandosi. "Non capisco che cosa vuoi dire. Che cosa vuoi?"
"Voglio il Dorian che ero solito dipingere," disse tristemente il pittore.
"Basil," disse il giovane, avvicinandosi a lui e posandogli una mano sulla spalla, "sei arrivato troppo tardi. Ieri, quando ho saputo che Sibyl Vane si era uccisa..."
"Si era uccisa! Santo cielo! Non ci sono dubbi?" gridò Hallward, fissandolo con un'espressione d'orrore.
"Mio caro Basil! Non penserai che si tratti di un volgare incidente? Naturalmente si è suicidata."
Basil Hallward si nascose il volto tra le mani. "È terribile," mormorò scosso da un brivido.
"No," disse Dorian Gray, "non c'è nulla di terribile in questo. È una delle grandi tragedie romantiche di questa epoca. Di regola, gli attori conducono una vita estremamente mediocre. Sono bravi mariti o mogli fedeli, o qualche cosa altrettanto noiosa. Sai quello che voglio dire: valori borghesi e tutto il resto. Quanto era diversa Sibyl! Ha vissuto la più bella delle sue tragedie. Era sempre un'eroina. L'ultima sera che recitò, quella in cui l'hai vista, recitò male perché aveva conosciuto la realtà dell'amore. Quando ne conobbe l'irrealtà, morì, come avrebbe dovuto morire Giulietta. Ritornò nella sfera dell'arte. Vi è qualche cosa della martire in lei: la sua morte ha tutta la patetica inutilità del martirio, tutta la sua bellezza sprecata. Ma, come ti stavo dicendo, non devi pensare che non abbia sofferto. Se tu fossi venuto ieri, in un certo momento, verso le cinque e mezzo, o le sei meno un quarto, mi avresti trovato in lacrime. Anche Harry, che era qui e che mi aveva portato la notizia, in realtà, non ha sospettato quel che stavo passando. Ho sofferto immensamente. Poi tutto è finito. Non posso ritornare a vivere un'emozione. Nessuno può, salvo gli individui sentimentali. E tu sei orribilmente ingiusto, Basil. Vieni qui per consolarmi. Questo è molto gentile da parte tua. Però mi trovi consolato e ti arrabbi. Proprio come le persone pietose! Mi ricordi una storia che mi ha raccontato Harry di un certo filantropo che aveva passato vent'anni della sua vita cercando di raddrizzare un torto, o di far modificare qualche legge ingiusta... ho dimenticato di cosa si trattasse precisamente. Alla fine riuscì nel suo intento e ci rimase malissimo: non aveva assolutamente più nulla da fare e quasi morì di ennui trasformandosi poi in un misantropo convinto. E a parte questo, mio caro vecchio Basil, se davvero vuoi consolarmi, insegnami piuttosto a dimenticare quel che è successo o a vederlo sotto la giusta angolatura artistica. Non è stato Gauthier a scrivere qualche cosa sulla consolation des arts? Ricordo di aver preso in mano un giorno nel tuo studio un libretto rilegato in pergamena e di aver trovato per caso questa bellissima frase. Bene, non sono come quel giovane di cui mi hai parlato quando eravamo insieme da Marlow, quello che era solito dire che la seta gialla poteva consolare di tutte le miserie della vita. Amo le belle cose che si possono toccare e tenere in mano: i vecchi broccati, i bronzi patinati, le lacche, gli avorii scolpiti, gli ambienti raffinati, il lusso, la pompa... tutte queste cose possono dare molto. Ma per me è ancor più importante il temperamento artistico che esse creano o che comunque rivelano. Come dice Harry, divenire lo spettatore della propria vita, significa sfuggire i fatti dell'esistenza che ci fanno soffrire. So che ti stupisce sentirmi parlare così. Non ti sei reso conto di quanto mi sono sviluppato. Quando mi hai conosciuto ero ancora uno scolaretto, ora sono un uomo. Ho nuove passioni, nuovi pensieri, nuove idee. Sono diverso, ma non devi volermi meno bene, sono cambiato, ma devi essere, sempre mio amico. Naturalmente sono molto affezionato a Harry, ma so che tu sei migliore di lui. Tu non sei più forte - temi troppo la vita - ma sei migliore. E quanto siamo stati felici insieme! Non abbandonarmi, Basil, e non litigare con me. Sono quello che sono. Non c'è altro da dire."
Il pittore si sentiva stranamente commosso. Quel giovane gli era infinitamente caro e la sua personalità aveva segnato la grande svolta nella sua arte. Non sopportava l'idea di rimproverarlo ancora. Dopotutto, la sua indifferenza era semplicemente uno stato d'animo passeggero. C'erano tante buone cose in lui, tante cose nobili.
"D'accordo, Dorian," disse alla fine con un triste sorriso, "non ti parlerò più di questa orribile faccenda. Spero solo che non si faccia il tuo nome. Oggi pomeriggio ci sarà l'inchiesta. Sei stato chiamato a testimoniare?"
Dorian Gray scosse il capo e nel sentire la parola "inchiesta" un'ombra di noia gli passò in viso. C'era qualche cosa di rozzo e volgare in tutte le cose di questo tipo.
"Non sanno il mio nome," rispose.
"Ma lei lo sapeva di certo."
"Solo il nome di battesimo e sono assolutamente sicuro che non lo ha detto a nessuno. Mi ha detto una volta che erano tutti piuttosto curiosi di sapere chi fossi e che lei diceva loro invariabilmente che mi chiamavo Principe Azzurro. È stato molto gentile da parte sua. Basil, devi farmi uno schizzo di Sibyl, vorrei avere di lei qualche cosa di più del ricordo di pochi baci e di alcune parole rotte e patetiche."
"Cercherò di fare qualche cosa, Dorian, se ti fa piacere. Ma devi ritornare a posare per me. Senza di te non posso continuare."
"Non posso più posare per te, Basil. È impossibile!" esclamò Dorian, arretrando di un passo. Il pittore lo guardò stupito. "Mio caro ragazzo, che assurdità!" esclamò. "Vuoi dire che il ritratto non ti piace? Dov'è? Perché lo hai coperto con un paravento? Lasciamelo vedere. È la miglior cosa che io abbia mai fatto. Togli quel paravento, Dorian: è semplicemente vergognoso che il tuo cameriere nasconda così la mia opera. Mi è sembrato che la stanza fosse diversa quando sono entrato."
"Il mio cameriere non c'entra, Basil. Non penserai che gli lasci disporre la stanza al mio posto? Qualche volta sistema i fiori e basta. No, sono stato io. Lo colpiva una luce troppo forte."
"Troppo forte? Ma nient'affatto, mio caro. È in una posizione magnifica. Fammelo vedere." E Hallward si diresse verso l'angolo della stanza.
Un grido di terrore uscì dalle labbra di Dorian Gray, e il giovane si precipitò tra il pittore e il paravento. "Basil," disse, pallidissimo in volto, "non devi vederlo. Non voglio che tu lo veda."
"Non guardare il mio quadro! Non parli sul serio. Perché non dovrei guardarlo?" esclamò Hallward ridendo.
"Se cerchi di vederlo, Basil, parola mia, non ti rivolgerò più la parola per tutta la vita. Parlo seriamente. Non ti do spiegazioni, e non me ne devi chiedere. Ma ricorda, se tocchi questo paravento, fra noi tutto è finito."
Hallward era come fulminato. Guardò Dorian Gray assolutamente sbigottito. Non l'aveva mai visto così: il giovane era pallido di collera, teneva stretti i pugni e le pupille erano simili a dischi di fiamma azzurra. Tremava tutto.
"Dorian!"
"Non parlare!"
"Ma che cosa è successo? Naturalmente non lo guarderò, se non vuoi," disse piuttosto freddamente il pittore, voltandosi e ritornando verso la finestra. "Però, davvero, mi pare piuttosto assurdo che io non possa vedere la mia opera, tanto più che intendo esporla a Parigi quest'autunno. Probabilmente prima dovrò darle un'altra mano di vernice e quindi un giorno o l'altro dovrò vederla. Perché non oggi?"
"Esporla? Vuoi esporla?" esclamò Dorian Gray, colto da uno strano senso di terrore. Tutti avrebbero saputo il suo segreto? Il pubblico avrebbe guardato a bocca aperta il mistero della sua vita? Impossibile. Bisognava fare qualche cosa - non sapeva che cosa - immediatamente.
"Sì, penso che non avrai nulla in contrario. George Petit sta raccogliendo i miei quadri migliori per una mostra speciale in rue de Sèze che si aprirà la prima settimana di ottobre. Il ritratto starà via soltanto un mese. Penso che per un periodo così breve te ne potrai separare facilmente. In realtà, sarai certamente fuori città e, se lo tieni sempre dietro un paravento, non deve importartene molto."
Dorian Gray si passò una mano sulla fronte. Era bagnata di sudore. Sentiva di essere sull'orlo di un tremendo pericolo. "Un mese fa mi hai detto che non l'avresti mai esposto," esclamò. "Come mai hai cambiato idea? Voi che fate di tutto per essere coerenti, cambiate idea proprio come gli altri. L'unica differenza è che i vostri cambiamenti di umore sono privi di significato. Non puoi aver dimenticato che mi hai assicurato con la massima solennità che nulla al mondo ti avrebbe indotto ad esporto. Hai detto la stessa cosa ad Harry." Si fermò improvvisamente; un lampo gli apparve negli occhi. Ricordò che una volta Lord Henry gli aveva detto un po' per scherzo e un po' sul serio: "Se vuoi passare uno strano quarto d'ora, fatti dire da Basil perché non vuole esporre il tuo quadro. A me lo ha detto ed è stata una rivelazione." Sì, forse anche Basil aveva il suo segreto. Avrebbe provato a chiederglielo.
