SANT'AGOSTINO

CONFESSIONI LIBRI XI - XII


LIBRO UNDICESIMO
[L'ETERNITÀ E IL TEMPO]

1.1. Forse perché è tua l'eternità tu ignori, mio Signore, ciò che ti dico, o vedi in successione temporale ciò che avviene nel tempo? Perché ti faccio allora una cronaca fitta di tanti avvenimenti? Non certo perché tu da me li apprenda: ma a questo modo io risveglio il sentimento di te in me stesso e negli altri che li leggeranno, finché diremo tutti - grande è il Signore e ben degno di lode. L'ho già detto , e lo voglio dire ancora: è per amore dell'amore di te che faccio questo. Del resto noi preghiamo anche se la verità stessa dice: il padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate. Noi dunque riveliamo la nostra disposizione d'animo nei tuoi confronti confessando le nostre miserie e i doni della tua misericordia, perché tu porti a compimento la nostra liberazione, visto che le hai dato principio, perché cessi la miseria che troviamo in noi e cominci la felicità d'essere in te. Sei tu che ci hai chiamato a esser poveri per lo spirito e miti e piangenti e affamati e assetati di giustizia e pietosi e candidi e pacifici. Ecco, è una lunga storia che io ti ho narrato, per quanto ho potuto e voluto - perché sei stato tu il primo a volere che mi confessassi a te, Dio mio Signore, perché sei buono, perché dura nei secoli la tua misericordia.

2.2. Ma quando basterà la lingua della mia penna a dirli tutti, i tuoi conforti e i tuoi terrori e le consolazioni e le ingiunzioni con cui tu mi hai infine portato a predicare la tua parola e a dispensare il tuo sacramento al tuo popolo. E anche se io basto a dirli, e in ordine, ogni stilla di tempo mi è preziosa. E già da molto brucio dal desiderio di dedicarmi alla meditazione della tua legge, e di confessarti quanto ne conosco e quanto ne ignoro, i primi accenni delle tue illuminazioni e i resti delle mie tenebre, finché la tua forza divori l'incostanza. E non voglio vedermi scorrer via come l'acqua in altre occupazioni le ore che mi ritrovo libere: dalle necessità fisiche del riposo e da quelle dell'impegno intellettuale e dai servigi che dobbiamo agli uomini e da quelli che rendiamo loro anche senza averne affatto il dovere.

- 3. Signore Dio mio, ascolta la mia preghiera, e la tua compassione presti orecchio alla mia nostalgia, di cui non per me solo mi consumo, ma per servire all'amore fraterno: e tu lo vedi nel mio cuore, che è vero. Lascia che io sacrifichi a te il mio pensiero e la mia lingua, mettendoli al tuo servizio, e fammi doni che io possa offrirti. Perché sono povero e senza mezzi, e tu hai ricchezze per tutti quelli che ti invocano, tu che stando sicuro ti prendi cura di noi. Circoncidi la mia bocca, che sia pura di ogni menzogna e di ogni presunzione, dentro e fuori. Siano le tue Scritture le mie caste delizie: fa' che io non m'inganni e non inganni gli altri nell'esporle. Presta attenzione mio Signore e abbi pietà, Dio, luce dei ciechi e potenza dei deboli che subito ti fai luce dei veggenti e potenza dei forti, presta attenzione all'anima che ti chiama dal profondo, ascolta. Perché se non avessi orecchie anche al profondo, dove andremmo noi. In quale direzione lanceremmo il nostro appello? Tuo è il giorno e tua è la notte; a un tuo cenno s'involano i minuti. Concedi dunque il tempo necessario a queste meditazioni intorno ai segreti della tua legge, e non sbarrarla di fronte a chi bussa. Perché se non invano hai voluto che fossero scritte tante pagine di misteri impenetrabili, quelle selve hanno pure i loro cervi, che vi trovano riparo e ristoro, vagando e pascolando e sdraiandosi a ruminare. Rivelami le selve, e fammi uomo compiuto. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce che sovrasta cascate di piaceri. Dammi quello che amo: perché io amo. E già questo è tuo dono. Non dimenticare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Che io possa confidarti ogni cosa che avrò scoperto nei tuoi libri, e udire una voce di lode, e bere del tuo essere e contemplare le meraviglie della tua legge dal principio, in cui facesti il cielo e la terra, fino al regno come te perenne della tua città santa.

- 4. Abbi pietà di me mio Signore, da' ascolto alla mia nostalgia. Perché io credo che non nasca dalla terra, come quella dell'oro e dell'argento e delle pietre preziose o dell'eleganza o degli onori e del potere o dei piaceri carnali o dei beni necessari al corpo e ai vagabondaggi di questa vita: cose tutte che ci verranno date in sovrappiù se cerchiamo il regno della tua giustizia . Vedi Dio mio come nasce questa nostalgia. Uomini ingiusti mi hanno narrato i loro piaceri, ma non eran conformi alla tua legge. Ecco l'origine della mia nostalgia. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi grazia davanti a te, perché si apra al mio bussare l'interno delle tue parole. Ti porgo questa supplica mediante il Signore di noi Gesù Cristo tuo figlio, uomo della tua destra, figlio dell'uomo che hai istituito mediatore fra te e noi, per cui mezzo tu hai cercato noi che non ti cercavamo, e ci hai cercato affinché ti cercassimo; la tua parola, per cui mezzo hai fatto tutte le cose e me tra queste; il tuo Unico, per cui hai adottato il popolo dei credenti , e me fra loro. Per suo mezzo ti porgo questa supplica, per lui che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Sono questi che cerco nei tuoi libri. Di lui scrisse Mosè, lui stesso lo dice, la verità lo dice.


[La parola e la creazione]

3.5. In principio hai fatto il cielo e la terra: fa che io intenda e comprenda come. È Mosè che lo ha scritto: l'ha scritto e se ne è andato per tornare là da dove era venuto, da te: era di passaggio in questo mondo e ora non è qui di fronte a me. Già, perché se lo fosse non me lo lascerei sfuggire e lo tempesterei di domande e nel tuo nome lo scongiurerei di spiegarmi queste parole, e starei con le mie orecchie di carne protese ad afferrare ogni suono gli uscisse dalle labbra... Ma se parlasse ebraico invano busserebbe alla porta del mio udito, e non arriverebbe quindi a sfiorarmi la mente: se parlasse latino allora sì, il senso delle sue parole lo saprei afferrare. Ma come farei a sapere se le cose dette sono anche vere? Se sapessi anche questo, è forse da lui che lo sarei venuto a sapere? No: dentro di me, nella dimora del pensiero, non ebraica né greca né latina né barbara, senza labbra né lingua, senza rumore di sillabe, la verità mi direbbe: "Dice il vero" e io subito rassicurato fiduciosamente direi a quell'uomo tuo: "Dici il vero." Dunque non potendo interrogare lui io chiedo a te, Verità, di cui doveva essere pieno lui che disse il vero, a te, Dio, chiedo: risparmiami la pena dei miei peccati, e concedi a me di comprendere queste parole, tu che hai concesso a quel tuo servo di dirle.

4.6. Ecco, il cielo e la terra esistono, e gridano che sono stati fatti, perché sono soggetti a mutamenti e variazioni. Invece tutto ciò che esiste ma non è stato fatto non ha costituenti che prima non c'erano: il che appunto vuol dire esser soggetti a mutamenti e variazioni. E gridano anche di non essersi fatti da soli: "Se esistiamo è perché siamo stati fatti: dunque prima di esserlo non c'eravamo, in modo da poterci fare da soli". È l'evidenza stessa che parla per loro. Tu dunque li hai creati, che sei bello, perché son cose belle; tu che sei buono, perché son cose buone; tu che esisti, perché esistono. Ma non sono cose belle né buone né esistenti come lo sei tu, loro autore, al cui confronto non sono belle né buone e neppure esistono. Questo sappiamo grazie a te, e il nostro sapere paragonato al tuo è ignoranza.

5.7. Ma in che modo hai fatto il cielo e la terra, qual è il meccanismo di un'operazione tanto grandiosa? Perché certo non hai fatto come l'artefice umano che forma un corpo da un altro corpo secondo il capriccio della mente, la quale è capace di riprodurre qualunque forma distingua in se stessa con l'occhio interiore - e come ne sarebbe capace, se non perché l'hai fatta tu. La mente impone appunto una forma a qualcosa di già esistente e dotato di quanto basta a sussistere, come ad esempio la terra o la pietra o il legno o l'oro o qualunque altra cosa del genere. E queste da dove verrebbero all'essere, se non ve le stabilissi tu? Tu hai fatto all'artefice un corpo e al corpo una mente atta a comandarlo, tu la materia del suo lavoro, tu l'ingegno per intender la sua arte e veder dentro di sé la cosa da attuare fuori. Tu hai fatto gli organi dei sensi per tradurre in termini materiali l'opera che ha in mente, e riferire alla mente il lavoro già fatto, perché consultando la verità che la dirige veda se è ben fatto. E tutto questo canta lode a te, creatore di ogni cosa. Ma cos'è il tuo fare? In che modo, Dio, hai fatto il cielo e la terra? Non è certo nel cielo o in terra che hai fatto il cielo e la terra, e neppure nell'aria o nell'acqua, dato che anch'esse fanno parte del cielo e della terra, e neppure è nell'universo che hai fatto l'universo, perché non c'era spazio per alcun fatto, prima che fosse un fatto anche lo spazio. E neppure avevi in mano qualche cosa, da cui ricavare il cielo e la terra: perchè da dove lo avresti preso, se non lo avessi fatto, il materiale della creazione. Ed esiste qualcosa, se non perché tu esisti? Dunque tu hai parlato ed ecco furono tutte le cose, ed è con la parola che le hai fatte.

6.8. Ma come hai parlato? Forse come quando risuonò dalle nuvole una voce che diceva: "Questo è il mio figlio diletto?" Ma il suono di quella voce si produsse e svanì, ebbe un inizio e una fine. Le sillabe risuonarono e passarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda, e così via nel loro ordine, finché dopo tutte le altre venne l'ultima e dopo l'ultima fu silenzio. È quindi perfettamente evidente che quella voce fu una tua creatura a esprimerla, con un'azione posta al servizio della tua volontà eterna, ma di per sé temporale. E queste tue parole formate nel tempo l'orecchio esteriore le annunciò alla mente ragionevole, che protende il suo orecchio interiore alla tua parola eterna. Ma lei confrontò quelle parole risonanti nel tempo con il silenzio della tua parola eterna e disse: "Ben altra cosa è, è totalmente altra". Queste parole sono molto al di sotto di me, anzi neppure sono, perché fuggendo se ne vanno: la parola del mio Dio invece dura eterna sopra di me". Se dunque pronunciasti parole sonanti e fuggitive perché fossero fatti cielo e terra, e così li creasti, allora esisteva già prima del cielo e della terra una qualche creatura dotata di corpo, che potesse con una successione temporale di azioni protrarre nel tempo quella voce. Ma prima del cielo e della terra non esisteva alcun corpo, o se esisteva per fornirti di una voce transitoria con cui ordinare che si facessero il cielo e la terra, certo non è con una voce transitoria che l'avevi creata a sua volta. Qualunque cosa insomma potesse produrre quella voce, se non era stata fatta da te non era al mondo. E allora per creare il corpo necessario a produrre quelle parole, in che modo hai parlato?

7.9. Così ci chiami all'intelligenza della Parola, Dio presso Dio, che eternamente viene detta e per lei tutto si dice eternamente. Là nessuna cosa finisce d'esser detta perché un'altra la segua, cosí che una per una si possan dire tutte: si dicon tutte insieme, eternamente. E se così non fosse ci sarebbero già tempo e mutamento, non vera eternità e vera immortalità. Questo lo so, Dio mio, e te ne rendo grazie. Lo so e te lo confesso mio Signore, e come me lo sa e ti benedice chiunque sa apprezzare la verità accertata. Sappiamo almeno questo, sì, sappiamo che in quanto una cosa non è ciò che era ed è ciò che non era, in tanto muore e nasce. Di conseguenza nella tua parola nulla può venir meno o venir dopo, dato che è veramente immortale ed eterna. Ed è così, con questa parola a te coeterna che dici tutto insieme, eternamente ciò che dici, e che si fa tutto ciò che si fa quando parli - e tu non crei altrimenti che parlando -: e tuttavia non vengon tutte insieme all'essere, e non durano eterne le cose che parlando tu fai essere.

8.10. Perché, di grazia, mio Dio e Signore? In qualche modo lo vedo, ma non so come esprimerlo in parole, se non forse dicendo che per ogni cosa la cui esistenza ha un inizio e una fine il momento esatto in cui la sua esistenza deve cominciare o finire è conosciuto in una norma eterna, dove nulla comincia né finisce. E questa è la tua parola, che è per noi principio, perché parla anche a noi. Così nel Vangelo parlò attraverso la carne e risuonò all'esterno, alle orecchie degli uomini, perché vi credessero e la cercassero in se stessi e la ritrovassero nella verità eterna, dove tutti i discepoli apprendono da un solo buon maestro. Lì sento la tua voce dirmi che mi parla davvero soltanto chi sa illuminarmi: chi non m'insegna nulla, anche se parla non è a me che parla. Ma chi ci illumina? Soltanto la verità che permane. Perché anche quando riceviamo una lezione da una creatura mutevole, ne siamo rinviati alla verità che permane: e allora stiamo fermi ad ascoltare e impariamo davvero, e ci riempiamo di gioia alla voce dello sposo, come chi torna al suo paese d'origine. Ecco perché è detto il principio: e se non restasse saldo noi, nel nostro errare, non avremmo una casa a cui tornare. Ma quando recediamo da un errore, è perché abbiamo imparato qualcosa; e affinché noi impariamo lui ci insegna, perché è il principio e si rivolge a noi.

9.11. In questo principio, Dio, hai fatto il cielo e la terra: nella tua parola, nel figlio tuo, nella tua potenza, nella tua sapienza, nella tua verità, miracolo di un dire che è creare. Chi lo comprenderà, chi saprà raccontarlo? Che cos'è questa luce che balena e mi colpisce al cuore, senza ferire? E m'agghiaccia e mi accende: di terrore per esserne dissimile e del fuoco per cui le sono simile. È la sapienza, la sapienza stessa che balena attraverso queste nubi. E non appena da lei mi distoglie il carcere di nebbia delle mie angoscie, in queste nubi io mi riavvolgo: perché è così fiaccato dalla miseria il mio vigore che non sono in grado di sopportare il mio bene, finché tu, come Signore che si faccia indulgente verso tutte le mie ingiustizie, mi guarisca anche da tutti i miei svanimenti. Tu che riscatterai la mia vita dalla fossa e porrai sul mio capo una corona di benevolenza e di misericordia e sazierai di bene la mia nostalgia, quando sarà rinata l'aquila della mia giovinezza. Perché è la speranza che ci ha salvati e con pazienza aspettiamo quello che hai promesso. Chi può ti ascolti parlare nel suo intimo: io fiduciosamente esclamerò con il tuo oracolo: grandiose sono le tue opere, Signore, tutte le hai fatte nella tua sapienza!


[Il problema del tempo: "prima" della creazione]

10.12. Ecco: non sono carichi di vecchiaia quelli che ci chiedono: "Che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti non aveva occupazioni e non faceva nulla," dicono, "perché non ha anche dopo mantenuto questo stato, in cui si asteneva da ogni operazione? Ma se si è avuto un nuovo impulso in Dio e una volontà nuova, di istituire un creato che non aveva mai istituito prima, che vera eternità può essere quella in cui nasce una volontà che prima non c'era? D'altra parte la volontà di Dio non è qualcosa di creato, ma è prima di ogni creatura, perché nulla sarebbe creato se non fosse preceduto dalla volontà di un creatore. Dunque è alla stessa sostanza di Dio che appartiene la sua volontà. Ma se nella sostanza divina sorge qualcosa che non c'era prima, non è vera l'asserzione che questa sostanza è eterna; se invece la volontà divina che esistesse il creato era eterna, perché non sarebbe eterno anche il creato?"

11.13. Quelli che parlano così non ti comprendono ancora, sapienza divina, luce delle menti: non capiscono ancora in che modo si faccia ciò che per te e in te si fa, e si sforzano di giungere alla conoscenza dell'eterno, ma intanto il loro cuore ancora svolazza fra il passato e il futuro agitarsi delle cose, e ancora è vano. Chi riuscirà a tenerlo fermo un attimo, a fargli carpire un istante dello splendore dell'eterno stare, che lo confronti con il tempo instabile e veda che non hanno misura comune...
Veda che la lunghezza di un intervallo di tempo anche lunghissimo non è fatta che di molti momenti che passano, e che non possono durare simultaneamente; mentre nell'eterno nulla passa, ma tutto è presente. Che nessun intervallo di tempo può essere tutto presente: e sempre il passato è cacciato dal futuro e il futuro deriva dal passato, e che ogni passato e ogni futuro è creato da ciò che sempre è presente, e da questo decorre. Chi tratterrà il cuore dell'uomo, che stia fermo e veda come in questo stare l'eternità comandi passato e futuro, lei che non passa e non è mai a venire. E come avrà questo potere la mia mano, o la mano della mia eloquenza, per riuscire in un'impresa così grande!

12.14. Ecco come rispondo a chi domanda che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra. Non come fece quel tale che eluse con una battuta di spirito l'aggressività della domanda, rispondendo, dicono: "Preparava la Geenna per chi indaga gli abissi". Ridere non basta per capire. No, non rispondo a questo modo: preferirei allora una risposta come "Quello che non so, non lo so", che almeno risparmia la facile ironia per chi solleva una questione profonda e il plauso per chi dà una risposta falsa. Invece io affermo che tu, nostro Dio, sei il creatore d'ogni cosa creata, e se per cielo e terra s'intende ogni cosa creata, oso affermare: "Prima di fare il cielo e la terra, Dio non faceva cosa alcuna". Perché che cosa avrebbe fatto se non una cosa creata? Magari sapessi tutte le cose che vorrei, che mi sarebbe utile sapere, così come so questa: che nessuna creatura venne fatta prima che fosse fatta una qualche creatura.

13.15. Ma se qualcuno è tanto leggero di mente da fantasticare di tempi più remoti ancora, e si meraviglia che tu, un Dio che tutto può e tutto crea e sostiene, artefice del cielo e della terra, abbia atteso innumerevoli secoli prima di metter mano a un'opera così grandiosa - si svegli e apra bene gli occhi, perché è irreale ciò di cui si meraviglia. E come potevano passare innumerevoli secoli se non li avevi fatti tu, l'autore di tutti i secoli, tu che li instauri? E come può esistere un tempo che tu non hai instaurato? E come può esser passato, se non è mai esistito? Se insomma tutto il tempo è opera tua, e se c'è stato un tempo prima che tu facessi il cielo e la terra, perché si dice che ti astenevi da ogni opera? Quel tempo precedente, appunto, l'avresti istituito tu, e non un solo momento di tempo poteva passare, prima che tu istituissi il tempo. Se invece non esisteva il tempo prima che fossero fatti il cielo e la terra, perché chiedersi che cosa tu facessi allora? Non c'è un allora dove non c'è il tempo.

- 16. Non è nel tempo che tu precedi il tempo: altrimenti non precederesti ogni tempo. Ma dalla vetta dell'eterno presente tu precedi tutto il passato e sovrasti tutto l'avvenire, appunto perché è avvenire, e una volta avvenuto sarà passato. Tu invece sei sempre lo stesso, e i tuoi anni non si dilegueranno. Non vanno e vengono i tuoi anni, come fanno questi nostri, che se ne vanno tutti perché ciascuno possa venire. Stanno tutti insieme, i tuoi anni: appunto perché stanno lì e non se ne vanno, non si fanno cacciare da quelli che sopravvengono, non passano. Questi nostri invece ci saranno tutti quando non ce ne sarà più alcuno. Un solo giorno sono i tuoi anni, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non succede al giorno di ieri. L'oggi è l'eternità, per te: per questo generi coeterno quello a cui tu dici oggi io ti ho generato. Hai fatto tu ogni tempo e sei prima del tempo, e non c'è mai stato un tempo in cui non c'era ancora il tempo.


[Sulla natura del tempo]

14.17. Mai dunque, in nessun tempo, tu sei rimasto senza fare nulla, perché il tempo stesso sei tu che l'hai fatto. E non c'è periodo di tempo che possa dirsi a te coevo, perché tu permani: ma un tempo permanente non sarebbe tempo. Già, che cos'è il tempo? Chi ce ne darà una definizione breve e facile? Chi riuscirà ad afferrarne almeno col pensiero tanto da poterne parlare? Eppure, che cosa c'è che noi, quando parliamo, diamo per tanto scontato e familiare quanto il tempo? E senza dubbio capiamo quello che diciamo, capiamo anche quando ne sentiamo parlare da un altro. Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch'esso? Se appunto la sua sola ragion d'essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c'è solo in quanto tende a non essere.

15.18. E tuttavia noi lo diciamo lungo o breve, il tempo, benché così chiamiamo solo il passato o il futuro. Ad esempio cent'anni passati fino a oggi fanno un passato che chiamiamo lungo, e lo stesso vale per un futuro di cent'anni a partire da oggi; invece dieci giorni - poniamo - precedenti o successivi fanno un passato e un futuro che diciamo brevi. Ma come fa a esser lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più e il futuro non è ancora. Del passato dunque non dovremmo dire "è lungo", ma "è stato lungo", e del futuro "sarà lungo". Mio Signore, mia luce, forse anche qui la tua verità si fa beffe dell'uomo. Questo passato che è stato lungo, lo è stato una volta che era già passato o quando era ancora presente? In effetti per essere lungo doveva essere: dunque poteva esserlo solo finché c'era. Ma il passato non era più e non essendo affatto non poteva nemmeno essere lungo. Perciò non dovremmo dire neppure, del passato, "è stato lungo" - infatti non troveremo mai che cosa sarebbe stato lungo, proprio perché non è, dal momento che è passato - ma dovremmo dire, piuttosto: "È stato lungo quel tempo presente", perché era lungo mentre era presente. Finché non era ancora passato e non aveva ancora cessato di essere, era appunto qualcosa, e quindi, eventualmente, anche lungo; ma una volta che fu passato, smise anche d'essere lungo, nel momento stesso in cui smise d'essere affatto.

