Myricae

di Giovanni Pascoli

 

 

 

IL GIORNO DEI MORTI

 

Io vedo (come  questo giorno, oscuro!),

vedo nel cuore, vedo un camposanto

con un fosco cipresso alto sul muro.

 

E quel cipresso fumido si scaglia

allo scirocco: a ora a ora in pianto

sciogliesi lĠinfinita nuvolaglia.

 

O casa di mia gente, unica e mesta,

o casa di mio padre, unica e muta,

dove lĠinonda e muove la tempesta;

 

o camposanto che s“ crudi inverni

hai per mia madre gracile e sparuta,

oggi ti vedo tutto sempiterni

 

e crisantemi. A ogni croce roggia

pende come abbracciata una ghirlanda

donde gocciano lagrime di pioggia.

 

Sibila tra la festa lagrimosa

una folata, e tutto agita e sbanda.

Sazio ogni morto, di memorie, posa.

 

Non i miei morti. Stretti tutti insieme,

insieme tutta la famiglia morta,

sotto il cipresso fumido che geme,

 

stretti cos“ come altre sere al foco

(urtava, come un povero, alla porta

il tramontano con brontol“o roco),

 

piangono. La pupilla umida e pia

ricerca gli altri visi a uno a uno

e forma unĠaltra lagrima per via.

 

Piangono, e quando un grido chĠesce stretto

in un sospiro, mormora, Nessuno! . . .

cupo rompe un singulto lor dal petto.

 

Levano bianche mani a bianchi volti,

non altri, udendo il pianto disusato,

sollevi il capo attonito ed ascolti.

 

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla

qualche figlio deĠ figli, ancor non nato.

Nessuno! i morti miei gemono: nulla!

 

- O miei fratelli! - dice Margherita,

la pia fanciulla che sotterra, al verno,

si risvegli˜ dal sogno della vita:

 

- o miei fratelli, che bevete ancora

la luce, a cui mi mancano in eterno

gli occhi, assetati della dolce aurora;

 

o miei fratelli! nella notte oscura,

quando il silenzio vĠopprimeva, e vana

lĠombra formicolava di paura;

 

io veniva leggiera al vostro letto;

Dormite! vi dicea soave e piana:

voi dormivate con le braccia al petto.

 

E ora, io tremo nella bara sola;

il dolce sonno ora perdei per sempre

io, senza un bacio, senza una parola.

 

E voi, fratelli, o miei minori, nulla! . . .

voi che cresceste, mentre qui, per sempre,

io son rimasta timida fanciulla.

 

Venite, intanto che la pioggia tace,

se vi fui madre e vergine sorella:

ditemi: Margherita, dormi in pace.

 

ChĠio lĠoda il suono della vostra voce

ora che pi non romba la procella:

io dormir˜ con le mie braccia in croce.

 

Nessuno!- Dice; e si rinnova il pianto,

e scroscia lĠacqua: un impeto di vento

squassa il cipresso e corre il camposanto.

 

- O figli - geme il padre in mezzo al nero

fischiar dellĠacqua - o figli che non sento

pi da tanti anni! un altro cimitero

 

forse vĠaccolse e forse voi chiamate

la vostra mamma, nudi abbrividendo

sotto le nere sibilanti acquate.

 

E voi le braccia dallĠasil lontano

a me tendete, siccome io le tendo,

figli, a voi, disperatamente invano.

 

O figli, figli! vi vedessi io mai!

io vorrei dirvi che in quel solo istante

per unĠintera eternitˆ vĠamai.

 

In quel minuto avanti che morissi,

portai la mano al capo sanguinante,

e tutti, o figli miei, vi benedissi.

 

Io gettai un grido in quel minuto, e poi

mi pianse il cuore: come pianse e pianse!

e quel grido e quel pianto era per voi.

 

Oh! le parole mute ed infinite

che dissi! con qual mai strappo si franse

la vita viva delle vostre vite.

 

Serba la madre ai poveri miei figli:

non manchi loro il pane mai, nŽ il tetto,

nŽ chi li aiuti, nŽ chi li consigli.

 

Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:

aggiungi alla lor vita, o benedetto,

quella che un uomo, non so chi, mĠha tolta.

 

Perdona allĠuomo, che non so; perdona:

se non ha figli, egli non sa, buon Dio . . .

e se ha figlioli, in nome lor perdona.

 

Che sia felice; fagli le vie piane;

dagli oro e nome; dagli anche lĠoblio;

tutto: ma i figli miei mangino il pane.

 

Cos“ dissi in quel lampo senza fine;

Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,

dalla pi grandicella alle piccine.

 

Spariva a gli occhi il mondo fatto vano.

In tutto il mondo pi non era alcuno.

Udii voi soli singhiozzar lontano. -

 

Dice; e pi triste si rinnova il pianto;

pi stridula, pi gelida, pi scura

scroscia la pioggia dentro il camposanto.

 

- No, babbo, vive, vivono - Chi parla?

Voce velata dalla sepoltura,

voce nuova, eppur nota ad ascoltarla,

 

o mio Luigi, o anima compagna!

come ti vedo abbrividire al vento

che ti percuote, allĠacqua che ti bagna!

 

come mutato! sembra che tu sia

un bimbo ignudo, pieno di sgomento,

che chieda, a notte, al canto della via.

 

- Vivono, vive. Non udite in questa

notte una voce querula, argentina,

portata sino a noi dalla tempesta?

 

é la sorella che mor“ lontano,

che in questa notte, povera bambina,

chiama chiama dal poggio di Sogliano.

 

Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi

riccioli qui, tra noi; fuori del nero

chiostro, deĠ sotterranei profondi!

 

UnĠaltra voce tu, fratello, ascolta;

dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero;

in cui, babbo, moristi unĠaltra volta.

 

Parlano i morti. Non  spento il cuore

nŽ chiusi gli occhi a chi mor“ cercando,

a chi non pianse tutto il suo dolore.

 

E or per quanto stridula di vento

ombra ne dividesse, a quando a quando

udrei, come da vivo, il tuo lamento,

 

o mio Giovanni, che vegliai, che ressi,

che curai, che difesi, umile e buono,

e morii senza che rivedessi!

 

Avessi tu provato di quellĠora

ultima il freddo, e or questĠabbandono,

gemendo a noi ti volgeresti ancora.-

 

- Ma se vivete, perchŽ, morti cuori,

solo  la nostra tomba illacrimata,

solo la nostra croce  senza fiori ?-

 

Cos“ singhiozza Giacomo: poi geme:

- Quando sola rest˜ la nid•ata,

Iddio lo sa, come vi crebbi insieme:

 

se con pia legge lĠumili vivande

tra voi divisi, e destinai deĠ pani

il pi piccolo a me chĠero il pi grande;

 

se ribevvi le lagrime ribelli

per non far voi pensosi del domani,

se il pianto piansi in me di sei fratelli;

 

se al sibilar di questi truci venti,

al rombar di questĠacque, io suscitava

la buona fiamma dĠeriche e sarmenti;

 

e io, quando vedea rosso ogni viso,

e pi rossi i pi piccoli, tremava

s“, del mio freddo, ma con un sorriso.

 

Ma non per me, non per me piango; io piango

per questa madre che, tra lĠacqua, spera,

per questo padre che des“a, nel fango;

 

per questi santi, o fratel mio, che vivi;

di cui morendo io ti dicea . . . ma era

grossa la lingua e forse non udivi.-

 

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,

oscura cosa nella notte oscura:

odo quel pianto della tomba, pianto

 

dĠocchi lasciati dalla morte attenti,

pianto di cuori cui la sepoltura lasci˜,

ma solo di dolor, viventi.

 

LĠodo: ora scorre libero: nessuno

pu˜ risvegliarsi, tanto  notte, il vento

 cos“ forte, il cielo  cos“ bruno.

 

Nessuno udrˆ. La povera famiglia

pu˜ piangere. Nessuno, al suo lamento,

pu˜ dire: Altro  mio figlio! altra  mia figlia!

 

Aspettano. Oh! che notte di tempesta

piena dĠun tremulo ululo ferino!

Non sĠode per le vie suono di pesta.

 

Uomini e fiere, in casolari e tane,

tacciono. Tutto  chiuso. Un contadino

socchiude lĠuscio del tugurio al cane.

 

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno

in cerchio, avvolti dallĠassidua romba.

Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

 

I figli morti stanno avvinti al padre

invendicato. Siede in una tomba.

(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

 

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,

e poi furtiva esplora lĠombra. Culla

due bimbi morti sopra i suoi ginocchi.

 

Li culla e piange con quelli occhi suoi,

piange per gli altri morti, e per se nulla,

e piange, o dolce madre! anche per noi;

 

e dice:- Forse non verranno. Ebbene,

pietˆ! Le tue due figlie, o sconsolato,

dicono, ora, in ginocchio, un poĠ di bene.

 

Forse un corredo cuciono, che preme:

per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,

hanno agucchiato sospirando insieme.

 

E solo a notte i poveri occhi smorti

hanno levato, a un gemer di campane;

hanno pensato, invid•ando, ai morti.

 

Ora, in ginocchio, pregano Maria

al suon delle campane, alte, lontane,

per chi qui giunse, e per chi resta in via

 

lˆ; per chi vaga in mezzo alla tempesta,

per chi cammina, cammina, cammina,

e non ha pietra ove posar la testa.

 

Pietˆ pei figli che tu benedivi!

In questa notte che non mai declina,

orate requie, o figli morti, ai vivi!-

O madre! il cielo si riversa in pianto

oscuramente sopra il camposanto.

 

Myricae

arbusta iuvant humilesque myricae

 

DALLĠALBA AL TRAMONTO

 

I

ALBA FESTIVA

 

Che hanno le campane,

che squillano vicine,

che ronzano lontane?

 

EĠ un inno senza fine,

or dĠoro, ora dĠargento,

nellĠombre mattutine.

 

Con un dondolio lento

implori, o voce dĠoro,

nel cielo sonnolento.

 

Tra il cantico sonoro

il tuo tintinno squilla

voce argentina - Adoro,

 

adoro - Dilla, dilla,

la nota dĠoro - LĠonda

pende dal ciel, tranquilla.

 

Ma voce pi profonda

sotto lĠamor rimbomba,

par che al des“o risponda:

 

la voce della tomba.

 

II

SPERANZE E MEMORIE

 

Paranzelle in alto mare

bianche bianche,

io vedeva palpitare

come stanche:

o speranze, ale di sogni

per il mare!

 

Volgo gli occhi; e credo in cielo

rivedere

paranzelle sotto un velo,

nere nere:

o memorie, ombre di sogni

per il cielo!

 

III

SCALPITIO

 

Si sente un galoppo lontano

( la . . . ?),

che viene, che corre nel piano

con tremula rapiditˆ.

 

Un piano deserto, infinito;

tutto ampio, tuttĠarido, eguale:

qualche ombra dĠuccello smarrito,

che scivola simile a strale:

 

non altro. Essi fuggono via

da qualche remoto sfacelo;

ma quale, ma dove egli sia,

non sa nŽ la terra nŽ il cielo.

 

Si sente un galoppo lontano

pi forte,

che viene, che corre nel piano:

la Morte! la Morte! la Morte!

 

IV

IL MORTICINO

 

Non  Pasqua dĠovo?

 

Per oggi contai

di darteli, i piedi.

é Pasqua: non sai?

é Pasqua: non vedi

il cercine novo?

 

Andiamoci, a mimmi,

lontano lontano...

Dan don... Oh! ma dimmi:

non vedi chĠho in mano

il cercine novo,

 

le scarpe dĠavvio?

Sei morto: non vedi,

mio piccolo cieco!

Ma mettile ai piedi,

ma portale teco,

ma diglielo a Dio,

 

che mamma ha filato

sei notti e sei d“,

sudato, vegliato,

per farti, oh! cos“!

le scarpe dĠavvio!

 

V

IL ROSICCHIOLO

 

Per te lĠha serbato, soltanto

per te, povero angiolo; ed eccolo

o pianto!

lo vedi? un rosicchiolo secco.

 

Moriva sul letto di strame;

tu, bimbo, dormivi sicuro.

Che pianto! che fame!

ma cĠera un rosicchiolo duro.

 

Ma ella guardava lunghe ore,

guardava il suo bimbo, e mor“,

di pianto, di fame, dĠamore;

e... guarda! il rosicchiolo  qui.

 

VI

ALLORA

 

Allora...in un tempo assai lunge

felice fui molto; non ora:

ma quanta dolcezza mi giunge

da tanta dolcezza dĠallora!

 

QuellĠanno! per anni che poi

fuggirono, che fuggiranno,

non puoi, mio pensiero, non puoi,

portare con te, che quellĠanno!

 

Un giorno fu quello, chĠ senza

compagno, chĠ senza ritorno;

la vita fu vana parvenza

s“ prima s“ dopo quel giorno!

 

Un punto!... cos“ passeggero,

che in vero pass˜ non raggiunto,

ma bello cos“, che molto ero

felice, felice, quel punto!

 

VII

PATRIA

 

Sogno dĠun d“ dĠestate.

 

Quanto scampanellare

tremulo di cicale!

Stridule pel filare

moveva il maestrale

le foglie accartocciate.

 

Scendea tra gli olmi il sole

in fascie polverose:

erano in ciel due sole

nuvole, tenui, rose:

due bianche spennellate

 

in tutto il ciel turchino.

 

Siepi di melograno,

fratte di tamerice,

il palpito lontano

dĠuna trebb•atrice,

angelus argentino...

 

dovĠero? Le campane

mi dissero dovĠero,

piangendo, mentre un cane

latrava al forestiero,

che andava a capo chino.

 

 VIII

IL NUNZIO

 

Un murmure, un rombo....

 

Son solo: ho la testa

confusa di tetri

pensieri. Mi desta

 

quel murmure ai vetri.

Che brontoli, o bombo?

 

che nuove mi porti?

 

E cadono lĠore

giœ gi, con un lento

gocciare. Nel cuore

lontane risento

parole di morti...

 

Che brontoli, o bombo?

 

che avviene nel mondo?

Silenzio infinito.

Ma insiste profondo,

solingo smarrito,

quel lugubre rombo.

 

IX

LA CUCITRICE

 

LĠalba per la valle nera

sparpagli˜ le greggi bianche:

tornano ora nella sera

e sĠarrampicano stanche:

una stella le conduce.

 

Torna via dalla maestra

la covata, e passa lenta:

cĠ del biondo alla finestra

tra un basilico e una menta:

 Maria che cuce e cuce.

 

Per chi cuci e per che cosa?

un lenzuolo ? un bianco velo ?

Tutto il cielo  color rosa,

rosa e oro, e tutto il cielo

sulla testa le riluce.

 

Alza gli occhi dal lavoro:

una lagrima? un sorriso?

Sotto il cielo rosa e oro,

chini gli occhi, chino il viso,

ella cuce, cuce, cuce.

 

 

X

SERA FESTIVA

 

O mamma, o mammina, hai stirato

la nuova camicia di lino ?

Non cĠera laggi tra il bucato,

sul bossolo o sul biancospino.

