Myricae
di Giovanni Pascoli
IL GIORNO DEI MORTI
Io vedo (come questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.
E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi lĠinfinita nuvolaglia.
O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
dove lĠinonda e muove la tempesta;
o camposanto che s crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo tutto sempiterni
e crisantemi. A ogni croce roggia
pende come abbracciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.
Sibila tra la festa lagrimosa
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto, di memorie, posa.
Non i miei morti. Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,
stretti cos come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano con brontolo roco),
piangono. La pupilla umida e pia
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma unĠaltra lagrima per via.
Piangono, e quando un grido chĠesce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno! . . .
cupo rompe un singulto lor dal petto.
Levano bianche mani a bianchi volti,
non altri, udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.
Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio deĠ figli, ancor non nato.
Nessuno! i morti miei gemono: nulla!
- O miei fratelli! - dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegli dal sogno della vita:
- o miei fratelli, che bevete ancora
la luce, a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati della dolce aurora;
o miei fratelli! nella notte oscura,
quando il silenzio vĠopprimeva, e vana
lĠombra formicolava di paura;
io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.
E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre
io, senza un bacio, senza una parola.
E voi, fratelli, o miei minori, nulla! . . .
voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.
Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella:
ditemi: Margherita, dormi in pace.
ChĠio lĠoda il suono della vostra voce
ora che pi non romba la procella:
io dormir con le mie braccia in croce.
Nessuno!- Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia lĠacqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre il camposanto.
- O figli - geme il padre in mezzo al nero
fischiar dellĠacqua - o figli che non sento
pi da tanti anni! un altro cimitero
forse vĠaccolse e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.
E voi le braccia dallĠasil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.
O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per unĠintera eternit vĠamai.
In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.
Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.
Oh! le parole mute ed infinite
che dissi! con qual mai strappo si franse
la vita viva delle vostre vite.
Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, n il tetto,
n chi li aiuti, n chi li consigli.
Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, mĠha tolta.
Perdona allĠuomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, buon Dio . . .
e se ha figlioli, in nome lor perdona.
Che sia felice; fagli le vie piane;
dagli oro e nome; dagli anche lĠoblio;
tutto: ma i figli miei mangino il pane.
Cos dissi in quel lampo senza fine;
Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla pi grandicella alle piccine.
Spariva a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo pi non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano. -
Dice; e pi triste si rinnova il pianto;
pi stridula, pi gelida, pi scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.
- No, babbo, vive, vivono - Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, eppur nota ad ascoltarla,
o mio Luigi, o anima compagna!
come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, allĠacqua che ti bagna!
come mutato! sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via.
- Vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?
é la sorella che mor lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio di Sogliano.
Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi; fuori del nero
chiostro, deĠ sotterranei profondi!
UnĠaltra voce tu, fratello, ascolta;
dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero;
in cui, babbo, moristi unĠaltra volta.
Parlano i morti. Non spento il cuore
n chiusi gli occhi a chi mor cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore.
E or per quanto stridula di vento
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,
o mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che rivedessi!
Avessi tu provato di quellĠora
ultima il freddo, e or questĠabbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora.-
- Ma se vivete, perch, morti cuori,
solo la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce senza fiori ?-
Cos singhiozza Giacomo: poi geme:
- Quando sola rest la nidata,
Iddio lo sa, come vi crebbi insieme:
se con pia legge lĠumili vivande
tra voi divisi, e destinai deĠ pani
il pi piccolo a me chĠero il pi grande;
se ribevvi le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;
se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di questĠacque, io suscitava
la buona fiamma dĠeriche e sarmenti;
e io, quando vedea rosso ogni viso,
e pi rossi i pi piccoli, tremava
s, del mio freddo, ma con un sorriso.
Ma non per me, non per me piango; io piango
per questa madre che, tra lĠacqua, spera,
per questo padre che desa, nel fango;
per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo io ti dicea . . . ma era
grossa la lingua e forse non udivi.-
Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto
dĠocchi lasciati dalla morte attenti,
pianto di cuori cui la sepoltura lasci,
ma solo di dolor, viventi.
LĠodo: ora scorre libero: nessuno
pu risvegliarsi, tanto notte, il vento
cos forte, il cielo cos bruno.
Nessuno udr. La povera famiglia
pu piangere. Nessuno, al suo lamento,
pu dire: Altro mio figlio! altra mia figlia!
Aspettano. Oh! che notte di tempesta
piena dĠun tremulo ululo ferino!
Non sĠode per le vie suono di pesta.
Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto chiuso. Un contadino
socchiude lĠuscio del tugurio al cane.
Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dallĠassidua romba.
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.
I figli morti stanno avvinti al padre
invendicato. Siede in una tomba.
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.
Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora lĠombra. Culla
due bimbi morti sopra i suoi ginocchi.
Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per se nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;
e dice:- Forse non verranno. Ebbene,
piet! Le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un poĠ di bene.
Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme.
E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidando, ai morti.
Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse, e per chi resta in via
l; per chi vaga in mezzo alla tempesta,
per chi cammina, cammina, cammina,
e non ha pietra ove posar la testa.