"Basil," disse facendoglisi molto vicino e guardandolo diritto negli occhi, "ognuno di noi ha il suo segreto. Dimmi il tuo e ti dirò il mio. Perché non volevi esporre il mio ritratto?"
Il pittore rabbrividì involontariamente. "Dorian, se te lo dicessi, forse ti piacerei meno e rideresti certamente di me. Non potrei sopportare nessuna di queste due cose. Se vuoi che non veda più il tuo ritratto ne sono contento. Posso sempre guardare te. Se vuoi che la mia opera migliore rimanga sconosciuta, sono soddisfatto. La tua amicizia mi è più cara della fama e di qualunque riconoscimento."
"No, Basil, devi dirmelo," insistette Dorian Gray. "Credo di avere il diritto di saperlo." Il terrore era svanito, sostituito dalla curiosità. Era deciso a scoprire il segreto di Basil Hallward.
"Sediamoci, Dorian," disse il pittore turbato. "Sediamoci. E rispondi a questa domanda, almeno. Hai notato qualche cosa di strano nel quadro?... qualche cosa che in un primo momento probabilmente non ti aveva colpito, ma che ti si è rivelato improvvisamente?"
"Basil!" gridò il giovane stringendo con mani tremanti i braccioli della poltrona e fissandolo con occhi sbarrati.
"Vedo che lo hai notato. Non dire nulla. Aspetta di aver sentito quel che ho da dire. Dorian, dal momento in cui ti ho conosciuto, la tua personalità ha avuto su di me un'influenza straordinaria. Sono stato dominato da te, nell'anima, nella mente, in ogni mia forza. Per me tu eri divenuto l'incarnazione palese di quell'ideale invisibile il cui ricordo ossessiona noi artisti come un sogno squisito. Ti adorai, divenni geloso di chiunque ti parlasse. Volevo averti tutto per me. Ero felice solo quando ero insieme a te. Quando tu mi eri lontano, eri sempre presente nella mia arte. Naturalmente non ti ho mai fatto sapere nulla di tutto questo, sarebbe stato impossibile. Non avresti capito. Io stesso mi capivo appena. Sapevo solo che avevo visto la perfezione faccia a faccia, e che ai miei occhi il mondo era diventato meraviglioso, forse, perché in queste folli adorazioni c'è sempre un pericolo - quello di perderle - non minore di quello di conservarle... Passarono settimane e settimane ed ero sempre più assorbito da te. Poi si sviluppò una nuova fase. Ti avevo ritratto nella lucente armatura di Paride con il mantello da cacciatore e il lucido spiedo di Adone. Incoronato con i ricchi fiori di loto eri seduto sulla prora del vascello di Adriano e osservavi il torbido verde Nilo. Ti eri chinato sopra la calma polla di qualche bosco della Grecia e avevi contemplato nel silenzioso argento dell'acqua la meraviglia del tuo volto. E ogni cosa era come deve essere l'arte: inconscia, ideale, remota. Un giorno - un giorno fatale, penso, a volte - decisi di dipingere un meraviglioso ritratto di te come sei nella realtà: non nei costumi di età passate, ma nei tuoi abiti e nel tuo tempo. Non so dire se fosse la tecnica realistica, oppure solo lo splendore della tua personalità che si presentava direttamente dinanzi a me senza nebbie né veli, ma so che, mentre lavoravo, ogni pennellata, ogni strato di colore mi pareva rivelassero questo mio segreto. Ebbi paura che gli altri potessero vedere la mia idolatria. Sentivo, Dorian, di aver detto troppo, di aver messo nel quadro troppo di me stesso. Fu allora che decisi che non avrei mai esposto il quadro. Tu eri un po' seccato, ma allora non ti rendevi conto del significato che aveva per me. Ne parlai con Harry e lui rise. Ma non me ne importava. Quando il quadro fu terminato e io mi ci sedetti davanti da solo, capii che avevo ragione... Bene, dopo pochi giorni il quadro lasciò il mio studio e, appena mi liberai del fascino insopportabile della sua presenza, mi parve di essere stato sciocco nel vedervi qualche cosa di diverso dal fatto che tu sei bello e che io so dipingere bene. Anche ora non posso fare a meno di ritenere un errore il fatto che l'emozione provata creando si riveli davvero nell'opera creata. L'arte è sempre più astratta di quanto immaginiamo. La forma e il colore ci parlano di forma e colore e basta. Spesso mi pare che l'arte nasconda l'artista molto più di quanto non lo riveli. E così quando ho ricevuto questa offerta da Parigi decisi che il tuo quadro sarebbe stato il pezzo principale della mostra. Non mi venne mai in mente che avresti rifiutato. Ma ora vedo che hai ragione: non lo si può esporre. Non devi arrabbiarti con me, Dorian, per le cose che ti ho detto. Come ho detto una volta a Harry, tu sei fatto per essere adorato."
Dorian Gray respirò profondamente. Le guance ripresero colore e un sorriso gli giocò sulle labbra. Il pericolo era passato. Per il momento era salvo. E tuttavia non poteva fare a meno di provare una infinita pietà per il pittore che gli aveva fatto questa singolare confessione, domandandosi se, a sua volta, sarebbe mai stato dominato dalla personalità di un amico. Lord Henry aveva il fascino del pericolo, ma niente altro. Era troppo intelligente e troppo cinico per potersene innamorare. Ci sarebbe mai stato qualcuno capace di fargli provare questa strana idolatria? Era una delle cose che la vita aveva in serbo per lui?
"Mi sembra straordinario, Dorian," disse Hallward, "che tu abbia visto questo nel ritratto. L'hai davvero visto?"
"Vi ho visto qualche cosa," rispose, "una cosa che mi sembrava molto curiosa."
"Bene, non ti importa se ora gli do un'occhiata?"
Dorian scosse il capo. "Non me lo devi chiedere, Basil. Non posso lasciarti di fronte a quel quadro."
"Ma un giorno, certamente..."
"Mai."
"Bene, forse hai ragione. E adesso arrivederci, Dorian. Sei stato l'unica persona che abbia effettivamente influito sulla mia arte. Tutto quello che ho fatto di buono, lo devo a te. Ah! Non sai quanto mi è costato dirti quello che ti ho detto."
"Mio caro Basil," disse Dorian. "Che cosa mi hai detto? Semplicemente che sentivi di ammirarmi troppo. Non è nemmeno un complimento."
"Non voleva esserlo: era una confessione. E adesso che l'ho fatta, mi pare che qualche cosa sia uscito da me. Forse non si dovrebbe mai mettere in parole la propria adorazione."
"È stata una confessione molto deludente."
"E che cosa ti aspettavi, Dorian? Hai visto qualche altra cosa nel quadro? C'erano altre cose da vedere?"
"No, nient'altro. Perché me lo domandi? Ma non devi parlare di adorazione. È sciocco. Tu ed io siamo amici, Basil, e dobbiamo rimanerlo sempre."
"Hai trovato Harry," disse il pittore tristemente.
"Oh, Harry," esclamò il giovane con l'accenno di un sorriso. "Harry passa le giornate a dire cose incredibili e le serate a fare cose improbabili. Proprio il genere di vita che mi piacerebbe fare. Ma non credo che andrei da Harry se mi trovassi nei guai. Preferirei venire da te, Basil."
"Poserai ancora per me?"
"Impossibile!"
"Con questo rifiuto, rovini la mia vita di artista, Dorian. Nessuno incontra due ideali. Pochi ne incontrano uno."
"Non posso spiegarti, Basil, ma non devo posare per te. C'è qualche cosa di fatale in un ritratto.
Ha una vita propria. Verrò a casa tua a prendere il tè. Sarà altrettanto piacevole."
"Lo sarà di più per te, temo," mormorò Hallward in tono di rimpianto. "E adesso, arrivederci. Mi dispiace che tu non mi permetta di vedere una volta ancora il ritratto, ma non ci si può fare nulla. Capisco benissimo i tuoi sentimenti."
Mentre Basil lasciava la stanza, Dorian Gray sorrise tra sé. Povero Basil! Quanto poco sapeva del vero motivo! E com'era strano che, invece di essere costretto a rivelare il proprio segreto, fosse riuscito, quasi per caso, a cogliere il segreto dell'amico! Quante cose spiegavano quella strana confessione! Gli assurdi accessi di gelosia del pittore, la sua devozione sfrenata, gli stravaganti panegirici, le sue curiose reticenze... adesso capiva tutto e gliene dispiaceva. Gli pareva che ci fosse un elemento tragico in un'amicizia così tinta di sentimentalismo.
Sospirò e suonò il campanello. Bisognava nascondere il ritratto a qualunque costo. Non poteva correre nuovamente il rischio che venisse scoperto. Era stata una pazzia lasciare che rimanesse anche un'ora sola in una stanza in cui tutti i suoi amici potevano entrare.

X



Quando il cameriere entrò, lo osservò attentamente domandandosi se avesse mai pensato di dare un'occhiata dietro il paravento. L'uomo attendeva i suoi ordini assolutamente impassibile. Dorian accese una sigaretta, si avvicinò allo specchio e guardò. Vedeva alla perfezione il riflesso del viso di Victor: era una placida maschera di servilismo. Nulla da temere da quella parte. Comunque era meglio stare in guardia.
Parlando molto lentamente gli disse di riferire alla governante che voleva vederla e di andare poi dal corniciaio per chiedergli di mandare subito due uomini. Gli sembrò che il cameriere allontanandosi muovesse lo sguardo in direzione del paravento. Ma forse era solo la sua immaginazione.