- 19. Vediamo allora se il presente possa essere lungo, anima umana: perché a te è dato sentire e misurare la durata. Che cosa mi rispondi? Dimmi: è lungo un presente che dura cent'anni? Ma vedi prima se cento anni possano essere presenti. Dunque: se è in corso il primo di essi, è questo che è presente, gli altri novantanove son futuri e quindi non ci sono ancora; ma se è in corso il secondo, un anno è già passato, l'altro presente, i restanti futuri. E così, qualunque sia fra questi cento l'anno che supporremo presente: quelli che lo precedono nell'ordine saranno passati, quelli che lo seguono futuri. Perciò cento anni non possono essere presenti. Vedi se possa almeno esser presente l'anno che è in corso. Ora se corre, di questo, il primo mese, tutti gli altri sono futuri, se il secondo, il primo è già passato e gli altri non ci sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è tutto presente, e se non è tutto presente, non è l'anno che è presente. Perché un anno è fatto di dodici mesi, e di questi è presente soltanto quello in corso, quale che sia, gli altri sono passati o futuri. Benché neppure il mese che è in corso sia presente, in effetti: solo un giorno lo è, se è il primo, sono futuri tutti gli altri, se l'ultimo, sono tutti passati, e uno qualunque degli intermedi sta fra i mesi passati e quelli futuri.
- 20. Eccolo qui il presente, il solo tempo che avevamo trovato possibile chiamare lungo, ridotto appena allo spazio di un giorno. Ma esaminiamo anche questo, perché neppure un giorno è mai tutto presente. Delle ventiquattr'ore che, fra notte e giorno, lo costituiscono, la prima ha tutte le altre a venire, l'ultima le ha tutte alle spalle, e ciascuna delle intermedie ne ha di precedenti, passate, e di successive, future. E ciascuna singola ora è una fuga di minute particelle: quante han già preso il volo son passate, e futuro è quel che resta. Se è concepibile una frazione di tempo che non si possa più dividere ulteriormente in parti, per piccole che siano, questa soltanto può dirsi presente: ma anche questa balza così rapida dal futuro al passato, che non ha la più piccola durata. Perché se ne avesse, si dividerebbe in passato e futuro: ma il presente non ha alcuna estensione. Dov'è insomma un tempo che possiamo chiamare lungo? Forse il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, perché ancora non è, ciò che deve esser lungo: diciamo piuttosto "sarà lungo". Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, perché non sarà ancora niente del tutto. Forse sarà lungo allora, quando dal futuro che ancora non esiste avrà preso a essere e si sarà fatto presente (così da poter esser anche eventualmente lungo)? Ma se risuona ancora nelle parole appena dette la voce del presente stesso, che nega di poter durare a lungo!

16.21. E tuttavia, Signore, noi percepiamo gli intervalli di tempo, e li confrontiamo e li diciamo più lunghi o più brevi. E misuriamo anche quanto più lungo o più breve un tempo sia di un altro, e calcoliamo che sia doppio o triplo, o che l'uno sia pari all'altro. Ma noi misuriamo il tempo che passa, quando lo misuriamo a orecchio. I tempi passati invece, che non sono più, o quelli futuri, che non sono ancora, chi può misurarli: a meno che uno non abbia il coraggio di asserire che si può misurare ciò che non esiste. È insomma al suo passare che il tempo può esser sentito e misurato; una volta passato non può, perché non esiste.

17.22. Io chiedo, padre, non affermo: assistimi mio Dio, guidami tu. Chi mai si sognerebbe di venirmi a dire che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e ai bambini abbiamo insegnato: passato, presente e futuro - ma c'è solo il presente, perché gli altri due non esistono! O forse sì, ci sono, ma come nascondigli da cui il presente appare uscendo dal futuro, e in cui scompare quando si fa passato? E dove l'hanno visto altrimenti quelli che hanno annunciato il futuro, se non esiste ancora? Certo non si può vedere ciò che non esiste. E quelli che raccontano il passato non potrebbero mai darlo per vero, se non l'avessero ben distinto davanti agli occhi della mente: e se non esistesse affatto, non potrebbe esser visto, in alcun modo. Esistono dunque, passato e futuro.

18.23. Concedi mio Signore, speranza mia, che io cerchi ancora: fa che la mia intenzione non ne resti smarrita. Se passato e futuro esistono, io vorrei sapere dove sono. E se non arrivo a tanto, so almeno che, dovunque siano, là non sono futuro o passato, ma presente. Perché se anche là fossero futuro o passato, non ci sarebbero ancora o non ci sarebbero più. Perciò dovunque e comunque siano, non esistono che come presente. Quando si raccontano cose vere e passate, in effetti, non sono le cose stesse che son passate a esser cavate dalla memoria, ma solo le parole concepite dalle loro immagini, che si sono fissate nella mente come delle tracce, dopo esser passate per i sensi. E la mia infanzia, che non è più, è nel passato, che non è più: ma nel rievocarla e narrarla è nel presente che io vedo la sua immagine, ancora viva nella mia memoria. Se anche le predizioni del futuro abbiano una ragione analoga, se sia cioè possibile percepire in anticipo immagini esistenti delle cose che non ci sono ancora, Dio mio, confesso: questo non lo so. Questo so invece, che di solito noi premeditiamo le nostre azioni future, e mentre questa anticipazione mentale dell'azione è presente non lo è ancora l'azione stessa, che è futura: solo quando l'avremo intrapresa e avremo cominciato a fare ciò che avevamo in mente esisterà l'azione - cioè sarà presente, non futura.

- 24. Comunque stiano le cose riguardo ai misteriosi presentimenti del futuro, è certo che ciò che non esiste neppure può esser visto. Ma ciò che esiste già non è futuro, è presente. Perciò chi afferma di vedere il futuro non vede le cose stesse che ancora non sono, appunto perché sono a venire, ma le loro cause o forse i loro segni, che esistono già: che quindi non sono future ma presenti a chi le vede, e può così predirne le future conseguenze, come le concepisce la sua mente. Concezioni che esistono, esse pure; e chi fa predizioni le vede dentro se stesso. Un esempio fra gli innumerevoli che mi dicono questo: l'aurora. La vedo e preannuncio il prossimo sorgere del sole. Quello che vedo è presente, quello che predico futuro: non il sole, che già esiste, è futuro, ma la sua levata, che non è ancora avvenuta. E d'altra parte non potrei predire nemmeno che il sole sorgerà se non avessi in mente un'immagine di questo evento, come ora che ne sto parlando. Eppure né l'aurora che io vedo in cielo è il sorgere del sole, sebbene lo preceda, né lo è la sua immagine nella mia mente: bisogna che siano visibili o presenti tutt'e due perché quell'evento futuro sia previsto. In conclusione il futuro non c'è ancora, e se non c'è ancora non c'è affatto, e se non c'è non si può proprio vedere: ma si può predire sulla base del presente, che già c'è e si vede.

19.25. E tu che regni sopra il tuo creato, come insegni alle anime il futuro? Perché tu l'hai insegnato, ai tuoi profeti. Che modo sarà mai di insegnare il futuro il tuo, se per te nulla è futuro? O non insegni piuttosto le tracce presenti del futuro? Perché ciò che non è neppure può essere insegnato. Troppo lontano dalla mia vista è questo tuo modo, troppo elevato, non lo potrò raggiungere da solo; ma col tuo aiuto sì, potrò, quando me lo concederai, dolce lume dei miei bui occhi.


[La trinità del presente]

20.26. Almeno questo ora è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell'anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l'aspettativa. Se ci è permesso dir così, vedo i tre tempi e ammetto che siano tre. E si dica pure che sono tre, passato, presente, futuro, come è abusata consuetudine: a me non importa, non oppongo né resistenza né rimproveri, purché si capisca ciò che si dice - che ciò che è futuro non è, come ciò che è passato. Raramente infatti parliamo con proprietà di linguaggio e il più delle volte usiamo espressioni improprie, ma si capisce quello che vogliamo dire.

21.27. Poco fa ho detto che misuriamo il passare del tempo, se è vero che siamo in grado di dire che questo intervallo di tempo è doppio di quello o pari a quello, e di render conto di ogni altra relazione fra le parti del tempo, con la misurazione. Dunque, come dicevo, noi misuriamo il passare del tempo, e se qualcuno mi chiede come faccio a saperlo rispondo: so che noi misuriamo, e so che non possiamo misurare ciò che non esiste, e il passato e il futuro non esistono. Ma il tempo presente in che modo lo misureremmo, se non ha estensione? Lo si misura dunque mentre passa, e una volta passato non lo si misura perché non c'è più nulla da misurare. Ma da dove viene e per dove passa e dove va, quando lo si misura? Da dove se non dal futuro? Per dove se non attraverso il presente? Dove se non nel passato? Dunque: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Eppure sono proprio estensioni di tempo quelle che misuriamo: e che altro se no? Quelle che chiamiamo semplici e doppie e triple e uguali e in quanti altri modi le chiamiamo, non sono appunto che estensioni di tempo. E allora qual è l'estensione in rapporto alla quale misuriamo il tempo che passa? È nel futuro forse, dal quale viene? Ma ciò che ancora non è non ha misura. Allora nel presente, per cui passa? Ma ciò che non ha estensione non ha misura. O nel passato, verso cui va? Ma ciò che non è più non ha misura.

22.28. Arde la mente che vuol penetrare l'intrico foltissimo di questo enigma. Non sbarrarmi la porta al desiderio, mio Dio e Signore, lascia che penetri queste cose tanto familiari quanto misteriose, e che il raggio della tua misericordia le illumini. Chi potrò interrogare su argomenti del genere? E a chi con qualche frutto confessare la mia ignoranza se non a te, cui non son forse sgraditi gli infiammati studi e la veemenza con cui assalgo le tue Scritture. Dammi quello che amo - perché sei tu che mi hai dato d'amare. Dammi, padre che veramente sai i doni che vanno bene per i tuoi figli, dammi di conoscere, perché ho messo mano a questa impresa e ho davanti la fatica, finché tu non mi apri. Te ne prego per Cristo, in nome del santo dei santi, nessuno mi frastorni adesso. Anch'io ho creduto, ed è per questo che parlo. Questa è la mia speranza e di lei vivo, per contemplare la felicità di Dio. Hai portato a vecchiaia i miei giorni, e passano, e come, non so. E noi siam sempre lì a parlar del tempo e dei tempi: "Quanto tempo fa l'ha detto", "Quanto tempo fa l'ha fatto", "Da quanto tempo non lo vedo", e "Questa sillaba dura un tempo doppio di quell'altra breve". Facciamo e sentiamo fare queste asserzioni e capiamo e ci facciamo capire. Sono cose evidentissime e perfettamente familiari, eppure sono così oscure, e la loro scoperta è cosa nuova.


[Misura del tempo e movimento]

23.29. Ho udito dire da un dotto che i tempi altro non sono che i movimenti del sole e della luna e delle stelle: e io non ho assentito. E perché non piuttosto i movimenti di tutti i corpi, allora? Ma supponiamo che i luminari del cielo si arrestino e la ruota del vasaio continui a girare: verrebbe meno il tempo con cui misurare i suoi giri e dire o che hanno uguale durata oppure, se si compiono ora più lentamente e ora più presto, che alcuni durano più, altri meno a lungo? E nel dir questo non parleremmo noi pure nel tempo, e le nostre parole non conterrebbero sillabe lunghe e sillabe brevi? E come, se non in base al loro risuonare per un tempo più lungo o più breve? Dio, dai alla gente il dono di vedere anche nel piccolo le idee comuni a piccole e grandi cose. Ci son le stelle e i luminari del cielo a far da segni delle stagioni e dei giorni e degli anni. Ci sono, certo: ma come io non direi che il giro di quella piccola ruota di legno sia addirittura il giorno, quello non oserà negare che sia pure un periodo di tempo.

- 30. Il mio desiderio è di conoscere la funzione e la natura del tempo, in quanto ci serve da misura dei movimenti dei corpi e ci consente di dire, ad esempio, che quel movimento dura il doppio di questo. Ora, si dice giorno non solo il periodo di permanenza del sole sopra l'orizzonte, in opposizione alla notte, ma anche l'intero giro che esso compie da oriente a oriente, come quando diciamo: "Passarono tanti giorni", intendendo includere le relative notti. Dato dunque che un giorno si compie in una rotazione completa del sole da oriente a oriente, io mi chiedo se il giorno sia la rotazione stessa, o la sua durata, o entrambi. Nel primo caso, anche se il sole completasse il suo corso in un intervallo di tempo pari a quello di un'ora, questo sarebbe ancora un giorno; nel secondo dato che l'intervallo di tempo fra una levata e l'altra del sole fosse di un'ora, ci vorrebbero ventiquattro rotazioni del sole perché fosse compiuto un giorno. Ma nel terzo caso non si chiamerebbe giorno né l'intero giro compiuto dal sole nello spazio di un'ora, né una pura e semplice quantità di tempo pari a quella che normalmente impiega il sole a coprire tutto il suo percorso, da un'alba alla successiva, ma trascorsa, supponiamo, a partire da un arresto del sole. Ora dunque non mi chiederò più che cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma che cosa sia il tempo che ci consente di misurare la rotazione del sole e di dire eventualmente che l'ha compiuta nella metà del tempo impiegato normalmente, qualora l'abbia in effetti compiuta in un intervallo di tempo pari a quello di dodici ore; che cosa sia insomma il tempo che ci consentirebbe di confrontare i due intervalli di tempo e di dire che l'uno è doppio dell'altro anche se il sole impiegasse a volte quel dato tempo, a volte il doppio a completare il suo giro da oriente a oriente. Nessuno dunque mi venga a dire che sono tempi i moti dei corpi celesti, perché quando il sole si fermò su preghiera di un uomo, per consentirgli di portare vittoriosamente a compimento una battaglia, il sole stava fermo, ma il tempo passava. Per tutto il tempo necessario, ne più né meno, quella battaglia fu combattuta, fino al suo termine. Il tempo dunque è qualcosa come un pro-trarsi, ora lo vedo. Ma lo vedo veramente, o mi pare soltanto di vedere? Me lo mostrerai tu, luce, verità.

24.31. Mi ordini di approvare chi afferma che il tempo è il movimento dei corpi? No. Sento dire piuttosto che un corpo non si muove se non nel tempo: tu lo dici. Infatti mentre il corpo si muove io misuro la durata del suo movimento, dall'inizio alla fine. E se non ho visto quando è cominciato il movimento e questo continua in modo che non vedo quando finisce, non sono in grado di misurarne la durata, a meno di non calcolarla dal momento in cui io comincio a vederlo a quello in cui non lo vedo più. Se resta a lungo in vista, posso riferire soltanto che il tempo impiegato è lungo, ma non specificare quanto, perché per dire quanto noi ci serviamo di un confronto, del tipo: "Dura tanto quanto quello" oppure "il doppio di quello" e così via. Se invece abbiamo potuto determinare le distanze dei luoghi di partenza e di arrivo del corpo in moto, o qualche punto di riferimento sul corpo stesso, nel caso si muova come su un tornio, allora possiamo specificare in quanto tempo si effettua il movimento del corpo o di una sua parte da un luogo all'altro. Altro è il movimento del corpo, altro ciò che a noi consente di misurarne la durata: e chi non vede a quale delle due cose conviene il nome di tempo? Anche se un corpo ora si muove ora sta fermo noi misuriamo quanto tempo dura non solo il movimento, ma anche la quiete, e diciamo "È stato fermo per un tempo uguale a quello che ha trascorso in moto", oppure "È stato fermo due o tre volte il tempo che ha trascorso in moto", o comunque risulti ai nostri calcoli, con precisione o, come si suol dire, più o meno. Il tempo non è dunque il movimento dei corpi.


[Il tempo e la voce. Il presente]

25.32. E ti confesso Signore che ancora non lo so, cosa sia il tempo, e ancora ti confesso, Signore, che so di fare questo discorso nel tempo e che da molto ormai sto parlando del tempo e che questo molto non è molto se non perché dura nel tempo. E come lo so allora, se non so che cos'è il tempo? O forse non so come dirlo, ciò che so? Ah, non so più neppure che cosa non so...Vedi, mio Dio, che non mento davanti a te: così come parlo è il mio cuore. L'accenderai tu la mia lucerna, mio Dio e Signore, farai un po' di luce nel mio buio.

26.33. Non è veridica la confessione in cui quest'anima lo ammette, che io misuro il tempo? Mio Dio, dunque misuro e non so cosa misuri. Misuro in termini di tempo il movimento di un corpo. Ma allora non misuro il tempo stesso? O potrei misurare quanto dura il moto del corpo e quanto questo impieghi a coprire una certa distanza, altrimenti che misurando il tempo in cui si muove? E allora il tempo stesso come lo misuro? Forse misuriamo un intervallo di tempo con uno più breve, come con la lunghezza di un cubito misuriamo quella di un asse? Sì, in questo modo a quanto pare misuriamo l'estensione temporale di una sillaba lunga con quella di una breve, e la diciamo doppia di questa. Così misuriamo l'estensione dei poemi con quella dei versi e quella dei versi con quella dei piedi, e quella dei piedi con quella delle sillabe e quella delle sillabe lunghe con quella delle sillabe brevi: non la misuriamo in pagine - perché a quel modo misureremmo l'estensione spaziale, non quella temporale - ma col passare del suono delle parole che pronunciamo, dicendo: "È un poema lungo, perché si compone del tal numero di versi; son versi lunghi perché sono costituiti da tanti piedi; piedi lunghi, perché si estendono per tante sillabe; sillaba lunga perché è doppia di una breve". Ma neppure così si afferra una determinata misura di tempo, perché può ben darsi che un verso più breve, se lo si pronuncia protraendo il suono della voce, continui a risuonare per un intervallo di tempo maggiore di quello di un verso più lungo pronunciato più in fretta. E questo vale per un poema, per un piede, per una sillaba. Perciò mi è parso che il tempo altro non fosse che una sorta di protrazione: ma di che cosa, non lo so. Della mente stessa forse? Sì, non può che esser così. Perché, mio Dio, che cosa misuro io di grazia, quando faccio un'affermazione o indeterminata come "Questo intervallo di tempo è più lungo di quello", o anche determinata come "È il doppio di quello"? Misuro il tempo, lo so: ma non misuro il futuro, perché non esiste ancora, non misuro il presente perché non occupa alcuna estensione, non misuro il passato perché non esiste più. Che cosa misuro allora? Non il passato ma il tempo che passa? Così infatti avevo affermato.

27.34. Insisti mente, intensifica ancora l'attenzione: Dio è il nostro aiuto; non ci siamo fatti da noi, lui ci ha fatto. Ecco, ad esempio, una voce umana comincia a risuonare, risuona, risuona ancora e cessa, ora è silenzio e quel suono vocale è passato e non è più. Era ancora a venire prima che risuonasse e non poteva essere misurata perché ancora non era, e ora non può esserlo perché non è più. Dunque poteva allora, mentre risuonava, perché allora c'era qualcosa da misurare. Ma allora non restava ferma, ma andava via, passava. O forse proprio per questo si poteva misurarla? È passando infatti che occupava una certa estensione temporale misurabile, mentre invece il presente non ha estensione. Ammettiamo dunque che si poteva misurarla allora, e supponiamo che un'altra cominci a risuonare e continui a farlo, con continuità e uniformità di tono; misuriamo dunque quanto dura questo suono, finché dura, perché quando il suono sarà cessato, sarà già passato e non ci sarà più niente da misurare. Misuriamo bene questa durata: ma la voce ancora risuona e bisogna misurarla dal momento iniziale, in cui ha preso a risuonare, fino a quello finale, in cui è cessata. Un dato intervallo si misura appunto dall'inizio alla fine. Ma il suono della voce non è ancora cessato, e dunque non si può misurare la sua durata e concludere che è breve o lunga o uguale a quella di un altro suono o doppia di quella o quant'altro. Ma una volta cessato, il suono non sarà più. E allora con che metro misureremo la sua durata? Eppure noi misuriamo gli intervalli di tempo: ma non quando non sono ancora in corso, né quando non lo sono già più, né quando sono privi di estensione, né quando non hanno termini. Dunque non misuriamo né il futuro né il passato né il presente né il tempo che passa: eppure misuriamo il tempo.

- 35. Deus creator omnium: in questo verso di otto sillabe si alternano sillabe brevi e lunghe: quindi le quattro brevi - la prima, la terza, la quinta e la settima - durano la metà rispetto alle quattro lunghe - la seconda, la quarta, la sesta e l'ottava. Ciascuna di queste dura un tempo doppio rispetto a ciascuna delle prime: me ne convinco pronunciando il verso, che è così, almeno per quello che può rivelare l'orecchio. A quanto l'orecchio mi dice, misuro la sillaba lunga con la breve e avverto che dura due volte tanto. Ma, dato che le sillabe risuonano una dopo l'altra, se la breve vien prima della lunga come farò a trattenere la breve e ad applicarla come metro alla lunga, e a trovare che è due volte tanto, se la lunga comincia a risuonare solo quando ha smesso di farlo la breve? E a misurare la lunga mentre ancora è presente, quando non posso misurarla se non è finita? Ma quando è finita è passata. E allora che cos'è che misuro? Dov'è la breve che mi fa da metro? Dov'è la lunga che devo misurare? L'una e l'altra han finito di risuonare, sono volate via, sono passate e non ci sono più: e io misuro e rispondo tranquillamente, con tutta la confidenza che si ha in un senso esercitato, che l'una è semplice e l'altra doppia - quanto all'estensione temporale, voglio dire. Ma non sono in grado di far questo se non perché son già passate e finite. Non loro dunque, che non sono più, misuro: ma qualcosa nella mia memoria, qualcosa che vi si fissa.