Su gli occhi tu tieni le mani. . .

Perch? non lo sai che domani ... ?

din don dan, din don dan.

 

Si parlano i bianchi villaggi

cantando in un lume di rosa:

dallĠombra deĠ monti selvaggi

si sente una romba festosa.

 

Tu tieni a gli orecchi le mani...

tu piangi; ed  festa domani. .

din don dan, din don dan.

 

Tu pensi . . . oh! ricordo: la pieve . . .

quanti anni ora sono ? una sera . .

il bimbo era freddo, di neve;

il bimbo era bianco, di cera:

allora son˜ la campana

(perch non pareva lontana ?)

din don dan, din don dan.

 

Sonavano a festa, come ora,

per lĠangiolo; il nuovo angioletto

nel cielo volava a quellĠora;

ma tu lo volevi al tuo petto,

con noi, nella piccola zana:

gridavi; e lass la campana. . .

din don dan, din don dan.

 

RICORDI

 

I

ROMAGNA

a Severino

 

Sempre un villaggio, sempre una campagna

mi ride al cuore (o piange), Severino:

il paese ove, andando, ci accompagna

lĠazzurra vision di San Marino:

 

sempre mi torna al cuore il mio paese

cui regnarono Guidi e Malatesta,

cui tenne pure il Passator cortese,

re della strada, re della foresta.

 

Lˆ nelle stoppie dove singhiozzando

va la tacchina con lĠaltrui covata,

presso gli stagni lustreggianti, quando

lenta vi guazza lĠanatra iridata,

 

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,

e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,

gettarci lĠurlo che lungi si perde

dentro il meridiano ozio dellĠaie;

 

mentre il villano pone dalle spalle

gobbe la ronca e afferra la scodella,

e Ô1 bue rumina nelle opache stalle

la sua labor•osa lupinella.

 

DaĠ borghi sparsi le campane in tanto

si rincorron coi lor gridi argentini:

chiamano al rezzo, alla quiete, al santo

desco fiorito dĠocchi di bambini.

 

Giˆ mĠaccoglieva in quelle ore bruciate

sotto ombrello di trine una mimosa,

che fioria la mia casa ai d“ dĠestate

coĠ suoi pennacchi di color di rosa;

 

e sĠabbracciava per lo sgretolato

muro un folto rosaio a un gelsomino;

guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,

chiassoso a giorni come un biricchino.

 

Era il mio nido: dove immobilmente,

io galoppava con Guidon Selvaggio

e con Astolfo; o mi vedea presente

lĠimperatore nellĠeremitaggio.

 

E mentre aereo mi poneva in via

con lĠippogrifo pel sognato alone,

o risonava nella stanza mia

muta il dettare di Napoleone;

 

udia tra i fieni allor allor falciati

daĠ grilli il verso che perpetuo trema,

udiva dalle rane dei fossati

un lungo interminabile poema.

 

E lunghi, e interminati, erano quelli

chĠio meditai, mirabili a sognare:

stormir di frondi, cinguettio dĠuccelli,

risa di donne, strepito di mare.

 

Ma da quel nido, rondini tardive,

tutti tutti migrammo un giorno nero;

io, la mia patria or  dove si vive:

gli altri son poco lungi; in cimitero.

 

Cos“ pi non verr˜ per la calura

tra queĠ tuoi polverosi biancospini,

chĠio non ritrovi nella mia verzura

del cuculo oz•oso i piccolini,

 

Romagna solatia, dolce paese,

cui regnarono Guidi e Malatesta;

cui tenne pure il Passator cortese,

re della strada, re della foresta.

 

II

ANNIVERSARIO

 

Sono pi di trentĠanni e di queste ore,

mamma, tu con dolor mĠhai partorito;

ed il mio nuovo piccolo vagito

tĠaddolorava pi del tuo dolore.

 

Poi tra il dolore sempre ed il timore,

o dolce madre, mĠhai di te nutrito:

e quando fui del corpo tuo vestito,

quandĠebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore;

 

allor sei morta; e son ventĠanni: un giorno!

giˆ gli occhi materni io penso a vuoto;

il caro viso giˆ mi si scolora,

 

mamma, e pi non ti so. Ma nel soggiorno

freddo deĠ morti, nel tuo sogno immoto,

tu mĠaccarezzi i riccioli dĠallora.

 

31 di dicembre 1889.

 

 

III

RIO SALTO

 

Lo so: non era nella valle fonda

suon che sĠudia di palafreni andanti:

era lĠacqua che gi dalle stillanti

tegole a furia percotea la gronda.

 

Pur via e via per lĠinfinita sponda

passar vedevo i cavalieri erranti;

scorgevo le corazze luccicanti,

scorgevo lĠombra galoppar sullĠonda.

 

Cessato il vento poi, non di galoppi

il suono udivo, nŽ vedea tremando

fughe remote al dubitoso lume;

 

ma voi solo vedevo, amici pioppi!

Brusivano soave tentennando

lungo la sponda del mio dolce fiume.

 

IV

IL MANIERO

 

Te sovente, o tra boschi arduo maniero,

popolai di baroni e di vassalli,

mentre i falchetti udia squittio suĠ gialli

merli e radendo il baluardo nero.

 

Pei vetri un lume trascorrea leggiero,

e nitrivano fervidi i cavalli:

a uno squillo che uscia gi dalle valli,

apria le imposte il maggiordomo austero;

 

e nel fosso stridea la fragorosa

saracinesca. Or tu, canto divino,

sceso con lĠombre nel mio cuor cadenti,

 

dove sei? Di tramonti, ora, pensosa,

lˆ sur un torvo giogo dĠApennino

qualchĠelce nera lo ripete ai venti.

 

 

 

 

 

 

 

V

IL BOSCO

 

O vecchio bosco pieno dĠalbatrelli,

che sai di funghi e spiri la mal“a,

cui tutto io giˆ scampanellare udia

di cicale invisibili e dĠuccelli:

 

in te vivono i fauni ridarelli

chĠhanno le sussurranti aure in bal“a;

vive la ninfa, e i passi lenti spia,

bionda tra le interrotte ombre i capelli.

 

Di ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia

or s“ or no, che se il desio le vinca,

lĠocchio alcuna ne attinge, e il sol le bacia.

 

Dileguano; e pur viva  la boscaglia,

viva sempre neĠ fior della pervinca

e nelle grandi ciocche dellĠacacia.

 

VI

IL FONTE

 

Mentre con lieve strepito perenne

geme tra il caprifoglio una fontana,

trema un trotto tranquillo, e sĠallontana

per le fatate rilucenti Ardenne.

 

Qui pont˜ i piedi e sĠalz˜ sulle penne

quellĠIppogrifo, qui stall˜ lĠAlfana:

Brigliadoro dallĠIndia Sericana

in questo trebbio il lungo error sostenne:

 

che qui lĠabbeverava il paladino,

e meditava al mormorio del fonte

senza piegar la ferrea persona:

 

poi segu“ la sua corsa e il suo destino;

cos“ che intorno per la valle e il monte

ancor la notte il trotto ne rintrona.

 

 

 

 

 

VII

ANNIVERSARIO

 

Sappi—e forse lo sai, nel camposanto—

la bimba dalle lunghe anella dĠoro,

e lĠaltra che fu lĠultimo tuo pianto,

sappi chĠio le raccolsi e che le adoro.

 

Per lor ripresi il mio coraggio affranto,

e mi detersi lĠanima per loro:

hanno un tetto, hanno un nido, ora, mio vanto;

e lĠamor mio le nutre e il mio lavoro.

 

Non son felici, sappi, ma serene:

il lor sorriso ha una tristezza pia:

io le guardo—o mia sola erma famiglia !—

 

sempre a gli occhi sento che mi viene

quella che ti bagn˜ nellĠagonia

non terminata lagrima le ciglia.

 

31 di dicembre 1890.

 

VIII

I PUFFINI DELLĠADRIATICO

 

Tra cielo e mare (un rigo di carmino

recide intorno lĠacque marezzate)

parlano. é unĠalba cerula dĠestate:

non una randa in tutto quel turchino.

 

Pur voci reca il soffio del garbino

con oz•ose e tremule risate.

Sono i puffini: su le mute ondate

pende quel chiacchiericcio mattutino.

 

Sembra un vociare, per la calma, fioco,

di marinai, chĠad ora ad ora giunga

tra Ôl fievole sciacqu“o della risacca;

 

quando, stagliate dentro lĠoro e il fuoco,

le paranzelle in una riga lunga

dondolano sul mar liscio di lacca.

 

 

 

 

IX

CAVALLINO

 

O bel clivo fiorito Cavallino

chĠio varcai coĠ leggiadri eguali a schiera

al mio bel tempo; chi sa dir se lĠera

dĠolmo la tua parlante ombra o di pino?

 

Era busso ricciuto o biancospino,

da cui dorata trasparia la sera?

CĠ un campanile tra una selva nera,

che canta, bianco, lĠinno mattutino?

 

Non so: chŽ quando a te sĠappressa il vano

desio, per entro il cielo fuggitivo

te vedo incerta vis•on fluire.

 

So chĠor sembri il paese allor lontano

lontano, che dal tuo fiorito clivo

io rimirai nel limpido avvenire.

 

X

LE MONACHE Dl SOGLIANO

 

Dal profondo geme lĠorgano

tra Ôl fumar deĠ cerei lento:

cĠ un brusio cupo di femmine

nella chiesa del convento:

 

un vegliardo austero mormora

dallĠaltar suoi brevi appelli:

dietro questi sĠacciabattano

delle donne i ritornelli.

 

Ma di mezzo a un lungo gemito,

da invisibile cortina,

sĠalza a vol secura ed agile

una voce di bambina;

 

e dintorno a questa ronzano,

tutte a volo, unite e strette,

e la seguono e rincorrono,

voci dĠaltre giovinette.

 

Per noi prega, o santa Vergine,

per noi prega, o Madre pia;

per noi prega, esse ripetono,

o Maria! Maria! Maria!

 

Quali note! Par che tinnino

nellĠinfrangersi del cuore:

paion umide di lagrime,

paion ebbre di dolore.

 

Oh! qual colpa macchi˜ lĠanima

di codeste prigioniere?

qual dolor potŽ precorrervi

la fiorita del piacere?

 

Queste bimbe, queste vergini

che offesero Dio santo,

che perd˜no ne sospirano

con s“ lungo inno di pianto?

 

Manda lĠorgano i suoi gemiti

traĠl fumar deĠ cerei lento:

di lontane plaghe sembrano

cupe e fredde onde di vento...

 

Dalle plaghe inaccessibili

cupo e freddo il vento romba:

giˆ sottentra ai lunghi gemiti

il silenzio della tomba.

 

XI

IL SANTUARIO

 

Come unĠarca dĠaromi oltremarini,

il santuario, a mezzo la scogliera,

esala ancora lĠinno e la preghiera

tra i lunghi intercolunnii deĠ pini;

 

e trema ancor deĠ palpiti divini

che lĠhanno scosso nella dolce sera,

quando dalla grandĠabside severa

uscia lĠincenso in fiocchi cilestrini.

 

SĠincurva in una luminosa arcata

il ciel sovrĠesso: alle colline estreme

il Carro e fermo e spia lĠombra che sale.

 

Sale con lĠombra il suon dĠuna cascata

che grave nel silenzio sacro geme

con un sospiro eternamente uguale.

 

XII

ANNIVERSARIO

 

Giˆ li vedevo gli occhi tuoi, soavi

seguirmi sempre per il mio cammino,

chinarsi mesti sul mio capo chino,

volgersi, al mio dubbiar, dubbiosi e gravi.

 

Come col dolor tuo mi consolavi,

come, o cuore vivente oltre il destino!

come al tuo collo ti tornai bambino

piangendo il pianto che su me versavi!

 

Or che rivivo alfine, or che trovai

ah! le due parti del tuo cuore infranto,

ora quellĠocchio pi che mai materno...

 

No: tu con gli altri, al freddo, allĠacqua, stai,

con gli altri, solitari in camposanto,

in questa sera torbida dĠinverno.

 

31 di dicembre 1891.

 

PENSIERI

 

I

TRE VERSI DELLĠASCREO

 

ÒNon di perenni fiumi passar lĠonda,

che tu non preghi volto alla corrente

pura, e le mani tuffi nella monda

acqua lucenteÓ

 

dice il poeta. E cos“ guarda, o saggio,

tu nel dolore, cupo fiume errante:

passa, e le mani reca dal passaggio

sempre pi sante...

 

II

I TRE GRAPPOLI

 

Ha tre, Giacinto, grappoli la vite.

Bevi del primo il limpido piacere;

bevi dellĠaltro lĠoblio breve e mite;

e... pi non bere:

 

ch sonno  il terzo, e con lo sguardo acuto

nel nero sonno vigila, da un canto,

sappi, il dolore; e alto grida un muto

pianto giˆ pianto.

 

III

SAPIENZA

 

Sal“ pensoso la romita altura

ove ha il suo nido lĠaquila e il torrente,

e centro della lontananza oscura

sta, sap•ente.

 

Oh! scruta intorno glĠignorati abissi:

pi ti va lungi lĠocchio del pensiero,

pi presso viene quello che tu fissi:

ombra e mistero.

 

IV

CUORE E CIELO

 

Nel cuor dove ogni vis•on sĠimmilla,

e spazio al cielo ed alla terra avanza,

talor si spenge un desiderio, e brilla

una speranza:

 

come nel cielo, oceano profondo,

dove ascendendo il pensier nostro annega,

tramonta unĠAlfa, e pullula dal fondo

cupo unĠOmega.

 

V

MORTE E SOLE

 

Fissa la morte: costellaz•one

lugubre che in un cielo nero brilla:

breve parola, chiara vis•one:

leggi, o pupilla.

 

Non puoi. Cos“, se fissi mai lĠimmoto

astro nei cieli solitari ardente,

se guardi il sole, occhio, che vedi ? Un v˜to

vortice, un niente.

 

 

 

 

 

VI

PIANTO

 

Pi bello il fiore cui la pioggia estiva

lascia una stilla dove il sol si frange;

pi bello il bacio che dĠun raggio avviva

occhio che piange.

 

VII

CONVIVIO

 

O convitato della vita,  lĠora.

Brillino rossi i calici di vino;

tu nŽ bramoso pi, nŽ sazio ancora,

lascia il festino.

 

Splendano dĠaurea luce i lampadari,

fragri la rosa e il timo dellĠImetto,

sorrida in cerchio tuttavia di cari

capi il banchetto:

 

tu sorgi e... Triste, su la mensa ingombra,

delle morenti lampade lo svolo

lugubre lungo! triste errar nellĠombra,

ultimo, solo!

 

VIII

IL PASSATO

 

Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto:

un sorriso mi sembra ora quel pianto.

Rivedo i luoghi, dove ho giˆ sorriso...

Oh! come lacrimoso quel sorriso!

 

IX

TRA IL DOLORE E LA GIOIA

 

Vidi il mio sogno sopra il monte in cima;

era una striscia pallida; coĠ suoi

boschi dĠun verde quale mai nŽ prima

vidi nŽ poi.