Poco dopo entrò affannosamente nella biblioteca la signora Leaf, con il suo vestito di seta nero e i vecchi mezzi guanti di filo sulle mani rugose. Le chiese di dargli la chiave dello studio.
"Il vecchio studio, signor Dorian?" esclamò. "Ma è pieno di polvere. Devo farlo pulire e mettere a posto prima che lei entri. Non è assolutamente presentabile, signore. Proprio no."
"Non voglio che venga pulito, signora Leaf. Voglio solo la chiave."
"Bene, signore, si coprirà tutto di ragnatele quando entrerà. È chiuso da quasi cinque anni, da quando è morto sua signoria."
Dorian Gray trasalì sentendo accennare al nonno: ne aveva un ricordo odioso. "Non importa," rispose. "Voglio semplicemente dare un'occhiata al locale, nient'altro. Mi dia la chiave."
"Eccola, signore," disse la vecchia donna cercando nel mazzo con mani incerte e tremanti. "Ecco la chiave. La tolgo subito dal mazzo, ma non penserà di vivere lassù, signore? Sta così bene qui."
"No, no," esclamò lui irritato. "Grazie signora Leaf. Basta così."
La donna indugiò ancora un poco diffondendosi su alcuni particolari dell'andamento di casa. Dorian sospirò e le disse di fare come meglio credeva. La donna lasciò la stanza tutta sorrisi.
Appena la porta si chiuse, Dorian infilò la chiave in tasca e si guardò in giro. Lo sguardo gli cadde su un grande copriletto di seta color porpora, dai ricchi ricami in oro, uno splendido lavoro del tardo settecento veneziano che il nonno aveva trovato in un convento vicino a Bologna. Sì, l'avrebbe usato per coprire quell'orribile cosa. Forse era stato impiegato spesso come drappo funebre, adesso avrebbe nascosto qualche cosa che aveva una sua corruzione peggiore della corruzione della morte stessa: qualche cosa che avrebbe nutrito orrori e tuttavia non sarebbe mai morta. Quello che i vermi sono per i cadaveri, lo sarebbero stati i suoi peccati per l'immagine dipinta sulla tela. Avrebbero sfigurato la sua bellezza, rosicchiato la sua grazia. L'avrebbero contaminata e resa disgustosa. E tuttavia la cosa avrebbe continuato a vivere. Sarebbe sempre stata viva.
Rabbrividì e per un attimo rimpianse di non aver rivelato a Basil il vero motivo per cui desiderava nascondere il ritratto. Basil lo avrebbe aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry, e a quella ancor più dannosa che gli veniva dal suo stesso carattere. L'amore che gli portava - poiché proprio di amore si trattava - non aveva in sé nulla di men che nobile e intellettuale. Non era quella semplice ammirazione fisica per la bellezza che nasce dai sensi e muore quando i sensi sono esauriti. Era quell'amore che avevano conosciuto Michelangelo, Montaigne, Winckelmann e lo stesso Shakespeare. Sì, Basil avrebbe potuto salvarlo, ma ormai era troppo tardi. Era sempre possibile annientare il passato, bastavano il rimpianto, il rifiuto, l'oblìo, ma il futuro era inevitabile. C'erano in lui passioni che avrebbero trovato il loro terribile sfogo, sogni che avrebbero dato realtà all'ombra del loro peccato.
Tolse dal divano il grande tessuto oro e porpora che lo copriva e, reggendolo in mano, passò dietro il paravento. Il volto sulla tela era diventato ancora più ignobile? Gli pareva che non fosse cambiato e tuttavia provava un disgusto ancora più intenso. I capelli d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie: c'erano ancora. Soltanto l'espressione era alterata, orribile nella sua crudeltà. Come erano stati superficiali i rimproveri di Basil per Sibyl Vane, di fronte alla censura e al biasimo che vedeva nel quadro! Quanto leggeri e irrilevanti! Dalla tela, la sua stessa anima lo fissava e lo chiamava a giudizio. Un'espressione di sofferenza gli passò in viso; gettò il manto sontuoso sul ritratto. Proprio in quell'attimo bussarono alla porta. Si allontanò dal quadro mentre il cameriere entrava.
"Sono arrivati gli uomini, signore."
Sentì che doveva sbarazzarsi subito di quell'uomo. Non doveva sapere dove sarebbe stato portato il ritratto. C'era qualche cosa di subdolo in lui e lo sguardo era attento e infido. Sedette alla scrivania e scarabocchiò un biglietto per Lord Henry, chiedendo di mandargli qualche cosa da leggere e ricordandogli che avevano appuntamento quella sera alle otto e un quarto.
"Aspetti la risposta," disse porgendogli il biglietto, "e faccia entrare gli uomini."
Due o tre minuti dopo bussarono nuovamente e il signor Hubbard in persona, il celebre camiciaio di South Adler Street, entrò accompagnato da un giovane aiutante dall'aspetto un po' rozzo. Il signor Hubbard era un ometto florido, dalle basette rossicce, la cui ammirazione per l'arte era considerevolmente raffreddata dall'inveterata insolvibilità di quasi tutti gli artisti con cui aveva a che fare. Di regola, non si allontanava mai dal negozio. Aspettava che la gente andasse da lui ma per Dorian Gray faceva sempre un'eccezione. C'era in Dorian qualche cosa che affascinava chiunque. Era un piacere il solo fatto di vederlo.
"Che cosa posso fare per lei, signor Gray?" domandò strofinandosi le mani grassocce e coperte di lentiggini. "Ho voluto aver l'onore di venire personalmente. Mi è appena capitata tra le mani una cornice che è una bellezza, signore. L'ho trovata a un'asta. Stile fiorentino antico. Viene da Fonthill, penso. È l'ideale per un soggetto religioso, signor Gray."
"Mi dispiace che lei si sia disturbato a venire, signor Hubbard. Farò certamente un salto per dare un'occhiata alla cornice, anche se in questo momento l'arte religiosa non mi interessa molto, ma oggi volevo far portare un quadro all'ultimo piano. È piuttosto pesante e così ho pensato di chiederle un paio dei suoi uomini."
"Assolutamente nessun disturbo, signor Gray. Sono contentissimo di poterle fare un piacere. Qual è l'opera, signore?"
"Questa," disse Dorian, allontanando il paravento. "Potete trasportarlo così com'è, con la copertura e tutto. Non vorrei che si graffiasse salendo."
"Nessuna difficoltà, signore," disse il gioviale corniciaio, cominciando con l'aiuto dell'assistente a staccare il quadro dalle lunghe catene di ottone che lo reggevano. "E adesso dove lo dobbiamo portare, signore?"
"Le farò strada, signor Hubbard, se sarà così gentile da seguirmi. O forse è meglio che vada avanti lei. Mi dispiace che sia proprio all'ultimo piano. Saliremo per la scala principale che è più larga."
Tenne aperta la porta per farli passare in anticamera, poi cominciarono a salire. La ricchezza della cornice appesantiva moltissimo il quadro e ogni tanto, nonostante le ossequiose proteste del signor Hubbard che, con la mentalità del vero mercante, non sopportava assolutamente di vedere un gentiluomo fare qualche cosa di utile, Dorian dava una mano per aiutarli.
"Un bel carico da portare, signore," ansimò l'ometto, asciugandosi la fronte lucida di sudore, quando raggiunsero l'ultimo pianerottolo.
"Temo proprio che sia piuttosto pesante," mormorò Dorian aprendo la stanza che avrebbe custodito il singolare segreto della sua vita e che avrebbe nascosto la sua anima agli occhi degli uomini.
Non vi entrava da più di quattro anni, dal tempo in cui, bambino, la usava come stanza da giuochi e poi, più grandicello, da studio. Era un locale vasto, di belle proporzioni. Il defunto Lord Kelso lo aveva costruito appositamente per il nipote che, per la strana rassomiglianza con la madre e per altri motivi, aveva sempre odiato e cercato di tenere lontano, A Dorian sembrò poco cambiata. C'era l'enorme cassone italiano con i pannelli fantasticamente dipinti e le modanature d'oro annerito nel quale si era nascosto tante volte, da piccolo. C'era lo scaffale di legno lucido con i libri di scuola gualciti. Sulla parete, dietro, era appeso il lacero arazzo fiammingo dove un re e una regina sbiaditi giocavano a scacchi in un giardino mentre lì vicino una brigata di falconieri cavalcava reggendo sul polso guantato alcuni uccelli incappucciati. Come ricordava ogni particolare! Mentre si guardava in giro, gli ritornava in mente ogni momento della sua infanzia solitaria. Ricordò la purezza senza macchia della sua fanciullezza e gli parve orribile che proprio qui dovesse essere nascosto quel fatale ritratto. Quanto poco aveva pensato, in quei giorni ormai passati, a tutto ciò che lo attendeva!
Ma nella casa nessun posto era altrettanto sicuro da sguardi indiscreti. La chiave era nelle sue mani e nessun altro poteva entrare. Sotto il manto purpureo il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, disfatto, sozzo: che importanza aveva? Nessuno l'avrebbe potuto vedere. Neppure lui. Perché vedere la disgustosa corruzione della sua anima? Avrebbe conservato la giovinezza: questo bastava. E dopotutto non avrebbe potuto diventare migliore? Non c'era nessun motivo per cui il futuro dovesse essere così vergognoso. Avrebbe potuto incontrare un amore che lo avrebbe purificato e protetto da quei peccati che già sembrava gli si agitassero nello spirito e nella carne: quegli strani peccati privi di forma che proprio dal loro mistero traevano il loro fascino e la loro elusività. Forse, un giorno, l'espressione crudele sarebbe scomparsa da quelle labbra sensuali e scarlatte e lui avrebbe potuto mostrare al mondo il capolavoro di Basil Hallward.