[Il tempo e l'anima]

- 36. In te, anima mia, misuro il tempo. Non frastornarmi coi tuoi "cosa? come?" Non frastornare te stessa con la folla delle tue impressioni. In te, dico, io misuro il tempo. Sì, l'impressione che le cose passando producono in te rimane quando le cose son passate: è questa che è presente, non quelle, che son passate perché lei ne nascesse. È questa che misuro, quando misuro il tempo. Il tempo è lei - o non è il tempo quello che misuro. E allora quando misuriamo i silenzi e diciamo che questa pausa dura quanto quel suono? Ma appunto: in questi casi per poter calcolare in qualche modo l'estensione temporale degli intervalli di silenzio, noi ci fingiamo in loro luogo il suono della voce e cerchiamo di misurare mentalmente la durata che avrebbe. Anche senza usare la voce e le labbra noi recitiamo mentalmente poemi e versi e discorsi: e siamo sempre in grado di indicare quanto durano i loro svolgimenti e che quantità di tempo occupano l'uno relativamente all'altro, non altrimenti che se li recitassimo a voce alta. Supponiamo che uno voglia emettere un suono appena un po' più lungo e abbia mentalmente prestabilito quanto dovrà esser lungo: costui avrà certamente percorso in silenzio e affidato alla memoria quel determinato lasso di tempo, e quindi avrà preso a emettere la voce, che risuona finché sia giunto il termine stabilito. Anzi, che è risuonata e risuonerà: perché quella che è già passata è senza dubbio risuonata, e quanto ne resta risuonerà. Ed è così che passa, mentre l'intenzione presente traduce il futuro in passato, e il passato cresce via via che decresce il futuro, finché consumato il futuro tutto sarà passato.

28.37. Ma come può decrescere o consumarsi il futuro che non esiste ancora, e come può crescere il passato che non esiste più, se non in quanto esistono tutti e tre nella mente che opera questo processo? Perché è la mente che ha aspettative, fa attenzione, ricorda: e quello che si aspetta le si fa oggetto di attenzione per divenire oggetto di memoria. Chi nega allora che il futuro ancora non esista? Ma c'è già l'aspettativa mentale del futuro. E chi nega che il passato non esista più? Ma nella mente ancora c'è il ricordo del passato. E chi nega che il tempo presente sia privo di estensione, poiché passa in un punto? Ma ciò che perdura è l'attenzione, attraverso la quale ogni cosa si abbia presente sconfina gradualmente nell'assenza. Quindi non è lungo il tempo futuro, che non esiste, ma un lungo futuro è una aspettativa a lungo termine di cose a venire, e non è lungo il passato, che non esiste, ma un lungo passato è una memoria di lunga durata delle cose avvenute.

- 38. Mi dispongo a cantare una canzone che conosco: prima di cominciare la mia aspettativa è protesa alla composizione nel suo insieme; ma basta che cominci ed ecco, via via che faccio crescere il passato a spese dell'aspettativa, il mio ricordo si estende in proporzione: e il mio vivere in questa azione è un protrarsi nella memoria di ciò che ho già detto e nell'aspettativa di ciò che sto per dire. Ma l'attenzione è presente, ed è la sua presenza a far sì che ciò che era futuro si traduca in passato. Via via che questa azione si compie, l'aspettattiva si accorcia e il ricordo si allunga, finché l'aspettativa è tutta consumata, quando l'azione è compiuta e passata tutta nella memoria. E ciò che avviene dell'intera canzone avviene anche di ciascuna sua minima parte fino alle singole sillabe, e di un'azione più lunga di cui quella canzone può far parte, e dell'intera vita di un uomo, che è costituita da tutte le sue azioni, e dell'intera storia dei figli degli uomini, che è costituita da tutte le vite umane.

Conclusione

29.39. Ma poiché la tua grazia è al di sopra di tutte le vite, ecco: non è che distrazione la mia vita, eppure la tua destra mi ha raccolto nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, l'uno, e noi, i molti, in molte cose e per molte vie, in modo che per mezzo suo mi afferri a questo che mi ha afferrato e dai giorni antichi io torni in me seguendo l'Uno, e dimentichi il passato: non per farmi distrarre dalle cose che verranno e se ne andranno, ma per essere teso a quelle immobili davanti a me. Così, in un'attenzione ormai non più distratta inseguo la palma di chi è chiamato in alto, dove udirò risuonare le tue lodi e contemplerò la tua felicità, che non passa. Ora i miei anni piangono, e il mio conforto sei tu, padre mio eterno e Signore; e io mi sono sbriciolato nel tempo senza conoscerne l'ordine, e i miei pensieri, i visceri dell'anima, li fa a pezzi la furia del molteplice, fino a quando nella catarsi del tuo fuoco d'amore io sarò fuso e rifluito in te.

30.40. E in te troverò stanza e consistenza nella tua verità, che è la mia forma. E non dovrò più sopportare quelle persone condannate da una strana malattia ad aver voglia di bere sempre più di quanto possano contenere, con le loro questioni come "Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?" o "Come gli è venuto in mente di fare qualcosa se fino a quel momento non aveva mai fatto nulla?". Concedi loro, mio Signore, di pensare bene a quello che dicono e scoprire che non ha senso dire "mai" dove il tempo non esiste. Che altro vuol dire "mai" se non "in nessun tempo"? Si rendano conto che senza creato non può esservi tempo e smettano di parlare a vuoto. Rivolgano anche loro l'attenzione a ciò che sempre trovano davanti e comprendano che tu stai innanzi a tutti i tempi, loro creatore eterno, e nessun tempo ti è coeterno e nessuna creatura, benché ve ne possano essere di superiori al tempo.

31.41. Mio Dio e Signore, come è profondo e alto il tuo segreto, e quanto lontano me ne hanno gettato le conseguenze dei miei errori. Guarisci i miei occhi, e anch'io potrò godere la tua luce. Certo se c'è una mente forte di conoscenza e prescienza così grandi, che tutto il passato e il futuro le sono familiari come a me una canzone notissima, troppo meravigliosa e terrificante è questa mente, cui nulla sfugge che sia avvenuto o debba ancora avvenire in tutti i secoli. Proprio come non sfugge a me, quando canto quella canzone, quale e quanta parte di essa ho già cantato dall'esordio e quale e quanta ne resti per finire. Eppure non così, ben altrimenti tu, autore della totalità degli esseri, autore delle anime e dei corpi, ben altrimenti tu conosci tutto il futuro e tutto il passato. In modo molto, molto più mirabile e segreto... Quando uno canta o ascolta cantare una canzone nota, l'aspettativa dei suoni a venire e il ricordo di quelli passati causano variazioni nel sentimento e la percezione ne viene distratta. Niente del genere accade a te che sei immutabilmente, cioè veramente, eterno creatore delle menti. Come conoscevi in principio il cielo e la terra senza alcun mutamento nella tua coscienza, così in principio creasti il cielo e la terra senza disperdere nel tempo l'azione. Chi capisce ti renda lode, e ti renda lode anche chi non capisce. A quali altezze tu stai, tu che hai negli umili di cuore la tua casa. Perché tu risollevi chi è prostrato, e non cade chi ha in te la propria altezza.


LIBRO DODICESIMO
[LA CREAZIONE E I PRINCIPI DELL'ESEGESI]

1.1. Quante cose mi affollano il cuore colpito dalle parole della tua Sacra Scrittura, in questa povertà della mia vita. È così che la penuria dell'intelligenza umana si manifesta di solito con un fiume di parole: perché il cercare è più loquace del trovare, e il chiedere più lungo dell'ottenere e la mano più attiva nel bussare che nell'accogliere. Abbiamo una promessa: chi potrà vanificarla? Se Dio è a nostro favore, chi è contro di noi? Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché a chiunque chiede sarà dato e chi cerca troverà e a chi bussa sarà aperto. Sono promesse tue, e come temere di essere ingannato quando è la verità stessa a promettere.

2.2. Confessa alla tua sublimità l'umiltà della mia lingua che tu hai creato il cielo e la terra, questo cielo che vedo e la terra che calco, da cui viene anche questa terra che mi porto addosso. Tu li hai creati. Ma dov'è mio Signore il cielo del cieli, di cui ci è giunta la voce del salmo: Il cielo del cielo al Signore: ma la terra la diede ai figli degli uomini ? Dov'è il cielo a noi invisibile, rispetto al quale è terra tutto questo che vediamo? Questo mondo materiale che ha per fondo la nostra terra non ha ricevuto tutto e dovunque, nelle sue parti ultime, visibile bellezza: ma perfino il cielo della nostra terra è terra rispetto a quel cielo del cielo. E non sarebbe assurdo chiamare terra tutt'e due i grandi corpi, rispetto a quel cielo ignoto che appartiene al Signore, non ai figli degli uomini.


[Il cielo e la terra. La materia amorfa]

3.3. E questa terra appunto era invisibile e informe, una sorta di profondo abisso sul quale non v'era luce, perché non ne traluceva alcuna idea: perciò hai voluto fosse scritto che le tenebre erano al di sopra dell'abisso; e che cos'è questo se non l'assenza della luce? Perché dove altro sarebbe stata la luce, se ci fosse stata, che al di sopra, alto dominio della chiarità? Dove ancora non era la luce che cos'era dunque la presenza delle tenebre se non l'assenza di luce? Così al di sopra erano le tenebre perché là la luce era assente, come dove non c'è suono è il silenzio. E che altro è l'essere del silenzio se non il non essere del suono. Non sei stato tu, mio Signore, a insegnarlo a quest'anima che lo confessa, non sei stato tu a insegnarmi come prima che tu dessi forma e discretezza a questa materia amorfa non c'era singola cosa: né colore, né figura, né corpo, né spirito? E tuttavia non è che non ci fosse assolutamente nulla: c'era una sorta di caos, privo di definite sembianze.

4.4. E come chiamarlo, in modo da darne l'idea anche ai più tardi di mente, se non con un termine d'uso comune? Ma che cosa si può trovare in tutte le parti dell'universo che si avvicini a una completa assenza di forma più della terra e dell'abisso marino? Questi, occupando il grado più basso, sono infatti meno appariscenti delle cose superiori, tutte splendide e scintillanti. Perché allora non dovrei accettare che per indicare agli uomini la materia informe, da te creata priva d'ogni sembianza per farne un mondo pieno di belle forme, fosse un termine appropriato quello di terra invisibile e informe?

5.5. Così, in essa il pensiero va cercando qualcosa di afferrabile, e si dice: "Non è una forma intelligibile come la vita, come la giustizia, perché è materia di corpi, e non è una forma sensibile, perché nell'invisibile e informe non c'è alcunché da vedere o da sentire". Che, parlando a se stesso in questo modo, il pensiero umano lotti per sapere senza sapere, o per ignorare senza ignoranza?

6.6. Ma io, mio Signore, se debbo confessarti con le labbra e la penna tutto ciò che di questa materia mi hai insegnato: prima la sentivo sì nominare, ma non capivo, e siccome era gente che a sua volta non capiva a parlarmene, la pensavo sotto innumerevoli forme e aspetti e perciò non la pensavo veramente; mi vorticavano nella mente forme sconce e orrende, sconvolte nel loro proprio ordine, ma pur sempre forme: e io chiamavo informe non ciò che era privo di forma, ma ciò che ne aveva una tale da apparire strano e assurdo fino a destare ripugnanza, fino a sconvolgere la mia instabile natura d'uomo. In effetti ciò che io avevo in mente era informe non per mancanza assoluta di forma, ma solo relativamente a cose più armoniosamente conformate. E la vera ragione tentava sì di convincermi a far del tutto a meno di qualunque residuo di forma, se volevo concepire l'assolutamente informe: e però questo non mi riusciva. Mi era più facile pensare che non esistesse nulla di totalmente privo di forma, piuttosto che concepire qualcosa fra la forma e il nulla, che non fosse né l'uno né l'altro, un informe quasi niente. E la mente allora smise di interrogare lo spirito affollato di immagini e figure di corpi, che giocava a trasformare variamente a suo capriccio, e fissai l'attenzione sui corpi stessi per indagare più a fondo la loro capacità di mutamento, in virtù di cui essi cessano di essere quello che erano e cominciano ad essere quello che non erano, e cominciai a sospettare che proprio quel passaggio di forma in forma si producesse attraverso un che di informe, e non attraverso un assoluto nulla. Ma io aspiravo alla conoscenza, non a qualche sospetto: e se dovessi confessarti con la voce e con la penna tutti i nodi di questa questione che tu mi hai sbrogliato, ben pochi lettori continuerebbero a seguire. Non per questo il cuore rinuncerà a renderti l'omaggio di un canto di lode anche per quello che non saprebbe tradurre in chiare formule. Infatti è proprio la mutevolezza delle cose mutevoli che è capace di tutte le forme in cui le cose mutevoli si cambiano. Ma essa stessa che cos'è? È corpo? È mente? È un aspetto della mente o del corpo? Se si potesse dire "un niente che è qualcosa" oppure "è e non è", ne parlerei in questi termini; eppure doveva in qualche modo esistere, per assumere queste sembianze visibili e ordinate.


[La creazione dal nulla]

7.7. Ma comunque fosse, qual era l'origine del suo essere se non tu, da cui derivano tutte le cose, in quanto sono? Ma più dissimili sono da te, e più sono lontane: e non di lontananza spaziale si tratta. E tu dunque, Signore, che non sei qui una cosa e là un'altra, ma uno e identico, santo, santo, santo, Signore Dio onnipotente, nel principio, che è da te, nella sapienza nata dalla tua sostanza, tu hai fatto qualcosa e l'hai fatto dal nulla. Hai fatto il cielo e la terra: ma non traendoli da te, altrimenti ci sarebbe qualcosa di uguale al tuo unigenito e di conseguenza a te - dato che non poteva assolutamente essere giusto che ti fosse uguale qualcosa di non generato da te. E non c'era altro all'infuori di te, da cui potessi trarli, Dio, trinità unica e unità trina, e perciò appunto dal nulla hai fatto il cielo e la terra, una grande e una piccola cosa, perché tu sei onnipotente e buono fino a fare ogni cosa buona, grande il cielo e piccola la terra. C'eri tu, altro non c'era: e da questo niente hai fatto il cielo e la terra, due ben diverse cose: l'uno vicino a te, l'altra vicina al nulla, così che l'uno sopra di sé avesse te soltanto, l'altra sotto di sé soltanto il nulla.

8.8. Ma quel cielo dei cieli era per te, Signore; la terra invece, che hai dato da vedere e da toccare ai figli degli uomini, non era quale ora la possiamo vedere e toccare. Era invisibile e informe, era abisso su cui non c'era luce, e tenebre levate sull'abisso, che è più che dire nell'abisso. Perfino l'abisso marino, quello visibile di ora, anche in profondità ha una sua parvenza di luce, in qualche modo percepibile dai pesci e dagli animali che strisciano sul fondo; ma quello era un tutto prossimo al nulla, perché era ancora assolutamente informe: eppure era già un che di pronto a ricevere una forma. Infatti tu, Signore, hai fatto il mondo dalla materia amorfa, questo quasi niente che hai fatto da niente, per poi poterne trarre le grandi cose che destano meraviglia in noi, i figli degli uomini. Meraviglioso invero è questo cielo fisico, il firmamento stabilito fra le acque superiori e inferiori, che nel secondo giorno dopo la creazione della luce hai col tuo "fiat" chiamato all'essere - e quello fu. Quel firmamento l'hai chiamato cielo, ma cielo di questa terra e questo mare, che hai fatto il terzo giorno dando forma visibile alla materia informe, fatta da te prima di tutti i giorni. Prima di tutti i giorni in realtà avevi fatto anche il cielo, ma il cielo di questo cielo appunto: perché in principio avevi fatto il cielo e la terra. E quella terra che avevi fatto non era che materiale amorfo, perché era invisibile e informe e tenebre sopra l'abisso. Per fare da questa terra invisibile e informe, da questa assenza di forma, da questo quasi niente tutte le cose in cui questo universo mutevole consiste e non consiste: questo universo che mostra la sua mutevolezza, la stessa che permette di sentire e di calcolare il tempo. Perché è il mutare delle cose a generare il tempo, provocando il variare e la successione delle forme visibili, la cui materia è la terra invisibile.

9.9. E così lo spirito che il tuo servo aveva per dottore, mentre narra che in principio hai fatto cielo e terra, tace del tempo e non parla di giorni. Il fatto è che il cielo dei cieli, che hai fatto in principio, è creatura intellettuale: che pur non essendo a te, la trinità, coeterna, è tuttavia partecipe della tua eternità, e con forza contiene la sua mutevolezza, di fronte alla felicità dolcissima di immergersi nella tua contemplazione. E senza mai decadere da questa condizione, da che fu fatta, a forza di aderire intimamente a te vive oltre i vortici delle vicende temporali.

10.10. O verità, luce del mio cuore, tu non lasciare che mi parli il mio buio. Come l'acqua sono colato fin quaggiù e m'avvolge il buio. Ma anche da qui, anche da qui ti ho amato. Andavo errando, e mi sono ricordato di te. Ho udito la tua voce alle mie spalle che mi richiamava indietro: l'ho udita a malapena nel frastuono delle dispute inconcludenti. E ora eccomi, che torno arso e assetato alla tua fonte. E nessuno mi sbarri la via, io voglio bere e vivere. Non voglio essere più io la mia vita: male ho vissuto di me stesso, e a me stesso sono stato morte, e in te rivivo. Parlami tu, tu insegnami. Ho creduto ai tuoi libri, ma sono scritti in una lingua arcana.

11.11. Già me lo hai detto, con voce risonante all'orecchio interiore, che tu sei eterno: tu, mio Signore, il solo a possedere l'immortalità, poiché non muti in alcun modo aspetto né ti muovi, e la tua volontà non varia nel tempo - non è infatti immortale una volontà che sia diversa di momento in momento. Davanti ai tuoi occhi questo mi è chiaro, e ti prego di farmelo di giorno in giorno più chiaro e che io persista in questa luce di evidenza senza deliri, sotto le tue ali. Mi hai anche detto, con voce risonante all'orecchio interiore, che tutte le nature e le sostanze che pur non essendo ciò che tu sei esistono, sei stato tu a crearle: e non è da te solo ciò che non è; come pure il moto della volontà da te che sei a ciò che ha meno essere, perché questo moto è defezione e peccato, e non c'è peccato che possa nuocerti o turbare l'ordine del tuo impero, dal vertice alla base. Davanti ai tuoi occhi questo mi è chiaro, e ti prego di farmelo di giorno in giorno più chiaro e che io persista in questa luce di evidenza senza deliri, sotto le tue ali.


[La corte angelica]

- 12. Ancora me lo hai detto con voce risonante all'orecchio interiore, che non ti è coeterna neppure quella creatura che ha in te il suo unico piacere, e che nell'assoluta perseveranza e purezza della sua adesione a te non tradisce mai, in nessun modo, la sua natura mutevole: ma avendoti sempre presente e tenendosi a te con totale passione, senza un futuro da attendere e un passato dove indugiare coi ricordi, non subisce mutamento di vicende né dispersione nel tempo. Felice lei, se una creatura tale esiste, aggrappata alla tua felicità, felice lei che tu perennemente abiti e illumini! E non vedo che cosa più vorrei chiamare "cielo dei cielo per il Signore" che questa tua corte assorta in contemplazione del tuo piacere, che non vien meno e non divaga in altro, intelligenza pura e unita nella perfetta concordia fondata sulla pace dei beati spiriti cittadini della tua città, negli altissimi azzurri al di sopra di questo.

- 13. Mi intenda l'anima che se ne va peregrinando, lontana ormai, se ha già sete di te, se già sono il suo pane le sue lacrime, e giorno dopo giorno le dicono: "Dov'è il tuo Dio?" ; se già una sola cosa ti chiede, ed è questa, di abitare nella tua casa tutti i giorni della sua vita. E che cos'è la sua vita se non tu? E che sono i tuoi giorni se non la tua eternità, come i tuoi anni, che non vengono meno, perché tu permani identico? Intenda dunque l'anima, se può, quanto remoto e alto sopra il tempo tu viva eterno, se quella parte della tua casa che non s'è sviata all'avventura, grazie alla sua adesione a te, ininterrotta e indefettibile, non soffre le vicissitudini del tempo: eppure non ti è coeterna. Davanti ai tuoi occhi questo mi è chiaro, e ti prego di farmelo di giorno in giorno più chiaro e che io persista in questa luce di evidenza senza deliri, sotto le tue ali.

- 14. Sì, c'è un che d'informe in queste mutazioni delle cose estreme e infime, e chi - se non un cuore girovago e vacuo, smarrito dietro ai suoi fantasmi - chi verrà a dirmi che una volta smangiata ogni forma visibile fino alla sua dissoluzione, quando restasse la pura assenza di forma per cui passa una cosa nel corso delle sue successive metamorfosi, questa presenterebbe qualcosa come una vicenda temporale? Non è assolutamente possibile, perché senza varietà di movimenti non si dà tempo, e non c'è varietà dove non esistono forme.

12.15. Considerato tutto questo, dato che tu, Dio mio, me lo concedi, dato che mi inviti a bussare e mi apri se busso, due cose trovo che tu hai creato non soggette al tempo, benché nessuna delle due ti sia coeterna: una, benché di natura mutevole, di forma tale da fruire - senza mai calo d'intensità contemplativa né pausa di cambiamento - della tua eternità e immutabilità; l'altra all'opposto così informe da non aver di che mutarsi da una forma all'altra, da uno stato o da una configurazione mobile a un'altra, e quindi da non esser neppur lei soggetta al tempo. Ma quest'ultima tu non hai lasciato che restasse informe, dato che prima dell'inizio dei giorni hai creato in principio il cielo e la terra: appunto le due cose che dicevo. Ma la terra era invisibile e informe e le tenebre erano al di sopra dell'abisso. Sono parole che suggeriscono l'idea dell'amorfo, per catturare a poco a poco quelli che non riescono a concepire, senza confonderla col nulla, una totale assenza di forma visibile. Ma è ben da questa che doveva generarsi un altro cielo e una terra visibile e ordinata e lo specchio delle acque e tutto ciò che in seguito, non senza successione di giorni, fu creato come si tramanda durante la costituzione di questo mondo. Cose tutte che sono soggette alle vicissitudini del tempo, in quanto lo sono a un ordine di successione dei movimenti e delle forme.