 

Prima, il sonante nembo coi velari,

tutto ascondeva, delle nubi nere:

poi, tutto il sole disvel˜ del pari

bello a vedere.

 

Ma quel mio sogno al raggio dĠunĠaurora

nuova mĠapparve e sparve in un baleno,

che il ciel non era torbo pi nŽ ancora

tutto sereno.

 

X

NEL CUORE UMANO

 

Non ammirare, se in un cuor non basso,

cui tu rivolga a prova, un pungiglione

senti improvviso: cĠ sottĠogni sasso

lo scorp•one.

 

Non ammirare, se in un cuor concesso

al male, senti a quando a quando un grido

buono, un palpito santo: ogni cipresso

porta il suo nido.

 

 

 

CREATURE

 

I

FIDES

 

Quando brillava il vespero vermiglio,

e il cipresso pareva oro, oro fino,

la madre disse al piccoletto figlio:

Cos“ fatto  lass tutto un giardino.

 

Il bimbo dorme, e sogna i rami dĠoro,

gli alberi dĠoro, le foreste dĠoro;

mentre il cipresso nella notte nera

scagliasi al vento, piange alla bufera.

 

II

CEPPO

 

é mezzanotte. Nevica. Alla pieve

suonano a doppio; suonano lĠentrata.

Va la Madonna bianca tra la neve:

spinge una porta; lĠapre: era accostata.

Entra nella capanna: la cucina

e piena dĠun sentor di medicina.

Un bricco al fuoco sĠode borbottare:

piccolo il ceppo brucia al focolare.

 

Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.

Gesu trema; Maria si accosta al fuoco.

Ma ecco un suono, un rantolo che viene

di su, sempre pi fievole e pi roco.

Il bricco versa e sfrigge: la campana,

col vento, or sĠavvicina, or sĠallontana.

La Madonna, con una mano al cuore,

geme: Una mamma, figlio mio, che muore!

 

E piano piano, col suo bimbo fiso

nel ceppo, torna allĠuscio, apre, sĠavvia.

Il ceppo sbracia e crepita improvviso,

il bricco versa e sfrigola via via:

quel rantolo...  finito. O Maria stanca!

bianca tu passi tra la neve bianca.

Suona dĠintorno il doppio dellĠentrata:

voce velata, malata, sognata.

 

III

MORTO

 

Manina chiusa, che nel sonno grande

stringi qualcosa, dimmi cosa ci hai!

Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande:

quello che stringe, niuno saprˆ mai.

 

Te lĠha portato lĠAngelo, il suo dono:

nel sonno, sempre lo stringevi, un dono.

La notte cĠera, non cĠera il mattino.

Questo ti resterˆ. Dormi, bambino.

 

IV

ORFANO

 

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.

Senti: una zana dondola pian piano.

Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;

canta una vecchia, il mento sulla mano.

 

La vecchia canta: Intorno al tuo lettino

cĠ rose e gigli, tutto un bel giardino.

Nel bel giardino il bimbo sĠaddormenta.

La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

 

 

 

V

ABBANDONATO

 

Nella soffitta  solo,  nudo, muore.

Stille su stille gemono dal tetto.

 

Gli dice il Santo—Ancora un poĠ; faĠ cuore—

Mormora—Il pane;  tanto che lĠaspetto—

 

LĠAngelo dice—or viene il Salvatore—

Sospira—un panno pel mio freddo letto—

 

Maria dice—é finito il tuo dolore!—

—oh! mamma io voglio, e dormire al suo petto—

 

Lagrima a goccia a goccia la bufera

nella soffitta. Il Santo veglia, assiso;

 

lĠAngelo guarda, smorto come cera;

la Vergine Maria piange un sorriso.

 

Tace il bambino, aspetta sino a sera,

allĠuscio guarda, coi grandi occhi, fiso.

 

La notte cade, lĠombra si fa nera;

egli va, desolato, in Paradiso.

 

 

LA CIVETTA

 

Stavano neri al lume della luna

gli erti cipressi, guglie di basalto,

quando tra lĠombre svol˜ rapida una

ombra dallĠalto:

 

orma sognata dĠun volar di piume,

orma di un soffio molle di velluto,

che pass˜ lĠombre e scivol˜ nel lume

pallido e muto;

 

ed i cipressi sul deserto lido

stavano come un nero colonnato,

rigidi, ognuno con tra i rami un nido

addormentato.

 

E sopra tanta vita addormentata

dentro i cipressi, in mezzo alla brughiera

sonare, ecco, una stridula risata

di fattucchiera:

 

una minaccia stridula seguita,

forse, da brevi pigolii sommessi,

dal palpitar di tutta quella vita

dentro i cipressi.

 

Morte, che passi per il ciel profondo,

passi con ali molli come fiato,

con gli occhi aperti sopra il triste mondo

addormentato;

 

Morte, lo squillo acuto del tuo riso

unico muove lĠombra che ci occulta

silenz•osa, e, desta allĠimprovviso

squillo, sussulta;

 

e quando taci, e par che tutto dorma

nel cipresseto, trema ancora il nido

dĠogni vivente: ancor, nellĠaria, lĠorma

cĠ del tuo grido.

 

LE PENE DEL POETA

 

I

I DUE FUCHI

 

Tu poeta, nel torbido universo

tĠaffisi, tu per noi lo cogli e chiudi

in lucida parola e dolce verso;

 

si chĠopera  di te ci˜ che lĠuom sente

tra lĠombre vane, tra gli spettri nudi.

Or qual nĠhai grazia tu presso la gente?

 

Due fuchi udii ronzare sotto un moro.

Fanno queste api quel lor miele (il primo

diceva) e niente pi: beate loro!

E lĠaltro: E poi fa afa: troppo timo!

 

II

IL CACCIATORE

 

Frulla un tratto lĠidea nellĠaria immota;

canta nel cielo. Il cacciator la vede,

lĠode; la segue: il cuor dentro gli nuota.

 

Se poi col dardo, come fil di sole

lucido e retto, bˆttesela al piede,

oh il poeta! gioiva; ora si duole.

 

Deh! gola dĠoro e occhi di berilli,

piccoletta del cielo alto sirena,

ecco, tu pi non voli, pi non brilli,

pi non canti: e non basti alla mia cena.

 

III

IL LAURO

 

NellĠorto, a Massa - o blocchi di turchese,

alpi Apuane ! o lunghi intagli azzurri

nel celestino, allĠorlo del paese!

 

un odorato e lucido verziere

pieno di frulli, pieno di sussurri,

pieno deĠ flauti delle capinere.

 

NellĠaie acuta la magnolia odora,

lustra lĠarancio popolato dĠoro -

io, quando al Belvedere era lĠaurora,

venivo al piede dĠuno snello alloro.

 

Sorgeva presso il vecchio muro, presso

il vecchio busto dĠun imperatore,

col tronco svelto come di cipresso.

 

Slanciato avanti, sopra il muro, al sole

dava la chioma. Intorno era un odore,

sottil, di vecchio, e forse di v•ole.

 

Io sognava: una corsa lungo il puro

Frigido, lĠoro di capelli sparsi,

una fanciulla . . . Ancora al vecchio muro

tremava il lauro che parea slanciarsi.

 

UnĠalba - si sentia di due fringuelli

chiaro il francesco mio: la capinera

giˆ desta squittin“a di tra i piselli -

 

tu pi non cĠeri, o vergine fugace:

netto il pedale era tagliato: vĠera

quel vecchio odore e quella vecchia pace:

 

il lauro, no. Sarchiava l“ vicino

Fiore, un ragazzo pieno di bontˆ.

Gli domandai del lauro; e Fiore, chino

sopra il sarchiello: Faceva ombra, sa!

 

E mĠaccennavi un campo glauco, o Fiore,

di cavolo cappuccio e cavolfiore.

 

IV

LE FEMMINELLE

 

E dice la rosa alba: oh! chi mi svelle?

Son mesta come un colchico: dal ciocco

tanto mi germin˜ di femminelle!

 

Erano come punte tenerine

di sparagio: poi fecero lo stocco;

buttano anchĠesse e sĠarmano di spine.

 

Vivono deĠ miei fiori color dĠalba,

dĠalba rosata; e tu non giovi, o ruta.

Mettono un boccio: una corolla scialba,

subito aperta, subito caduta.

 

 

LĠULTIMA PASSEGGIATA

 

I

ARANO

 

Al campo, dove roggio nel filare

qualche pampano brilla, e dalle fratte

sembra la nebbia mattinal fumare,

 

arano: a lente grida, uno le lente

vacche spinge; altri semina; un ribatte

le porche con sua marra paz•ente;

 

chŽ il passero saputo in cor giˆ gode,

e il tutto spia dai rami irti del moro;

e il pettirosso: nelle siepi sĠode

il suo sottil tintinno come dĠoro.

 

 

 

 

 

 

II

DI LASSô

 

La lodola perduta nellĠaurora

si spazia, e di lass canta alla villa,

che un fil di fumo qua e lˆ vapora;

 

di lass largamente bruni farsi

i solchi mira quella sua pupilla

lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi.

 

Qualche zolla nel campo umido e nero

luccica al sole, netta come specchio:

fa il villano mannelle in suo pensiero,

e il canto del cuculo ha nellĠorecchio.

 

III

GALLINE

 

Al cader delle foglie, alla massaia

non piange il vecchio cor, come a noi grami:

che dĠarguti galletti ha piena lĠaia;

 

e spessi nella pace del mattino

delle utili galline ode i richiami:

zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.

 

Cantano a sera intorno a lei stornelli

le fiorenti ragazze occhi pensosi,

mentre il granturco sfogliano, e i monelli

ruzzano nei cartocci strepitosi.

 

IV

LAVANDARE

 

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero

resta un aratro senza buoi che pare

dimenticato, tra il vapor leggero.

 

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare

con tonfi spessi e lunghe cantilene:

 

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

quando partisti, come son rimasta!

come lĠaratro in mezzo alla maggese.

 

V

I DUE BIMBI

 

I due bimbi si rizzano: uno, a stento,

indolenzito; grave, lĠaltro: il primo

alza il corbello con un gesto lento;

 

e in quel dellĠaltro fa cader, bel bello,

il suo tesoro dĠaccattato fimo:

e quello va pi carico e pi snello.

 

Il vinto siede, prova unĠaltra volta

coi noccioli, li sperpera, li aduna,

e dice (forse al grande olmo che ascolta?):

E poi si dica che non ha fortuna! 

 

VI

LA VIA FERRATA

 

Tra gli argini su cui mucche tranquilla-

mente pascono, bruna si difila

la via ferrata che lontano brilla;

 

e nel cielo di perla dritti, uguali,

con loro trama delle aeree fila

digradano in fuggente ordine i pali.

 

Qual di gemiti e dĠululi rombando

cresce e dilegua femminil lamento?

I fili di metallo a quando a quando

squillano, immensa arpa sonora, al vento.

 

VII

FESTA LONTANA

 

Un piccolo infinito scampando

ne ronza e vibra, come dĠuna festa

assai lontana, dietro un vel dĠoblio.

 

Lˆ, quando ondando vanno le campane,

scoprono i vecchi per la via la testa

bianca, e lo sguardo al suoi fisso rimane.

 

Ma tondi gli occhi sgranano i bimbetti,

cui trema intorno il loro ciel sereno.

Strillano al crepitar deĠ mortaretti.

Mamma li stringe allĠodorato seno.

 

VIII

QUEL GIORNO

 

Dopo rissosi cinguett“i nellĠaria,

le rondini lasciato hanno i veroni

della Cura fra gli olmi solitaria.

 

Quanti quel roseo campanil bisbigli

ud“, quel giorno, o strilli di rondoni

impaz•enti a glĠinqu•eti figli!

 

Or nel silenzio del meriggio urtare

lˆ dentro odo una seggiola, una gonna

frusciar dĠun tratto: alla finestra appare

cur•oso un gentil viso di donna.

 

IX

MEZZOGIORNO

 

LĠosteria della Pergola  in faccende:

piena  di grida, di brusio, di sordi

tonfi; il camin fumante a tratti splende.

 

Sulla soglia, tra il nembo degli odori

pingui, un mendico brontola: Altri tordi

cĠera una volta, e altri cacciatori.

 

Dice, e il cor sĠ beato. Mezzogiorno

dal villaggio a rintocchi lenti squilla;

e dai remoti campanili intorno

unĠondata di riso empie la villa.

 

X

GIAĠ DALLA MATTINA

 

Acqua, rimbomba; dondola, cassetta;

gira, coperchio, intorno la bronzina;

versa, tramoggia, il gran dalla bocchetta;

 

spolvero, svola. Nero da una fratta

lĠasino attende giˆ dalla mattina

presso la risonante cateratta.

 

Le orecchie scrolla e volgesi a guardare

chŽ tardi, tra finire, andar bel bello,

intridere, spianare ed infornare,

sul desco fumerai, pan di cruschello.

 

XI

CARRETTIERE

 

O carrettiere che dai neri monti

vieni tranquillo, e fosti nella notte

sotto ardue rupi, sopra aerei ponti;

 

che mai diceva il querulo aquilone

che muggia nelle forre e fra le grotte?

Ma tu dormivi sopra il tuo carbone.

 

A mano a mano lungo lo stradale

ven“a fischiando un soffio di procella:

ma tu sognavi chĠera di natale;

udivi i suoni dĠuna cennamella.

 

XII

IN CAPANNELLO

 

Cigola il lungo e tremulo cancello

la via sbarra: ritte allo steccato

cianciano le comari in capannello:

 

parlan dĠuno chĠ un altro scrivo scrivo;

del vin che costa un occhio, e ce nĠ stato;

del governo; di questo mal cattivo;

 

del piccino; del grande chĠ sui venti;

del maiale, che mangia e non ingrassa -

Nero avanti a quelli occhi indifferenti

il traino con fragore di tuon passa.

 

XIII

IL CANE

 

Noi mentre il mondo va per la sua strada,

noi ci rodiamo, e in cuor doppio  lĠaffanno,

e perch vada, e perch lento vada.

 

Tal, quando passa il grave carro avanti

del casolare, che il rozzon normanno

stampa il suolo con zoccoli sonanti,

 

sbuca il can dalla fratta, come il vento;

lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia.

Il carro  dilungato lento lento.

Il cane torna sternutando allĠaia.

 

XIV

O REGINELLA

 

Non trasandata ti cre˜ per vero

la cara madre: tal, lungo la via,

tela albeggia, onde godi in tuo pensiero:

 

presso  la festa, e ognuno a te domanda

candidi i lini, poi che in tua bal“a

 il cassone odorato di lavanda.

 

Felici i vecchi tuoi; felici ancora

i tuoi fratelli; e pi, quando a te piaccia,

chi sua ti porti nella sua dimora,

o reginella dalle bianche braccia.