No, era impossibile. Un'ora dopo l'altra, una settimana dopo l'altra, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire l'orrore del peccato, ma l'avrebbe attesa l'orrore della vecchiaia. Le guance sarebbero divenute incavate o cascanti, gialle zampe di gallina si sarebbero allargate intorno agli occhi scoloriti rendendoli disgustosi. I capelli avrebbero perso la lucentezza, la bocca sarebbe divenuta larga e cadente, sciocca e volgare, come sono le bocche dei vecchi. Avrebbe avuto il collo grinzoso, le mani fredde con l'azzurro delle vene in rilievo, come le ricordava in quel nonno così severo durante la sua infanzia. Non c'era scampo, bisognava nascondere il quadro.
"Lo porti dentro, per favore, signor Hubbard," disse stancamente voltandosi. "Mi dispiace - di averla fatta aspettare tanto tempo. Stavo pensando ad altro."
"Un po' di riposo fa sempre piacere, signor Gray," rispose il corniciaio che ansimava ancora. "Dove dobbiamo metterlo, signore?"
"Oh, in un posto qualsiasi. Qui andrà bene. Non lo voglio appeso. Basta che lo appoggi al muro. Grazie."
"È possibile dare un'occhiata all'opera, signore?"
Dorian sobbalzò. "Non le interesserebbe, signor Hubbard," disse, tenendogli gli occhi addosso. Si sentiva pronto ad assalirlo e a gettarlo a terra se avesse osato sollevare il prezioso drappo che nascondeva il segreto della sua vita. "Non la disturberò oltre. Le sono molto grato, è stato molto gentile a venire."
"Non è nulla, non è nulla, signor Gray. Sempre ai suoi ordini, signore." E il signor Hubbard scese pesantemente giù per le scale, seguito dall'aiutante che si voltò a guardare Dorian con un'espressione di timida meraviglia sul volto rozzo e brutto. Non aveva mai visto un uomo così meraviglioso.
Quando il rumore dei loro passi si spense, Dorian chiuse la porta e infilò la chiave in tasca. Adesso si sentiva sicuro, nessuno avrebbe visto quell'orribile cosa. Nessuno sguardo, eccetto il suo, avrebbe visto la sua vergogna.
Rientrando in biblioteca si accorse che erano appena passate le cinque e il tè era già stato preparato. Su un tavolino di legno scuro profumato, dai ricchi intarsi di madreperla - un regalo di Lady Radley moglie del suo tutore, una graziosa malata di professione che aveva trascorso al Cairo l'inverno precedente - era posato un biglietto di Lord Henry e, accanto, un libro rilegato in carta gialla con la copertina leggermente consumata e macchiata sul bordo. Sul vassoio del tè era posata una copia della terza edizione della St. James's Gazette. Evidentemente Victor era tornato. Si chiese se avesse incontrato gli uomini nel vestibolo mentre se ne andavano e fosse riuscito a carpire loro quello che avevano fatto. Si sarebbe accorto certamente della mancanza del quadro, anzi doveva già essersene accorto mentre preparava il tè. Il paravento non era stato rimesso a posto e sul muro si notava uno spazio vuoto. Forse lo avrebbe scoperto una notte nell'atto di scivolare di sopra per forzare la porta della stanza. Era una cosa terribile avere una spia nella propria casa. Aveva sentito di persone ricche ricattate per tutta la vita da un servo che aveva letto una lettera, oppure ascoltato di nascosto una conversazione, raccolto l'indirizzo scritto su un biglietto da visita, trovato un fiore appassito o un brandello di pizzo gualcito sotto un cuscino.
Sospirò e, dopo essersi versato il tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Gli diceva semplicemente che gli mandava il giornale della sera e un libro che avrebbe potuto interessarlo. Si sarebbe trovato al club alle otto meno un quarto. Aprì pigramente il giornale e lo scorse. Lo sguardo fu attratto da un segno a matita rossa in quinta pagina.
Indicava questo trafiletto:

INCHIESTA SULLA MORTE DI UN'ATTRICE. Questa mattina a Bell Tavern, in Oxton Road, il signor Danby, procuratore distrettuale, ha svolto un'inchiesta sulla morte di Sibyl Vane, una giovane attrice da poco assunta al Royal Theatre, Holborn. L'inchiesta si è conclusa con un verdetto di morte accidentale. Molta simpatia è stata dimostrata alla madre della defunta signorina, profondamente commossa durante la propria deposizione e durante quella del dottor Birrel che ha praticato la necroscopia della salma.

Si accigliò e, stracciato in due il giornale, attraversò la stanza e lo gettò via. Com'era sgradevole tutto ciò. E come questa sgradevolezza rendeva terribilmente vere le cose. Era leggermente irritato con Lord Henry che gli aveva fatto avere la notizia. Ed era stato davvero sciocco da parte sua segnarla a matita rossa. Victor avrebbe potuto leggerla. Sapeva anche troppo bene l'inglese per poterlo fare.
Forse l'aveva letta e aveva cominciato a sospettare qualche cosa. Ma che cosa importava? Che cosa aveva a che fare Dorian Gray con la morte di Sibyl Vane? Nulla da temere. Dorian Gray non l'aveva uccisa.
Lo sguardo gli cadde sul libro dalla copertina gialla che Lord Henry gli aveva fatto avere. Si domandò di che cosa si trattasse. Andò verso il piccolo scaffale ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato il lavoro di una strana specie di api egiziane dedite a lavori in argento e, preso il volume, sprofondò in una poltrona e cominciò a sfogliarlo. Dopo pochi minuti era preso dalla lettura. Era il libro più strano che avesse mai letto.
Gli pareva che tutti i peccati del mondo, in abiti squisiti e al dolce suono del flauto, gli passassero davanti in muta processione. Cose che aveva appena debolmente sognato divennero reali. Cose che non aveva mai sognato gli si rivelarono a poco a poco.
Era un romanzo senza intreccio e con un solo personaggio, la pura analisi psicologica di un giovane parigino che aveva trascorso la vita cercando di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e le idee di ogni altro secolo fuorché del suo, e di riassumere in sé, per così dire, i vari stati d'animo che lo spirito del mondo aveva attraversato, amando per la loro artificiosità sia quelle rinunce prive di saggezza che gli uomini hanno scioccamente chiamato virtù, sia quelle naturali ribellioni cui i saggi tuttora danno il nome di peccato. Lo stile in cui era scritto era quel curioso stile prezioso, a un tempo vivido e oscuro, pieno di argot e di arcaismi, di espressioni tecniche e di elaborati giri di parole, proprio delle opere di alcuni dei migliori esponenti della scuola francese dei symbolites. Vi erano metafore mostruose come orchidee e dal colore altrettanto elusivo. La vita dei sensi veniva descritta nel linguaggio della filosofia mistica. A volte era difficile capire se si leggevano le estasi spirituali di un santo medioevale o le morbose confessioni di un moderno peccatore. Era un libro velenoso. Il greve odore dell'incenso pareva esalare dalle sue pagine e turbare la mente. Il ritmo puro delle frasi, la monotonia sottile della loro musica, così ricca di complicati ritornelli e di movimenti minuziosamente ripetuti, producevano nella mente del giovane, intento a leggerne un capitolo dopo l'altro, una specie di fantasticheria, una sognante malattia, che gli impedì di accorgersi che il giorno era alla fine e che cominciavano a salire le ombre.
Senza nubi, trafitto da un'unica stella solitaria, un cielo verderame luceva oltre le finestre. Continuò a leggere a questa debole luce finché non vide più. Poi, quando il cameriere gli ebbe ricordato più volte che era tardi, si alzò, andò nella stanza vicina, posò il libro sul piccolo tavolo fiorentino che aveva sempre accanto al letto e cominciò a vestirsi per il pranzo.
Erano quasi le nove quando raggiunse il club, dove trovò Lord Henry seduto solo nel salone di soggiorno con un'aria molto annoiata.
"Mi dispiace moltissimo, Harry," esclamò, "ma in realtà è tutta colpa tua. Quel libro che mi hai mandato mi ha talmente affascinato che ho lasciato passare il tempo senza accorgermi."
"Sì, immaginavo che ti sarebbe piaciuto," rispose l'ospite alzandosi.
"Non ho detto che mi è piaciuto, Harry. Ho detto che mi ha affascinato. C'è una grande differenza."
"Ah, te ne sei accorto?" mormorò Lord Henry. E passarono nella sala da pranzo.

XI



Per anni Dorian Gray non riuscì a liberarsi dall'influenza di questo libro. O forse sarebbe più esatto dire che non cercò mai di liberarsene. Fece arrivare da Parigi non meno di nove copie di lusso della prima edizione e le fece rilegare in diversi colori perché si intonassero ai suoi vari stati d'animo e alle mutevoli fantasie di una natura sulla quale a volte pareva aver perso ogni controllo. Il protagonista, il meraviglioso giovane parigino nel quale il temperamento romantico e quello scientifico si erano così stranamente fusi, divenne per lui una sorta di suo precursore. E, in realtà, tutto il libro gli pareva contenere la storia della sua vita, scritta prima che lui l'avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del fantastico protagonista del romanzo. Non conobbe mai, in realtà non ebbe nessun motivo per conoscerlo, quel terrore un po' grottesco per gli specchi, per le superfici lucide di metallo, per l'acqua calma, che aveva colto il giovane parigino fin dalla giovinezza, provocato dall'improvviso decadimento di una bellezza un tempo davvero notevole. Con una gioia quasi crudele, forse in ogni gioia, e certo in ogni piacere, la crudeltà ha la sua parte, era solito leggere l'ultima parte del libro, con il tragico anche se un po' ridondante resoconto del dolore e della disperazione dell'uomo che aveva perso ciò che più apprezzava negli altri e nella vita.