13.16. Questo intanto io credo, mio Dio, quando ascolto le parole della tua Scrittura: In principio Dio creò il cielo e la terra: e la terra era invisibile e informe e le tenebre erano al di sopra dell'abisso. Così parla, e non dice in quale giorno hai fatto questo, e così io intendo che sia il cielo dei cieli quello di cui parla, il cielo intellettuale, dove all'intelligenza è dato conoscere tutto insieme, non pezzo a pezzo, non in enigma e attraverso uno specchio, ma tutto in una volta, senza veli, faccia a faccia; conoscere non ora questo ora quello, ma come si è detto, tutto simultaneamente, senza avvicendamento temporale. E parimenti per terra invisibile e informe intendo priva di vicissitudini temporali, che di solito portano ora questo ora quello, perché dove non c'è alcuna forma non si danno particolari come questo e quello. Di queste due cose - l'una formata all'origine l'altra radicalmente informe, l'una che è il cielo, sì, ma il cielo del cielo, l'altra che è la terra, ma quella invisibile e informe - di queste due cose io intendo parli la tua Scrittura quando dice senza menzione di giorni: In principio Dio creò il cielo e la terra. Perché subito aggiunge di quale terra si tratti. E poiché nel secondo giorno è menzionata la creazione del firmamento e questo viene chiamato cielo, si suggerisce quale sia il cielo di cui si parlava prima, senza indicazione di giorni.


[Obiezioni. Sulla natura dell'esegesi]

14.17. Meravigliosa profondità delle tue parole, che ecco, in superficie sanno incantare i bambini: ma che profondità, Dio mio, che meraviglia. Sgomento di penetrarla con gli occhi, timore reverenziale e amoroso tremore. Violento è l'odio che provo per i suoi nemici: oh se tu li uccidessi con la spada a due tagli, finché di nemici non ne esistessero più! Sì, come vorrei vederli uccisi a se stessi, affinché vivano per te. Ma eccone degli altri, dei cultori e non dei detrattori del libro della Genesi: "Non è così che lo spirito di Dio, scrivendo per mezzo di Mosè suo servitore, volle essere inteso: non è così come tu dici, ma in un altro modo, come diciamo noi". A te il giudizio, Dio di tutti noi: a loro io così rispondo.

15.18. Volete forse dichiarare falso ciò che la verità mi dice ad alta voce all'orecchio dell'anima sulla vera eternità del creatore, e cioè che la sua sostanza non può mai subire variazioni nel tempo e che la sua volontà non è altra cosa dalla sua sostanza? Ma ne segue che egli non vuole ora una cosa ora l'altra, ma una volta per tutte e per sempre e tutto in una volta vuole ciò che vuole; non vuole una cosa alla volta e neppure vuole cose diverse in diversi momenti, né vuole prima e poi disvuole, o viceversa, perché una volontà simile sarebbe mutevole, e niente che sia mutevole è eterno; ma il nostro Dio è eterno. E ancora, non vorrete negare quanto mi dice all'oreccho interiore, che l'attesa delle cose a venire si fa visione, quando sono presenti, e la visione si fa memoria quando sono passate; ora ogni atto intenzionale che sia così soggetto a variazione è mutevole, e nulla di mutevole è eterno: ma il nostro Dio è eterno. Io raccolgo e connetto queste verità e vedo che il mio Dio, il Dio eterno, non ha istituito il creato con un nuovo atto di volontà, e che la sua conoscenza non ammette alcunché di transitorio.


[Ancora sugli angeli]

- 19. E allora voi oppositori che cosa direte? È falso tutto questo? "No", rispondono. Ma forse è falso quest'altro: che ogni natura formata o materia formabile non ha esistenza se non da quello che è massimamente buono, perché ha il massimo di esistenza? "Neppure questo neghiamo", rispondono. E allora? Forse negate l'esistenza di un tipo sublime di creatura, unita al Dio vero e veramente eterno con amore così puro da non sciogliersi mai da lui - benché a lui non coeterna - per scorrere col fiume del tempo attraverso le sue varie vicende. Una creatura che riposa, invece, nella contemplazione di lui solo, la più veridica - perché tu, Dio, ti mostri a chi ti ama quanto esigi, e gli basti, e perciò non decade da te, verso se stesso. Questa è la casa di Dio, che non è di questa terra né della massa fisica dei cieli, ma spirituale e partecipe della tua eternità, perché non vacilla in eterno. Tu l'hai fondata per i secoli dei secoli / hai dato una legge che non passerà. Eppure non ti è coeterna, perché non è priva di inizio: è stata fatta.

- 20. Anche se prima di essa non si trova alcun tempo - poiché prima di tutte le cose è stata creata la sapienza (e naturalmente non intendo quella Sapienza che è semplicemente coeterna a te, Dio nostro e padre suo, che ti è eguale e per cui mezzo sono state create tutte le cose e nel cui principio hai fatto il cielo e la terra, ma intendo quella sapienza creata che è la natura intellettuale, lume che contempla il Lume: perché anch'essa, benché creata, si chiama sapienza; ma fra la sapienza che crea e questa che è stata creata c'è la stessa differenza che intercorre fra ciò che splende di luce propria e ciò che la riflette, o fra la giustizia giustificante e la giustizia del giustificato. E in effetti anche noi siamo stati denominati "tua giustizia": dice infatti uno dei tuoi servi: ...affinché noi siamo la giustizia di Dio in lui stesso...) - poiché, dicevo, ciò che è stato fatto prima di tutte le cose è una forma di sapienza creata, la mente razionale e intellettuale della tua città pura, madre nostra, che sta in alto ed è libera ed eterna nei cieli (e quali cieli, se non quei cieli dei cieli che ti rendono lode, perché son ben questi che son detti cielo del cielo riservato al Signore); anche se non si trova tempo alcuno prima di quella sapienza, dato che se fu creata prima di tutte le cose precede anche la creazione del tempo, resta pur vero questo, in conclusione: prima di lei c'è l'eternità del creatore stesso, dal quale ebbe con la creazione il proprio esordio, non nel tempo che ancora non c'era, ma nella sua condizione stessa.

- 21. Procede dunque da te, Dio nostro, ma in modo tale da esser palesemente altro da te, e non la stessa cosa: e questo anche se non si trova tempo alcuno non soltanto prima di lei, ma anche in lei stessa. Perché è fatta per vedere continuamente la tua faccia, e non se ne distoglie mai; e per questo non subisce mutamenti. Eppure la mutevolezza è insita in lei, tanto che si farebbe tenebra e gelo se non fosse per il grande amore che la tiene assorta in te e l'accende del tuo splendore e ardore come un'eterna luce meridiana. O casa luminosa e bella, ho amato la tua magnificenza e il luogo dove abita la gloria del mio Signore, tuo artefice e padrone! A te giunga il sospiro dei miei vagabondaggi, a colui che ti ha fatta chiedo d'essere in te posseduto anche io, poiché anche me egli ha fatto. Io sono andato errando come pecora smarrita, ma sulle spalle del mio pastore, di chi ti ha costruito, spero di esser riportato a te.

- 22. E voi cui mi rivolgevo come a degli oppositori, ma che pure credete Mosè un servo devoto di Dio, e i suoi libri oracoli dello Spirito Santo, voi che cosa mi dite? Non è questa la dimora di Dio, non a Dio coeterna, certo, ma a suo modo eterna nei cieli, dove invano cerchereste le vicissitudini del tempo, perché non vi si trovano? Svetta al di sopra di ogni dispersione e di ogni volgere di stagioni della vita ciò che ha il suo bene nell'adesione senza fine a Dio. "È vero", rispondono. Che cosa allora dichiarate falso di quello che il mio cuore gridò al mio Dio, mentre udiva levarsi dal suo intimo una voce in sua lode? Forse che vi fosse una materia informe là dove, mancando ogni forma, non c'era ordine alcuno? Ma dove non c'era ordine non poteva esserci alcuna successione di tempi; eppure questo quasi-niente, in quanto non era un assoluto niente, veniva certo da quello da cui viene all'essere tutto ciò che in qualche modo esiste. "Anche questo", ribattono, "noi non lo contestiamo".

16.23. Sì, voglio discutere davanti a te con questi che riconoscono per vero tutto quello che la tua verità non cela nell'intimo silenzio della mente. Quanto a quelli che lo negano, che abbaino pure a piacer loro fino a stordirsi: tenterò di persuaderli, perché stiano zitti e aprano così alla tua parola la via verso se stessi. E se non vogliono e mi respingono, tu non fuggire da me col tuo silenzio, mio Dio, te ne prego. Parla dentro il mio cuore con verità, come tu solo sai parlare: e io li lascerò fuori a soffiare nella polvere e a gettarsi la terra negli occhi, e rientrerò nella mia stanza segreta a dedicarti le canzoni d'amore e i pianti inenarrabili del mio vagabondare, e mi ricorderò Gerusalemme, in alto verso lei proteso il cuore, Gerusalemme mio vero paese, Gerusalemme che è la madre mia, e te su lei sovrano, luce, padre, tutore e sposo, sua forte e pura voluttà, solida gioia e simultaneo dono di ogni bene ineffabile, tu che sei l'unico, il supremo, il vero bene. E non me ne farò strappare fin quando non avrai raccolto tutto il mio essere nella sua pace di madre dolcissima, dove son le primizie del mio spirito e queste certezze che ne traggo, e non lo avrai sottratto a questa dispersione e difformità per rendergli uniformità e fermezza in eterno, Dio mio, misericordia mia. Io mi rivolgo dunque a quelli che, pur non dichiarando false tutte le cose che abbiamo detto esser vere, anzi onorando la tua Sacra Scrittura trasmessaci dal divino Mosè, e ponendola come noi al vertice dell'autorità da seguire, hanno tuttavia qualcosa da obiettarci. Sii tu, Dio nostro, arbitro fra le mie confessioni e queste loro obiezioni.


[Principi dell'esegesi]

17.24. Dicono infatti: "Per vero che ciò sia, non erano quelle le due cose che Mosè, illuminato dallo Spirito Santo, intendeva con le parole 'In principio Dio creò il cielo e la terra'. Con la parola 'cielo' non si riferiva a quella creatura spirituale o intellettuale che contempla ininterrottamente il volto di Dio, né con la parola 'terra' alla materia informe". A che cosa, dunque? "A quello che diciamo noi", rispondono, "a questo pensava quell'uomo famoso, e questo ha voluto esprimere con quelle parole". E cioè? "Con le parole 'cielo e terra' volle riferirsi a tutto questo mondo visibile, dapprima nella sua totalità e concisamente, per poi analizzare nelle singole parti, attraverso l'enumerazione dei giorni, tutte le cose come allo Spirito Santo piacque elencarle. Tali erano infatti gli uomini di cui si componeva quel popolo rozzo e materiale, a cui si rivolgeva, da fargli credere che non si potessero proporre loro altre opere di Dio che le visibili". Però la terra invisibile e informe e l'abisso sovrastato di tenebra, da cui in seguito nel corso di quei giorni appaiono formate e ordinate tutte queste opere visibili che ciascuno conosce, essi ammettono pure che non sia assurdo intenderli come la materia informe che è in questione.

- 25. Ora, altri potrebbero sostenere che a quella stessa assenza di forma e confusione proprie della materia si fosse accennato prima con le parole "il cielo e la terra", perché è a partire dalla materia appunto che fu costituito e portato a compimento questo mondo visibile con tutti i generi di cose in esso ben distinguibili, questo mondo cui spesso ci riferiamo con le parole "il cielo e la terra". Altri ancora potrebbero affermare che "cielo e terra" fu chiamata, non a sproposito, la natura invisibile e visibile delle cose, e che perciò in queste due parole era compresa l'intera creazione che Dio operò nella sapienza, vale a dire nel principio. Però, siccome tutte le cose furono fatte non della stessa sostanza divina, ma dal nulla, perché non sono identiche a Dio e tutte hanno in sé una certa tendenza al mutamento, sia che si facciano permanenti, come la corte di Dio, sia che si mutino come l'anima e il corpo dell'uomo, con quelle parole si volle indicare una materia comune alle cose visibili e invisibili, ancora informe ma certamente formabile, da cui sarebbero usciti il cielo e la terra, vale a dire entrambe le sorte di creature già formate, invisibili e visibili. Con quelle parole, appunto: "terra invisibile e informe e tenebre al di sopra dell'abisso", e con questa distinzione, che per "terra invisibile e informe" si dovrebbe intendere la materia corporea anteriore alla determinazione di qualità e forma, per "tenebre al di sopra dell'abisso" la materia spirituale anteriormente al contenimento della sua illimitata irruenza - per così dire - e all'illuminazione da parte della sapienza.

- 26. Qualcuno potrebbe anche sostenere, se volesse, che nella frase "In principio Dio creò il cielo e la terra" con le parole "il cielo e la terra" non ci si riferisce a entità visibili o invisibili già dotate di forma e compiutezza, ma all'abbozzo ancora informe della realtà e alla materia ancora virtuale della sua creazione e formazione. E che in questa già esistevano, confusi e non ancora distinti per forma e qualità, quelli che ora, ripartiti nei rispettivi ordini di realtà, chiamiamo il cielo e la terra, ossia le creature spirituali e quelle corporee.


[La libertà dell'esegesi]

18.27. Viste e considerate tutte queste opinioni, non voglio far dispute di parole, a nulla utili, se non alla perdizione degli ascoltatori. La legge invece è buona perché serve a edificare, se la si usa legittimamente, e ha per fine la carità che nasce dalla purezza di cuore, da una coscienza buona e da una fede non immaginaria; e lo sa bene il nostro maestro, che sospese ai suoi due soli precetti tutta la legge e i profeti. Se io ne faccio ardente professione, Dio mio, lume segreto dei miei occhi, che male c'è se di queste parole si possono dare interpretazioni diverse, leggendovi cose che sono comunque vere? Che male c'è, dico, se io avrò in mente cose diverse da quelle che un altro pensa avesse in mente lo scrittore? Ma tutti noi che lo leggiamo ci sforziamo di ricercare e comprendere quello che l'autore voleva: e se lo crediamo veritiero, non oseremo attribuirgli nulla che sappiamo o riteniamo falso. Quando dunque ciascuno si sforza di intendere le Sacre Scritture secondo l'intenzione dello scrittore, che cosa c'è di male se intende ciò che tu, luce di tutte le intelligenze capaci di verità, mostri essere il vero, anche se non è ciò che intendeva l'autore in questione, quando, pur essendo diverso, è sempre il vero che quest'ultimo ha inteso?

19.28. Certo, è vero che tu, Signore, hai fatto il cielo e la terra. Ed è vero che il principio è la tua Sapienza, in cui hai fatto tutte le cose. È vero anche che questo mondo visibile abbraccia nella sintesi delle sue grandi parti, il cielo e la terra, tutti i generi di cose da te formati e stabiliti. Ed è vero che ogni cosa mutevole ci suggerisce l'idea di un che di informe, che proprio per questo può assumere una forma, o mutarsi e trasformarsi. È vero che non è soggetto alle peripezie del tempo ciò che aderisce talmente a una forma immutabile, da non mutarsi mai, benché soggetto al mutamento. È vero che un'assenza di forma tale da approssimarsi al nulla non può avere vicende temporali. È vero che ciò da cui una cosa deriva può, secondo certi modi di esprimersi, ricevere addirittura il nome della cosa che ne deriva: motivo per cui fu possibile chiamare cielo e terra la massa informe, quale che fosse, da cui sono derivati il cielo e la terra. È vero che di tutte le cose formate nulla si avvicina all'informe più della terra e dell'abisso. È vero che tu hai fatto non solo ogni cosa creata e dotata di forma, ma anche tutto ciò che può essere creato e dotato di forma, tu da cui tutte le cose provengono. È vero che tutto ciò che è formato dall'informe è informe prima di essere formato.


[Varietà di interpretazioni possibili]

20.29. Da tutte queste verità, di cui non dubitano quelli che ebbero da te il dono di vederle con l'occhio interiore, irremovibili nel credere che il tuo servo Mosè abbia parlato in spirito di verità, ciascuno si sceglie la propria: una cosa è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece il mondo delle creature intelligibili e sensibili, o spirituali e corporee; altra cosa è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece tutta la gran massa di questo mondo materiale con tutti i ben noti e visibili generi di cose che vi sono contenute; altra cosa ancora è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece la materia amorfa della creazione tanto spirituale che corporea; altro ancora è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece la materia amorfa della creazione corporea, in cui erano ancora confusi il cielo e la terra, che ora percepiamo nella gran massa di questo mondo come elementi distinti e dotati di forma; altro infine è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nell'esordio stesso dell'opera della creazione Dio fece la materia amorfa contenente ancora indifferenziati il cielo e la terra, che poi da quella si sono formati fino ad apparire ben distinti e visibili con tutte le cose che appartengono loro.

21.30. E così pure per quanto concerne l'intelligenza delle parole successive: di tutte quelle verità ciascuno sceglie la propria. Altro è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che quella massa corporea creata da Dio era la materia ancora informe dei corpi, senza ordine, senza luce; altro è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che il tutto che poi si chiamò cielo e terra era ancora informe e tenebrosa materia, da cui sarebbero derivati il cielo fisico e la terra fisica con tutto ciò che contengono di noto ai sensi del corpo. Altro ancora è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che il tutto che poi si chiamò cielo e terra era ancora informe e tenebrosa materia, da cui sarebbe derivato il cielo intelligibile - che altrove è detto cielo del cielo - e la terra, cioè tutte le cose di natura corporea, intendendo con questa parola anche il cielo fisico: insomma, da cui sarebbero derivate tutte le creature visibili e invisibili. Altra cosa ancora è affermare che con le parole "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" la Scrittura non si riferisce a ciò che ha chiamato cielo e terra, ma a una assenza di forma che preesisteva: alla quale appunto - ci si dice - ha dato il nome di terra invisibile e informe e tenebroso abisso: e da cui, come è scritto nel passo precedente, Dio trasse il cielo e la terra, cioè le creature spirituali e quelle materiali. Altro infine è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che quell'assenza di forma era già in qualche modo la materia da cui, come la Scrittura afferma subito prima, Dio fece il cielo e la terra, vale a dire tutta la massa dell'universo fisico, divisa nelle sue due massime regioni, la superiore e l'inferiore, con tutte le creature familiari e ben note che esse contengono.

22.31. A queste due ultime opinioni si potrebbe tentare di obiettare: "Se non ammettete che col nome di cielo e terra ci si riferisca a questa materia amorfa, esisteva dunque qualcosa di non creato da Dio, da cui egli trasse il cielo e la terra. E in effetti la Scrittura non racconta di una creazione di questa materia da parte di Dio, a meno di intendere come modi di designarla le parole 'il cielo e la terra', o forse soltanto 'la terra', là dove si dice: 'In principio Dio creò il cielo e la terra'. Così che il seguito, 'La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso', anche ammesso che sia proprio la materia amorfa a essere così chiamata, non possiamo intenderlo che riferito a quella che fu Dio a creare, secondo il passo che precede: 'creò il cielo e la terra'". Udite queste obiezioni, gli assertori dell'una o dell'altra delle due opinioni che abbiamo citato per ultime risponderanno: "Noi non neghiamo che anche questa materia amorfa sia stata fatta da Dio, da Dio dal quale derivano tutte le cose molto buone: perché, come dichiariamo bene maggiore ciò che è stato creato e dotato di forma, così concediamo che quanto è passibile di esser creato e dotato di forma sia ancora un bene, benché minore; e d'altra parte la Scrittura non fa parola della creazione di questa materia amorfa da parte di Dio, come non fa parola di molti altri enti che senza dubbio sono opera di Dio: ad esempio i Cherubini e i Serafini, e quelli esplicitamente distinti dall'Apostolo: Troni, Dominazioni, Principati, Potestà. Ma se nel passo che dice 'creò il cielo e la terra' sono comprese tutte le cose, che cosa diremo delle acque, sulle quali aleggiava lo spirito di Dio? Se infatti si intendono comprese nel nome di terra, come si può applicare quel nome anche alla materia amorfa, mentre le acque le vediamo, e sono anzi così belle a vedersi? Ma se è questa l'accezione corretta, perché da quella stessa massa amorfa sta scritto che fu fatto il firmamento e che fu chiamato cielo e non sta scritto che furono fatte le acque? Perché non sono certo ancora informi e sottratte alla vista, le acque che sono uno spettacolo così grazioso, a vederle fluire. Oppure, se questa bellezza l'assunsero allora, quando Dio disse: 'Si raccolgano le acque che sono al di sotto del firmamento', ammesso che questo confluire sia acquisire forma, che cosa si risponderà a proposito delle acque che sono al di sopra del firmamento? Perché da un lato allo stato amorfo non avrebbero meritato una sede tanto onorevole, e dall'altro non si trova cenno all'atto di parola con cui furono dotate di forma. Perciò, se la Genesi non fa parola di qualche opera di Dio che però né una sana fede né una ferma intelligenza dubitano sia tale - e nessuna teoria seria oserà sostenere che le acque in questione sono a Dio coeterne, solo perché le vediamo menzionate nel libro della Genesi ma non troviamo il punto della loro creazione - perché non intendere, alla scuola della verità, che anche quella materia amorfa chiamata in questo passo della Scrittura 'terra invisibile e informe e tenebroso abisso', Dio la fece dal nulla e perciò non gli è coeterna? Anche se il racconto in questione omette il riferimento al punto in cui fu creata."


[Principi metodologici. La "libertà del lettore"]

23.32. Bene: dopo aver ascoltato queste interpretazioni e averle esaminate per quanto mi consente l'incostanza - io la confesso a te che la conosci, mio Dio - vedo che due specie di dissenso possono insorgere quando il messaggio di un portavoce veridico viene trasmesso per mezzo di segni: l'una sulla verità dei fatti, l'altra sull'intenzione di chi lo trasmette. Altro è chiedersi che cosa sia vero riguardo alla creazione, altro che cosa con queste parole abbia voluto far intendere al lettore o all'ascoltatore Mosè, questo nobile servitore della tua fede. Quanto alla prima specie di dissenso, io prendo le distanze da tutti quelli che pretendono di conoscere ciò che in effetti è falso. E prendo le distanze anche, quanto alla seconda, da tutti quelli la cui pretesa è che Mosè abbia detto il falso. Invece vorrei unirmi in te a quelli che della tua verità si nutrono in tutta la larghezza dell'amore, e in te mio Signore goderne con loro; vorrei che avessimo comune accesso alle parole del tuo libro e vi cercassimo la tua intenzione attraverso quella del tuo servo, per la cui penna tu ce le hai donate.