 

XV

TI CHIAMA

 

Quella sera i tuoi vecchi (odi? ti chiama

la cara madre: al fumo della bruna

pentola, con irrequieta brama,

 

rissano i bimbi: frena tu, severa,

quinci una mano trepida, quindi una

stridula bocca, e al piccol volgo impera;

 

s“ che in pace, tra un grande acciottol“o,

bruchi la sussurrante famigliola),

quella notte i tuoi vecchi un dolor pio

soffocheranno contro le lenzuola.

 

XVI

O VANO SOGNO

 

Al camino, ove scoppia la mortella

tra la stipa, o chĠio sogno, o veglio teco:

mangio teco radicchio e pimpinella.

 

Al soffiar delle raffiche sonanti,

lĠaulente fieno sul forcon mĠarreco,

e visito i miei dolci ruminanti:

 

poi salgo, e teco - O vano sogno! Quando

nella macchia fiorisce il pan porcino,

lo scolaro i suoi divi ozi lasciando

spolvera il bad•ale calepino:

chioccola il merlo, fischia il beccaccino;

anchĠio torno a cantare in mio latino.

 

 

DIALOGO

 

Scilp: i passeri neri su lo spalto

corrono, molleggiando. Il terren sollo

rade la rondine e vanisce in alto:

 

vitt. . . videvitt. Per gli uni il casolare,

lĠaia, il pagliaio con lĠaereo stollo;

ma per l altra il suo cielo ed il suo mare.

 

Questa, se gli olmi ingiallano la frasca,

cerca i palmizi di Gerusalemme:

quelli, allor che la foglia ultima casca,

restano ad aspettar le prime gemme.

 

Dib dib bilp bilp: e per le nebbie rare,

quando alla prima languida dolciura

lĠolmo giˆ sogna di rigermogliare,

 

lasciano a branchi la cittˆ sonora

e vanno, come per la mietitura,

alla campagna, dove si lavora.

 

Dopo sementa, presso lĠabituro

il casereccio passero rimane;

e dal pagliaio, dentro il cielo oscuro

saluta le migranti oche lontane.

 

Fischia un grecale gelido, che rade:

copre un tendone i monti solitari:

a notte il vento rugge, urla: poi cade.

 

E tutto  bianco e tacito al mattino:

nuovo: e dai bianchi e muti casolari

il fumo sbalza, qua e lˆ turchino.

 

La neve! (Videvitt: la neve? il gelo?

ei di voi, rondini, ride:

bianco in terra, nero in cielo

vĠ di voi chi vide . . . vide . . . videvitt?)

 

La neve! Allora, poi che il cibo manca,

alla cittˆ dai mille campanili

scendono, alla cittˆ fumida e bianca;

a mendicare. Dalla lor grondaia

spiano nelle chiostre e nei cortili

la granata o il grembiul della massaia.

 

Tornano quindi ai campi, a seminare

veccia e saggina coi villani scalzi,

e - videvitt - venuta dĠoltremare

trovano te che scivoli, che sbalzi,

 

rondine, e canti; ma non sai la gioia

-scilp- della neve, il giorno che dimoia.

 

 

NOZZE

a G.V

 

Dava moglie la Rana al suo figliolo.

Or con la pace vostra, o raganelle,

suon lo chiese ad un cantor del brolo.

 

Egli cant˜: la cobbola giuliva

parve un picchierellar trito di stelle

nel ciel di sera, che ne tintinniva.

 

Le campagne addolc“ quel tintinnio

e i neri boschi fumiganti dĠoro.

ti˜ ti˜ ti˜ ti˜ ti˜ ti˜ ti˜ ti˜ ti˜

torotorotorotorot’x

torotorotorotorolilil’x

 

é notte: ancora in un albor di neve

sale questĠinno come uno zampillo;

quando la Rana chiede, quanto deve:

 

se quattro chioccioline, o qualche foglia

dĠappio o voglia un mazzuolo di serpillo,

o voglia un paio di bachi, o ci˜ che voglia.

 

Oh! risposĠegli: nulla al Rosignolo,

nulla tu devi delle sue cantate:

ei lĠha per nulla e dˆ per nulla: solo,

si lĠascoltate e poi non gracidate.

 

Al lume della luna ogni ranocchia

gracid˜: Quanta spocchia, quanta spocchia!

 

LE GIOIE DEL POETA

 

I

IL MAGO

 

ÒRose al verziere, rondini al verone!Ó

 

Dice, e lĠaria alle sue dolci parole

sibila dĠali, e lĠirta siepe fiora.

Altro il savio potrebbe; altro non vuole;

pago se il ciel gli canta e il suol gli odora;

suoi. nunzi manda alla nativa aurora,

a biondi capi intreccia sue corone.

 

II

IL MIRACOLO

 

Vedeste, al tocco suo, morte pupille!

Vedeste in cielo bianchi lastricati

con macchie azzurre tra le lastre rare;

 

bianche le fratte, bianchi erano i prati,

queto fumava un bianco casolare,

sfogliava il mandorlo ali di farfalle.

 

Vedeste lĠerba lucido tappeto,

e sulle pietre il musco smeraldino;

tremava il verde ciuffo del canneto,

sbocciava la ninfea nellĠacquitrino,

tra rane verdi e verdi raganelle.

 

Vedeste azzurro scendere il ruscello

fuori dei monti, fuor delle foreste,

e quelle creste, aereo castello,

tagliare in cielo un lembo piu celeste:

era colore di viola il colle.

 

Vedeste in mezzo a nuvole di cloro

rossa raggiar la fuga deĠ palazzi

lungo la ripa, ed il tramonto dĠoro

dalle vetrate vaporare a sprazzi,

a larghi fasci, a tremule scintille.

 

Dormono i corvi dentro i lecci oscuri

qualche fiaccola va pei cimiteri;

dentro i palazzi, dentro gli abituri,

al buio, accanto ai grandi letti neri,

dormono nere e piccole le culle.

 

III

IN ALTO

 

Nel ciel dorato rotano i rondoni.

 

Avessi al cor, come ali, cos“ lena!

Pur lĠamerei la negra terra infida,

 

sol per la gioia di toccarla appena,

fendendo al ciel non senza acute strida.

Ora quel cielo sembra che mĠirrida,

mentre vado cos“, grondon grondoni.

 

IV

GLORIA

 

-Al santo monte non verrai, Belacqua?-

 

Io non verr˜: lĠandare in su che porta?

Lungi  la Gloria, e piedi e mani vuole;

e lˆ non sĠapre che al pregar la porta,

 

e qui star dietro il sasso a me non duole,

ed ascoltare le cicale al sole,

e le rane che gracidano, Acqua acqua!

 

V

CONTRASTO

 

I

 

Io prendo un poĠ di silice e di quarzo:

lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:

veĠ la fiala come un d“ di marzo,

azzurra e grigia, torbida e serena!

Un cielo io faccio con un poĠ di rena

e un poĠ di fiato. Ammira: io son lĠartista.

 

II

 

Io vo per via guardando e riguardando,

solo, soletto, muto, a capo chino:

prendo un sasso, tra mille, a quando a quando:

lo netto, arroto, taglio, lustro, affino:

chi mi sia, non importa: ecco un rubino;

vedi un topazio; prendi unĠametista.

 

VI

LA VITE E IL CAVOLO

 

Dal glauco e pingue cavolo si toglie

e fugge allĠolmo la pampinea vite,

ed a sŽ, tra le branche inaridite,

tira il puniceo strascico di foglie.

 

Pace, o pampinea vite ! Aureo sĠaccoglie

il sol nel lungo tuo grappolo mite;

aurea la gioia, e dentro le brunite

coppe ogni cura in razzi dĠoro scioglie.

 

Ma, nobil vite, alcuna gloria  spesso

pur di quel gramo, se per lui lĠoscuro

paiol borbotta con suo lieve scrollo;

 

e il core allegra al pio villan, che dĠesso

trova odorato il tiepido abituro,

mentre aĠ fumanti buoi libera il collo.

 

 

FINESTRA ILLUMINATA

 

I

MEZZANOTTE

                    a A. B.

 

Otto... nove... anche un tocco: e lenta scorre

lĠora; ed un altro... un altro. Uggiola un cane.

Un chi singhiozza da non so qual torre.

 

é mezzanotte. Un doppio suon di pesta

sĠode, che passa. CĠ per vie lontane

un rotol“o di carri che sĠarresta

 

di colpo. Tutto  chiuso, senza forme,

senza colori, senza vita. Brilla,

sola nel mezzo alla cittˆ che dorme,

una finestra, come una pupilla

 

II

UN GATTO NERO

 

aperta. Uomo che vegli nella stanza

illuminata, chi ti fa vegliare?

dolore antico o giovine speranza?

 

Tu cerchi un Vero. Il tuo pensier somiglia

un mare immenso: nellĠimmenso mare,

una conchiglia; dentro la conchiglia,

 

una perla: la vuoi. Vecchio, un gran bosco

nevato, ai primi languidi scirocchi,

per la tua faccia. Un gatto nero, un fosco

viso di sfinge, tĠapre i suoi verdi occhi...

 

III

DOPO?

 

Forse  una buona vedova. . . QuandĠella

facea lĠimbastitura e il sopramano,

venne il suo bimbo e chiese la novella.

 

Venne ai suoi piedi: ella cont˜ del Topo,

del Mago . . . Alla costura, egli, pian piano,

lĠultima volta le sussurr˜, Dopo?

 

Dopo tanto, cĠ sempre qualche occhiello.

Il topo  morto, sĠ smarrito il mago.

Il bimbo dorme sopra lo sgabello,

tra le ginocchia, al ticchettio dellĠago.

 

IV

UN RUMORE . . .

 

Una fanciulla. . . La tua mano vola

sopra la carta stridula: sĠimpenna:

gli occhi cercano intorno una parola.

 

E la parola te la dˆ la muta

lampada che sussulta: onde la penna

la via riprende scricchiolando arguta.

 

St! un rumore . . . ai labbri ti si porta

la penna, un piede dondola . . . Che cosa?

Nulla: un tarlo, un brandir lieve di porta . .

Oh! mamma dorme, e sogna . . . che sei sposa.

 

V

POVERO DONO

 

Getta quellĠarma che tĠincanta. Spera

lĠultima volta. Aspetta ancora, aspetta

che il gallo canti per la cittˆ nera.

 

Il gallo canta, fuggono le larve.

Fuggirˆ, fuggirˆ la maledetta

maga che con fatali occhi tĠapparve.

 

Verrˆ tua madre morta, col suo mesto

viso, col mormor“o della sua prece. . .

ti pregherˆ che tu lo serbi questo

povero dono chĠella un d“ ti fece!

 

VI

UN RONDINOTTO

 

é ben altro. Alle prese col destino

veglia un ragazzo che con gesti rari

fila un suo lungo penso di latino.

 

Il capo ad ora ad ora egli solleva

dalla catasta dei vocabolari,

come un galletto garrulo che beva.

 

Povero bimbo! di tra i libri via

appare il bruno capo tuo, scompare;

come dĠun rondinotto, quando spia

se torna mamma e porta le zanzare.

 

VII

SOGNO DĠOMBRA

 

Rantolo dĠavo, rantolo dĠinfante.

Par lĠuno il cigol“o dĠun abbaino

a cui percuota lĠaquilone errante:

 

lĠaltro e come a fior dĠacqua un improvviso

vanir di bolla, donde un cerchiolino

sĠapre ogni volta e scivola nel viso.

 

Vissero. Quanto? le pupille fisse

chiedono. Uno la gente di sua gente

vide; lĠaltro, non sŽ. Ma lĠuno visse

quello che lĠaltro: un sogno dĠombra, un niente.

 

VIII

MISTERO

 

Vergine . . . bianca sopra il bianco letto,

ti prese il sonno a mezzo la preghiera?

Tu hai le mani in croce sopra il petto.

 

Ti prese tra i due ceri e le corone

quel sonno? in mezzo agli Ave della sera?

Tu dici ancora quella oraz•one.

 

Tieni il rosario tra le mani pie.

Non muove i labbri un tremito leggiero?

Ma non scorrono pi le avemarie,

e tu contemplerai sempre un mistero.

 

IX

VAGITO

 

Mammina . . . bianca sopra il letto bianco

tu dormi. Chi sul volto ti compose

quel dolor pago e quel sorriso stanco ?

 

Tu dormi: intorno al languido origliere

tutto biancheggia. Intorno a te le cose

fanno piccoli cenni di tacere.

 

E tutto albeggia e tutto tace. Il fine

 questo,  questo il cominciar dĠun rito?

Di tra un silenzio candido di trine

parla il mistero in suono di vagito.

 

 

SOLITUDINE

 

I

 

Da questo greppo solitario io miro

passare un nero stormo, un aureo sciame;

mentre sul capo al soffio di un sospiro

ronzano i fili tremuli di rame.

 

é sul mio capo unĠeco di pensiero

lunga, nŽ so se gioia o se martoro;

e passa lĠombra dello stormo nero,

e passa lĠombra dello sciame dĠoro.

 

II

 

Sono cittˆ che parlano tra loro,

cittˆ nellĠaria cerula lontane;

tumultuanti dĠun voc“o sonoro,

di rote ferree e querule campane.

 

Lˆ, genti vanno irrequ•ete e stanche,

cui falla il tempo, cui lĠamore avanza

per lungi, e lĠodio. Qui, quellĠeco ed anche

quel polverio di ditteri, che danza.

 

III

 

Parlano dallĠazzurra lontananza

nei giorni afosi, nelle vitree sere;

e sono mute grida di speranza

e di dolore, e gemiti e preghiere. . .

 

Qui quel ronz“o. Le cavallette sole

stridono in mezzo alla gramigna gialla;

i moscerini danzano nel sole;

trema uno stelo sotto una farfalla.

 

 

CAMPANE A SERA

 

Odi, sorella, come note al core

quelle nel vespro tinnule campane

empiono lĠaria quasi di sonore

grida lontane ?

 

A quel tumulto aereo risponde

dal cuore un fioco scampan“o, s“ lieve,

come stormeggi, dietro macchie fonde,

candida pieve.

 

Forse una pieve neĠ cilestri monti

la sagra annunzia ad ogni casolare,

onde si fece aĠ placidi tramonti

lungo parlare;

 

ed or, sospeso il ticchettio dellĠago,

guardano donne verso la marina,

seguendo un fiocco di bambagia, vago,

che vi sĠostina.

 

Grandi occhi, sotto grandi archi di ciglia,

guardano il cielo, empiendosi di raggi,

lˆ dove lĠaria allumina vermiglia

boschi di faggi.

 

Voci soavi, voi tinnite a festa

da cos“ strana e cupa lontananza,

che lˆ si trova il desiderio, e resta

qua la speranza.

 

Io mi rivedo in un branchetto arguto

di biondi eguali su per lĠAppennino

opaco dĠelci: o snelle, vi saluto,

torri dĠUrbino!

 

Vi riconosco, o due sottili torri,

vi riconosco, o memori Cesane

folte di lazzi corn•oli i borri

e dĠavellane.

 

Vaga lo stuolo delle rosee bocche

peĠ clivi, e sparge nella via maestra

messe di fiordalisi e lĠauree ciocche

della ginestra.