Piet pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, o figli morti, ai vivi!-
O madre! il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.
Myricae
arbusta iuvant
humilesque myricae
DALLĠALBA AL TRAMONTO
I
ALBA FESTIVA
Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?
EĠ un inno senza fine,
or dĠoro, ora dĠargento,
nellĠombre mattutine.
Con un dondolio lento
implori, o voce dĠoro,
nel cielo sonnolento.
Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla
voce argentina - Adoro,
adoro - Dilla, dilla,
la nota dĠoro - LĠonda
pende dal ciel, tranquilla.
Ma voce pi profonda
sotto lĠamor rimbomba,
par che al deso risponda:
la voce della tomba.
II
SPERANZE E MEMORIE
Paranzelle in alto mare
bianche bianche,
io vedeva palpitare
come stanche:
o speranze, ale di sogni
per il mare!
Volgo gli occhi; e credo in cielo
rivedere
paranzelle sotto un velo,
nere nere:
o memorie, ombre di sogni
per il cielo!
III
SCALPITIO
Si sente un galoppo lontano
( la . . . ?),
che viene, che corre nel piano
con tremula rapidit.
Un piano deserto, infinito;
tutto ampio, tuttĠarido, eguale:
qualche ombra dĠuccello smarrito,
che scivola simile a strale:
non altro. Essi fuggono via
da qualche remoto sfacelo;
ma quale, ma dove egli sia,
non sa n la terra n il cielo.
Si sente un galoppo lontano
pi forte,
che viene, che corre nel piano:
la Morte! la Morte! la Morte!
IV
IL MORTICINO
Non Pasqua dĠovo?
Per oggi contai
di darteli, i piedi.
é Pasqua: non sai?
é Pasqua: non vedi
il cercine novo?
Andiamoci, a mimmi,
lontano lontano...
Dan don... Oh! ma dimmi:
non vedi chĠho in mano
il cercine novo,
le scarpe dĠavvio?
Sei morto: non vedi,
mio piccolo cieco!
Ma mettile ai piedi,
ma portale teco,
ma diglielo a Dio,
che mamma ha filato
sei notti e sei d,
sudato, vegliato,
per farti, oh! cos!
le scarpe dĠavvio!
V
IL ROSICCHIOLO
Per te lĠha serbato, soltanto
per te, povero angiolo; ed eccolo
o pianto!
lo vedi? un rosicchiolo secco.
Moriva sul letto di strame;
tu, bimbo, dormivi sicuro.
Che pianto! che fame!
ma cĠera un rosicchiolo duro.
Ma ella guardava lunghe ore,
guardava il suo bimbo, e mor,
di pianto, di fame, dĠamore;
e... guarda! il rosicchiolo qui.
VI
ALLORA
Allora...in un tempo assai lunge
felice fui molto; non ora:
ma quanta dolcezza mi giunge
da tanta dolcezza dĠallora!
QuellĠanno! per anni che poi
fuggirono, che fuggiranno,
non puoi, mio pensiero, non puoi,
portare con te, che quellĠanno!
Un giorno fu quello, chĠ senza
compagno, chĠ senza ritorno;
la vita fu vana parvenza
s prima s dopo quel giorno!
Un punto!... cos passeggero,
che in vero pass non raggiunto,
ma bello cos, che molto ero
felice, felice, quel punto!
VII
PATRIA
Sogno dĠun d dĠestate.
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule pel filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.
Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose:
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose:
due bianche spennellate
in tutto il ciel turchino.
Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
dĠuna trebbatrice,
lĠangelus argentino...
dovĠero? Le campane
mi dissero dovĠero,
piangendo, mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.
VIII
IL NUNZIO
Un murmure, un rombo....
Son solo: ho la testa
confusa di tetri
pensieri. Mi desta
quel murmure ai vetri.
Che brontoli, o bombo?
che nuove mi porti?
E cadono lĠore
gi gi, con un lento
gocciare. Nel cuore
lontane risento
parole di morti...
Che brontoli, o bombo?
che avviene nel mondo?
Silenzio infinito.
Ma insiste profondo,
solingo smarrito,
quel lugubre rombo.
IX
LA CUCITRICE
LĠalba per la valle nera
sparpagli le greggi bianche:
tornano ora nella sera
e sĠarrampicano stanche:
una stella le conduce.
Torna via dalla maestra
la covata, e passa lenta:
cĠ del biondo alla finestra
tra un basilico e una menta:
Maria che cuce e cuce.
Per chi cuci e per che cosa?
un lenzuolo ? un bianco velo ?
Tutto il cielo color rosa,
rosa e oro, e tutto il cielo
sulla testa le riluce.
Alza gli occhi dal lavoro:
una lagrima? un sorriso?
Sotto il cielo rosa e oro,
chini gli occhi, chino il viso,
ella cuce, cuce, cuce.
X
SERA FESTIVA
O mamma, o mammina, hai stirato
la nuova camicia di lino ?
Non cĠera laggi tra il bucato,
sul bossolo o sul biancospino.