24.33. Ma questa intenzione chi di noi, fra le tante verità che in questa o quella interpretazione si presentano a chi cerca, l'ha proprio scoperta, tanto da poter asserire che questo sia stato il pensiero di Mosè e questo egli abbia voluto far intendere in quel racconto, con la stessa sicurezza con cui afferma che questo è vero, qualunque cosa egli avesse in mente? Ma se io stesso, Dio mio, io servo tuo che ti offro in voto in questo scritto il sacrificio di una confessione e ti prego che la tua misericordia mi conceda di mantenere il mio voto, io affermo che tu hai creato ogni cosa, visibile e invisibile, nella tua Parola immutabile: ma affermo forse con la stessa sicurezza che Mosè non avesse altro in mente quando scrisse: "In principio Dio creò il cielo e la terra"? No, perché nella sua mente non vedo, quanto lo vedo certo nella tua verità, che proprio questo pensasse, quando così scriveva. Perché può ben darsi che dicendo "in principio" pensasse all'inizio della creazione; può darsi che per "il cielo e la terra" in quel passo non volesse intendere la realtà spirituale o materiale già formata e compiuta, ma l'una e l'altra ancora allo stato di abbozzo, ancora informi. Vedo che entrambe le cose avrebbero potuto essere dette con verità, qualunque delle due sia stata detta; ma quale appunto egli avesse in mente mentre usava quelle parole, non lo vedo così bene. Anche se, qualunque di queste due interpretazioni o di altre da me neppure menzionate un uomo così grande abbia avuto davanti agli occhi quando proferì quelle parole, vide certamente il vero e lo espresse in modo adeguato: su questo non ho nessun dubbio.

25.34. E nessuno venga più a tormentarmi con parole come: "Non questo che dici tu aveva in mente Mosè, ma quello che dico io". Ancora se uno mi chiedesse: "Come fai a sapere che Mosè aveva in mente proprio quello che tu gli fai dire?" - dovrei mantenermi calmo e tollerante e risponderei forse quello che ho risposto sopra, magari più diffusamente, se fosse un po' testardo. Ma se uno asserisce: "Non questo che dici tu aveva in mente, ma quello che dico io", senza peraltro contestare la verità di entrambe le cose che noi diciamo - o vita dei poveri, Dio mio in seno a cui non c'è contraddizione, piovimi in cuore un poco di mitezza, che io trovi la pazienza di sopportarla, gente del genere. Non me lo vengono a dire perché sono indovini e quel che dicono l'han visto in cuore al tuo servo, ma perché sono pieni di superbia, e ignorano il pensiero di Mosè ma amano il loro proprio, e non perché sia vero ma perché è il loro proprio. Altrimenti amerebbero in pari misura un'altro pensiero vero, come amo io quello che loro dicono quando dicono il vero: non perché è loro, ma perché è vero: e non è loro già solo perché è vero. Se poi lo amano proprio perché è vero, esso è già tanto loro quanto mio, poiché appartiene in comune a tutti gli amanti della verità. Ma quanto alla loro pretesa che Mosè avesse in mente non quello che dico io, ma quello che dicono loro, non ne voglio sapere e non mi piace; e se anche così fosse, questa presunzione non è effetto di scienza ma di insolenza, non nasce da un'intuizione ma dall'albagia. Tremendi, Signore, sono i tuoi giudizi: proprio perché la tua verità non è mia né di questo o di quello, ma di tutti noi che tu pubblicamente chiami a parteciparne in comune, con l'avvertimento terribile di non pretenderne il possesso privato, per non esserne privati. Perché chiunque rivendica la proprietà esclusiva di ciò che tu offri al godimento di ognuno e pretende suo quello che è di tutti, è ricacciato dal bene comune al suo proprio, cioè dalla verità alla menzogna. Chi infatti dice menzogne, dice del suo.

- 35. Fa' attenzione, tu, il migliore dei giudici, Dio o la verità stessa, fa' attenzione alla risposta che dò a questo avversario, fa' attenzione: parlo davanti a te e davanti ai miei fratelli che fanno un uso legittimo della legge secondo il suo fine, l'amore. Presta attenzione e vedi se ti piace come io gli parlo. Con queste parole fraterne e serene io mi rivolgo a lui: se entrambi vediamo che è vero ciò che dici tu ed entrambi vediamo che è vero ciò che dico io, domando: dov'è che lo vediamo? Certo né io in te né tu in me, ma entrambi nella stessa verità immutabile che sta al di sopra delle nostre menti. Se dunque non c'è alcuna controversia fra noi a proposito della luce stessa del signore Dio nostro, perché ci mettiamo a disputare sul pensiero del nostro prossimo, che pure non possiamo vedere come si vede la verità immutabile? In fondo se Mosè in persona ci apparisse per dirci "Questo avevo in mente", neanche allora lo vedremmo, ma ci limiteremmo a credere. E allora non gonfiamoci d'orgoglio in favore dell'uno e contro l'altro. Amiamo il signore nostro Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, e il prossimo nostro come noi stessi. Se non credessimo che Mosè, qualunque sia stato il suo pensiero in quei libri, sia stato mosso da questi due precetti d'amore, faremmo bugiardo il Signore, attribuendo al nostro compagno di servizio intendimenti diversi da quello che egli ha insegnato. E allora vedi quanto sia stupido, in tanta abbondanza di proposizioni verissime che si possono desumere da quelle parole, osare temerarie asserzioni su quella che Mosè in particolare avrebbe avuto in mente, e con perniciose controversie offendere quell'amore che indusse colui che stiamo cercando di interpretare a dire tutto quello che disse.


[Molteplicità dei livelli di interpretazione]

26.36. E io però Dio mio, vetta della mia umiltà e pace della mia fatica, che ascolti le mie confessioni e rimetti i miei peccati, non posso credere - dato che mi prescrivi di amare il prossimo mio come me stesso - che Mosè, il più fedele dei tuoi servitori, abbia ricevuto un dono minore di quello che io augurerei a me stesso e desidererei avere da te se fossi nato ai suoi tempi e tu mi avessi messo al suo posto. E se fossi stato io a servire con il cuore e la lingua, e a divenire mezzo di trasmissione di quelle parole scritte che tanto tempo dopo dovevano fare del bene a tutte le genti e soverchiare su tutta la terra, dall'alto di un'autorità così somma, la voce di ogni insegnamento falso e superbo. Oh, allora - se io fossi stato Mosè - perché infine veniamo tutti dalla stessa massa - e cos'è l'uomo se non ti ricordi di lui? - se fossi stato ciò che lui era e tu mi avessi incaricato di scrivere il libro della Genesi, avrei voluto ricevere da te una proprietà di parola e una sapienza di stile tali che neppure la gente non ancora in grado di intendere in che modo Dio crea rifiutasse l'opera come cosa superiore alle sue forze, e quelli che invece sono già in grado di intendere ritrovassero nelle concise parole del tuo servitore ogni proposizione vera, non una esclusa, in cui il loro pensiero si fosse imbattuto; e se altri ne avesse nella luce della verità vedute ancora, neppure queste mancassero, ma fossero anch'esse leggibili nelle stesse parole.

27.37. Come l'acqua sorgiva in luogo angusto è più abbondante, e defluendo in molti rivoli bagna più largo spazio di ciascuno dei rivoli di quell'unica sorgente, che scorrono per molti luoghi diversi, così il racconto di quel tuo amministratore, cui avrebbero attinto numerosi scrittori, fa scaturire da poche parole fiumi di limpida verità: in modo che ciascuno ne tragga tutto il vero di cui è capace in materia - ciascuno il suo - e lo faccia scorrere in discorsi dai lenti meandri. Già: perché alcuni leggendo o ascoltando queste parole si rappresentano Dio come un uomo o come una forza dalla mole immensa, che di punto in bianco si sia arbitrariamente decisa a creare, fuori di sé e come distanti nello spazio, il cielo e la terra, due grandi corpi, sopra e sotto, contenitori di tutte le cose. E quando sentono le parole: "Dio disse: sia questo, e questo fu", pensano a parole con un principio e una fine, che risuonano per un certo tempo e passano, passate le quali improvvisamente era là ciò cui fu comandato di esistere: e a questo modo si fanno ogni sorta di immagini in base alle consuetudini della carne. Sono creature infantili, quasi animalesche ancora: in loro è con questo modo di esprimersi, il più semplice, quasi latte materno a sostegno della loro immaturità, che si costruisce per la loro salute la fede. E così tengano per certo che Dio è autore di tutti i generi di cose meravigliosamente varie che il loro occhio vede tutt'intorno. Se uno di costoro poi, come in spregio all'umile stile di discorso si lancia, superbo nella sua sprovvedutezza, fuori dalla culla che lo nutriva, oh infelice! cadrà, e tu abbi pietà Signore Dio, che il pulcino implume non sia calpestato da quelli che passano per la via, e manda il tuo angelo che lo riponga nel nido, perché viva finché sappia volare.

28.38. Ma ce ne sono altri che in quelle parole trovano non un nido ma un folto frutteto, e vi vedono nascosti i frutti e svolazzano garruli e lieti a cercarli con gli occhi e a carpirli. Vedono infatti, quando leggono o ascoltano queste tue parole, Dio eterno, che la tua immutabile permanenza è al di sopra di tutti i tempi passati e futuri, e tuttavia non c'è creatura temporale di cui tu non sia l'autore; che la tua volontà, essendo identica al tuo essere, non s'è affatto mutata, ovvero che senza dar luogo a intenti che non c'erano prima tu hai fatto essere tutte le cose; e non traendo da te stesso, a tua somiglianza, la forma di tutte le cose, ma dal nulla la dissomiglianza amorfa. Che tuttavia è capace di ricever forma, risalendo all'uno che tu sei, per assimilazione, nella misura prestabilita a ciascun essere nel suo genere. E che tutte le cose sono molto buone, sia che rimangano intorno a te, sia che per gradi allontanandosi nel tempo e nello spazio siano causa o soggetto di un'armoniosa varietà d'effetti. Tutto questo vedono, e ne godono nella luce della tua verità, per quel poco che possono quaggiù.


[Ancora sui sensi di "In principio"]

- 39. E fra questi, c'è chi in quel passo, "In principio Dio creò..." intende per principio la Sapienza, poiché anch'essa ci parla. Altri, pensando a queste medesime parole, interpretano il principio come l'inizio della creazione e leggono "in principio creò" come creò dapprima. E fra quelli che interpretano in principio nel senso della Sapienza in cui hai fatto il cielo e la terra, uno crede che "cielo" e "terra" siano i nomi dati alla materia da cui furono tratti cielo e terra, un altro che si riferiscano a due generi di entità ben formate e distinte, un altro ancora che "cielo" designi un genere di entità dotate di forma e spirituali, "terra" invece uno amorfo di materia corporea. Ma neppure quelli che con "cielo" e "terra" intendono una materia ancora amorfa, da cui sarebbero stati formati il cielo e la terra, l'intendono a un modo: chi vi vede l'origine delle creature sensibili e intelligibili, chi soltanto quella di questa massa sensibile e corporea che contiene nel suo vasto seno tutti gli esseri manifesti e perspicui ai nostri sensi. Come non l'intendono a un modo quelli che in quel passo credono vengano chiamati "cielo" e "terra" le creature già distinte e ordinate, ma chi intende quelle visibili e invisibili, chi soltanto il mondo visibile, di cui indoviniamo il cielo luminoso e la buia terra - con tutto ciò che vi è.

29.40. Ma chi interpreta "In principio creò" non altrimenti che se dicesse "creò dapprima", non può ragionevolmente intendere cielo e terra se non come materia del cielo e della terra, vale a dire dell'universo tutto: intelligibile e corporeo. Perché se volesse vedervi un universo già formato, sarebbe giusto chiedergli: se Dio ha fatto prima questo, che cosa ha fatto poi? Dopo l'universo, non troverà nient'altro, e suo malgrado si sentirà chiedere: "E allora in che senso ha fatto prima quello, se poi non ha fatto nulla?" Se invece pone prima la materia amorfa, e poi quella formata, non incorre nell'assurdo, purché sia in grado di distinguere fra priorità di ciò che è eterno e priorità nel tempo, secondo la preferenza e secondo la genesi. Così nella sua eternità Dio è prima di ogni cosa; secondo il tempo, il fiore viene prima del frutto; secondo la preferenza, il frutto viene prima del fiore; geneticamente, il suono precede la melodia. Di questi quattro sensi il primo e l'ultimo menzionato sono i più difficili da capire, i due intermedi i più facili. È rara e troppo ardua, mio Signore, l'intuizione della tua eternità che crea senza mutare esseri mutevoli, e per questo appunto è prima di essi. Per non parlare poi della capacità di afferrare senza gran fatica una relazione così sottile come quella di priorità del suono rispetto alla melodia, che consiste nell'essere la melodia un suono dotato di forma: e qualcosa senza forma può ben esserci, mentre ciò che non esiste non può ricevere una forma. Allo stesso modo la materia precede ciò che ne deriva: non dunque nel senso che sia lei a operare la trasformazione, perché piuttosto la subisce, e neppure nel senso di essere temporalmente anteriore. Così non ci accade di emettere in un primo tempo suoni senza una forma o melodia e di organizzarli o modellarli in forma di canto solo in un secondo tempo - come legno da cui si fabbrica uno scrigno o argento da cui si foggia un vaso. Materiali del genere precedono certamente anche nel tempo le forme delle cose che ne vengono fatte. Ma nel canto non è così. Quando infatti si canta è il suono della melodia che si ode, e non un suono dapprima informe che solo in seguito riceve forma in una melodia. I suoni, qualunque siano, appena risuonati passano: e non lasciano nulla che tu possa recuperare per poi ricavarne una composizione a regola d'arte. Reciprocamente, è risuonando che una melodia si svolge: e questo suo suono è la sua materia. È appunto ricevendo una forma che diventa una melodia. E quindi, come dicevo, la materia sonora viene prima della forma melodica: non perché possa produrla come effetto - dato che il suono non è artefice della melodia, ma è consegnato dal corpo all'anima del cantore, perché ne faccia una melodia -; neppure viene prima in senso temporale, perché è emesso contemporaneamente alla melodia; e neppure secondo la preferenza, perché il suono non vale più della melodia, se questa non è soltanto suono, ma suono dalla bella forma. Ma viene prima geneticamente, perché non è la melodia a ricever forma per diventare suono, ma il suono per diventare melodia. Da questo esempio intenda chi può come la materia delle cose sia stata creata prima, e chiamata "cielo" e "terra," perché da essa hanno origine il cielo e la terra: non creata prima in senso temporale, perché è la forma delle cose che rivela il tempo, mentre la materia era informe ed è ormai nel tempo che se ne ha notizia. Eppure una narrazione che l'abbia a soggetto non può fare a meno di trattare questa priorità come se fosse di ordine temporale: perché quanto a valore tiene l'ultimo posto, essendo senza dubbio migliori le cose dotate di forma che le informi, e in altro senso ha prima di sé l'eternità del creatore, senza cui non poteva esser dal nulla l'origine di qualche cosa.


[Accordo di tutte le verità e fecondità dell'esegesi]

30.41. In questa varietà di proposizioni vere sia la verità stessa a portare la concordia, e il nostro Dio abbia pietà di noi, perché ci serviamo legittimamente della legge, secondo il fine delle prescrizioni che è il puro amore. E perciò se qualcuno mi domanda quale di questi fosse il vero pensiero di quel tuo servo famoso, Mosè - non lo so e lo confesso: non è argomento per le mie confessioni. So però che si tratta di proposizioni vere - fatta eccezione per quelle concepite nella carne, di cui ho già parlato abbastanza, o così m'è parso. Ma a tutti gli altri, a tutti noi - neonati della speranza, piccoli ma non atterriti da queste parole del tuo libro, che sono insieme sublimi e semplici, scarne ed eloquenti - e a tutti quelli che riconosco per interpreti del vero chiuso in quelle parole, io dico: amiamoci, ed egualmente amiamo te, Dio nostro, fonte di verità, se di verità e non di vanità abbiamo sete. E a quel tuo servitore, quel bravo economo della tua scrittura, pieno del tuo spirito, rendiamo onore con la persuasione che scrivendo come la tua rivelazione gli dettava abbia mirato al massimo e di luce e di frutto, al vero e all'utile.

31.42. Così quando uno dice: "Aveva in mente quello che penso io", e un altro ribatte "No, quello che penso io", io rispondo, credo, con maggior senso del divino: e perché non tutt'e due le cose, se entrambe sono vere? E se un altro in queste parole ne vede una terza, una quarta o qualunque altra ancora, perché non si dovrebbe credere che le abbia tutte vedute lui che fu lo strumento di cui il Dio uno si servì per adattare gli scritti sacri ai pensieri di molti, destinati a vedervi cose diverse, e vere? Io, non ho paura a dirlo dal profondo del cuore, se scrivessi qualcosa di adatto a raggiungere il vertice dell'autorevolezza, vorrei senza dubbio scrivere in modo che qualunque verità uno possa mai afferrare in questa materia, echeggi nelle mie parole: piuttosto che formulare più chiaramente una sola proposizione vera, a esclusione di tutte le altre - posto naturalmente che la loro falsità non mi balzi dolorosamente agli occhi. Mio Dio, e allora non sarò tanto sconsiderato da mettere in dubbio che tu l'abbia meritatamente concesso a quel grande uomo. Sì, in queste parole egli dovette intuire e concepire, mentre le scriveva, tutta la porzione di verità che noi siamo riusciti a scoprirvi e tutta quella che noi non abbiamo - o non abbiamo ancora - potuto, ma che si può scoprirvi.

32.43. Infine, Signore che sei Dio e non carne e sangue, se l'uomo non vide tutto, poteva sfuggire al tuo spirito buono, che mi condurrà in una terra giusta, qualcosa di ciò che tu avresti rivelato ai futuri lettori attraverso quelle parole, quand'anche il tuo portavoce avesse in mente uno solo fra i molti sensi veri? E se è così, sia dunque quello che egli aveva in mente il più eccelso di tutti: ma a noi, Signore, ti piaccia di mostrare quello o un altro pure vero, e sia la tua rivelazione la stessa concessa a quell'uomo tuo, o sia diversa per ogni diversa occorrenza delle stesse parole, dacci tu da mangiare, e non ci illuda l'errore. Ecco, mio Dio e Signore: quanto ho scritto su poche parole, quante ne ho scritte! Di questo passo come potranno bastarci le forze e il tempo per tutti i tuoi libri? Lasciami dunque abbreviare in quelle parole le mie confessioni, e sceglierne un senso che tu mi hai ispirato - vero, certo e buono, per quanti se ne possano presentare là dove molti sono ugualmente possibili. E la mia confessione ti sarà fedele al punto che se dirò quello che il tuo ministro aveva in mente, tanto meglio, perché è questo che io devo tentare; ma se non ci riuscirò, dirò comunque quello che la tua verità mediante le parole di lui ha voluto dire a me, come a lui disse quello che proprio a lui voleva dire.


LIBRO TREDICESIMO
[LA CREAZIONE E LO SPIRITO]

1.1. Io ti invoco Dio mio, somma indulgenza, che mi hai fatto essere e non hai dimenticato chi ha dimenticato te. Ti chiamo entro quest'anima che tu hai svegliato al desiderio per prepararla a contenere te. E non abbandonarla ora che chiama, tu che l'hai prevenuto, quest'appello: che con voce numerosa, in un crescendo di richiami mi hai incalzato perché ti udissi da lontano e mi volgessi a te che mi chiamavi, e ti invocassi. Perché tu, mio Signore, hai cancellato tutte le mie colpe per non retribuire l'opera delle mie mani, la defezione dal tuo essere, e hai prevenuto tutti i miei meriti per retribuire quella delle tue mani, che mi hanno fatto essere. Perché prima che io esistessi tu eri, e io non ero già prima che tu mi accordassi di esistere: eppure esisto, in grazia della tua bontà che precede tutto ciò che mi hai fatto essere e ciò da cui hai tratto questo essere. E tu non avevi bisogno di me, né io sono un bene tale che tu ne possa cavare vantaggio, tu che sei il mio Signore e mio Dio non perché il mio servizio ti risparmi la fatica di agire, o perché la tua maestà non possa fare a meno del mio ossequio, e neppure perché io ti coltivi quasi tu fossi come la terra, e restassi incolto senza il mio culto: no, ma devo servirti e coltivarti per stare bene, perché da te mi viene tutto il ben-essere di cui io sia capace.


[Creazione e formazione]

2.2. Dalla pienezza della tua bontà la tua creatura acquistò sussistenza, affinché un bene, sia pure a te non proficuo, non venisse meno - e non perché la sua provenienza da te lo rendesse pari a te, ma perché per tua grazia era venuto all'esistenza. Già, che titolo di merito avevano nei tuoi confronti il cielo e la terra, da te creati in principio? Lo dicano, le nature di spirito e di corpo, che hai fatto nella tua sapienza, che titoli di merito avevano per riceverne sia pur quell'abbozzo informe d'essere, ciascuna nel suo genere, lo spirito e il corpo, sconfinanti oltre limiti e misura fino a perdersi lontano da te, nelle regioni della difformità... Anche se essere spirito sia pur informe val sempre meglio che esser corpo pur dotato di forma, ed esser corpo informe meglio che essere nulla affatto. E così informi, appunto, rimarrebbero sospese alla tua parola, se quella stessa parola non le richiamasse alla tua unità e non ne ricevessero forma fino a essere, derivando dall'uno e bene sommo che tu sei, tutte molto buone. Che titoli di merito avevano per esistere anche allo stato amorfo, se non esistono altrimenti che per grazia tua?

- 3. Che titoli di merito aveva la materia dei corpi per esistere anche solo invisibile e informe, dato che neppure questo sarebbe stata, se non fossi stato tu a crearla? E dunque non poteva, non esistendo, meritare ai tuoi occhi di esistere. E che titoli di merito aveva quell'abbozzo di creatura spirituale anche solo per fluttuare buia e simile all'abisso, dissimile da te? Se non addirittura per essere dalla parola stessa indotta a volgersi verso il suo stesso autore, e da lui illuminata farsi luce: e per uguale forma a te conforme, ancorché non eguale. Perché come per il corpo essere non è lo stesso che esser bello - altrimenti non potrebbe esser deforme - così anche per lo spirito creato la vita non è necessariamente vita sapiente - altrimenti lo spirito sarebbe in possesso di un sapere immutabile. Ma per lui è cosa buona l'adesione continua a te, per non perdere volgendoti la schiena quel lume che aveva trovato rivolgendosi a te, e non ricadere in una vita simile al buio dell'abisso. Perché ci fu una vita anche per noi creature spirituali quanto all'anima, in cui volgemmo la schiena al nostro lume, a te - e fummo un tempo tenebre, e ora ci dibattiamo fra gli avanzi della nostra oscurità, finché saremo la tua giustizia nel tuo unigenito come montagne di Dio: già fummo infatti, come abisso profondo, la tua condanna.