 

Nella via bianca il novo drappo svaria

coi rosolacci e le sottili felci;

e par che attenda, nella solitaria

ombra dellĠelci;

 

pare che attenda nella via tranquilla,

sotto questĠampio palpito sonoro,

uno dai neri monti su cui brilla

porpora e oro.

 

 

ELEGIE

 

I

LA FELICITË

 

Quando, allĠalba, dallĠombra sĠaffaccia,

  discende le lucide scale

e vanisce; ecco dietro la traccia

  dĠun fievole sibilo dĠale,

 

io la inseguo per monti, per piani,

  nel mare, nel cielo: giˆ in cuore

io la vedo, giˆ tendo le mani,

  giˆ tengo la gloria e lĠamore.

 

Ahi! ma solo al tramonto mĠappare,

  su lĠorlo dellĠombra lontano,

e mi sembra in silenzio accennare

  lontano, lontano, lontano.

 

La via fatta, il trascorso dolore,

  mĠaccenna col tacito dito:

improvvisa, con lieve stridore,

  discende al silenzio infinito.

 

II

SORELLA

a Maria

 

Io non so se pi madre gli sia

  la mesta sorella o pi figlia:

ella dolce ella grave ella pia,

  corregge conforta consiglia.

 

A lui preme i capelli, lĠabbraccia

  pensoso, gli dice, Che hai?

a lui cela sul petto la faccia

  confusa, gli dice, Non sai?

 

Ella serba nel pallido viso,

  negli occhi che sfuggono intorno,

ah! per quando egli parte il sorriso,

  le lagrime per il ritorno.

 

Per lĠassente la madia che odora,

  serb˜ la vivanda pi buona;

e lo accoglie lo sguardo che ignora,

  col bacio che sa, ma perdona.

 

Ella cuce: nellĠombra romita

  non sĠode che lĠago e lĠanello;

ecco, lĠago fra le agili dita

  ripete, Stia caldo, sia bello!

 

Ella prega: un lungo alito dĠave-

  marie con un murmure lene...

ella prega; ed unĠeco soave

  ripete, Sia buono, stia bene!

 

III

X AGOSTO

 

San Lorenzo, io lo so perchŽ tanto

  di stelle per lĠaria tranquilla

arde e cade, perchŽ s“ gran pianto

  nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

  lĠuccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

  la cena deĠ suoi rondinini.

 

Ora  lˆ come in croce, che tende

  quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido  nellĠombra, che attende,

  che pigola sempre pi piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

  lĠuccisero: disse: Perdono;

e rest˜ negli aperti occhi un grido

  portava due bambole in dono...

 

Ora lˆ, nella casa romita,

  lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

  le bambole al cielo lontano

 

E tu, Cielo, dallĠalto dei mondi

  sereni, infinito, immortale,

Oh! dĠun pianto di stelle lo inondi

  questĠatomo opaco del Male!

 

IV

LĠANELLO

 

Nella mano sua benedicente

  lĠanello brillava lontano.

Egli alz˜ quella mano, morente:

  di caldo sĠemp“ quella mano..

 

O mio padre, di sangue! LĠanello

  lo tenne sul cuore mia madre...

O mia madre! Poi lĠebbe il fratello

  mio grande... o mio piccolo padre!

 

Nel suo gracile dito il tesoro

  raggi˜ di benediz•one.

Una macchia avea preso quellĠoro,

  di ruggine, presso il castone...

 

O mio padre, di sangue! Una sera,

  la macchia volevi lavare,

o fratello? che pianto fu ! tĠera

  caduto lĠanello nel mare.

 

E nel mare  rimasto; nel fondo

  del mare che grave sospira;

una stella dal cielo profondo

  nel mare profondo lo mira.

 

Quella macchia ! SĠadopra a lavarla

  il mare infinito; ma in vano.

E la stella che vede, ne parla

  al cielo infinito; ah! in vano.

 

V

AGONIA DI MADRE

 

Muore. Sfugge alla morta pupilla

  giˆ il bimbo che geme al suo piede:

ode un suono lontano di squilla:

  son due . . . gli occhi, grave, apre: vede.

 

Uno piange, ma lĠaltro sorride

  dĠun bianco sorriso di cieco.

Ella guarda, ella pensa: lo vide

  cos“: quando? e ha come lĠeco

 

dĠun gran pianto nel cuore, la traccia

  di lagrime morte negli occhi.

Ah! ricordano un peso le braccia,

  ricordano un peso i ginocchi,

 

grave. Due sono i bimbi: uno piange;

  ma dorme il pi piccolo ancora:

ella versa dal cuor che si frange,

  le lagrime dĠora e dĠallora.

 

- Dormi, o angelo - o angelo, dŽstati,

  destati - mormora il cuore.

Tra la culla e una bara sĠarresta

  la mano sua, rigida. Muore.

 

Il suo primo, il suo morto  sparito

  con lei che nellĠombra lo reca:

piange lĠaltro; ella nĠode il vagito

  col bianco stupore di cieca.

 

VI

LAPIDE

 

Dietro spighe di tasso barbasso,

  tra un rovo, onde un passero frulla

improvviso, si legge in un sasso:

  QUI DORME PIA GIGLI FANCIULLA.

 

Radicchiella dallĠocchio celeste,

  dianto di porpora, sai,

sai, vilucchio, di Pia? la vedeste,

  libellule tremule, mai ?

 

Ella dorme. Da quando raccoglie

  nel cuore il soave oblio? Quante

oh! le nubi passate, le foglie

  cadute, le lagrime piante;

 

quanto, o Pia, si mor“ da che dormi

  tu! Pura di vite create

a morire, tu, vergine, dormi,

  le mani sul petto incrociate.

 

Dormi, vergine, in pace: il tuo lene

  respiro nellĠaria lo sento

assonare al ronzio delle andrene,

  coi brividi brevi del vento.

 

Lascia argentei il cardo al leggiero

  tuo alito i pappi suoi come

il morente alla morte un pensiero,

  vago, ultimo: lĠombra dĠun nome.

 

 

 

 

 

 

IDA E MARIA

 

O mani dĠoro, le cui tenui dita

menano i tenui fili ad escir fiori

dal bianco bisso, e s“, che la fiorita

sembra che odori;

 

o mani dĠoro, che leggiere andando,

rigasi il lin, miracolo a vederlo,

qual seccia arata nellĠautunno, quando

chioccola il merlo;

 

o mani dĠoro, di cui lĠopra alterna

sommessamente suona senza posa,

mentre vi mira bionde la lucerna

silenz•osa:

 

or mĠapprestate quel che giˆ chiedevo

funebre panno, o tenui mani dĠoro,

per˜ che i morti chiamano e chĠio devo

esser con loro.

 

Ma non sia raso stridulo, non sia

puro am•anto; sia di queĠ sinceri

teli, onde grevi a voi lasci˜ la pia

madre i forzieri;

 

teli, a cui molte calcole sonare

ud“ San Mauro e molte alate spole:

un canto a tratti nĠemergea di chiare,

lente parole:

 

teli, che a notte biancheggiar sul fieno

vidi con occhio credulo dĠincanti,

neĠ prati al plenilunio sereno

riscintillanti .

 

 

IN CAMPAGNA

 

I

IL VECCHIO DEI CAMPI

 

Al sole, al fuoco, sue novelle ha pronte

il bianco vecchio dalla faccia austera,

che si ricorda, solo ormai, del ponte,

quando non cĠera.

 

Racconta al sole (i buoi fumidi stanno,

fissando immoti la sua lenta fola)

come far sacca si dovŽ, quellĠanno,

delle lenzuola.

 

Racconta al fuoco (sfrigola bel bello

un ciocco dĠolmo in tanto che ragiona),

come a far erba uscisse con Rondello

Buovo dĠAntona.

 

II

NELLA MACCHIA

 

Errai nellĠoblio della valle

tra ciuffi di stipe fiorite,

tra quercie rigonfie di galle;

 

errai nella macchia pi sola,

per dove tra foglie marcite

spuntava lĠazzurra v•ola;

 

errai per i botri solinghi:

la cincia vedeva dai pini:

sbuffava i suoi piccoli ringhi

argentini.

 

Io siedo invisibile e solo

tra monti e foreste: la sera

non freme dĠun grido, dĠun volo.

 

Io siedo invisibile e fosco;

ma un cantico di capinera

si leva dal tacito bosco.

 

E il cantico allĠombre segrete

per dove invisibile io siedo,

con voce di flauto ripete,

Io ti vedo!

 

III

IL BOVE

 

Al rio sottile, di tra vaghe brume,

guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano

che fugge, a un mare sempre pi lontano

migrano lĠacque dĠun ceruleo fiume;

 

ingigantisce agli occhi suoi, nel lume

pulverulento, il salice e lĠontano;

svaria su lĠerbe un gregge a mano a mano,

e par la mandra dellĠantico nume:

 

ampie ali aprono imagini grifagne

nellĠaria; vanno tacite chimere,

simili a nubi, per il ciel profondo;

 

il sole immenso, dietro le montagne

cala, altissime: crescono giˆ, nere,

lĠombre pi grandi dĠun pi grande mondo.

 

IV

LA DOMENICA DELLĠULIVO

 

Hanno compiuto in questo d“ gli uccelli

il nido (oggi  la festa dellĠulivo)

di foglie secche, radiche, fuscelli;

 

quel sul cipresso, questo su lĠalloro,

al bosco, lungo il chioccolo dĠun rivo,

nellĠombra mossa dĠun tremol“o dĠoro.

 

E covano sul musco e sul lichene

fissando muti il cielo cristallino,

con improvvisi palpiti, se viene

un ronzio dĠape, un vol di maggiolino.

 

V

VESPRO

 

Dal cielo roseo pullula una stella.

 

Una campana parla della cosa

col suo grave dan dan dalla badia;

onde tra i pioppi tinti in color rosa

suona un continuo scalpicciar per via:

passa una lunga e muta compagnia

con fasci di trifoglio e lupinella.

 

Una fanciulla cuce ed accompagna,

cantarellando, dalla nera altana,

un canto che sĠalz˜ dalla campagna,

quando nel cielo tacque la campana:

sĠalz˜ da un olmo solo in una piana,

da un olmo nero che da sŽ stornella.

 

VI

CANZONE D ÔAPRILE

 

Fantasma tu giungi,

tu parti mistero.

Venisti, o di lungi?

chŽ lega giˆ il pero,

fiorisce il cotogno

laggi.

 

Di cincie e fringuelli

risuona la ripa.

Sei tu tra gli ornelli,

sei tu tra la stipa?

Ombra! anima! sogno!

sei tu . . . ?

 

Ogni anno a te grido

con palpito nuovo.

Tu giungi: sorrido;

tu parti: mi trovo

due lagrime amare

di pi.

 

QuestĠanno . . . oh! questĠanno,

la gioia vien teco:

giˆ lĠodo, o mĠinganno,

quellĠeco dellĠeco;

giˆ tĠodo cantare

Cu . . . cu.

 

VII

ALBA

 

Odoravano i fior di vitalba

per via, le ginestre nel greto;

al•avano prima dellĠalba

le rondini nellĠuliveto.

 

Al•avano mute con volo

nero, agile, di pipistrello;

e tuttora gemea lĠass•olo,

che giˆ spincionava il fringuello.

 

Tra i pinastri era lĠalba che i rivi

mirava discendere gi:

guizz˜ un raggio, soffio su gli ulivi;

virb... disse una rondine; e fu

 

giorno: un giorno di pace e lavoro,

che lĠuomo mieteva il suo grano,

e per tutto nel cielo sonoro

saliva un cantare lontano.

 

VIII

DALLĠARGINE

 

Posa il meriggio su la prateria.

Non ala orma ombra nellĠazzurro e verde.

Un fumo al sole biancica; via via

fila e si perde.

 

Ho nellĠorecchio un turbin“o di squilli,

forse campani di lontana mandra;

e, tra lĠazzurro penduli, gli strilli

della calandra.

 

IX

IL PASSERO SOLITARIO

 

Tu nella torre avita,

passero solitario,

tenti la tua tastiera,

come nel santuario

monaca prigioniera

lĠorgano, a fior di dita;

 

che pallida, fugace,

stup“ tre note, chiuse

nellĠorgano, tre sole,

in un istante effuse,

tre come tre parole

chĠella ha sepolte, in pace.

 

Da un ermo santuario

che sa di morto incenso

nelle grandi arche vuote,

di tra un silenzio immenso

mandi le tue tre note,

spirito solitario.

 

X

STOPPIA

 

DovĠ, campo, il brus“o della maretta

quando rabbrividivi ai libeccioli?

Ti resta qualche fior dĠerba cornetta,

i fioralisi, i rosolacci soli.

 

E nel silenzio del mattino azzurro

cercano in vano il solito sussurro;

 

mentre nellĠaia, lˆ, del contadino

trebbiano nel silenzio del mattino.

 

DovĠ, campo, il tuo mare ampio e tranquillo,

col tenue vel di reste, ai pleniluni?

Pei nudi solchi trilla trilla il grillo,

lucciole vanno per i solchi bruni.

 

E nella sera, con ansar di lampo,

cercano il grano nel deserto campo;

 

mentre tuttora, lˆ, dalla riviera

romba il mulino nella dolce sera.

 

XI

LĠASSIUOLO

 

DovĠera la luna? chŽ il cielo

notava in unĠalba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggi;

veniva una voce dai campi:

chi . . .

 

Le stelle lucevano rare

tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

comĠeco dĠun grido che fu.

Sonava lontano il singulto:

chi . . .

 

Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

finissimi sistri dĠargento

(tintinni a invisibili porte

che forse non sĠaprono pi? . . .);

e cĠera quel pianto di morte. . .

chi . . .

 

XII

TEMPORALE

 

Un bubbol“o lontano. . .

 

Rosseggia lĠorizzonte,

come affocato, a mare:

nero di pece, a monte,

stracci di nubi chiare:

tra il nero un casolare:

unĠala di gabbiano.

 

XIII

DOPO LĠACQUAZZONE

 

Pass˜ strosciando e sibilando il nero

nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,

luccica; un fresco odor dal cimitero

viene, di bosso.

 

Presso la chiesa; mentre la sua voce

tintinna, canta, a onde lunghe romba;

ruzza uno stuolo, ed alla grande croce

tornano a bomba.

 

Un vel di pioggia vela lĠorizzonte;

ma il cimitero, sotto il ciel sereno,

placido olezza: va da monte a monte

lĠarcobaleno.

 

XIV

PIOGGIA

 

Cantava al buio dĠaia in aia il gallo.

 

E gracid˜ nel bosco la cornacchia:

il sole si mostrava a finestrelle.

Il sol dor˜ la nebbia della macchia,

poi si nascose; e piovve a catinelle.

Poi tra il cantare delle raganelle

guizz˜ sui campi un raggio lungo e giallo.

 

Stup“ano i rondinotti dellĠestate

di quel sottile scendere di spille:

era un brus“o con languide sorsate

e chiazze larghe e picchi a mille a mille;

poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:

di stille dĠoro in coppe di cristallo.