Infatti la meravigliosa bellezza che aveva così affascinato Basil Hallward, e molti altri con lui, sembrava non abbandonarlo mai. Anche quelli che avevano sentito dire le peggiori cose sul suo conto, e di tanto in tanto strane voci sul suo modo di vivere si diffondevano per Londra e diventavano argomento di chiacchiere nei club, quando lo vedevano non potevano credere a nulla di disonorevole su di lui. Aveva sempre l'aspetto di una persona che non si è lasciata macchiare dal mondo. Uomini che facevano discorsi osceni tacevano immediatamente quando appariva Dorian Gray. Nella purezza del suo viso c'era qualcosa che pareva rimproverarli. Bastava la sua presenza per risvegliare in loro il ricordo dell'innocenza che avevano macchiato. Si domandavano come un essere così affascinante e pieno di grazia avesse potuto sfuggire alla vergogna di un'epoca tanto sordida quanto sensuale.
Spesso, di ritorno da una di quelle sue assenze misteriose e prolungate che facevano nascere così strane congetture tra quelli che erano i suoi amici, o che credevano di esserlo, saliva di soppiatto fino alla stanza chiusa, apriva la porta con la chiave che non lasciava mai e, con lo specchio, si poneva davanti al ritratto di Basil Hallward. Guardava ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora quello giovane e gentile che gli sorrideva dalla liscia superficie di vetro e la violenza del contrasto acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza e sempre più interessato alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una mostruosa terribile soddisfazione, le rughe ripugnanti che marcavano la fronte avvizzita, o avanzavano lentamente intorno alla bocca pesante e sensuale, chiedendosi a volte se fossero più orribili i segni del peccato o quelli dell'età. Poneva le sue mani bianche accanto a quelle ruvide e tumefatte del quadro e sorrideva. Rideva di scherno verso quel corpo sformato e quelle membra indebolite.
Di notte, in verità, quando giaceva insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza di una piccola taverna malfamata vicino ai Docks che era solito frequentare travestito e sotto falso nome, c'erano momenti in cui pensava alla rovina in cui aveva precipitato la sua anima con una pietà tanto più cocente in quanto puramente egoistica. Ma simili momenti erano rari. Quella curiosità per la vita che per primo Lord Henry aveva risvegliato in lui mentre erano seduti insieme nel giardino del loro amico sembrava aumentare quanto più veniva soddisfatta. Quanto più sapeva tanto più desiderava sapere. Aveva folli appetiti che quanto più venivano soddisfatti tanto più si facevano ingordi.
Ma tutto ciò non lo spingeva affatto ad essere trascurato, perlomeno nei rapporti sociali. Un paio di volte al mese durante l'inverno, o tutti i mercoledì durante la season, apriva la sua bella casa e i più celebri musicisti del mondo affascinavano i suoi ospiti con i prodigi della loro arte. Le sue cenette intime, che organizzava sempre assistito da Lord Henry, erano celebri sia per l'accurata scelta degli ospiti e per l'intelligente disposizione dei posti a tavola, che per il gusto squisito mostrato nella decorazione della tavola, con sottili armonie di fiori esotici, di tessuti ricamati, di antico vasellame d'argento e d'oro. Erano molti, in realtà, specialmente tra i giovanissimi quelli che vedevano, o immaginavano di vedere, in Dorian Gray la personificazione di un tipo umano spesso sognato ai tempi di Oxford o di Eton, un tipo che univa in sé qualche cosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la distinzione e la perfezione di modi del cittadino del mondo. Dorian Gray appariva loro, uno di quelli che Dante dice che hanno cercato di "rendersi perfetti adorando la bellezza". Come Gauthier, era uno di coloro per i quali "il mondo visibile esiste".
E certo per lui la vita stessa era la prima e la maggiore delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che un'introduzione. La moda, che per un attimo rende universali le cose più fantastiche, e il dandismo che a suo modo è un tentativo di asserire l'assoluta modernità della bellezza, naturalmente avevano per lui il loro fascino. Il suo modo di vestire, lo stile personalissimo che di tanto in tanto ostentava, avevano una marcata influenza sui giovani raffinati dei balli di Mayfair e delle vetrine dei club di Pall Mall, che lo copiavano in ogni suo gesto e che cercavano di ripetere il fascino casuale delle sue eleganti, anche se per lui non troppo serie, affettazioni
Infatti, pur accettando con molta prontezza la posizione che gli era stata immediatamente offerta non appena raggiunta la maggiore età, e pur provando, in verità, un sottile piacere all'idea di poter essere per la Londra dei suoi tempi ciò che per la Roma di Nerone era stato l'autore del Satyricon, tuttavia nell'intimo desiderava essere qualche cosa di più che un semplice arbiter elegantiarum a cui chiedere consigli sul modo di portare un gioiello, di annodare una cravatta, di tenere un bastone. Cercava, invece, di elaborare un nuovo stile di vita, con la sua filosofia ragionata e i suoi principi ordinati, uno stile che nella spiritualizzazione dei sensi trovasse la sua più alta realizzazione.
L'adorazione dei sensi spesso e molto giustamente è caduta in discredito perché gli uomini provano un istintivo terrore verso le sensazioni e le passioni più forti di loro che sanno di dividere con forme di esistenza meno organizzate. Ma a Dorian Gray pareva che nessuno avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti animaleschi e selvaggi solo perché l'umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la sofferenza invece di proporsi di farne elementi di nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante avrebbe dovuto essere un raffinato istinto del bello. Quando si voltava a guardare il cammino dell'uomo nella storia, un senso di perdita lo ossessionava. A quante cose si era rinunciato! E per un così misero fine! Si erano viste folli rinunce dettate dall'ostinazione, forme mostruose di autopunizione e di abnegazione nate dalla paura e finite in forme di degradazione infinitamente più terribili di tutte quelle presunte degradazioni da cui, nella loro ignoranza, gli uomini avevano cercato di fuggire. La natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l'anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava come compagni all'eremita gli animali dei campi.
Sì, come aveva preannunciato Lord Henry, sarebbe sorto un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita e l'avrebbe salvata dal duro e sgradevole puritanesimo che ai giorni nostri conosce un singolare risveglio. Questo edonismo avrebbe dovuto certamente appoggiarsi all'intelletto ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi implicanti la rinuncia a qualunque esperienza emotiva. Suo scopo infatti avrebbe dovuto essere l'esperienza stessa e non i suoi frutti, dolci o amari che fossero. Avrebbe ignorato sia l'ascetismo che mistifica i sensi, sia la volgare dissolutezza che li assopisce. Avrebbe invece insegnato agli uomini a concentrarsi negli attimi di una vita che è essa stessa solo un attimo.
A pochi di noi non è mai capitato di svegliarsi prima dell'alba, sia dopo una di quelle notti senza sogni che quasi ci fanno innamorare della morte, che dopo una di quelle notti di orrore e di gioia mostruosa quando nelle regioni della mente passano fantasmi più terribili della realtà stessa, fantasmi imbevuti di quella vita ricca di colore che si nasconde nelle cose grottesche e che dà all'arte gotica la sua duratura vitalità, essendo quest'arte, si potrebbe pensare, propria di chi ha avuto la mente turbata dal malanno della reverie. A poco a poco, bianche dita si insinuano attraverso le cortine e paiono tremare. Ombre mute dalle nere forme fantastiche strisciano negli angoli della stanza e vi si acquattano. Fuori, gli uccelli si agitano tra le fronde, si sentono i rumori degli uomini che vanno al lavoro, o i sospiri e i singhiozzi del vento che scende dai monti e si aggira intorno alla casa solitaria come se temesse di svegliare chi dorme e tuttavia costretto a evocare il sonno dalla sua purpurea caverna. I soffici veli di nebbia si sollevano a uno a uno, a gradi le cose riacquistano forma e colore, e noi vediamo l'alba che restituisce al mondo l'antico aspetto. I pallidi specchi riprendono la loro vita di imitazione. I candelabri senza fiamma sono dove li abbiamo lasciati. Accanto, c'è il libro a metà intonso che stavamo studiando o il fiore, sostenuto dal filo di ferro, che portavamo al ballo, la lettera che, per timore, non abbiamo letto o che abbiamo letto troppe volte. Nulla ci appare cambiato. Dalle ombre della notte esce di nuovo la vita che conosciamo. Dobbiamo riprenderla dove l'abbiamo lasciata e a questo punto, pian piano, ci pervade la terribile sensazione di dover continuare a impiegare energia nello stesso monotono circolo di abitudini stereotipate, o anche il desiderio sfrenato che una mattina i nostri occhi si possano aprire su un mondo che nell'oscurità si è rinnovato per il nostro piacere, un mondo dove le cose abbiano nuove forme e colori, siano diverse o abbiano altri segreti, un mondo in cui il passato abbia poca o nessuna importanza, o comunque sopravviva in forme ignare del dovere o del rimpianto: anche il ricordo della gioia, infatti, possiede una sua amarezza e quello del piacere una sua pena.
La creazione di simili mondi pareva a Dorian Gray il vero scopo, o uno dei veri scopi, della vita; e nella sua ricerca di sensazioni a un tempo nuove e piacevoli, provviste di quegli elementi insoliti così essenziali per lo spirito romantico, adottava spesso modi di pensiero che sapeva essere del tutto estranei alla sua natura. Si abbandonava alla loro sottile influenza, e poi, dopo averne per così dire afferrato il colore e dopo aver soddisfatto la sua curiosità intellettuale, li lasciava perdere con quella curiosa indifferenza che non è incompatibile con un temperamento ardente, ma che anzi, secondo alcuni psicologi moderni, spesso ne è una condizione.