3.4. Le parole Sia la luce, e la luce fu, che pronunciasti all'inizio della creazione, non mi pare erroneo intenderle riferite alla dimensione spirituale del creato: infine una qualche vita c'era già perché tu la potessi illuminare. Ma come non aveva ai tuoi occhi alcun titolo per meritare di esserci, questa vita da illuminare, così neppure una volta che ci fu meritava di essere illuminata. E la sua condizione informe non avrebbe incontrato il tuo favore se non si fosse fatta luce: e non limitandosi a esistere, ma fissando la fonte della luce fino a confondersi in lei. Dovendo solo alla tua grazia e il vivere, e la felicità di vivere: per quella decisione in cui s'è volta al meglio e a quello che non muta né in meglio né in peggio. E questo sei tu solo, perché tu solo sei, semplicemente: e per te vivere non è altro che vivere felice, perché la tua felicità sei tu.

4.5. E allora che cosa mancherebbe al bene che tu sei per te stesso, anche se fossero rimaste nel nulla o informi le creature: tu non le hai fatte perché ne avessi bisogno, ma per la tua bontà sovrabbondante, con la sua forza di coesione, di organizzazione verso la forma: e non perché fosse incompleta la tua beatitudine. Già, nella tua perfezione a te dispiace la loro imperfezione, al punto di volerle rendere più compiute per fartele piacere: non certo perché tu sia imperfetto, come se nella loro perfezione tu dovessi trovare la tua. Perché il tuo spirito di bene si muoveva sopra le acque: vi si muoveva sopra, non ne era mosso, come se posasse su di loro. Quando si dice che il tuo spirito riposa in una persona, si dovrebbe dire che la fa riposare in sé. Ma era la tua volontà incorruttibile e immutabile che si muoveva, sufficiente a se stessa, sopra la vita che tu avevi creato: vita che non coincide con la felicità di vivere, onda buia di vita, che deve ancora volgersi al suo autore e avvicinarsi sempre più alla fonte della vita e vedere nella sua luce la luce per trarne perfezione, splendore e beatitudine.


[Lo Spirito Santo e il suo ruolo]

5.6. Ecco: mi appare in enigma la trinità del tuo essere, Dio: perché tu, Padre, nel principio della nostra sapienza, che è la Sapienza da te nata, a te uguale e coeterna, hai creato il cielo e la terra - nel Figlio, dunque. E a lungo abbiamo parlato del cielo dei cieli e della terra invisibile e informe e dell'abisso di buio, quasi vagando fra rigiri e svanimenti dietro lo spirito informe, - come sarebbe rimasto se non si fosse rivolto verso l'autore di ogni forma di vita, che lo investisse di luce per farne vita di splendore e cielo: cielo di quel cielo che poi fu creato a separare le acque dalle acque. E già disponevo del Padre nel nome del Dio autore del cielo e della terra, e del figlio nel nome del principio in cui li creò; e credendo come credevo nella Trinità del mio Dio, la cercavo nelle sue parole sacre... Ed eccolo, il tuo spirito, che si muoveva sopra le acque. Ecco il mio Dio Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore dell'universo.

6.7. Ma per quale motivo, lume di verità - e il cuore non mi sia maestro di illusioni, ora che lo avvicino a te, tu scrollane via il buio, ti prego, in nome della tenerezza sua madre - dimmi, per quale motivo la tua Scrittura fa menzione dello Spirito Santo solo dopo aver parlato del cielo e della terra invisibile e informe e delle tenebre sopra l'abisso? Forse perché occorreva suggerire l'idea del suo librarsi sopra qualche cosa? E questo non si poteva dire se prima non si fosse ricordato appunto su che cosa si dovesse intendere sospeso il tuo spirito. Perché certo non sul Padre e sul Figlio: e d'altra parte sarebbe sbagliato dire "si muoveva sopra" se non c'era niente sopra cui potesse muoversi. Prima dunque bisognava dire sopra che cosa si muoveva, e poi parlare di lui, dato che non occorreva menzionare altro che questo suo muoversi al di sopra di qualcosa. Ma perché non occorreva suggerire di lui altra idea che questa?

7.8. D'ora in avanti segua chi può con la sua intelligenza l'Apostolo che dice come il tuo amore si riversa nel centro di noi stessi per mezzo dello Spirito Santo datoci in dono, e spiega la natura dei doni dello spirito e indica la via trascendente dell'amore e piega per noi davanti a te il ginocchio perché ci conceda la conoscenza trascendente dell'amore di Cristo. Ecco perché, fin dal principio trascendente, si muoveva al di sopra delle acque. A chi, con quali parole dire il peso dell'amore di sé che pende verso il fondo dell'abisso e la levità dell'amore di te, del tuo spirito che si librava sulle acque. A chi dirlo, in che modo? Affondiamo e riemergiamo: ma non nello spazio. Niente è più simile, niente è così diverso: sono entrambe passioni, sono amori: la sporcizia del nostro spirito che scola verso il basso con le sue care angosce, la santità del tuo che ci solleva col desiderio della calma interiore, perché ci si levi in alto il cuore verso te, là dove il tuo spirito si libra sopra le acque, e giungiamo alla pace della trascendenza, quando l'anima avrà varcato le acque che non hanno sostanza.

8.9. E come l'acqua l'angelo si perse, si perse l'anima dell'uomo: e rivelarono l'abisso dell'intera dimensione spirituale del creato, il buio profondo in cui sarebbe se non avessi detto dall'inizio: sia la luce, e non si fosse fatta luce, e non si fossero tenute a te tutte le intelligenze della tua città celeste - quelle che hanno obbedito, voglio dire - per riposare nel tuo spirito, alto ed immobile sopra tutto il mutevole. Perfino il cielo dei cieli, altrimenti, sarebbe il buio abisso che è in se stesso: e ora invece è luce nel Signore. Perfino nell'inquietudine grama di quegli spiriti che si dispersero - e rivelarono l'oscurità celata sotto la veste di luce - tu mostri la grandezza cui l'avevi destinata, la creatura razionale. Perché alla sua felicità, alla pace, nulla basta che sia meno di te - tanto meno se stessa. Perché tu, il nostro Dio, inonderai di luce il nostro buio: da te sorgerà lo splendore delle nostre vesti, e quel nostro buio sarà gloria meridiana. Dammi te stesso Dio mio, restituiscimi te stesso. Io amo, e se non basta fammi amare più forte. Come faccio a sapere - non posso misurarlo, io! - quanto manca d'amore perché corra a incontrarti la mia vita, e non si strappi più dalle tue braccia, finché sarà nascosta all'ombra del tuo volto. Questo e non altro so, che mi fa male tutto: tutte le cose che non sono te, e non fuori di me soltanto, ma perfino in me, e ogni ricchezza che non sia il mio Dio m'è povertà.

9.10. Ma il Padre e il Figlio non si muovevano sopra le acque? Se si pensa a un corpo in moto nello spazio, neppure lo Spirito Santo si muoveva; se invece si intende il levarsi della divinità immutabile al di sopra di tutto il mutevole, allora Padre e Figlio e Spirito Santo si muovevano sopra le acque. Perché allora questo è detto soltanto del tuo spirito? Perché di lui soltanto si parla come fosse in qualche luogo ciò che non ha luogo, ed è il solo che viene chiamato dono tuo? È il dono in cui troviamo pace: è là che godiamo di te. È questa nostra pace, il nostro luogo. L'amore ci solleva, e il tuo spirito buono fa volare la nostra umile terra alta sopra i cancelli della morte. Nella volontà buona sta la pace. Il corpo tende con tutto il suo peso al luogo che gli è proprio. Non sempre verso il basso pende il peso, ma verso il luogo che gli è proprio. La pietra scende come il fuoco sale. Li porta il loro peso, tendono al loro luogo. L'olio versato nell'acqua risale, l'acqua versata sull'olio va a fondo: li porta il loro peso, tendono al loro luogo. Minore è l'ordine, maggiore l'inquietudine: al loro posto le cose s'acquetano. Il mio peso è il mio amore: da lui son mosso dovunque io muova. Il tuo dono ci accende e ci rapisce in alto: prendiamo fuoco e andiamo. Saliamo su per i pendii del cuore e cantiamo un canto di ascensione. È del tuo fuoco, del tuo fuoco soave che bruciamo, andando in alto, verso la pace di Gerusalemme. M'ha assalito la gioia quando mi hanno detto: andremo alla casa del Signore. Là saremo insediati dalla volontà buona: allora non avremo altro volere - che dimorarvi per l'eternità.

10.11. Felice la creatura che non conosce altro stato! Lei che in un altro stato ora sarebbe, se appena creata non l'avesse innalzata la grazia del tuo dono che si libra sopra tutto il mutevole: senza intervallo di tempo, nell'atto stesso delle tue parole: sia la luce - e se non si fosse in quell'atto fatta luce. Già, per noi il tempo in cui eravamo tenebre non è lo stesso che ci rende luce. Di lei invece si dice quello che sarebbe se non fosse illuminata, e se ne parla come se fosse stata prima labile e buia, solo per rendere evidente la causa del suo essere qual è: luce, perché rivolta al lume inestinguibile. E capisca chi può, lo chieda a te. E perché viene a importunare me, come fossi io a illuminare anche un solo uomo che viene in questo mondo!


[La Trinità e la sua immagine nell'uomo]

11.12. La Trinità onnipotente! Chi la comprenderà... Ma chi è che non ne parla - se pure è proprio di lei che si parla? In questo genere di discorsi quasi non c'è un'anima che sappia di che cosa parla. E si gettano nella mischia delle dispute: e nessuno vede questa visione se non ha pace. Vorrei che gli uomini riflettendo su se stessi considerassero tre dati. Son cose ben lontane da quella Trinità, ma io propongo appunto un esercizio e una prova per sentire quanto ne sono lontane. Ecco i dati di cui parlo: l'esistere, il conoscere, il volere. Io esisto e so e voglio: esisto sapendo e volendo e so di esistere e volere e voglio esistere e sapere. Ma non per questo è possibile dividere la vita in tre: fino a che punto si tratti di una sola vita, una mente sola e una sola essenza, e quindi di una distinzione senza separazione, ma pur sempre di una distinzione, lo veda chi sa vedere. Ora ciascuno è di fronte a se stesso: guardi con attenzione e poi mi dica se lo vede. Ma quando pure trovi qualcosa e riesca a dirlo, non creda di aver già trovato quello che sta immutabile al di sopra di tutto questo, che immutabilmente è e immutabilmente sa e immutabilmente vuole. La Trinità consiste senz'altro in queste tre cose, oppure si trovano tutte e tre in ciascuna di esse, così che ciascuna sarebbe triplice? Oppure è qualcosa che mirabilmente consiste in entrambi i modi, un infinito in se stesso semplice e molteplice che è a se stesso fine del proprio essere e si conosce e basta a se stesso restando immutabile e identico nella sovrabbondanza della sua unicità? Non è facile anche soltanto concepirlo. E come dirlo, come osare una formula, come?


[Esegesi allegorica: creazione e ricreazione]

12.13. E vai ancora oltre nella tua confessione, mia fede. Di' al tuo Dio e Signore - santo, santo santo mio Signore e Dio, nel tuo nome siamo stati battezzati, Padre e Figlio e Spirito Santo, nel tuo nome battezziamo, Padre e Figlio e Spirito Santo, perché anche in noi, nel suo Cristo, Dio creò il cielo e la terra, cioè gli uomini spirituali e quelli carnali della sua chiesa. Anche la nostra terra prima di ricevere la forma della dottrina era invisibile e informe, ed eravamo immersi nelle tenebre dell'ignoranza, perché hai istruito l'uomo per la sua ingiustizia e i tuoi giudizi sono l'abisso. Ma il tuo Spirito si librava al di sopra delle acque: vale a dire, la tua compassione non ha abbandonato la nostra miseria, e tu hai detto - sia la luce: fate pura la mente, perché il regno dei cieli è vicino. Fate pura la mente - sia la luce; e poiché l'anima nostra era turbata ci siamo ricordati di te, Signore, della terra del Giordano e del monte che si leva alla tua altezza e per noi si fece piccolo, e il nostro buio ci ha rattristati e ci siamo rivolti verso di te, e si è fatta luce. E così fummo un tempo tenebre, ma ora siamo luce nel Signore.

13.14. Ma lo siamo ancora soltanto per fede, non perché vediamo. È la speranza che ci ha salvati. Ma una speranza che si vede non è una speranza. E ancora l'abisso chiama l'abisso, ma ormai con la voce delle tue cateratte. Così anche quell'uomo che dice: non potevo parlarvi come a creature dello spirito, ma come a creature della carne, perfino lui pensa di non aver ancora capito: e dimentico di ciò che ha alle spalle si protende verso le cose che stanno davanti, e geme sotto il carico che porta, e la sua anima ha sete del Dio vivo, come il cervo sospira ai corsi d'acqua e dice: quando arriverò? E si strugge di rivestirsi della sua nicchia celeste, e grida all'abisso inferiore: non fatevi conformi a questo secolo, ma riformatevi, fate nuova la mente, e ancora: non tornate all'infanzia della mente, ma siate quanto alla malignità bambini, per esser grandi nell'intelligenza; e poi - Galati folli, chi è che vi ha incantati? Ma non è più la sua voce che parla, è la tua, perché sei tu che hai mandato il tuo spirito dalle più alte regioni del cielo attraverso colui che s'è levato in alto per aprire le cateratte dei suoi doni, così che nel suo impeto fluviale inondasse di letizia la tua città. Per lei sospira l'amico della sposa, che ha già con sé le primizie dello spirito, ma ancora intimamente geme struggendosi per l'adozione, la redenzione del suo corpo. Per lei sospira - appartiene alla sposa - per lei si affanna - è amico dello sposo - per lei, non per sé, perché è la voce delle tue cateratte e non la sua, quella con cui invoca l'altro abisso, e per lui s'affanna e teme che, come Eva fu ingannata dall'astuzia del serpente, così i nostri pensieri si perdano, lontani dalla purezza del nostro sposo e tuo unigenito. E quale non sarà la luce di visione, quando vedremo lui così come è, e saranno passate le lacrime che sono ora il mio pane, giorno e notte, mentre mi chiedono ogni giorno: dov'è il tuo Dio?

14.15. E anche io chiedo: dove sei mio Dio? Sì, ecco dove sei. Respiro un po' di te quando soffio l'anima in alto oltre me stesso, in canzoni di lode e musica di festa. E poi di nuovo è triste e affonda, l'anima, e ridiventa abisso, o sente, infine, d'esser sempre abisso. Le dice la mia fede, che tu hai acceso nella notte a lume dei miei piedi: perché sei triste, anima, e perché tu mi angosci? Spera nel tuo Signore: la sua parola è lucerna ai tuoi piedi. Spera e persevera - passerà la notte madre dei torti, passerà l'ira del tuo Signore, l'ira di cui eravamo figli anche noi che fummo un tempo tenebre, e ne portiamo ancora le tracce nel corpo morto per il peccato, finché al primo respiro del mattino dilegueranno le ombre. Spera nel tuo Signore: fin dal mattino resterò in attesa a contemplare, e ancora io lo riconoscerò. Fin dal mattino resterò in attesa e vedrò la salvezza del mio volto, il mio Dio che farà vividi di spirito anche i nostri corpi mortali. Abita in noi lo spirito, perché si lasciò portare dalla compassione sopra le onde del nostro buio interiore. E in questo nostro vagabondare ne abbiamo ricevuto un pegno - e già siamo luce, mentre ancora ci salva soltanto la speranza: siamo figli della luce e del giorno, non figli della notte e del buio, come pure fummo un tempo. E tu solo discerni noi da loro, in questa sempre incerta conoscenza umana, tu che metti alla prova il nostro cuore e chiami la luce giorno e le tenebre notte. Chi discerne fra noi, se non tu solo, e cosa possediamo, che non abbiamo avuto da te? Noi vasi d'elezione, fatti della stessa materia da cui furono ricavati gli altri, i vasi di vergogna.


[Il firmamento figura della Scrittura]

15.16. E se non tu, Dio nostro, chi stabilì sopra di noi quel firmamento d'autorità che è la tua scrittura divina? Il cielo sarà ripiegato come un libro, quello che ora è come tenda di pelle sopra di noi. Così, la tua scrittura divina è più elevata ancora nella sua autorità da quando hanno trovato morte in terra i mortali che te l'hanno amministrata. E tu lo sai, Signore, tu lo sai come hai rivestito gli uomini di pelle, quando il peccato li fece mortali. E così hai disteso come una pelle il firmamento del tuo libro, la trama compatta delle tue parole, che con l'aiuto di servitori mortali hai sospeso al di sopra di noi. Perché la loro stessa morte ha rafforzato il fondamento dell'autorità di cui godono le tue parole, che essi resero note: altissima sopra ogni cosa, mentre finché vissero qui non era così eccelsa. Già, non avevi ancora disteso il cielo come una pelle, e la fama della loro morte ancora non l'avevi diffusa ai quattro venti.

- 17. Lascia, Signore, che vediamo i cieli, lavoro delle tue dita: tu ci hai velato gli occhi di nebbia, e tu rischiarali. Là c'è la tua testimonianza che fa sapienti le menti bambine. E sia completa la tua gloria nel balbettio dei lattanti e dei bimbi. Proprio non si conoscono altri libri che come questo paian fatti per stroncare l'orgoglio, per annientare l'avversario e il difensore, il difensore dei suoi peccati che resiste alla riconciliazione con te. Non conosco, mio Signore, non conosco altre parole limpide al punto da indurmi a questa confessione e piegarmi il collo al peso del tuo giogo e invitarmi al servizio della gratitudine. Fa' che io le capisca, Padre buono, concedilo a uno che abita sotto il loro firmamento, perché è bene per chi abita qua sotto che le hai fissate come sono, ferme.


[Le acque superiori e gli angeli]

- 18. Altre acque ci sono sopra questo firmamento: sono immortali, credo, e custodite dalla corruzione della terra. Lodino il tuo nome, ti lodino le folle iperuranie dei tuoi angeli, che non devono alzare lo sguardo a questo firmamento e leggerlo per conoscere la tua parola. Perché loro vedono sempre il tuo volto, e vi leggono, senza bisogno di sillabarlo nel tempo, il volere della tua eterna volontà. Leggono, eleggono, dileggono: leggono sempre e ciò che leggono non passa mai. Elezione e dilezione sono nell'atto stesso di leggere l'immutabilità delle tue decisioni, per loro. Non si chiude il loro codice, il loro libro non si ripiega: questo libro per loro sei tu. E lo sei in eterno, perché il loro posto nel tuo ordine è al di sopra di questo firmamento che hai fissato alto sulla condizione inferma dei popoli inferiori, perché levassero lo sguardo e vi riconoscessero la tua benevolenza che parla nel tempo di te, il creatore del tempo. La tua benevolenza è nei cieli / Signore, e la tua verità tocca le nubi. Le nubi passano, ma il cielo resta: passano da questa a un'altra vita i profeti della tua parola: ma la tua scrittura si tende sopra i popoli fino alla fine dei tempi. E anche il cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le tue parole: si piegherà la pelle e l'erba sopra la quale era tesa con il suo splendore, ma la tua parola perdura in eterno. E così tutto quello che ora ci appare nell'enigma delle nuvole e nello specchio del cielo e non come è: perché anche noi, benché cari al tuo figlio, ancora non si vede che cosa saremo. Ci guardò attraverso le finestre della carne, la sua carezza ci infiammò e ci mettemmo a correre dietro al suo profumo. Ma quando apparirà, saremo simili a lui, dato che lo vedremo come è: ci sarà dato vederlo come è, Signore, vederlo come non possiamo ancora.

16.19. Infatti, come tu sia in assoluto, tu solo sai: immobile nell'essere, immobile nel conoscere, immobile nel volere. E al tuo essere è propria l'immobilità del sapere e del volere, e al tuo sapere l'immobilità dell'essere e del volere, e al tuo volere l'immobilità dell'essere e del sapere. Così non pare giusto ai tuoi occhi che la fonte immobile di luce sia conosciuta dalla cosa mutevole che illumina, come lo è da se stessa. E l'anima davanti a te è come terra arida, perché come non può saziarsi da sé, così neppure da sé può illuminarsi. E come in te c'è la sorgente della vita, così nella tua luce vedremo la luce.


[Le acque amare e la terraferma: anime dannate e salve]

17.20. E chi riunì in una sola massa l'amaro delle onde? Già, il loro fine è sempre quello, è la felicità terrena e temporale, per lei fanno di tutto, pur continuando ad agitarsi fra le creste d'angoscia, innumerevoli. Chi se non tu, Signore, che alle acque hai detto di raccogliersi in una sola massa, perché apparisse l'arido della terra, assetata di te. Perché tuo è il mare, e sei tu che l'hai fatto, e le tue mani han plasmato la polvere. E infatti non è la spuma amara delle volontà a chiamarsi mare, ma la massa continua delle acque. Sei sempre tu a reprimere le male voglie in questa folla d'anime e a fissare i limiti cui è concesso alle acque di spingersi, tu fai crollare i marosi in se stessi, e così si fa il mare, secondo l'ordine del potere che hai sopra ogni cosa.