 

XV

SERA DĠOTTOBRE

 

Lungo la strada vedi su la siepe

ridere a mazzi le vermiglie bacche:

nei campi arati tornano al presepe

tarde le vacche.

 

Vien per la strada un povero che il lento

passo tra foglie stridule trascina:

nei campi intuona una fanciulla al vento:

Fiore di spina! . . .

 

XVI

ULTIMO CANTO

 

Solo quel campo, dove io volga lento

lĠocchio, biondeggia di pannocchie ancora,

e il solicello vi si trascolora.

 

Fragile passa fraĠ cartocci il vento:

uno stormo di passeri sĠinvola:

nel cielo  un gran pallore di viola.

 

Canta una sfogliatrice a piena gola:

Amor comincia con canti e con suoni

e poi finisce con lacrime al cuore.

 

XVII

IL PICCOLO BUCATO

 

Come tetra la sizza che combatte

gli alberi brulli e fa schioccar le rame

secche, e sottile fischia tra le fratte !

 

Sur una fratta (o forse  un biancor dĠale ?)

un corredino ride in quel marame:

fascie, bavagli, un piccolo guanciale.

 

Ad ogni soffio del rovaio, che romba,

le fascie si disvincolano lente;

e da un tugurio triste come tomba

giunge una nenia, lunga, paz•ente.

 

XVIII

NOVEMBRE

 

Gemmea lĠaria, il sole cos“ chiaro

che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,

e del prunalbo lĠodorino amaro

             senti nel cuore

 

Ma secco  il pruno, e le stecchite piante

di nere trame segnano il sereno,

e vuoto il cielo, e cavo al pi sonante

             sembra il terreno.

 

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,

odi lontano, da giardini ed orti,

di foglie un cader fragile. é lĠestate,

             fredda, dei morti.

 

 

 

PRIMAVERA

 

I

IL FIUME

 

Fiume che lˆ specchiasti un casolare

coĠ suoi rossi garofani, qua mura

dĠerme castella, e tremula verzura;

eccoti giunto al fragoroso mare:

 

ed ecco i flutti verso te balzare

su dallĠinterminabile pianura,

in larghe file; e nella riva oscura

questa si frange, e in quella in alto appare;

 

tituba e croscia. E lˆ, donde tu lieto,

di sasso in sasso, al pi dĠuna betulla,

sgorghi sonoro tra le brevi sponde;

 

a un poĠ dĠauretta scricchiola il canneto,

fruscia il castagno, e forse una fanciulla

sogna a quellĠombre, al mormor“o dellĠonde.

 

II

LO STORNELLO

 

- Sospira e piange, e bagna le lenzuola

la bella figlia, quando rifˆ il letto,-

tale alcuno comincia un suo rispetto:

trema nellĠaurea notte ogni parola;

 

e sfiora i bossi, quasi arguta spola,

lĠaura con un bruire esile e schietto:

- e si rimira il suo candido petto,

e le rincresce avere a dormir sola.-

 

Solo, lˆ dalla siepe,  il casolare;

nel casolare sta la bianca figlia;

la bianca figlia il puro ciel rimira.

 

Lo vuole, a stella a stella, essa contare;

ma il ciel cammina, e la brezza bisbiglia,

e quegli canta, e il cuor piange e sospira.

 

III

LA PIEVE

 

Giorno dĠarrivi il tuo, san Benedetto:

ecco una prima rondine che svola.

E trova i pioppi nella valle sola,

la grande pieve, il nido piccoletto.

 

Razzano i vetri; lĠocchio del coretto

nereggia sotto un ciuffo di v•ola:

ecco la cigolante banderuola,

gli embrici roggi del loquace tetto.

 

E di saluti sonano le gronde

e il chiuso, dove il cielo  vaporato

da un rosseggiar di peschi e dĠalbicocchi.

 

E la rondine stridula risponde

al•ando con lievi ombre: sul prato

le segue un cane coĠ fuggevoli occhi.

 

 

IV

IN CHIESA

 

Sciama con un ronzio dĠapi la gente

dalla chiesetta in sul colle selvaggio;

e per la sera limpida di maggio

vanno le donne, a schiera, lente lente;

 

e passano tra lĠalta erba stridente,

e pare una fiorita il lor passaggio:

le attende a valle tacito il villaggio

con le capanne chiuse e sonnolente.

 

Ma la chiesetta ancor nellĠalto svaria

tra le betulle, e il tetto dĠun intenso

rossor sfavilla nel silenzio alpestre.

 

Il rombo delle pie laudi nellĠaria

palpita ancora; un lieve odor dĠincenso

sperdesi tra le mente e le ginestre.

 

 

GERMOGLIO

 

La scabra vite che il lichene ingromma

come di gialla ruggine, germoglia:

spuntar vidi una, lucida di gomma,

piccola foglia.

 

Al sol che brilla in mezzo a gli umidicci

solchi anche lĠolmo screpolato muove:

medita, il vecchio, rame, pei viticci

nuovi, pur nuove:

 

cui tremolando cercano coi lenti

viticci i tralci a foglie color rame,

mentre su loro tremolano ai venti

anche le rame.

 

Da qual profonda cavitˆ mĠha scosso

il canto dellĠaereo cuculo?

fiorisce a spiga per le prode il rosso

pandicuculo?

 

é del fior dĠuva questa ambra che sento

o una lieve traccia di v•ole?

dove si vede il grappolo dĠargento

splendere al sole?

 

grappolo verde e pendulo, che invaia

alle prime acque fumide dĠagosto,

quando il villano sente sopra lĠaia

piovere mosto:

 

mosto che cupo brontola e tra nere

ombre sospira e canta San Martino,

allor che singultando nel bicchiere

sdrucciola vino;

 

vino che rosso avanti il focolare

brilla, al fischiare della tramontana,

che giunge come un fragoroso mare

e sĠallontana

 

simile a sogno: quando su le strade

volano foglie cui persegue il cuore

simili a sogno; quando tutto cade,

stingesi, e muore.

 

Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia

la scabra vite che il lichene ingromma:

spunta da un nodo una lanosa foglia

molle di gomma.

 

 

DOLCEZZE

 

I

BENEDIZIONE

 

EĠ la sera: piano piano

passa il prete paz•ente,

salutando della mano

ci˜ che vede e ci˜ che sente.

 

Tutti e tutto il buon piovano

benedice santamente;

anche il loglio, lˆ, nel grano;

qua, neĠ fiori, anche il serpente.

 

Ogni ramo, ogni uccellino

s“ del bosco e s“ del tetto,

nel passare ha benedetto;

 

anche il falco, anche il falchetto

nero in mezzo al ciel turchino,

anche il corvo, anche il becchino,

poverino,

 

che lass nel cimitero

raspa raspa il giorno intiero.

 

II

CON GLI ANGIOLI

 

Erano in fiore i lilla e lĠulivelle;

  ella cuciva lĠabito di sposa:

 

nŽ lĠaria ancora apr“a bocci di stelle,

  nŽ sĠera chiusa foglia di mimosa;

 

quandĠella rise; rise, o rondinelle

  nere, improvvisa: ma con chi? di cosa?

 

rise, cos“, con gli angioli; con quelle

  nuvole dĠoro, nuvole di rosa.

 

III

IL MENDICO

 

Presso il rudere un pezzente

cena tra le due fontane:

pane alterna egli col pane,

volti gli occhi allĠoccidente.

 

Fa un incanto nella mente:

carne  fatto, ecco, lĠun pane.

Tra il gracchiare delle rane

sciala il mago sap•ente.

 

Sorge e beve alle due fonti:

chiara beve acqua nellĠuna,

ma nellĠaltra un dolce vino.

 

Giace e guarda: sopra i monti

sparge il lume della luna;

getta lĠarti al ciel turchino,

baldacchino

 

di mirabile lavoro,

chĠei trapunta a stelle dĠoro.

 

IV

MARE

 

MĠaffaccio alla finestra, e vedo il mare:

vanno le stelle, tremolano lĠonde.

Vedo stelle passare, onde passare:

un guizzo chiama, un palpito risponde.

 

Ecco sospira lĠacqua, alita il vento:

sul mare  apparso un bel ponte dĠargento.

 

Ponte gettato sui laghi sereni,

per chi dunque sei fatto e dove meni?

 

V

A NANNA

 

Come un rombo dĠarnia suona

tra il cricchiar della mortella.

Nonna,  detta la corona:

nonna, or d“ la tua novella.

 

Ella dice, ellĠ pur buona,

la pi lunga, la pi bella:

- Sola (o Dio: bubbola e tuona!)

sola va la reginella.

 

Ecco un lume, una stellina,

ma lontanamente, appare.

Via, conviene andare andare.

 

Va e va.- Ma ciondolare

giˆ comincia una testina;

due sonnecchiano; cammina

che cammina,

 

e le son tutte arrivate:

sono in collo delle fate.

 

VI

IL PICCOLO ARATORE

 

Scrive. . . (la nonna ammira): ara bel bello,

guida lĠaratro con la mano lenta;

semina col suo piccolo marrello:

il campo  bianco, nera la sementa.

 

DĠinverno egli ara: la sementa nera

dĠinverno spunta, sfronza a primavera;

 

fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo

rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.

 

VII

IL PICCOLO MIETITORE

 

Legge . . . (la nonna ammira): ecco il campetto

bianco di grano nero in lunghe righe:

esso tuttĠocchi, con il suo falsetto

a una a una miete quelle spighe;

 

miete, e le spighe restano pur quelle;

miete e lega coi denti le mannelle;

 

e le mannelle di tra i denti suoi

parlano . . . come noi, meglio di noi.

 

VIII

NOTTE

 

Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti,

  e la lucerna i biondi capi indora:

 

i biondi capi, i neri occhi stellanti,

  volgono alla finestra ad ora ad ora:

 

attendon esse a cavalieri erranti

  che varcano la tenebra sonora?

 

Parlan dĠamor, di cortesie, dĠincanti:

  cos“ parlando aspettano lĠaurora.

 

 

TRISTEZZE

 

I

PAESE NOTTURNO

 

Capanne e stolli ed alberi alla luna

sono, od un tempio dellĠantico Anubi,

fosca rovina? Stampano una bruna

orma le nubi

 

su la campagna, e pi profonda e piena

la notte preme le macerie strane,

chiuse allo sguardo, dove alla catena

uggiola un cane.

 

Ecco la falce dĠoro allĠorizzonte:

due nere guglie a man a man dipinge,

indi non so che candido. Una fronte

bianca di sfinge?

 

II

RAMMARICO

 

Chi questo nuovo pianto in cuor mi pone ?

 

Verso occidente, o dolce madre Aurora,

da te lontano la mia vita  corsa.

Il cielo sĠalza e tutto trascolora;

passano stelle e stelle in lenta corsa;

emerge dallĠazzurro la grandĠOrsa,

e sta nellĠarme fulgido Or•one.

 

Come pi lieta la tua vista, quando

un poco accenni delle rosee dita;

e la greggia sĠavvia scampanellando,

esce il bifolco e rauco i bovi inc“ta,

Canta lass la lodola - apparita

ecco Giulietta, e piange, al suo balcone!-

 

III

SOGNO

 

Per un attimo fui nel mio villaggio,

nella mia casa. Nulla era mutato

Stanco tornavo, come da un v•aggio;

stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

 

Sentivo una gran gioia, una gran pena;

una dolcezza ed unĠangoscia muta.

- Mamma?—é lˆ che ti scalda un poĠ di cena—

Povera mamma! e lei, non lĠho veduta.

 

IV

I GATTICI

 

E vi rivedo, o gattici dĠargento,

brulli in questa giornata sementina:

e pigra ancor la nebbia mattutina

sfuma dorata intorno ogni sarmento.

 

Gia vi schiudea le gemme questo vento

che queste foglie gialle ora mulina;

e io che al tempo allor gridai, Cammina,

ora gocciare il pianto in cuor mi sento.

 

Ora, le nevi inerti sopra i monti,

e le squallide pioggie, e le lunghe ire

del rovaio che a notte urta le porte,

 

e i brevi d“ che paiono tramonti.

infiniti, e il vanire e lo sfiorire,

e i crisantemi, il fiore della morte.

 

V

LA SIEPE

 

Qualche bacca sui nudi ramicelli

del biancospino trema nel viale

gelido: il suol rintrona, andando, quale

per tardi passi il marmo degli avelli.

 

Le pasce il piccol re, re degli uccelli

ed altra gente piccola e vocale.

SĠodono a sera lievi frulli dĠale,

via, quando giunge un volo di monelli.

 

AnchĠio; ricordo, ma pass˜ stagione;

quelle bacche a gli uccelli della frasca

invidiavo, e le purpuree more;

 

e lĠala, i cieli, i boschi, la canzone:

i boschi antichi, ove una foglia casca,

muta, per ogni battito di cuore.

 

VI

IL NIDO

 

Dal selvaggio rosaio scheletrito

penzola un nido. Come, a primavera,

ne prorompeva empiendo la riviera

il cinguettio del garrulo convito!

 

Or vĠ sola una piuma, che allĠinvito

del vento esita, palpita leggiera;

qual sogno antico in anima severa,

fuggente sempre e non ancor fuggito:

 

e giˆ lĠocchio dal cielo ora si toglie;

dal cielo dove un ultimo concento

sal“ raggiando e dilegu˜ nellĠaria;

 

e si figge alla terra, in cui le foglie

putride stanno, mentre a onde il vento

piange nella campagna solitaria.

 

VII

IL PONTE

 

La glauca luna lista lĠorizzonte

scopre i campi nella notte occulti

e il fiume errante. In suono di singulti

lĠonda si rompe al solitario ponte.

 

Dove il mar, che lo chiama? e dove il fonte,

chĠesita mormorando tra i virgulti?

il fiume va con lucidi sussulti

al mare ignoto dallĠignoto monte.

 

Spunta la luna: a lei sorgono intenti

gli alti cipressi dalla spiaggia triste,

movendo insieme come un pio sussurro.

 

Sostano, biancheggiando, le fluenti

nubi, a lei volte, che sal“an non viste

le infinite scale del tempio azzurro.

 

VIII

AL FUOCO

 

Dorme il vecchio avanti i ciocchi.

Sogna un nuvolo di bimbi,

che cinguetta. Il ceppo al foco

russa roco.

 

Dorme anchĠesso. A tutti i nocchi

sogna grappoli e corimbi.

Rosei pendono nellĠaria

solitaria.

 

Bianchi i bimbi tra il fogliame,

su su, a quel roseo sorriso

vanno. Il ceppo occhi di brace

apre, e tace.

 

Ecco pendulo lo sciame

dal grande albero improvviso,

su su. Il vecchio nel cor teme,

guarda e geme.

 

Ogni bimbo al suo fiore alza

la mano e. . . scivola e va.

Sbarra il ceppo la pupilla:

crocchia e brilla.

 

E il vegliardo, al crocchiar, balza

nella rotta oscuritˆ.

Gira lento gli occhi. Solo!

solo! solo!

 

IX

IL LAMPO

 

E cielo e terra si mostr˜ qual era:

 

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa appar“ spar“ dĠun tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

sĠapr“ si chiuse, nella notte nera.