Una volta si sparse la voce che stesse per convertirsi al cattolicesimo, e certamente il rito romano aveva sempre avuto per lui un grande fascino. Il sacrificio quotidiano, più terribile di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva sia per il suo superbo rifiuto dell'evidenza dei sensi che per la primitiva semplicità dei suoi elementi e per l'eterno pathos della tragedia umana che vorrebbe rappresentare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e guardare il sacerdote nei suoi rigidi paramenti fioriti quando scostava lentamente con le bianche mani il velo del tabernacolo o sollevava l'ostensorio tempestato di gemme simile di forma a una lanterna, con quella pallida ostia che a volte si direbbe volentieri sia davvero il panis coelestis, il pane degli angeli; o quando, indossando le vesti della passione di Cristo, spezzava l'ostia nel calice battendosi il petto per i suoi peccati. I turiboli fumanti, agitati nell'aria come grandi fiori dorati da ragazzi severi vestiti di pizzi e porpora, avevano su di lui un sottile fascino. Mentre usciva era solito guardare con un senso di meraviglia i confessionali bui e sedeva a lungo nell'ombra profonda ascoltando uomini e donne che sussurravano attraverso la grata consunta la storia vera della loro vita.
Ma non commise mai l'errore di arrestare il suo sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un sistema, o di confondere con la casa dove si vive una locanda adatta solo per il sonno di una notte o per le poche ore di una notte senza stelle in cui la luna si mostra a fatica. Il misticismo, con il suo meraviglioso potere di renderci insolite le cose banali, e il sottile antinomismo che pare accompagnarlo sempre, lo interessarono per un breve periodo; per un altrettanto breve periodo si dedicò alle dottrine del movimento darwinista tedesco, e provò un singolare piacere nel far risalire i pensieri e le passioni degli uomini a qualche perlacea cellula cerebrale, o a qualche bianco nervo del corpo, divertendosi all'idea dell'assoluta dipendenza dello spirito da determinate condizioni fisiche, sane o malate, normali o morbose. Tuttavia, come già si è detto, nessuna teoria della vita gli pareva avere qualche importanza se paragonata alla vita stessa. Era acutamente consapevole di quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è separata dall'azione e dall'esperienza. Sapeva che i sensi non meno dell'anima hanno i loro misteri spirituali da rivelare.
Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine profumate provenienti dall'Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una controparte nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al misticismo, perché l'ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l'intelletto e la magnolia colora l'immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e di valutare le molteplici influenze delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe che, dicono, scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il soffitto rosso e oro e pareti di lacca verde oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati strappavano musiche selvagge da piccole cetre, o gravi tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre negri sorridenti battevano con monotonia su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in turbante soffiavano in lunghi pifferi di canna o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal cappuccio e orribili vipere cornute. I tempi discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo commuovevano, quando ormai la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non ridestavano più il suo interesse. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile trovare sia nelle tombe di popoli scomparsi, che tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non devono mai vedere, e sul quale nemmeno i giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di flagellazione, le giare di terracotta degli indiani che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come quelli che Alfonso de Ovalle udì in Cile, i sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di singolare dolcezza. Aveva zucche dipinte, piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino messicano nel quale l'aria non viene soffiata ma aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato dalle sentinelle che siedono tutto il giorno su alti alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil che ha due linguette vibranti di legno e viene percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa lattiginosa delle piante; le campane yotl degli aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto dalla pelle di grossi serpenti come quello che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui suono pieno di tristezza ci lasciò una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava e provava uno strano piacere al pensiero che l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle orribili voci. Tuttavia dopo qualche tempo se ne stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava con gioia rapita il Tannhäuser, ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della tragedia della sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse, ammiraglia di Francia, con un vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per anni interi, e in verità bisogna dire che non lo abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei loro astucci le varie pietre della sua collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce artificiale, il cimofano striato da un filo d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino, i carbonchi dall'intenso colore scarlatto e dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle arancioni o violette e le ametiste con i loro strati alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza perlacea della pietra lunare, lo spezzato arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di dimensioni straordinarie e di colore intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli intenditori gli invidiavano.
Sui gioielli scoprì anche storie meravigliose. Nella Clericalis Disciplina di Alfonso si menzionava un serpente dagli occhi di vero giacinto, e nell'avventurosa storia di Alessandro, il conquistatore di Ematia, si diceva che avesse trovato nella valle del Giordano serpenti "con collane di autentici smeraldi che spuntavano sul loro dorso". Filostrato riferisce che il cervello di un drago conteneva una gemma e che "mostrandogli lettere d'oro e una tunica scarlatta" fu possibile far cadere il mostro in un sonno magico e ucciderlo. Secondo il grande alchimista Pierre de Boniface, il diamante rende invisibili e l'agata indiana eloquenti. La corniola calma la collera, il giacinto favorisce il sonno e l'ametista dissipa i fumi del vino. Il granato scaccia i demoni e l'opale ha tolto alla luna il suo colore. La selenite cresce o cala a seconda della luna e solo il sangue di capretto può macchiare il meloceo che rivela i ladri. Leonardo Camillus aveva visto una pietra bianca tolta dal cervello di un rospo appena ucciso e che era un antidoto sicuro contro i veleni. Il bezoar, che si trova nel cuore del daino arabo, è un amuleto contro la peste. Nei nidi degli uccelli d'Arabia si trova l'aspilate, che secondo Democrito protegge chi lo porta dai pericoli del fuoco.
Durante la cerimonia dell'incoronazione, il re di Ceylon attraversa a cavallo la città tenendo in mano un grosso rubino. Le porte del palazzo del Prete Gianni erano "di sardio e portavano incastonate le corna dell'aspide cornuta, onde nessuno potesse entrare portando veleni". Sul frontone c'erano "due mele d'oro, nelle quali erano incastonati due carbonchi", perché di giorno scintillasse l'oro e i carbonchi di notte. Nello strano romanzo di Lodge Una margherita in America, si afferma che nella stanza della regina si potevano osservare "tutte le caste donne del mondo, cesellate in argento, che vedevano con limpidi occhi di crisalidi, carbonchi, zaffiri e verdi smeraldi". Marco Polo aveva visto gli abitanti del Cipango porre perle rosa nella bocca dei morti. Un mostro marino si innamorò di una perla che un pescatore portò al re Perozes, uccise il ladro, e pianse per sette lune la perdita della sua amata. Quando gli Unni attirarono il re nella grande fossa - è Procopio che lo racconta - egli la gettò via e non la ritrovò più nonostante l'imperatore Anastasio avesse offerto cinque libbre d'oro per averla. Il re del Malabar aveva mostrato a un veneziano un rosario di trecentoquattro perle, una per ognuno degli dei che adorava.
Quando il duca Valentino, figlio di Alessandro VI, fece visita a Luigi XII di Francia, montava, secondo Brantôme, un cavallo coperto di piastre d'oro e portava un cappello ornato da un doppio giro di rubini che emettevano intensi bagliori. Carlo d'Inghilterra cavalcava con staffe sospese a cinghie ornate da quattrocentoventun diamanti. Riccardo II aveva un mantello coperto di rubini valutato trentamila marchi. Hall descrive Enrico VII mentre si reca alla Torre di Londra prima dell'incoronazione, "con un farsetto a ricami d'oro, la piastra pettorale ricamata con diamanti e altre pietre preziose e intorno al collo una grande gorgera tempestata di enormi rubini". I favoriti di Giacomo I portavano orecchini di smeraldi avvolti in filigrana d'oro. Edoardo II regalò a Piers Gaveston un'armatura di oro rosso tempestata di giacinti, un collare di rose d'oro con turchesi e un elmo parsemé di perle. Enrico II portava guanti ingioiellati lunghi fino al gomito e aveva un guanto da falcone ornato con dodici rubini e cinquantadue grandi perle orientali. Il cappello ducale di Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna della sua casata, era ornato di perle a goccia e di zaffiri.
Com'era raffinata la vita d'un tempo! Com'erano fastosi la sua pompa e i suoi ornamenti! Perfino la letteratura sul lusso dei morti era meravigliosa.