- 21. Ma le anime che hanno sete di te e ti appaiono distinte per il loro fine dalla massa del mare tu le irrighi da una sorgente dolce e segreta, perché anche la terra dia il suo frutto: e dà il suo frutto, e al comando del suo Dio e Signore l'anima germoglia, e fa crescere doni di benevolenza secondo la sua specie, amando il suo prossimo e soccorrendolo nelle strette della materia, e conserva in sé il seme della somiglianza. Perché la simpatia che ci fa sovvenire dell'altrui miseria e intervenire con l'aiuto stesso che vorremmo ci fosse prestato se fossimo nella stessa condizione nasce dal nostro incerto essere. E non è solo facile germoglio d'erba, ma folta cupola generosa e robusta, come quella di un albero da frutta: carico di bene, buono a dare riparo a chi soffre ingiustizia dalla mano del potente e a offrirgli ombra e protezione e il sostegno di un giusto giudizio.


[I luminari del firmamento e i carismi dello Spirito]

18.22. Così mio Signore, così come sorride e fiorisce ciò che tu fai e doni, io te ne prego: germogli dalla terra la verità e la giustizia si affacci dal cielo, e ci siano luminari nel firmamento. Dividiamo con l'affamato il nostro pane e invitiamo a casa nostra il vagabondo senza tetto, e vestiamo l'uomo nudo e non disprezziamo la gente di casa nostra, del nostro seme. Siano questi i frutti che nascono in terra: perché tu veda che sono buoni, ed erompa la nostra breve luce. E da questa messe inferiore d'azione passando alle delizie della contemplazione e al linguaggio, che è superiore, della vita, potessimo allora risplendere come luminari del mondo, fissi nel firmamento della tua scrittura. Perché lì tu discuti con noi e impariamo a distinguere fra l'intelligibile e il sensibile come fra il giorno e la notte o fra le anime: se sono dedite al mondo intelligibile o a quello sensibile. E questo affinché tu non sia più il solo a dividere la luce dalle tenebre nel segreto del tuo discernimento, come prima che il firmamento esistesse, ma anche le tue creature spirituali, collocate nei loro ranghi distinti in quello stesso firmamento, dopo che si è manifestata la tua grazia, risplendano sopra la terra e servano a distinguere il giorno e la notte e a segnare il tempo, perché le vecchie cose sono passate, ed ecco ne nascono di nuove e la nostra salvezza è più vicina di quando abbiamo assentito alla fede, e la notte è avanzata, il giorno imminente e tu benedici e coroni il tuo anno mandando gli operai a raccogliere quello che altri hanno seminato, e anche mandando a seminare quello che sarà raccolto alla fine. Così esaudisci il desiderio e benedici l'anno del giusto, tu che sei sempre lo stesso e nei tuoi anni indeclinabili allestisci il granaio degli anni perduti. Tu, che dispensi sulla terra doni celesti, e ciascuno a suo tempo per decreto eterno.

- 23. Così alcuni hanno in dono dallo Spirito il linguaggio della sapienza, come un luminare maggiore destinato a quelli che la luce di una chiara verità rallegra come il chiaro del mattino, altri secondo il medesimo Spirito ricevono il linguaggio della conoscenza, quasi un luminare minore; altri la fede, altri il potere di guarire, altri la forza dei miracoli, altri la profezia, altri il discernimento degli spiriti, altri le diverse lingue, tutti doni che sono come stelle. Sono infatti operazioni di un unico e medesimo spirito, che dà a ciascuno il suo secondo il proprio placito e in modo che lo splendore di questi astri ne manifesti l'utilità. Ma il linguaggio della conoscenza, inclusiva di tutti i sacri simboli, che come la luna hanno le loro fasi temporali, e gli altri doni annunciati e qui ricordati con l'immagine delle stelle, quanto lontane sono dal candore di sapienza di cui sorride quel giorno a venire. Tanto che stanno al principio della notte. Son doni di cui hanno bisogno quelli cui parlava il tuo servo oculatissimo: non come a uomini spirtuali, ma carnali. Lui, che con i perfetti parla di sapienza. Ma non creda deserta la sua notte l'uomo animale, che è in Cristo come nell'infanzia, come un poppante: e finché non ha forza per il cibo solido e per fissare lo sguardo nel sole si accontenti della luce lunare e delle stelle. Di questo tu continui a discutere con noi, Dio nostro, con tutta la sapienza, nel tuo libro - questo tuo firmamento: perché possiamo discernere ogni cosa nella meraviglia della contemplazione, quantunque ancora per segni e nel tempo e lungo i giorni e gli anni.


[Uomini della carne e uomini dello spirito]

19.24. Ma prima lavatevi, tornate puri, levatevi dall'anima e togliete alla mia vista quello che è maligno, perché appaia la terra asciutta. Imparate a far bene, fate giustizia all'orfano, difendete la vedova, perché la terra faccia germogliare erba da pascolo e alberi da frutta. Venite dunque e discutiamo, dice Dio, perché ci siano dei luminari nel firmamento a risplendere sopra la terra. Quel ricco chiedeva al buon maestro che fare, per aver la vita eterna: gli dica il buon maestro, che lui credeva non esser che un uomo - ma è buono perché è Dio - gli dica, se vuol giungere alla vita, di osservare i comandamenti, di levarsi di dosso l'amaro della malignità e dell'ingiustizia, di non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, perché appaia la terra asciutta e faccia germogliare il rispetto del padre e della madre e l'amore del prossimo. Ho fatto tutto questo, rispose il ricco. Perché allora tante spine, se la terra è capace di dar frutto? Va', sradica i cespugli fitti di avarizia, vendi quello che possiedi e riempi i tuoi granai dando ai poveri, e avrai un tesoro in cielo. E segui il Signore se vuoi essere perfetto, unendoti a quelli che ascoltano l'annuncio di sapienza: lui sa che cosa va assegnato al giorno e che cosa alla notte. E allora anche tu lo saprai, e anche per te si accenderanno i luminari nel firmamento: ma questo non sarà se non avrai lasciato il tuo cuore lassù: non sarà se non avrai lasciato lassù il tuo "tesoro", come hai udito dal buon maestro. Ma la tristezza calò sopra la terra sterile, e le spine soffocarono la parola.

- 25. Ma voi, stirpe eletta, debolezza del mondo, che lasciaste ogni cosa per seguire il Signore, voi andategli dietro e confondete tutto ciò che è forte, andate dietro a lui piedi bellissimi, e brillate nel firmamento, perché i cieli narrino la sua gloria separando la luce di quelli che sono perfetti, ma non ancora come gli angeli, dal buio dell'infanzia, ma che non dispera: splendete su tutta la terra, e dal giorno candido di sole erompa nel giorno la parola della sapienza e la notte lucente di luna annunci alla notte la parola della conoscenza. La luna e le stelle rilucono di notte, ma la notte non le oscura, perché a modo loro esse l'illuminano. Ecco, quasi Dio avesse detto "ci siano luminari nel firmamento", all'improvviso si fece dal cielo un fragore, come di un vento che soffi impetuoso, e apparvero delle lingue come di fuoco, che si divisero e si posarono sopra ciascuno di loro. E divennero luminari nel firmamento, depositari della parola che è vita. Correte per tutto lo spazio fuochi divini, fuochi di magnificenza. Perché voi siete la lucerna del mondo, e non starete sotto il moggio. È stato sollevato nella gloria quello che avete seguito, e ha sollevato nella gloria voi. Correte e fatevi conoscere fra tutte le genti.

20.26. E concepisca anche il mare, e partorisca i vostri frutti, e le acque producano rettili dall'anima viva. Separando il prezioso dal vile voi siete diventati la bocca di Dio, che così parla: le acque producano... non l'anima vivente, che sarà la terra a produrre, ma rettili dall'anima viva e uccelli che volino sopra la terra. E brulicarono i tuoi sacri simboli fra le mani dei tuoi santi per i marosi delle tentazioni mondane, per sommergere le genti sotto il tuo nome, nel tuo battesimo. E intanto grandi meraviglie avvennero, grandi come balene, e si udiva la voce dei tuoi messaggeri che volavano sopra la terra, rasente al firmamento del tuo libro - questa cupola d'autorità che posero sopra se stessi, perché dovunque andassero sovrastasse i loro voli. Già, non c'è parola né discorso in cui la loro voce non s'intenda, perché se ne diffonde il suono per la terra intera: e le parole corrono fino ai limiti del mondo. Perché, Signore, la tua benedizione le ha moltiplicate.


[Un mondo di simboli]

- 27. Forse io sto mentendo? O faccio confusione e non distinguo la lucida nozione di verità che valgono nel firmamento dalle vicende dei corpi fra le onde del mare e sotto la volta del cielo? In effetti, mentre le conoscenze sono stabili e delimitate, e - come le luci della dottrina e della sapienza - non subiscono l'incremento dovuto alla generazione, i loro oggetti sono i comportamenti molteplici e vari dei corpi, che crescono l'uno dall'altro moltiplicandosi nella tua benedizione, Dio che compensi il disagio dei sensi mortali concedendo alla mente che il suo concetto di una stessa cosa abbia nei movimenti dei corpi altrettanti modi di figurazione ed espressione simbolica. Così sono le acque all'origine di tutta quella proliferazione, ma lo sono nella tua parola. All'origine sono cioè le strette della miseria in cui erano i popoli esclusi dall'eterno della tua verità: ma è nel tuo vangelo che avvenne quella proliferazione. Tutti quegli effetti furono prodotti da quelle stesse acque, che erano tanto amare di malinconia da farli uscire da se stesse, nella tua parola.

- 28. E tutto ciò che esiste è bello tu essendone l'autore, ma più bello sei tu, di tutto autore, incomparabilmente. E se Adamo non si fosse svanito via da te non sarebbe uscita dal suo utero la salsedine del mare, questo genere umano con la sua curiosità senza fondo e le sue onde di furia, così instabile e fluttuante: e così non sarebbe stato necessario che i tuoi dispensatori producessero materialmente e sensibilmente in questa profondità d'acque azioni e parole misteriose. Così infatti mi sono ora apparsi i rettili e i volatili: sacri simboli di natura materiale, assoggettandosi ai quali tuttavia, anche se vi fossero iniziati e ne fossero sommersi, gli uomini non saprebbero trarne ulteriore profitto se il soffio dello spirito non ravvivasse l'anima facendola salire ancora di un gradino, e dopo la parola di iniziazione non mirasse a una consumata sapienza.


[L'anima viva]

21.29. E perciò non dalla profondità del mare, ma dalla terra separata dall'amaro delle acque, in luogo di rettili guizzanti di vita e di volatili scaturì nella tua parola l'anima viva. E questa non ha più bisogno di battesimo, come i gentili, come lei stessa prima, quando era sommersa dalle onde: perché non c'è altra via per entrare nel regno dei cieli, dal momento che tu hai stabilito così. E non cerca cose grandi e straordinarie per farsi una fede: non si rifiuta di credere se non vede segni e prodigi, perché la fida terra è già distinta dalle acque del mare, amaro di sfiducia: e le lingue sono un segno, non per i credenti, ma per gli increduli. E di quel genere di volatili che le acque produssero nella tua parola, la terra, che tu fondasti sopra le acque, non ha bisogno. Infondile la tua parola tramite i tuoi messaggeri. L'opera loro noi narriamo, è vero: ma sei tu che lavori entro di loro, perché lavorino l'anima viva. È la terra a produrla, perché è la terra per cui fanno questo, come fu il mare a mettere in azione quei rettili guizzanti di vita e quegli uccelli volanti sotto il firmamento dei quali la terra ormai non ha più bisogno: sebbene mangi il pesce portato su dal profondo a quella mensa che hai preparato davanti a chi crede. Sì, portato su dal profondo per nutrire la terra arida. Anche gli uccelli nacquero dal mare, e si moltiplicano sopra la terra. Fu la sfiducia degli uomini l'origine delle prime voci di una buona novella; ma anche i credenti vi trovano conforti e auguri di giorno in giorno sempre più numerosi. Però l'anima viva ha la radice in terra, perché non giova che a chi crede già di trattenersi dall'amare il mondo, così che l'anima viva per te: lei che vivendo nei piaceri era morta. Mortiferi piaceri, mio Signore: per il puro di cuore il piacere di vivere sei tu.


[L'epoca dello Spirito e il rinnovamento interiore]

- 30. È tempo dunque di operare in terra, per i tuoi ministri. Non come sul mare della sfiducia, quando predicavano col linguaggio dei miracoli e dei simboli oscuri e delle voci di mistero, cose che fan restare a bocca aperta l'ignoranza, madre della meraviglia, intimorita dai presagi arcani: questa è la via d'accesso alla fede buona per i figli di Adamo immemori di te, che si nascondono al tuo volto e si disfano in abisso. No, è tempo che lavorino come sulla terraferma, ben protetta dai gorghi dell'abisso, e siano esempio ai credenti, vivendo sotto i loro occhi e muovendoli all'emulazione. Solo così ascolteranno per agire, e non soltanto per ascoltare: cercate Dio, e vivrà l'anima vostra - e la terra farà l'anima viva. Non fatevi conformi a questo secolo, non ve ne fate coinvolgere. L'anima vive evitando le cose che cercando muore. Contenete la smisurata ferocia della superbia, l'ebete voluttà della lussuria, la vanagloria del sapere, e le belve saranno mansuete e il bestiame docile e innocui i serpenti. Perché queste non sono che allegorie dei moti dell'anima: ma il fasto dell'orgoglio e le soddisfazioni della libidine e il veleno della curiosità sono i soprassalti di un'anima morta. Per cui morire non è irrigidirsi nell'immobilità completa, è muovere via dalla sorgente del vivere. È così che muore, e il secolo che passa la raccoglie e se la fa conforme.

- 31. Ma la parola, cioè Dio, è sorgente del vivere eterno, e non passa: perciò la tua parola aiuta a contenere questa fuga quando ci dice: non fatevi conformi a questo secolo, perché dalla sorgente del vivere la terra generi l'anima viva: generi dalla tua parola tramite i tuoi Evangelisti l'anima continente, a imitazione degli imitatori del tuo Cristo. Questo appunto è "secondo la specie": perché l'uomo è emulato dal suo amico: siate, dice l'Apostolo, come me, perché anche io sono come voi. Così, la mansuetudine dell'agire renderà buone anche le belve nell'anima viva. Secondo quello che tu hai prescritto: compi le tue opere con mansuetudine e sarai amato da tutti. E sarà buono il bestiame e non ne avrà di troppo se mangerà e se digiunerà non soffrirà la fame, e buoni saranno i serpenti, non pronti ad attaccare velenosamente ma astuti per cavarsela nell'avventura di esplorare il tempo - quanto basta a gettare uno sguardo sull'eternità intesa tramite il creato. Sì, tutti questi animali servono la ragione quando li si trattiene dal gettarsi in una corsa mortale, e allora vivono e sono buoni.


[L'uomo immagine di Dio: simbolo dell'uomo rinnovato]

22.32. E allora ecco, nostro Dio e Signore, creatore nostro, quando avremo impedito di dissiparsi nell'amore del mondo a quegli affetti che ci facevano vivere male fino a morire, e l'anima comincerà a esser viva e a stare bene, e sarà compiuta la parola che hai detto tramite il tuo apostolo: non fatevi conformi a questo secolo, allora giungeranno a compimento anche quelle parole immediatamente successive: riformatevi rinnovandovi la mente: e non più secondo la specie, quasi imitando i nostri simili che ci hanno preceduti, e neppure vivendo secondo l'esempio di un uomo migliore. Perché tu non hai detto "Sia fatto l'uomo secondo la sua specie", ma: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza, appunto in modo che sperimentiamo in noi stessi la tua volontà. È per questo che quel tuo amministratore, che nel tuo buon annuncio genera i suoi figli, per non averli sempre da allattare e tenere a balia come poppanti va dicendo loro: riformatevi, rinnovate la mente, e proverete in voi stessi che cosa vuole Dio, che cosa è buono e a lui gradito e perfetto. E perciò tu non dici "sia fatto l'uomo", ma: facciamolo, e non "secondo la sua specie", ma: a nostra immagine e somiglianza. E questo è il punto. L'uomo dalla mente rinnovata, giunto all'intelligenza della tua verità, la vede, e non ha bisogno di una guida umana per imitare la sua specie, ma sotto la tua guida sperimenta egli stesso quale sia il tuo volere, e che cosa sia buono e a te gradito e perfetto. E tu gli insegni - perché ne è ormai capace - a vedere la Trinità nell'unità o l'unità nella Trinità. E infatti al plurale: facciamo l'uomo, segue il singolare: - e Dio fece l'uomo; e al plurale: a nostra immagine, segue il singolare: a immagine di Dio. Così l'uomo si rinnova quando riconosce Dio secondo l'immagine di lui che l'ha creato, e fatto uomo dello spirito giudica ogni cosa giudicabile, senza poter essere giudicato da nessuno.

23.33. Ma giudicare ogni cosa significa avere potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie domestiche e selvatiche e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sopra la terra. Questo potere lo esercita mediante il sommo dell'intelligenza, con cui percepisce le cose dello spirito di Dio. Se non per questo, l'uomo, messo al posto d'onore, non capisce: si abbassa a competere con le stupide bestie da soma e si fa simile a loro. Perciò sono nella tua chiesa, Dio nostro, in virtù della grazia che le hai concesso, - poiché, creati come siamo a operare il bene, siamo un calco delle tue mani - non solo quelli che secondo lo spirito dirigono, ma anche chi si assoggetta loro secondo lo spirito. È in questo senso infatti che hai fatto l'uomo maschio e femmina nella tua grazia spirituale, dove non esiste maschio e femmina secondo l'anatomia, perché non esistono neppure giudeo e greco, schiavo e libero. Dunque gli uomini spirituali, sia che dirigano sia che eseguano, giudicano secondo lo spirito: ma di che cosa? Non delle conoscenze spirituali, che brillano nel firmamento: non spetta a loro il giudizio sopra un'autorità così sublime. Ma neppure dei luoghi oscuri di questo stesso libro tuo, dato che noi sottomettiamo anche la nostra intelligenza e teniamo per certo che sia giusto e vero anche quello che al nostro sguardo resta impenetrabile. Perché l'uomo, quando anche sia ormai nel mondo dello spirito, rinnovato nel riconoscimento di Dio secondo l'immagine che ha del suo creatore, deve pur sempre essere esecutore della legge, non giudice. Ma neppure giudica della distinzione stessa fra uomini di carne e uomini di spirito, che ai tuoi occhi, Dio nostro, sono noti, ma a noi non si sono ancora manifestati con l'opera loro, perché possiamo riconoscerli dai loro frutti. Invece tu, Signore, li conosci da sempre e li hai divisi e chiamati in segreto, prima che si facesse il firmamento. E neppure giudica l'uomo, benché di spirito, delle masse opache di questo secolo. Perché giudicare di quelli di fuori, quando uno ignora chi di là verrà alla dolcezza della tua grazia e chi rimarrà nell'amarezza eterna della negazione?

- 34. Dunque l'uomo, che hai fatto a tua immagine, non ebbe il potere sui luminari del cielo e neppure sullo stesso cielo segreto né sul giorno e la notte, cui desti nome prima della costituzione del cielo, né sulla massa delle acque che è il mare; ma ebbe il potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sopra la terra. Giudica, e approva ciò che trova giusto, ma ciò che trova erroneo disapprova: nella celebrazione delle cerimonie sacre, mezzo di iniziazione per quelli che la tua compassione va a cercare nel fitto delle acque; o nella cerimonia in cui si offre il pesce tratto su dal profondo, perché la terra devota lo mangi; o in quegli stormi di parole e segni soggetti all'autorità del tuo libro che svolazzano sotto la volta del firmamento in uno strepito di interpretazioni, esposizioni, disquisizioni, dispute, benedizioni e invocazioni: insomma in tutte quelle formule sonanti eruttate a bocca aperta perché il popolo risponda amen. Di tutto questo vociare e risuonare son causa l'abisso del secolo e la cecità della carne, che è incapace di vedere i pensieri e ha bisogno di farseli urlare nelle orecchie. Così, nonostante il mandato che i volatili si moltiplichino sopra la terra, essi traggono origine dalle acque. Ancora giudica, l'uomo di spirito, approvando ciò che trova giusto, ma disapprovando ciò che trova guasto nelle azioni e nei costumi dei credenti, nelle elemosine che sono come la terra fruttifera; e quanto all'anima viva, negli affetti ammansiti dalla castità, dai digiuni, dalle riflessioni devote intorno agli oggetti della percezione sensibile. Insomma si vuol dire che giudica di quelle cose che è anche in suo potere correggere.


[Il linguaggio e la proliferazione dei significati]

24.35. Ma che significa questo? E che mistero è? Ecco: tu benedici gli uomini, Signore, che crescano e si moltiplichino e popolino la terra. Non accenni con questo a qualcosa che dobbiamo intendere? Perché non hai benedetto così anche la luce, che hai chiamato giorno, o il firmamento o i luminari o le stelle o la terra o il mare? Direi che tu, Dio di noi uomini, che ci creasti a tua immagine, abbia voluto elargire il privilegio di questa benedizione all'uomo in particolare: direi così se non avessi benedetto in questo modo anche i pesci e i mostri marini perché crescessero e si moltiplicassero e popolassero le acque del mare e i volatili perché proliferassero sopra la terra. Direi parimenti che questa benedizione è riservata a quelle specie che si riproducono attraverso la generazione, se la trovassi rivolta alle piante da selva e da frutto, al bestiame della terra... Ma né all'erba né agli alberi, né alle belve o ai serpenti fu detto: crescete e moltiplicatevi, benché anche loro come i pesci e gli uccelli e gli uomini propaghino e conservino le rispettive specie attraverso la generazione.

- 36. Che dirò allora, mio lume, verità? Che si tratta di una frase vuota, inutile? No certo, padre di devozione, non sarà un servo della tua parola a dir questo! E se io non capisco il significato che hai voluto dare a queste parole, possa fare di meglio chi è migliore, ossia più intelligente di me, secondo la misura di sapere che hai concesso a ciascuno. Ma trovi grazia al tuo cospetto almeno questa fede che io ti confesso: non hai parlato invano, e io non tacerò il pensiero che questa occasione di lettura mi suggerisce. Infatti è vero, e non vedo che cosa mi impedisca di intendere così le figurate affermazioni dei tuoi libri. So che il corpo può in molti modi esprimere ciò che la mente intende a un modo solo, e in molti modi la mente può intendere ciò che a un solo modo il corpo esprime. Guarda ad esempio l'amore di Dio e del prossimo: è semplice. Ma è molteplice la varietà di modi in cui lo si significa materialmente: pensa ai simboli sacri, e alle lingue innumerevoli, e in ogni lingua ai modi innumerevoli di dirlo. Ed è così che cresce e si moltiplica la vita che era in grembo al mare, in embrione. Chiunque tu sia, lettore, prova a rileggere: e non vedi in quanti modi è interpretata questa proposizione che la Scrittura ha un solo modo di presentare, e la voce di pronunciare: "In principio Dio creò il cielo e la terra"? E questo non accade per errore, ma secondo i vari generi di interpretazioni vere. È così che cresce e si moltiplica ogni embrione del genere umano.