 

X

IL TUONO

 

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor dĠarduo dirupo

che frana, il tuono rimbomb˜ di schianto:

rimbomb˜, rimbalz˜, rotol˜ cupo,

e tacque, e poi rimareggi˜ rinfranto,

e poi van“. Soave allora un canto

sĠud“ di madre, e il moto di una culla.

 

XI

LONTANA

 

Cantare, il giorno, ti sentii: felice?

Cantavi; la tua voce era lontana:

lontana come di stornellatrice

per la campagna frondeggiante e piana.

 

Lontana s“, ma io sentia nel cuore

che quel lontano canto era dĠamore:

 

ma s“ lontana, che quel dolce canto,

dentro, nel cuore, mi moriva in pianto.

 

XII

I CIECHI

 

Siedono lungo il fosso, al solleone,

fuor dello stormeggiante paesello.

Passa un trotto via via tra il polverone,

una pesta, un alterco, uno stornello:

 

e da terra una grave salmodia

si leva, una preghiera, al lor cospetto.

- Il nostro pane - gemono via via:

il nostro, il nostro: tu, Ges, lĠhai detto.

 

XIII

DALLA SPIAGGIA

 

I

 

CĠ sopra il mare tutto abbonacciato

il tremolare quasi dĠuna maglia:

in fondo in fondo un ermo colonnato,

nivee colonne dĠun candor che abbaglia:

 

una rovina bianca e solitaria,

lˆ dove azzurra  lĠacqua come lĠaria:

 

il mare nella calma dellĠestate

ne canta tra le sue larghe sorsate.

 

II

 

O bianco tempio che credei vedere

nel chiaro giorno, dove sei vanito?

Due barche stanno immobilmente nere,

due barche in panna in mezzo allĠinfinito.

 

E le due barche sembrano due bare

smarrite in mezzo allĠinfinito mare;

 

e piano il mare scivola alla riva

e ne sospira nella calma estiva.

 

XIV

NOTTE DI NEVE

 

Pace! grida la campana,

ma lontana, fioca. Lˆ

 

un marmoreo cimitero

sorge, su cui lĠombra tace:

e ne sfuma al cielo nero

un chiarore ampio e fugace.

Pace! pace! pace! pace!

nella bianca oscuritˆ.

 

XV

NEVICATA

 

Nevica: lĠaria brulica di bianco;

  la terra  bianca; neve sopra neve:

gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:

  cade del bianco con un tonfo lieve.

 

E le ventate soffiano di schianto

  e per le vie mulina la bufera:

passano bimbi: un balbettio di pianto;

  passa una madre: passa una preghiera.

 

XVI

NOTTE DOLOROSA

 

Si muove il cielo, tacito e lontano:

 

la terra dorme, e non la vuol destare;

dormono lĠacque, i monti, le brughiere.

Ma no, chŽ sente sospirare il mare,

gemere sente le capanne nere:

vĠ dentro un bimbo che non pu˜ dormire:

piange; e le stelle passano pian piano.

 

 

 

 

 

 

 

 

XVII

NOTTE Dl VENTO

 

Allora sentii che non cĠera,

che non ci sarebbe mai pi...

La tenebra vidi pi nera,

pi lugubre udii la bufera...

uuh...uuuh...uuuh...

 

Venia come un volo di spetri,

gridando ad ogni Žmpito pi:

un fragile squillo di vetri

seguiva quelli ululi tetri...

uuh...uuuh...uuuh...

 

Oh! solo nellĠombra che porta

quei gridi... (chi passa laggi?)

Ohl solo nellĠombra giˆ morta

per sempre... (chi batte alla porta?)

uuh...uuuh...uuuh...

 

XVIII

LA BAIA TRANQUILLA

 

Getta lĠancora, amor mio:

non unĠonda in questa baia.

Quale assiduo sciacqu“o

fanno lĠacque tra la ghiaia!

 

Vien dal lido solat“o,

vien di lˆ dalla giuncaia,

lungo vien come un addio,

un cantar di marinaia.

 

Tra le vetrici e gli ontani

vedi un fiume luccicare;

 

uno stormo di gabbiani

nel turchino biancheggiare;

e sul poggio, pi lontani,

i cipressi neri stare.

 

Mare ! mare!

dolce lˆ, dal poggio azzurro,

il tuo urlo e il tuo sussurro.

 

 

IL BACIO DEL MORTO

 

I

 

é tacito,  grigio il mattino;

la terra ha un odore di funghi;

di gocciole  pieno il giardino.

 

Immobili tra la leggiera

caligine gli alberi: lunghi

lamenti di vapor•era.

 

I solchi ho nel cuore, i sussulti,

dĠun pianto sognato: parole,

sospiri avanzati ai singulti:

 

un solco sul labbro, che duole.

 

II

 

Chi sei, che venisti, coi lieti

tuoi passi, da me nella notte?

Non so; non ricordo: piangevi.

 

Piangevi: io sentii per il viso

mio piangere fredde, dirotte,

le stille dallĠocchio tuo fiso

 

su me: io sentii che accostavi

le labbra al mio labbro a baciarmi;

e invano volli io levar gravi

 

le palpebre: gravi: due marmi.

 

III

Chi sei? donde vieni? presente

tuttora? mi vedi? mi sai?

e lacrimi tacitamente ?

 

Chi sei ? Trema ancora la porta.

Certo eri di quelli che amai,

ma forse non so che sei morta. . .

 

NŽ so come unĠombra dĠarcano,

tra lĠumida nebbia leggiera,

io senta in quel lungo lontano

saluto di vaporiera.

 

LA NOTTE DEI MORTI

 

I

 

La casa  serrata; ma desta:

ne fuma alla luna il camino.

Non filano o torcono:  festa.

 

Scoppietta il castagno, il paiolo

borbotta. Sul desco cĠ il vino,

cui spilla il capoccio da solo.

 

In tanto essi pregano al lume

del fuoco: via via la corteccia

schizza arida... Mormora il fiume

 

con rotto fragore di breccia...

 

II

 

é forse (io non odo: non sento

che il fiume passare, portare

quel murmure al mare) dĠun lento

 

vegliardo la tremula voce

che intuona il rosario, e che pare

che venga da sotto una croce,

 

da sotto un gran peso; da lunge

Quei poveri vecchi bisbigli

sonora una romba raggiunge

 

col trillo dei figli deĠ figli.

 

III

 

Oh! i morti! Pregarono anchĠessi,

la notte dei morti, per quelli

che tacciono sotto i cipressi.

 

Passarono... O cupo tinnito

di squille dagli ermi castelli!

o fiume dallĠinno infinito!

 

Passarono... Sopra la luna

che tacita sembra che chiami,

io vedo passare un velo, una

 

breve ombra, ma bianca, di sciami.

 

 

I DUE CUGINI

 

I

 

Si amavano i bimbi cugini

Pareva, un incontro di loro,

lĠ incontro di due lucherini:

 

volavano. NellĠ abbracciarsi

i t˜cchi cadevano, e lĠoro

mescevano i riccioli sparsi.

 

Poi lĠuno appass“ come rosa

che in boccio appassisce nellĠorto;

ma lĠaltra la piccola sposa

 

rimase del piccolo morto.

 

II

 

Tu piccola sposa, crescesti:

man mano intrecciavi i capelli,

man mano allungavi le vesti.

 

Crescevi sottĠocchi che negano

ancora; ed i petali snelli

cadevano: il fiore giˆ lega.

 

Ma lĠaltro non crebbe. Dal mite

suo cuore, ora, senza perchŽ,

fioriscono le margherite

 

e i non ti scordare di me.

 

III

 

Ma tu . . . ma tu lĠami. Lo vedi,

lo chiami. La senti da lunge

la fretta dei taciti piedi . . .

 

Tu lĠami, egli tĠama tuttora;

ma egli col capo non giunge

al seno tuo nuovo, che ignora.

 

Egli esita: avanti la pura

tua fronte ricinta dĠun nimbo,

piangendo lĠantica sventura

 

tentenna il suo capo di bimbo.

 

PLACIDO

 

I

 

Io dissi a quel vecchio, ÒDove?Ó Io

 

cercava un fanciullo mio buono,

smarrito: il mio Placido: mio!

 

Cercavo quelli occhi (... un cipresso?)

coĠ quali chiedeva perdono

di vivere, dĠesserci anchĠesso.

 

Cercavo. Ero giunto. Era quello

per certo il paese azzurrino

suo: monti, una selva, un castello,

 

poi monti: pi su, San Marino.

 

Il

 

Nel chiuso (... una croce?) noi soli

tre sĠera: non cĠera altro fiore

che lĠoro di due girasoli.

 

Nel chiuso non cĠera altra voce,

rammento, che il cupo stridore

dĠun fuco ronzante a una croce;

 

e qualche fruscio di virgulto

al passo del vecchio, che aveva

le chiavi; e dĠun tratto, un singulto

 

di lei: di Maria, che piangeva.

 

III

 

E in fine, guardandosi attorno,

ÒQuiÓ disse quellĠuomo. A Sogliano

la torre son˜ mezzogiorno.

 

Stridevano gli usci, i camini

fumavano tutti: lontano

sĠudiva un vocio di bambini.

 

E lui? ÒQuiÓ mi disse: Ònon vede?Ó

Io vidi: tra il grigio becchino

e noi, vidi un nero, al mio piede,

 

di terra ah! scavata il mattino!

 

 

TRAMONTI

 

I

LA SIRENA

 

La sera, fra il sussurr“o lento

dellĠacqua che succhia la rena,

dal mare nebbioso un lamento

si leva: il tuo canto, o Sirena.

 

E sembra che salga, che salga,

poi rompa in un gemito grave.

E lĠonda sospira tra lĠalga,

e passa una larva di nave:

 

unĠombra di nave che sfuma

nel grigio, ove muore quel grido;

che porta con sŽ, nella bruma,

dei cuori che tornano al lido:

 

al lido che fugge, che scese

giˆ nella caligine, via;

che porta via tutto, le chiese

che suonano lĠavemaria,

 

le case che su per la balza

nel grigio traspaiono appena,

e lĠombra del fumo che sĠalza

tra forse il brus“o della cena.

 

 

 

 

 

II

PIANO E MONTE

 

Il disco, grandissimo, pende

rossastro in un latte dĠopale:

e intaglia le case ed accende

i lecci nel nero viale;

 

che fumano, come foreste,

di polvere gialla e vermiglia:

sĠannuvola in rosa e celeste

quel botro color di conchiglia.

 

Qua lampi di vetri, qua lente

cantate, qua grida confuse:

lˆ placido il muto or•ente

nellĠombra dei monti si chiuse.

 

Si vedono opache le vette,

 pace e silenzio tra i monti:

un breve squittir di civette,

un murmure lungo di fonti:

 

via via con fragore interrotto

si serra la casa tranquilla:

 chiusa: nel bianco salotto

la tacita lampada brilla.

 

 

IL CUORE DEL CIPRESSO

 

I

 

O cipresso, che solo e nero stacchi

dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto

irto ,di cardi e stridulo di biacchi:

 

in te sovente, al tempo delle more,

odono i bimbi un pispill“o secreto,

come dĠun nido che ti sogni in cuore.

 

LĠultima cova. Tu canti sommesso

mentre sĠallunga lĠombra taciturna

nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,

ella ricerchi tra queĠ bronchi unĠurna.

 

II

 

Pi brevi i giorni, e lĠombra ogni d“ meno

sĠindugia e cerca, irrequieta, al sole;

e il sole  freddo e pallido il sereno.

 

LĠombra, ogni sera prima, entra nellĠombra:

nellĠombra ove le stelle errano sole.

E il rovo arrossa e con le spine ingombra

 

tutti i sentieri, e cadono giˆ roggie

le foglie intorno (indifferente oscilla

lĠermo cipresso), e giˆ le prime pioggie

fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

 

III

 

E il tuo nido? il tuo nido?... Ulula forte

il vento e tĠurta e ti percuote a lungo:

tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

 

E il tuo cuore? il tuo cuore?... Orrida trebbia

lĠacqua i miei vetri, e lˆ ti vedo lungo,

di nebbia nera tra la grigia nebbia.

 

E il tuo sogno? La terra ecco scompare:

la neve, muta a guisa del pensiero,

cade. Tra il bianco e tacito franare

tu stai, gigante immobilmente nero.

 

 

 

ALBERI E FIORI

 

I

FIOR DĠACANTO

a Egisto Cecchi

 

Fiore di carta rigida, dentato

petali di fini aghi, che snello

sorgi dal cespo, come un serpe alato

da un capitello;

 

fiore che ringhi dai diritti scapi

con bocche tue di piccoli ippogrifi;

fior del Poeta! industr•a te dĠapi

schifa, e tu schifi.

 

LĠape te sdegna, piccola e regale;

ma spesso io vidi lĠape legnaiola

celare il corpo che riluce, quale

nera viola,

 

dentro il tuo duro calice, e rapirti

non so che buono, che da te pur viene

come le viti di tra i sassi e i mirti

di tra lĠarene.

 

Lo sa la figlia del pastor, che vuoto

un legno fende e lieta pasce quanto

miele le giova: il tuo nettare ignoto,

fiore dĠacanto.

 

II

NEL GIARDINO

 

Nel mio giardino, lˆ nel canto oscuro

dove ora il pettirosso tintinn“a

col gelsomino rampicante al muro,

cĠ la gagg“a;

 

e or che ottobre dentro la vermiglia

foresta il marzo rende morto al suolo,

e sembra marzo, come rassomiglia

bacca a bocciuolo,

 

alba a tramonto; nelle tenui trine

lĠuna si stringe, al roseo vespro, quando

lĠaltro i suoi fiori, candide stelline,

apre, alitando;

 

ed al sospiro dellĠavemaria,

quando nel bosco dalle cime nude

il d“ sĠesala, il cuore in una pia

ombra si chiude;

 

e lĠanima in quellĠombra di ricordi

apre corolle che imbocciar non vide;

e lĠombra di fior dĠangelo e di fior di

spina sorride.

 

 

 

 

 

III

NEL PARCO

a Mario Racah

 

Certo il signore, e la chiomata moglie,

part“ peĠ campi, chŽ giˆ il tordo zirla:

muto, tra unĠampia musica di foglie

(dolce sentirla

 

dĠautunno, a tarda notte, se il libeccio

soffia con lunghi fremiti sonori),

muto  il palazzo. SĠode un cicaleccio

di tra gli allori ;

 

un cicaleccio donde acuti appelli

sĠalzano come strilli di piviere:

il gatto  fuori: ruzzano i monelli

del giardiniere.

 

Torvo, aggrondato, il candido palazzo

formicolare aĠ piedi suoi li mira;

e s“ nĠecheggia un cupo, a quel rombazzo,

battito dĠira;

 

ma non sĠadira il giovinetto alloro,

il leccio, il pioppo tremulo ed il lento

salice: a prova corrono con loro;

cantano al vento.