Poi rivolse l'attenzione ai ricami e agli arazzi che, nelle gelide stanze delle regioni nordiche, sostituiscono gli affreschi. Mentre si dedicava a questo studio - ebbe sempre la straordinaria capacità di lasciarsi completamente assorbire dalla cosa che lo interessava in quel momento, qualunque fosse - provò un'infinita tristezza al pensiero della rovina che il tempo infliggeva alle cose belle e meravigliose. A questa rovina, comunque, lui era sfuggito. Le estati si susseguivano, le gialle giunchiglie fiorivano e morivano, notti d'orrore ripetevano la storia della loro vergogna, ma Dorian Gray non subiva nessun cambiamento. L'inverno non deformava il suo volto, né segnava il suo incarnato fresco come un fiore. Com'era diversa la sorte delle cose materiali! Dov'erano andate? Dov'era la grande veste color del croco, per la quale gli dei avevano combattuto contro i giganti, che brune fanciulle avevano tessuto per il piacere di Atena? Dov'era l'immenso velario che Nerone aveva teso sopra il Colosseo a Roma, quella titanica vela di porpora sulla quale era raffigurato il cielo stellato e Apollo che conduceva un carro tirato da bianchi cavalli dai finimenti d'oro? Avrebbe desiderato vedere le singolari tovaglie tessute per il Sacerdote del Sole, sulle quali erano esposti i piatti e le leccornie più squisiti che si potessero desiderare a una festa; il sudario del re Cilperico, con le sue trecento api d'oro; le vesti fantastiche che avevano suscitato l'indignazione del vescovo del Ponto e che portavano figure di "leoni, pantere, orsi, cani, foreste, rocce, cacciatori: tutto ciò che in realtà un pittore può copiare dalla natura"; il mantello indossato una volta da Carlo d'Orléans, sulle cui maniche erano ricamati i versi di una canzone che cominciava con "Madame, je suis tout joyeux" mentre il pentagramma dell'accompagnamento musicale era lavorato in filo d'oro e ogni nota, di forma quadrata come allora si usava, era composta da quattro perle. Aveva letto della stanza nel palazzo di Reims preparata per la regina Giovanna di Borgogna, decorata con "milletrecentoventun pappagalli ricamati, recanti il blasone del re, e cinquecentosessantun farfalle dalle ali parimenti adorne del blasone della regina, il tutto lavorato in oro". Caterina de' Medici si era fatta fare una coltre da lutto di velluto nero cosparso di mezzelune e di soli. Le cortine dei baldacchino di damasco erano ornate di ghirlande e intrecci di foglie su fondo oro e argento, e i bordi frangiati di ricami di perle; il letto era in una stanza dalle pareti tappezzate da una fila di stemmi della regina fatte con appliques di velluto nero su tessuto d'argento. Luigi XIV aveva nel suo appartamento delle cariatidi ricamate in oro alte cinque metri. Il letto da cerimonia di Sobieski, re di Polonia, era di broccato d'oro di Smirne sul quale, con turchesi, erano ricamati versetti del Corano. I sostegni d'argento dorato erano meravigliosamente cesellati e adorni di medaglioni di smalto e pietre preziose. Era stato catturato nel campo turco davanti a Vienna e, sotto i tremuli bagliori d'oro del baldacchino, era stato innalzato lo stendardo di Maometto.
Così, per un anno intero, cercò di accumulare i più squisiti esemplari di tessuti e ricami che poté trovare: delicate mussole di Delhi finemente intessute di palme dalle foglie d'oro e trapunte con ali iridescenti di scarabei; garze di Dacca che per la loro trasparenza sono conosciute in Oriente con il nome di "aria filata", "acqua corrente", "rugiada della sera"; strani tessuti a figure di Giava; elaborate tappezzerie cinesi; libri rilegati in raso fulvo o in seta azzurro pallido intessuta di fleurs de lys, di uccelli e figure; veli li lacis lavorati a punto ungherese; broccati siciliani e rigidi velluti spagnoli; tessuti georgiani ricamati con monete d'oro, e fukusa giapponesi dalle sfumature color verde oro e dagli uccelli riccamente piumati.
Aveva anche una particolare passione per le vesti ecclesiastiche, come del resto per tutto ciò che aveva a che fare con il culto cattolico. Nelle lunghe cassapanche di cedro, allineate nella galleria settentrionale della sua casa, aveva riposto rari e splendidi esemplari di quello che in realtà è l'abbigliamento della sposa di Cristo, obbligata a indossare porpora, gioielli e lini raffinati per nascondere il corpo pallido e macerato, consunto dalle sofferenze volute e ferito dal volontario martirio. Possedeva un magnifico piviale di seta cremisi e di damasco intessuto d'oro, con un disegno ripetuto di melograni d'oro tra fiori stilizzati a sei petali e, sui due lati, un motivo di ananas in grani di perla. Gli orphreys erano divisi in pannelli che rappresentavano scene della vita della Vergine mentre sul cappuccio era raffigurata, con ricami di seta colorata, la sua Incoronazione. Era un lavoro italiano del XV secolo. Un altro piviale era di velluto verde ricamato a mazzi di fiori d'acanto in forma di cuore dai quali spuntavano bianchi fiori dal lungo stelo, resi a rilievo con filo d'argento e pietre colorate. Il fermaglio portava una testa di serafino di filigrana d'oro in rilievo. Gli orphreys erano tessuti in seta rossa e oro, abbellita da vari medaglioni di santi e martiri tra i quali San Sebastiano. Aveva anche pianete di seta color dell'ambra, di seta azzurra e broccato d'oro, di seta gialla damascata e intessuta d'oro con scene della passione e della crocifissione di Cristo, ricamate con leoni e pavoni e altri emblemi; dalmatiche di seta bianca e di seta rossa di Damasco, decorata con tulipani e delfini e fleurs de lys; paliotti d'altare di velluto cremisi e di lino blu; e corporali e veli di calice e sudari. C'era qualcosa, nei mistici uffici in cui questi oggetti venivano impiegati, che gli faceva correre la fantasia.
Questi tesori, infatti, così come tutte le cose che raccoglieva nella sua bella casa, gli servivano per dimenticare, gli davano la possibilità di sfuggire per un certo periodo alla paura che, a volte, gli sembrava insopportabile. Sulla parete della chiusa stanza solitaria in cui aveva trascorso tanta parte della sua infanzia, aveva appeso con le proprie mani il terribile ritratto le cui mutevoli fattezze gli mostravano la vera degenerazione della sua vita, e sul quale aveva drappeggiato come un sipario il manto porpora e oro. Per settimane intere non entrava in quella camera, dimenticava l'orrenda cosa dipinta e ritrovava la serenità, la sua meravigliosa gaiezza, la sua dedizione appassionata al puro fatto di esistere. Poi, improvvisamente, una notte usciva di casa, si recava in posti orribili dalle parti di Blue Gate Fields e restava là giorni e giorni finché ne veniva scacciato. Al ritorno, sedeva di fronte al ritratto a volte provando un profondo schifo per il quadro e per se stesso, ma altre volte colmo di quell'orgoglio individualistico che dà al peccato metà del suo fascino e sorrideva, segretamente compiaciuto, all'ombra deforme costretta a portare un peso che avrebbe dovuto essere suo.
Dopo qualche anno, non riusciva a restare per molto tempo lontano dall'Inghilterra. Aveva ceduto la villa di Trouville che divideva con Lord Henry e la piccola casa di Algeri dalle bianche mura dove aveva trascorso più di un inverno. Odiava separarsi dal quadro che aveva una parte così importante nella sua vita e inoltre temeva che, durante la sua assenza, qualcuno potesse entrare nella stanza nonostante il complicato sistema di catenacci che aveva fatto mettere alla porta.
Sapeva benissimo che questo non significava nulla. Certo, il ritratto conservava ancora, sotto la perfida bruttezza del volto, una marcata somiglianza con lui, ma questo che cosa avrebbe potuto suggerire? Avrebbe riso di chiunque cercasse di accusarlo. Non l'aveva dipinto lui. Per quanto potesse essere ignobile e vergognoso, che rapporto aveva con lui? Chi gli avrebbe creduto anche se gli avesse rivelato il suo segreto?
Tuttavia aveva paura. A volte quando si trovava nella sua grande casa del Nottinghamshire, in compagnia dei giovani eleganti del suo ceto che solitamente frequentava, stupendo la contea con il lusso sfrenato e con il fastoso splendore del suo stile di vita, abbandonava improvvisamente gli ospiti e ritornava in gran fretta in città per assicurarsi che la porta non fosse stata forzata e che il quadro fosse sempre al suo posto. Che cosa sarebbe successo se lo avessero rubato? La sola idea lo agghiacciava. Senza dubbio tutti avrebbero conosciuto il suo segreto. Forse già lo sospettavano.
Infatti, anche se affascinava molta gente, non pochi diffidavano di lui. Per poco non era stata respinta la sua candidatura a un club del West End cui per nascita e posizione sociale avrebbe avuto pieno diritto di appartenere, e si diceva che una volta, mentre un amico lo accompagnava nella sala del Churchill, il duca di Berwich e un altro gentiluomo si erano ostentatamente alzati ed erano usciti. Dopo il suo venticinquesimo compleanno, strane storie cominciarono a diffondersi sul suo conto. Correva la voce che lo avessero visto azzuffarsi con dei marinai stranieri in un'infima bettola nella zona più lontana di Whitechapel, che frequentasse ladri e falsari e conoscesse i misteri dei loro traffici. Le sue strane assenze divennero di dominio pubblico e quando riappariva in società, la gente sussurrava negli angoli, gli passava accanto con un sorriso di scherno, oppure lo fissavano con un freddo sguardo indagatore come se fossero decisi a scoprire il suo segreto.
Naturalmente lui non si curava di queste insolenze e di questi tentativi di provocazione e, nell'opinione dei più, i suoi modi franchi e privi di affettazione, il fascino del suo sorriso fanciullesco e la grazia infinita di quella meravigliosa gioventù che sembrava non lasciarlo mai, erano di per se stessi una risposta sufficiente alle calunnie - perché tali le ritenevano - che circolavano sul suo conto. Fu notato comunque che alcuni di coloro che erano stati in grande intimità con lui, dopo qualche tempo sembravano evitarlo. Si vedevano donne che lo avevano adorato alla follia e che per lui avevano sfidato ogni censura sociale e messo da parte tutte le convenzioni, impallidire di vergogna o di orrore quando Dorian Gray appariva.
Tuttavia, questi scandali di cui si sussurrava, agli occhi di molti non facevano che aumentare il suo singolare e pericoloso fascino. La sua grande ricchezza era un elemento rassicurante. La società, quella civilizzata almeno, non crede mai troppo facilmente a ciò che potrebbe danneggiare chi è ricco e affascinante. Sente istintivamente che l'educazione è più importante della morale e, nella sua opinione, la più specchiata rispettabilità vale molto meno del fatto di avere un buon chef. E, alla fine dei conti, è una molto magra consolazione venire a sapere che chi ci ha fatto servire un pessimo pranzo o un vino scadente, è irreprensibile nella vita privata. Nemmeno le virtù cardinali possono far perdonare delle entrées troppo fredde, come fece notare una volta Lord Henry, durante una discussione sull'argomento; e probabilmente vi sono molte cose da dire a favore di questa tesi. I canoni della buona società, infatti, sono, o dovrebbero essere, gli stessi dell'arte: per essi la forma è assolutamente essenziale. Dovrebbero avere la dignità di una cerimonia e, insieme, la sua irrealtà, dovrebbero unire l'ipocrisia delle commedie romantiche allo spirito e alla bellezza che ce le rendono piacevoli. È davvero così terribile l'insincerità? Io non credo: è semplicemente un metodo che ci permette di moltiplicare la nostra personalità.