- 37. E così se pensiamo in senso proprio e non allegorico alla natura delle cose, le parole "crescete e moltiplicatevi" si addicono a tutto quello che nasce da un seme; se invece intendiamo le proposizioni in senso figurato - come credo sia intenzione della Scrittura, che certamente non elargisce del tutto a caso questa benedizione soltanto alla progenie delle acque e a quella degli uomini - noi vedremo moltiplicarsi ovunque gli esseri. Come vediamo ad esempio nella figura del cielo e della terra moltitudini di creature spirituali e materiali, e moltitudini di anime giuste o ingiuste nella luce e nelle tenebre, e di sacri autori e amministratori della legge nel firmamento stabilito fra l'una e l'altra distesa d'acqua, e nel mare folle che s'ammassano come la spuma amara delle onde, e innumerevoli anime devote e appassionate nella sabbia e innumerevoli gesti di bontà terrena nell'erba da seme e negli alberi da frutta, e varietà di doni dello spirito che brillano per noi nei luminari del cielo e varietà di affetti ben temperati all'armonia nell'anima viva. Son tutte cose in cui vediamo pluralità e fecondità e incrementi: ma questo genere di crescita e proliferazione, per cui una sola cosa si dice in molti modi e in molti modi si intende una proposizione sola, non lo troviamo che nell'emissione materiale di segni e nell'elaborazione mentale di pensieri. Segni emessi materialmente sono in base alla nostra interpretazione gli embrioni generati dalle acque, cioè quelli che nella profondità della carne hanno la loro necessaria origine; invece i pensieri elaborati mentalmente sono gli embrioni generati dagli uomini per la facoltà di concepire propria della ragione. E perciò crediamo che a ciascuna di queste due stirpi sia stato detto da te, Signore, "crescete e moltiplicatevi". Sì, in questa benedizione da te concessa a noi io vedo la capacità e il potere sia di esprimere in molti modi un solo pensiero, una volta compreso e acquisito, sia di intendere in molti modi un'unica frase che leggendo ci sia sembrata oscura. Così si affollano le acque del mare, che non sono agitate se non dalla varietà delle interpretazioni, e così si affolla di embrioni umani anche la terra, che rivela la sua aridità nello studio, e però soggiace al potere della ragione.


[L'erba e le piante:
figura dei benefici dovuti ai ministri della Parola]

25.38. Voglio anche dire, mio Signore e Dio, cosa mi suggerisce il seguito della tua Scrittura, e lo dirò senza timore. Perché dirò qualche cosa di vero se sei tu che mi ispiri a dire ciò che da quelle parole hai voluto farmi trarre. E non credo che un'ispirazione diversa dalla tua mi farebbe dire il vero, perché tu sei la verità, ma ogni uomo è mendace. E perciò chi mente dice del suo. Per dire il vero, devo dire del tuo. Ecco, tu ci hai dato per cibo ogni erba che sopra la terra nasce da seme e che produce seme, e ogni pianta che porta in sé frutto di seme. E non soltanto a noi ma anche a tutti gli uccelli del cielo e alle fiere della terra e ai serpenti: ma non le hai date, queste cose, ai pesci e ai mostri marini. Dicevamo che questi frutti della terra sono simbolo e figura allegorica dell'operosa bontà che la terra fruttifera dispiega nelle strette di questa vita. Fatto di questa terra era quell'Onesiforo devoto alla cui casa devi aver usato misericordia, perché sovente soccorse il tuo Paolo e non arrossì delle sue catene. Così fecero, e diedero frutti della stessa razza, i fratelli che dalla Macedonia lo provvidero di quanto gli mancava. Diversamente da qualche albero da cui Paolo lamenta di non aver ricevuto il frutto che gli spettava, dove dice: al tempo della mia prima difesa nessuno mi assistette, tutti mi abbandonarono. Non venga loro imputato. Son cose dovute a coloro che amministrano un insegnamento intellettuale attraverso l'intelligenza dei misteri divini: e dovute loro in quanto uomini. Ma dovute loro anche in quanto si offrono all'anima viva come modello di ogni genere di continenza. E dovute come a delle creature alate per i buoni auguri che a volo hanno disseminati sopra la terra, innumerevoli: poiché la loro voce risuonò sopra la terra intera.

26.39. Di questi cibi si nutrono quelli che sanno goderne, e non ne godono quelli che per dio hanno il ventre. Anche in chi offre, il frutto non è ciò che dona, ma l'animo con cui lo fa. Lo vedo bene io, che cosa riempie di gioia quell'uomo che serviva Dio e non il suo ventre, lo vedo e mi rallegro forte anch'io con lui. Aveva ricevuto dai Filippesi quello che tramite Epafrodito gli avevano mandato: ma che cosa veramente lo riempisse di gioia, io lo vedo. È quello che lo nutre a riempirlo di gioia, perché parlando in tutta sincerità dice: magnifica gioia ho provato nel Signore, perché finalmente ha ripreso a dar frutti il sentimento che nutrite per me, come usava: ma v'ero venuto a noia. Costoro dunque erano come marciti nell'accidia e inaridito in loro era il frutto dell'azione bella; ed è felice per loro che hanno ripreso a dar frutti, non per sé, per il soccorso che ne ha ricevuto nel bisogno. Così prosegue: Non parlo perché a me manchi qualcosa, infatti io ho imparato a bastare a me stesso in ogni caso. So essere povero, conosco l'abbondanza: in tutto e in ogni cosa mi sono avvezzato alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e alla miseria: tutto posso in lui che mi dà forza.

- 40. Grande Paolo, da dove viene la tua gioia dunque? Da dove viene, di che ti nutri, uomo rifatto nuovo in questo tuo riconoscere Dio nell'immagine del tuo creatore? Tu, anima che di tanta continenza vivi, lingua che vola e parla di misteri. Ad anime come te questo cibo è dovuto. Che cos'è che ti nutre? La gioia. Ascoltiamo ancora le sue parole: E tuttavia - dice - avete fatto bene a condividere le mie sofferenze. Di questo gioisce, questo lo nutre: che essi abbiano fatto del bene; e non perché abbia trovato sollievo alla sua propria angoscia, lui che ti dice: nella sofferenza tu mi hai allargato il cuore, perché conosce l'abbondanza e la miseria in te che gli dai forza. Sapete infatti anche voi, Filippesi, che quando cominciai a diffondere la buona novella e partii dalla Macedonia, nessuna chiesa mi diede la mia parte in ragione del dare e dell'avere, eccetto voi soli. Perché voi mi mandaste a Tessalonica per ben due volte di che far fronte ai miei bisogni. Egli gioisce del fatto che ora siano tornati a questi atti di bontà e che siano rifioriti, e se ne rallegra come di un campo che rinverdisca e ridiventi fertile.


[Il dono e il frutto]

- 41. Forse è legata al suo vantaggio la sua gioia, perché dice "mandaste di che far fronte ai miei bisogni"? No, non è per questo. E come lo sappiamo? Da quello che lui stesso dice in seguito: non chiedo un dono, ma cerco un frutto. Ho imparato da te, Dio mio, a distinguere fra dono e frutto. Il dono è la cosa stessa donata da chi fornisce queste cose necessarie, come denaro, cibo, bevanda, vestiti, riparo, soccorso. Frutto invece è la volontà buona e retta del donatore. E il buon maestro non dice soltanto "Chi accoglierà un profeta" ma aggiunge: "in quanto profeta"; e non dice soltanto "chi accoglierà un giusto" ma aggiunge: "in quanto giusto". Solo così riceverà la ricompensa del profeta, o quella del giusto. E non dice solo: "chi darà da bere un bicchiere d'acqua fresca a uno dei più piccoli fra questi" ma dice ancora: "unicamente in quanto mio discepolo" e aggiunge: "in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa" . Dono è accogliere il profeta, accogliere il giusto, offrire un bicchier d'acqua fresca al discepolo; frutto è farlo per il profeta, per il giusto, per il discepolo in quanto tali. Frutto è quello di cui la vedova nutre Elia, sapendo che nutre un uomo di Dio e per questo lo nutre; dono invece è quello con cui lo nutre il corvo. Il quale non nutriva l'Elia interiore, ma solo l'esteriore, quello che per mancanza di un tal cibo poteva deperire.

27.42. E così dirò il vero al tuo cospetto, mio Signore, quanto ai non iniziati e non credenti, che per essere iniziati e guadagnati alla fede hanno bisogno di cerimoniali sacri e delle gran meraviglie dei miracoli - rispettivamente significati, crediamo, dai pesci e dai grandi mostri marini. Quando sono costoro, dunque, ad accogliere i tuoi piccoli per dar loro da mangiare o accudirli nei bisogni di questa vita, dato che ignorano il motivo e il senso di questa azione, non è nutrimento quello che viene così offerto e ricevuto, perché chi dona non agisce per volontà divina e retta e chi riceve non può rallegrarsi del dono, non vedendovi ancora alcun frutto. Già: nutre la mente solo ciò che la rallegra. Ed è perciò che pesci e grandi mostri non vivono dei frutti della terra, che questa produce soltanto una volta distinta e separata dall'amaro delle onde marine.


[Perfezione del mondo attuale]

28.43. E vedesti tutte le cose che avevi creato, ed ecco, erano molto buone: e anche noi le vediamo, ed ecco, tutte sono molto buone. Per ciascun capitolo delle tue opere, appena lo avevi chiamato all'esistenza, e c'era, uno per uno vedesti che era buono. Sette volte - le ho contate - sta scritto che vedesti come era buono ciò che avevi fatto: ed è l'ottava questa, quando vedesti tutte le tue opere, ed ecco che considerate tutte insieme erano non soltanto buone, ma molto buone. Sì, le singole cose erano soltanto buone, ma tutte insieme erano buone, e molto. Lo si dice anche di un qualsiasi bel corpo: perché il corpo che consta di belle membra è di gran lunga più bello delle singole membra, che con la loro disposizione il più possibile ordinata formano il complesso: sebbene anch'esse siano singolarmente belle.

29.44. E ho concentrato la mia attenzione sul problema se tu abbia anche visto per sette volte - o per otto - che erano buone, quelle opere che ti sono piaciute: e nella tua visione non ho trovato una successione temporale, che mi facesse capire in che senso tu abbia veduto un certo numero di volte ciò che avevi fatto. "Mio Signore," ho detto allora, "non è vera la tua Scrittura, se l'hai dettata tu che sei veritiero e sei anzi la verità stessa? E allora perché tu mi dici che non c'è successione di tempi nella tua visione, e questa tua Scrittura mi dice che hai visto un giorno dopo l'altro che le tue opere sono buone, tanto che ho potuto contare quante volte lo hai fatto e scoprirne il numero?" Al che tu mi rispondi che tu sei il mio Dio e gridi all'orecchio interiore del tuo servo, sfondando con la tua voce la mia sordità: "Ah uomo! Certo che quello che dice la mia scrittura sono io a dirlo. Ma essa parla nel tempo, mentre il tempo non ha accesso alla mia parola, perché questa ha una consistenza eterna, pari alla mia. Così tutto quello che voi vedete attraverso il mio spirito sono io a vederlo, come sono io a dire tutto quello che nel mio spirito dite. Ma mentre voi lo vedete nel tempo, io non lo vedo nel tempo: così come non è nel tempo che io lo dico, quello che voi dite nel tempo".

30.45. Ho udito, mio Signore e Dio, e ho assaggiato una stilla di dolcezza della tua verità e ho capito che ad alcuni non piacciono le tue opere, tanto che sostengono tu abbia fatto molte di esse sotto la costrizione della necessità - ad esempio la fabbrica dei cieli e i sistemi stellari - e che per di più non le avresti ricavate da te stesso, ma che esistevano già altrove e da un'altra creazione, e tu non avresti fatto che riunirle e connetterle in questa compagine, quando ammassando i tuoi nemici vinti tu costruisti le mura del mondo, perché restassero murati là sotto e non potessero ribellarsi di nuovo contro di te. Ma diverse altre cose non solo non sarebbero state fatte, ma neppure messe insieme da te: ad esempio tutti i corpi animali, anche i più minuscoli, e tutto ciò che ha la radice in terra. Tutto questo sarebbe prodotto e formato nelle regioni inferiori del mondo da una mente ostile, di natura diversa dalla tua, non istituita da te e anzi a te avversa. Così parlano dei pazzi, che non vedono le tue opere attraverso il tuo spirito e in esse non ti riconoscono.

31.46. Ma quanto a quelli che le vedono attraverso il tuo spirito, in loro sei tu che vedi. E perciò quando vedono come sono buone, sei tu che vedi come sono buone, e se una cosa piace loro per amor tuo, sei tu che in quella cosa piaci, e tutto ciò che nel tuo spirito piace a noi, piace a te in noi. Perché chi fra gli uomini sa cos'è l'umano, se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così pure il divino nessuno sa cos'è se non lo spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spirito mondano, ma lo spirito che viene da Dio, perché impariamo a conoscere i doni che Dio ci ha fatto. D'accordo, nessuno sa cos'è il divino, se non lo spirito di Dio. Ma allora, domando io, come facciamo a conoscere i doni che Dio ci ha fatto? La risposta è appunto: di ciò che sappiamo mediante il suo spirito nessuno è a conoscenza tranne lo spirito di Dio. Come fu detto giustamente a quelli che parlavano nello spirito di Dio: non siete voi a parlare, così è giusto dire a quelli che nello spirito di Dio conoscono: "non siete voi a conoscere". Non meno giusto quindi è dire: "non siete voi a vedere" a quelli che nello spirito di Dio vedono: e allora se nello spirito di Dio vedono che una cosa è buona, non sono loro, ma Dio a vedere che è buona. Altro dunque è ritenere cattivo ciò che è buono, come fanno quelli che abbiamo menzionato sopra; altro è vedere che è buono ciò che è buono, come accade a molti che apprezzano il creato come cosa buona, ma in esso non apprezzano te: e perciò lo preferiscono, come bene da godere, a te. Ma c'è un terzo caso: quando un uomo vede che una cosa è buona, e in lui è Dio a vedere che è buona, e cioè in definitiva è Dio ad amarsi in una sua opera. Lui, che non potrebbe amarsi se non attraverso lo spirito che ha donato: perché l'amore di Dio ci è stato versato in cuore per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu donato. Attraverso lo spirito noi vediamo che ogni cosa che in qualche misura è, è buona: perché deriva l'essere da lui, che non è in qualche misura, ma è assolutamente.


[Grande ringraziamento finale]

32.47. Grazie a te, Signore! Vediamo il cielo e la terra: sì, le regioni alte e basse dell'universo fisico, e anche, forse, le dimensioni spirituale e materiale di tutto il creato. E queste parti di cui si compone tutta la fabbrica dell'universo, o forse la totalità del creato, si rivestono come di uno sfarzoso abito di luce, che vediamo farsi e dividersi dalle tenebre. Vediamo il firmamento celeste, questo corpo primigenio del mondo, che in alto ha il mare dello spirito e in basso il mare fisico; e anche questa regione dell'aria - perché anche questa ha nome di cielo - coi suoi piumati viaggiatori che svolano fra il leggero, levitante vapor d'acqua, rugiada delle notti serene, e le acque che scorrono in terra, pesanti. Vediamo lo splendore dei prati marini, queste distese d'acqua unita, e la terra asciutta, ora spoglia ora ben lavorata, per essere visibile e ordinata madre di erbe e alberi. Vediamo i luminari sfavillanti lassù, vediamo il sole bastare al giorno, e luna e stelle consolare la notte, e tutti insieme segnare e indicare il passaggio del tempo. Vediamo ovunque l'elemento umido brulicare di pesci e mostri e creature alate, perché lo spessore dell'aria, che sostiene il volo degli uccelli, si forma con l'evaporazione dell'acqua. Vediamo sulla faccia della terra un rilievo folto d'animali terrestri, e l'uomo fatto a tua immagine e somiglianza che per esser così fatto, cioè in virtù della ragione e dell'intelligenza, regna su tutti gli animali irrazionali; e come nella sua anima una è la parte che decide e domina, e una quella che si piega a eseguire, così fatta anche fisicamente per l'uomo è la femmina: che avrebbe, sì, quanto alla mente natura in qualche modo pari all'uomo per intelligenza razionale, ma quanto al sesso è fatta in modo da essere soggetta al sesso maschile, come l'impulso all'azione si assoggetta alla ragione per concepire da lei un fare giusto e accorto. E vediamo che queste cose sono buone una per una, e tutte molto buone.

33.48. Le opere tue ti lodano perché possiamo amarti, e noi ti amiamo perché tu riceva l'elogio delle tue opere. Dal tempo esse hanno principio e fine, alba e tramonto, crescita e decadenza, splendore e povertà. Vivono dunque la vicenda, parte invisibile parte evidente, del mattino e della sera. Fatte di nulla da te, non di te, e non di qualche materia non tua ma preesistente, bensì di una materia concreata, cioè creata da te nell'atto stesso di dar forma, senza por tempo in mezzo, alla sua massa amorfa. Altro, infatti, è la materia, altra la forma visibile del cielo e della terra: la materia fu fatta dal nulla assoluto, la forma visibile del mondo dalla materia amorfa. E tuttavia le hai fatte simultaneamente, in modo che alla materia seguisse la forma senza il minimo intervallo di tempo.

34.49. Abbiamo anche indagato che cosa tu abbia voluto significare simbolicamente con tutte queste opere, in questo ordine di successione - o di trascrizione: e abbiamo visto che sono buone, una per una, e tutte sono molto buone. Nel tuo Verbo, nel tuo unigenito abbiamo veduto cielo e terra, il capo e il corpo della Chiesa, predestinati a esistere anteriormente al tempo, senza mattino e sera. E hai preso ad attuare nel tempo il destino eterno delle cose, per manifestare i tuoi disegni arcani e ricomporre ciò che in noi era stato scomposto: perché eravamo ricoperti dai nostri peccati e smarriti lontano da te, nelle profondità del buio, e il tuo spirito buono si librava su di noi, per soccorrerci a tempo opportuno. Fu allora che giustificasti gli uomini senza religione e li distinguesti dai malvagi e consolidasti l'autorità del tuo libro fra gli spiriti superiori - perché fossero pronti a ricevere il tuo diretto insegnamento - e quelli inferiori, perché fossero soggetti ai primi; e accomunasti in un solo viluppo la massa dei senza fede, perché apparisse manifesto l'ardore di chi ha fede, e aspira a esserti prolifico di opere d'amore - fino a distribuire ai poveri le ricchezze della terra per acquistare il cielo. Fu allora che accendesti nel firmamento dei luminari che parlavano il linguaggio della vita: i tuoi santi, luminosi d'autorità sublime nel privilegio dei doni dello spirito; e quindi per indottrinare le folle senza fede producesti dalla materia dei corpi i sacri simboli e i miracoli visibili e tutto un risuonare di parole conformi al firmamento del tuo libro, di buon augurio anche per i credenti. E infine attraverso l'ordine degli affetti prodotto dalla forza della continenza hai dato forma all'anima viva di chi ha fede, e quindi gli hai rinnovato a tua immagine e somiglianza la mente, a te solo soggetta e immune dal bisogno di imitare qualunque autorità umana. E hai sottomesso l'azione ragionevole alla direzione dell'intelletto come la femmina all'uomo, e hai voluto che per tutti i tuoi amministratori necessari al perfezionamento degli uomini di fede fossero gli stessi uomini di fede a provvedere alle necessità temporali, opera che darà frutto in futuro. Tutte queste cose noi vediamo e sono molto buone, perché tu le vedi in noi, tu che ci hai donato lo spirito in cui vederle, e in esse amare te.

35.50. Signore Dio, donaci la pace - perché di tutto tu ci hai provveduti. La pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza sera. Perché tutto quest'ordine bellissimo di cose molto buone, colma la sua misura, passerà: e anche per loro sarà stato mattino, e poi sera.

36.51. Ma il settimo giorno non ha sera né tramonto, perché santificandolo tu lo fai durare eternamente: affinché il riposo che, compiute le tue opere molto buone, ti concedesti il settimo giorno - benché niente turbasse la tua quiete - lo preannunci a noi la voce del tuo libro. E anche noi compiute le nostre opere - molto buone perché sono tuoi doni - riposeremo in te nel sabato della vita eterna.

37.52. E allora tu riposerai in noi, così come ora operi in noi: e noi saremo strumenti del tuo riposo, come ora lo siamo delle tue opere. Ma tu, Signore, sei sempre attivo e sempre in quiete e non si svolgono nel tempo il tuo agire e il tuo vedere: eppure porti a compimento le visioni temporali e la stessa successione del tempo e la quiete dopo il tempo.

38.53. Infine, tutte queste cose di cui sei l'autore noi le vediamo perché esistono, mentre è perché tu le vedi che esistono. E noi guardando fuori vediamo che esistono, guardando entro di noi che sono buone: tu invece là dove hai visto che era bene farle, in quel punto stesso le hai vedute fatte. Noi ora, in un secondo tempo, dopo che il nostro cuore ha concepito dal tuo spirito, siamo inclini a fare il bene; ma prima eravamo inclini a fare il male e ad abbandonarti. Tu invece, Dio uno e buono, non hai mai smesso di fare il bene. E se qualche opera nostra è buona, certo è un tuo dono: ma non dura eterna. Compiuta che l'avremo speriamo di riposare nella gloria della tua apoteosi. Ma tu che sei un bene cui non manca alcun bene sei sempre in quiete: perché anche per te sei tu stesso, la quiete. C'è un uomo che saprà farlo intendere a un uomo? O un angelo a un angelo, o un angelo a un uomo? Chiederlo a te, cercare te, bussare a te bisogna: così - solo così - ci sarà dato, così si troverà, ci sarà aperto.