 

IV

ROSA DI MACCHIA

 

Rosa di macchia, che dallĠirta rama

ridi non vista a quella montanina,

che stornellando passa e che ti chiama

rosa canina;

 

se sottil mano i fiori tuoi non coglie,

non ti dolere della tua fortuna:

le invid•ate rose centofoglie

colgano a una

 

a una: al freddo sibilar del vento

che lĠarse foglie a una a una stacca,

irto il rosaio dondolerˆ lento

senza una bacca;

 

ma tu di bacche brillerai nel lutto

del grigio inverno; al rifiorir dellĠanno

i fiori nuovi a qualche vizzo frutto

sorrideranno:

 

e te, col tempo, stupirˆ cresciuta

quella che allĠalba svolta giˆ leggiera

col suo stornello, e risalirˆ muta,

forse, una sera.

 

V

PERVINCA

 

So perchŽ sempre ad un pensier di cielo

mister•oso il tuo pensier sĠavvinca,

s“ come stelo tu confondi a stelo,

vinca pervinca;

 

io ti coglieva sotto i vecchi tronchi

nella foresta dĠun convento oscura,

o presso lĠarche, tra vilucchi e bronchi,

lungo la mura.

 

Solo tra lĠarche errava un cappuccino;

pareva spettro da quellĠarche uscito, 

bianco la barba e gli occhi dĠun turchino

vuoto, infinito;

 

come il tuo fiore: e io credea vedere

occhi di cielo, dallo sguardo fiso,

pi  dĠanacoreti, allo svoltar, tra nere

            ombre, improvviso;

 

e il bosco alzava, al palpito del vento,

una confusa e morta salmodia,

mentre squillava, grave, dal convento

              lĠavemaria.

 

VI

IL DITTAMO

 

Dittamo nato allĠumile finestra,

donde pel Corpusdomini sorrisi

alla soave tra fior di ginestra

e fiordalisi

 

process•one; io so di te, che immensa

virt possiedi neĠ chiomanti capi,

cespo lanoso ed olezzante, mensa

ricca dellĠapi.

 

Te, con la freccia tremolante al dosso,

cerca nei monti il daino selvaggio,

farmaco certo - di lui segue un rosso

rigo il v•aggio -

 

Dittamo blando per la mia ferita

lĠavete, o balze degli aerei monti,

dove nellĠalto piange la romita

culla dei fonti ?

 

Bianche ai dirupi pendono le capre;

lĠaquila passa nera e solitaria;

sibila lĠerba inaridita; sĠapre,

sotto il pi, lĠaria.

 

VII

EDERA FIORITA

ad Ettore Toci

 

Quando, di maggio, tu le dolci sere

imbalsamavi coĠ tuoi fiori, ornello

(era un sussurro alle finestre nere

del paesello!);

 

non ti rincrebbe dĠun infermo arbusto

che, mosso anchĠegli da dolcezza estiva,

con le sue foglie, come cuori, al fusto

lento saliva.

 

Non ti rincrebbe. Ed ora che gelata

la tramontana soffia, e che traspare

giˆ dalle porte chiuse la fiammata

del focolare;

 

ora che il verno spoglia le foreste

e le tue foglie per le vie disperde;

o vecchio ornello, te ricopre e veste

lĠedera verde.

 

Sui rami nudi i fiori suoi ti pone,

tra verdi e gialli, piccoli, comĠera

la tua fiorita morta: illus•one

di primavera.

 

VIII

VIOLE DĠINVERNO

 

- DĠonde, o vecchina, queste v•olette

serene come un lontanar di monti

nel puro occaso ? Poi che il gelo ha strette

tutte le fonti ;

 

il gelo brucia dalle stelle, o nonna,

ogni foglia, ogni radica, ogni zolla -

- Tiepida, sappi, lungo la Corsonna

geme una polla.

 

Lˆ noi sciacquiamo il candido bucato

nellĠonda calda in mezzo a nevi e brine;

e il poggio  pieno di v•ole, e il prato

di pratelline -

 

Ah! . . . ma, poeta, non ancor nel pio

tuo cuore  lĠonda che discioglie il gelo ?

non  la polla, calda nellĠoblio

freddo del cielo?

 

ChŽ sempre, se ti agghiaccia la sventura,

se lĠodio altrui ti spoglia e ti desola,

spunta, al tepor dellĠanima tua pura,

qualche v•ola.

 

IX

IL CASTAGNO

a Francesco Pellegrini

 

I

 

Quando sfioriva e rinverdiva il melo,

quando sĠapriva il fiore del cotogno,

il greppo, azzurro, somigliava un cielo

visto nel sogno;

 

brullo io te vidi; e giˆ per ogni ripa

erano colte tutte le v•ole,

e tu lasciavi ai cesti ed alla stipa

tutto il tuo sole;

 

e, pio castagno, i rami dalla bruma

ancora appena e dal nevischio vivi,

a mano a mano dĠuna lieve spuma

verde coprivi.

 

Ma poi, vedendo sotto il fascio greve

le montanine tergersi la fronte,

tu che le sai da quando per la neve

scendono il monte,

 

ecco, pietoso tu di lor, tessesti

lungo i torrenti, allĠorlo dei burroni,

una fredda ombra, che gemŽ di mesti

cannareccioni.

 

II

 

E qualche cosa giˆ nellĠaspro cardo

chiuso ascondevi, come lĠavo buono

che nellĠirsuta mano cela un tardo

                        facile dono.

 

Ai primi freddi, quando il buon villano

rinumer˜ tutti i suoi bimbi al fuoco;

e con lui lungamente il tramontano

                        brontol˜ roco;

 

e tu quei cardi, in mezzo alle procelle,

spargesti sopra lĠerica ingiallita,

e li schiudevi per pietˆ di quelle

                        povere dita

 

Tutti spargesti i cardi irti e le fronde

fragili, e tutto port˜ via festante

la grama turba. Nudo con le monde

                        rame, o gigante,

 

stavi, e vedevi tu la vite e il melo

vestiti dĠoro e porpora al riflesso

giˆ delle nevi, e per lo scialbo cielo

                        nero il cipresso.

 

III

               

Per te i tuguri sentono il tumulto

or del paiolo che inqu•eto oscilla;

per te la fiamma sotto quel singulto

crepita e brilla:

 

tu, pio castagno, solo tu, lĠassai        

doni al villano che non ha che il sole;

tu solo il chicco, il buon di pi, tu dai

                         alla sua prole;

 

ha da te la sua bruna vaccherella

tiepido il letto e non des“a la stoppia;

ha da te lĠavo tremulo la bella

fiamma che scoppia.

 

Scoppia con gioia stridula la scorza

deĠ rami tuoi, coĠ frutti tuoi la grata

pentola brontola. Il vento fa forza

nellĠimpannata.

 

Nevica su le candide montagne,

nevica ancora. Lieto  lĠavo, e breve

augura, e dice: Tante pi castagne,

quanta pi neve.

 

X

IL PESCO

a Adolfo Cipriani

 

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero

di vecchi morti; ove a dormir con essi

niuno pi scende; sempre chiuso; nero

dĠalti cipressi.

 

Tra i loro tronchi che mai niuno vede,

di lˆ dellĠerto muro e delle porte

chĠhanno obliato i cardini, si crede

morta la Morte,

 

anchĠessa. Eppure, in un bel d“ dĠAprile,

sopra quel nero vidi, roseo, fresco,

vivo, dal muro sporgere un sottile

ramo di pesco.

 

Figlio dĠignoto n˜cciolo, dĠallora

sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?

ed ora invidii i mandorli che indora

lĠalba negli orti?

 

od i cipressi, gracile e selvaggio,

dimenticˆti, col tuo riso allieti,

tu trovatello in un eremitaggio

dĠanacoreti?

 

XI

CANZONE DI NOZZE

ad Enrico Bemporad

 

Guardi la vostra casa sopra un rivo,

sopra le stipe, sopra le ginestre;

ed entri lĠeco dĠun gorgheggio estivo

dalle finestre.

 

Dolce dormire con nel sogno il canto

dellĠusignuolo! E sian sotto la gronda

rondini nere. Dolce avere accanto

chi vi risponda,

 

sul far dellĠalba, quando voi direte

pian piano: é vero che non sĠ pi soli?

S“: si, diranno, vero ver... Che liete

grida! che voli!

 

sul far dellĠalba, quando tutto ancora

sembra dormir dietro le imposte unite!

Sembra, e non .Voi s“, forse, in quellĠora, 

                        madri, dormite.

 

Sognate biondo: nelle vostre teste

non un fil bianco: bianche, nel giardino,

sono, s“, quelle chĠora vi tendeste,

                        fascie di lino.

 

XII

I GIGLI

 

Nel mio villaggio, dietro la Madonna

dellĠacqua, presso a molti pii bisbigli,

sorgono sopra lĠesile colonna

                     verde i miei gigli:

 

miei, chŽ a deporne i tuberi in quel canto

del suo giardino fu mia madre mesta.

DĠaltri  il giardino: di mia madre ( tanto!...)

                     nulla piœ resta.

 

Sono tanti anni!... Ma quei gigli ogni anno

escono ancora a biancheggiar tra folti

cesti dĠortica; ed ora... ora saranno

 forse giˆ c˜lti.

 

Forse giˆ sono su lĠaltar, l“ presso,

a chieder acqua, or chĠ mietuto il grano,

per il granturco: e nel pregar sommesso

 merid•ano,

 

guardando i gigli, alcuna ebbe un fugace

ricordo; e chiede che Maria mi porti

nella mia casa, per morirvi in pace

 presso i miei morti

 

 

COLLOQUIO

 

I

 

Brulli i pioppi nellĠaria di v•ola

sorgono sopra i lecci, sfavillando

come oro: sopra il tetto della scuola

si sfrangia un orlo a fiocchi rosei; quando,

 

lieve come un sospiro, entra; poi sola,

bianca, le mani al cuore, ristˆ, ansando;

gira gli occhi - dovĠ la famigliuola? -

e ha sui labbri il suo sorriso blando;

 

ma piange. Oh: s“: son quello: il tuo Giovanni...

un poĠ mutato. O madre seppellita,

che gli altri lasci, oggi, per me; parliamo.

 

Io devo dirti cosa da molti anni

chiusa dentro. E non piangere. La vita

che tu mi desti - o madre, tu ! - non lĠamo.

 

II

 

Non piangere. é uno sforzo cos“ mesto

viverla senza te questa tua vita!

ad ogni gioia  tanto dolor questo

subito ricordar te, seppellita!

 

Dai sogni, oh! brevi, della gioia desto

io mi ritrovo a piangere infinita-

mente con te: morire! cos“ presto!

partire, o madre, come sei partita!

 

Tu non dovevi. Con quelli occhi in pianto!

con quella bimba che parlava appena!

Dovevi, o madre pia, dirlo a Dio padre,

 

che non potevi; e ti lasciasse; e in tanto

te la guarisse Dio quella tua vena

che ci si ruppe nel tuo cuore, o madre!

 

III

 

Non piangere. . . Sarebbe cos“ bello

questo mondo odorato di mistero!

sarebbe la tua via come un sentiero

con lĠerba intatta, allĠombra dellĠornello.

 

E nuova tu saresti anche allĠamello,

anche al frullo dĠun passero ciarliero!

Ma rasentando il muto cimitero,

ti fermeresti pallida al cancello . . .

 

E io direi del sonno delle larve

che sognano ali, e delle siepi tetre

chĠhanno nel sonno grappoli di fiori.

 

Pianger ti lascierei di ci˜ che sparve;

indi sorrideremmo anche alle pietre

bianche, lˆ, tra cipressi e sicomori.

 

IV

 

Ma . . . ma tu piangi come non ti vidi

piangere mai, nel dolce viso attento.

Ma se lo so, con che dolce lamento

chiedevi al cielo e con che fiochi gridi

che ti lasciasse! Quali madri i nidi

lasciano soli pigolare al vento ?

SĠera per mamma, tĠavrei qui; lo sento:

viva; lo so: perdonami; sorridi.

 

Ma se lo so: fioccava senza fine;

e tu, tra i ceri, con la morte accanto,

sentendo gli urli della tramontana,

parlavi, ancora, delle due bambine

cui non potevi, non potevi, in tanto,

cucire i piccoli abiti di lana.

 

V

 

Ma s“: la vita mia (non piangere!) ora

non  poi tanto sola e tanto nera:

cant˜ la cingallegra in su lĠaurora,

cantava a mezzod“ la capinera.

 

I canarini cantano la sera

per la mia cena piccola e canora:

poi nellĠorto vedessi a primavera

come il ciclame e lĠulivella odora!

 

I gerani vedrai, messi al coperto

dal gelo: qualche foglia ha la cedrina,

ricordi ? lĠerba che piaceva a te . . .

 

Sorridi? a questo sbatter dĠusci ? é certo

Ida tua che sfaccenda, oggi, in cucina.

E Maria? Maria prega, oggi, per me.

 

 

IN CAMMINO

 

Siede sopra una pietra del cammino,

a notte fonda, nel nebbioso piano:

e tra la nebbia sente il pellegrino

le foglie secche stridere pian piano:

il cielo geme, immobile, lontano,

e lĠuomo pensa: Non sorger˜ pi.

 

Pensa: un occhiata quale passeggero,

vana, ha gettata a passeggero in via,

 la sua vita, e impresse nel pensiero

lĠorma che lascia il sogno che sĠoblia;

unĠorma lieve, che non sa se sia

spento dolore o gioia che non fu.

 

Ed ecco - quasi sopra la sua tomba

siede, tra lĠinvisibile caduta -

passa uno squillo tremulo di tromba

che tra la nebbia, nel passar, saluta;

squillo che viene dĠoltre lĠombra muta,

dĠoltre la nebbia: di pi su: pi su,

 

dove serene brillano le stelle

sul mar di nebbia, sul fumoso mare

in cui tĠallunghi in pallide fiammelle

tu, lento Carro, e tu, Stella polare,

passano squilli come di fanfare,

passa un nero triangolo di gru.

 

Tra le serene costellaz•oni

vanno e la nebbia delle lande strane;

vanno incessanti a tiepidi valloni,

a verdi oasi, ad isole lontane,

a dilagate cerule fiumane,

vanno al mister•oso Timbuct.

 

Sono passate . . . Ma la testa alzava

dalla sua pietra intento il pellegrino

a quella voce, e tra la nebbia cava

riprese il suo bordone e il suo destino:

tranquillamente seguit˜ il cammino

dietro lo squillo che van“a laggi.

 

 

ULTIMO SOGNO

 

Da un immoto fragor di carr•aggi

ferrei, moventi verso lĠinfinito

tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...

un silenzio improvviso. Ero guarito.

 

Era spirato il nembo del mio male

in un alito. Un muovere di ciglia;

e vidi la mia madre al capezzale:

io la guardava senza meraviglia.

 

Libero!... inerte s“, forse, quandĠio

le mani al petto sciogliere volessi:

ma non volevo. Udivasi un fruscio

sottile, assiduo, quasi di cipressi;

 

quasi dĠun fiume che cercasse il mare

inesistente, in un immenso piano:

io ne seguiva il vano sussurrare,

sempre lo stesso, sempre pi lontano.

- Fine -