Questa, almeno, era l'opinione di Dorian Gray. Era solito meravigliarsi della psicologia superficiale di coloro che ritengono che l'Io dell'uomo sia una cosa semplice, stabile, sicura e dotata di una sola essenza. Secondo lui, l'uomo era un essere con miriadi di vite e miriadi di sensazioni, era una creatura multiforme e complessa che portava in sé strane eredità di pensiero e di passione, una creatura la cui carne era corrotta dalle mostruose malattie della morte. Gli piaceva aggirarsi nella cupa e fredda galleria della sua casa di campagna e osservare i ritratti di coloro il cui sangue gli fluiva nelle vene. Ecco Philip Herbert, descritto da Francis Osborne nelle sue Memorie del Regno della Regina Elisabetta e di re Giacomo come un uomo "benvoluto a corte per il bel volto, che non gli tenne a lungo compagnia". Forse il giovane Herbert aveva condotto la vita che a volte lui stesso conduceva? Forse qualche strano germe velenoso era passato di corpo in corpo finché era giunto nel suo? Era forse il fievole senso di quella bellezza distrutta che, così improvvisamente e quasi senza motivo, nello studio di Basil Hallward lo aveva spinto a quella folle preghiera che aveva cambiato radicalmente la sua vita? Ecco, con il giustacuore rosso ricamato in oro, il mantello ingioiellato, il colletto e i polsini orlati d'oro, Sir Anthony Sherard con l'armatura lucente e brunita ai suoi piedi. Qual era l'eredità che gli aveva lasciato? Forse l'amante di Giovanna di Napoli gli aveva trasmesso un'eredità di vergogna e di peccato? Le sue azioni erano forse sogni che quegli uomini defunti non avevano avuto il coraggio di attuare? E qui, dalla tela sbiadita, sorrideva Lady Elizabeth Devereux, nel velo di mussola, con il corsetto ricamato di perle e le maniche rosa a spacchi verticali. Nella destra teneva un fiore e nella sinistra un collare smaltato di rose bianche e damascate. Accanto, su un minuscolo tavolo, erano posati un mandolino e una mela. Sulle scarpine appuntite c'erano grosse rosette. Conosceva la sua vita e le strane storie che si raccontavano sui suoi amanti: aveva in sé qualche cosa del suo temperamento? Quegli occhi a mandorla dalle palpebre pesanti parevano fissarlo curiosi. E che dire di George Willoughby, con quei suoi capelli incipriati e i nèi bizzarri? Che aria perversa! Il volto era scuro e mesto, le labbra sensuali parevano piegarsi in una smorfia sprezzante. Delicati merletti cadevano sulle sue mani gialle e sottili, sovraccariche di anelli. Era stato una delle persone più eleganti del diciottesimo secolo e, in gioventù, l'amico di Lord Ferrars. Che dire poi del secondo Lord Beckenham, compagno del Principe Reggente durante il suo periodo più sfrenato, nonché uno dei testimoni al suo matrimonio con la signora Fitzherbert? Com'era bello e altero con quei riccioli castani e la posa insolente! Quali passioni gli aveva trasmesso? Il mondo lo aveva considerato infame perché aveva diretto le orge di Carlton House. Sul petto gli scintillava la stella della Giarrettiera. Accanto al suo, era appeso il ritratto della moglie, una donna pallida dalle labbra sottili, vestita di nero. Anche il sangue di lei gli scorreva nelle vene. Come era strano! E sua madre, con quel suo volto da Lady Hamilton e le labbra come stillanti vino. Sapeva che cosa aveva preso da lei: la bellezza e l'amore per la bellezza altrui. Gli sorrideva nel suo abito da baccante. Aveva foglie di vite nei capelli e vino purpureo cadeva dalla coppa che teneva in mano. I garofani del quadro avevano perduto il colore, ma gli occhi erano ancora meravigliosi, profondi e brillanti di colore. Sembravano seguirlo in ogni suo movimento.
Ma si possono anche avere antenati nella letteratura, come nella propria stirpe, antenati forse ancor più vicini nel tipo e nel temperamento e, certo, con influenze di cui siamo più profondamente consapevoli. A volte sembrava a Dorian Gray che tutta la storia fosse solo un racconto della sua vita, non come l'aveva vissuta in realtà, ma come l'aveva creata nella sua fantasia, come si era svolta nella sua mente e nelle sue passioni. Sentiva di averli conosciuti tutti, quei singolari terribili personaggi che erano passati sulla scena del mondo e avevano commesso peccati così meravigliosi e così sottili malvagità. Gli sembrava che, in qualche modo misterioso, la loro vita fosse stata la sua.
Anche l'eroe del meraviglioso racconto che aveva tanto influenzato la sua vita aveva avuto la stessa fantasticheria. Nel settimo capitolo raccontava di quando, incoronato di alloro perché il fulmine non potesse colpirlo, si era seduto come Tiberio in un giardino di Capri a leggere l'infame libro di Elefantide, mentre nani e pavoni gli si aggiravano intorno pieni di sussiego e il suonatore di flauto derideva il ragazzo che agitava l'incensiere. Come Caligola aveva gozzovigliato nelle scuderie con i fantini in tunica verde e aveva preso il cibo nella mangiatoia d'avorio insieme al cavallo che aveva la fronte cinta di gioielli. Come Domiziano si era aggirato in un corridoio rivestito di specchi di marmo, guardandosi intorno con occhi stravolti alla ricerca del riflesso della spada che avrebbe posto fine ai suoi giorni, malato di quell'ennui, di quel terribile taedium vitae che assale coloro che hanno tutto dalla vita. Aveva guardato, attraverso un limpido smeraldo, i rossi massacri del circo e poi, in una lettiga di porpora e perle tirata da mule dai ferri d'argento, si era fatto portare attraverso la via dei Melograni verso la Domus Aurea e aveva udito gli uomini gridare al suo passaggio il nome di Nerone Cesare. Come Eliogabalo, si era dipinto il volto, aveva preso la conocchia insieme alle donne, aveva trasportato la Luna da Cartagine per offrirla al Sole in mistico matrimonio.
Dorian Gray era solito leggere e rileggere di continuo questo fantastico capitolo e i due immediatamente successivi, in cui come in arazzi singolari o in smalti abilmente lavorati, erano raffigurate le forme orrende e bellissime di coloro che il vizio, il sangue e la noia avevano reso mostruosi o folli: Filippo, duca di Milano, che assassinò la moglie e le dipinse le labbra con veleno scarlatto perché l'amante suggesse la morte dando l'ultimo bacio alla morta; Pietro Barbi, veneziano, conosciuto con il nome di Paolo II, che spinse la sua vanità fino ad assumere il titolo di Formosus e la cui tiara valutata duecentomila fiorini fu comperata a prezzo di un terribile peccato; Gian Maria Visconti, che usava i segugi per cacciare l'uomo, e il cui corpo assassinato fu ricoperto di rose da una prostituta che lo amava; il Borgia con il Fratricidio che gli cavalcava a fianco e il mantello macchiato del sangue di Perotto; Pietro Riario, il giovane cardinale arcivescovo di Firenze, figlio favorito di Sisto IV, la cui bellezza era pari solo alla dissolutezza, che ricevette Leonora d'Aragona in un padiglione di seta bianca e cremisi, pieno di ninfe e centauri, e fece dorare un fanciullo perché alle feste gli servisse da Ganimede o da Hylas; Ezzelino, la cui malinconia era alleviata solo dallo spettacolo della morte, e che amava il rosso sangue, come altri amavano il rosso vino: figlio del demonio, era ritenuto, e aveva truffato il padre giocando con lui l'anima a dadi; Giambattista Cybo che per beffa prese il nome di Innocenzo e nelle cui torpide vene un medico ebreo trasfuse il sangue di tre giovinetti; Sigismondo Malatesta, amante di Isotta e signore di Rimini, che venne bruciato in effigie a Roma perché nemico di Dio e dell'uomo, che strangolò Polissena con un tovagliolo, offrì il veleno a Ginevra d'Este in una coppa di smeraldo e, in onore di una vergognosa passione, costruì una chiesa pagana per il culto cristiano; Carlo VI, così violentemente preso dalla cognata che un lebbroso lo avvertì che sarebbe presto impazzito e che, quando il cervello fu colto dalla malattia e cominciò a sragionare, si calmava solo vedendo le carte saracene dipinte con le immagini dell'amore, della morte, e della follia; e - nel farsetto attillato, il berretto ornato di gemme, i riccioli come foglie di acanto - Grifonetto Baglioni, che assassinò Astorre insieme alla moglie e Simonetto con il suo paggio, un giovane di tale bellezza che, quando giacque morente sulla gialla piazza di Perugia, coloro che lo odiavano non poterono impedirsi di piangere, e Atalanta, che lo aveva maledetto, lo benedisse.
C'era un orribile fascino in tutti questi personaggi. Li vedeva di notte e gli turbavano l'immaginazione durante il giorno. Il rinascimento conosceva strani modi per uccidere di veleno: con un elmo o con una torcia accesa, con un guanto ricamato d'oro e con una catenella d'ambra. Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. In certi momenti considerava il male solo un mezzo mediante il quale realizzare la sua concezione della bellezza.