Su gli occhi tu tieni le mani. . .
Perch? non lo sai che domani ... ?
din don dan, din don dan.
Si parlano i bianchi villaggi
cantando in un lume di rosa:
dallĠombra deĠ monti selvaggi
si sente una romba festosa.
Tu tieni a gli orecchi le mani...
tu piangi; ed festa domani. .
din don dan, din don dan.
Tu pensi . . . oh! ricordo: la pieve . . .
quanti anni ora sono ? una sera . .
il bimbo era freddo, di neve;
il bimbo era bianco, di cera:
allora son la campana
(perch non pareva lontana ?)
din don dan, din don dan.
Sonavano a festa, come ora,
per lĠangiolo; il nuovo angioletto
nel cielo volava a quellĠora;
ma tu lo volevi al tuo petto,
con noi, nella piccola zana:
gridavi; e lass la campana. . .
din don dan, din don dan.
RICORDI
I
ROMAGNA
a Severino
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
lĠazzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
L nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con lĠaltrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza lĠanatra iridata,
oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci lĠurlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dellĠaie;
mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e Ô1 bue rumina nelle opache stalle
la sua laborosa lupinella.
DaĠ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito dĠocchi di bambini.
Gi mĠaccoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai d dĠestate
coĠ suoi pennacchi di color di rosa;
e sĠabbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
lĠimperatore nellĠeremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con lĠippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allor allor falciati
daĠ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
E lunghi, e interminati, erano quelli
chĠio meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio dĠuccelli,
risa di donne, strepito di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Cos pi non verr per la calura
tra queĠ tuoi polverosi biancospini,
chĠio non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozoso i piccolini,
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
II
ANNIVERSARIO
Sono pi di trentĠanni e di queste ore,
mamma, tu con dolor mĠhai partorito;
ed il mio nuovo piccolo vagito
tĠaddolorava pi del tuo dolore.
Poi tra il dolore sempre ed il timore,
o dolce madre, mĠhai di te nutrito:
e quando fui del corpo tuo vestito,
quandĠebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore;
allor sei morta; e son ventĠanni: un giorno!
gi gli occhi materni io penso a vuoto;
il caro viso gi mi si scolora,
mamma, e pi non ti so. Ma nel soggiorno
freddo deĠ morti, nel tuo sogno immoto,
tu mĠaccarezzi i riccioli dĠallora.
31 di dicembre 1889.
III
RIO SALTO
Lo so: non era nella valle fonda
suon che sĠudia di palafreni andanti:
era lĠacqua che gi dalle stillanti
tegole a furia percotea la gronda.
Pur via e via per lĠinfinita sponda
passar vedevo i cavalieri erranti;
scorgevo le corazze luccicanti,
scorgevo lĠombra galoppar sullĠonda.
Cessato il vento poi, non di galoppi
il suono udivo, n vedea tremando
fughe remote al dubitoso lume;
ma voi solo vedevo, amici pioppi!
Brusivano soave tentennando
lungo la sponda del mio dolce fiume.
IV
IL MANIERO
Te sovente, o tra boschi arduo maniero,
popolai di baroni e di vassalli,
mentre i falchetti udia squittio suĠ gialli
merli e radendo il baluardo nero.
Pei vetri un lume trascorrea leggiero,
e nitrivano fervidi i cavalli:
a uno squillo che uscia gi dalle valli,
apria le imposte il maggiordomo austero;
e nel fosso stridea la fragorosa
saracinesca. Or tu, canto divino,
sceso con lĠombre nel mio cuor cadenti,
dove sei? Di tramonti, ora, pensosa,
l sur un torvo giogo dĠApennino
qualchĠelce nera lo ripete ai venti.
V
IL BOSCO
O vecchio bosco pieno dĠalbatrelli,
che sai di funghi e spiri la mala,
cui tutto io gi scampanellare udia
di cicale invisibili e dĠuccelli:
in te vivono i fauni ridarelli
chĠhanno le sussurranti aure in bala;
vive la ninfa, e i passi lenti spia,
bionda tra le interrotte ombre i capelli.
Di ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia
or s or no, che se il desio le vinca,
lĠocchio alcuna ne attinge, e il sol le bacia.
Dileguano; e pur viva la boscaglia,
viva sempre neĠ fior della pervinca
e nelle grandi ciocche dellĠacacia.
VI
IL FONTE
Mentre con lieve strepito perenne
geme tra il caprifoglio una fontana,
trema un trotto tranquillo, e sĠallontana
per le fatate rilucenti Ardenne.
Qui pont i piedi e sĠalz sulle penne
quellĠIppogrifo, qui stall lĠAlfana:
Brigliadoro dallĠIndia Sericana
in questo trebbio il lungo error sostenne:
che qui lĠabbeverava il paladino,
e meditava al mormorio del fonte
senza piegar la ferrea persona:
poi segu la sua corsa e il suo destino;
cos che intorno per la valle e il monte
ancor la notte il trotto ne rintrona.
VII
ANNIVERSARIO
Sappi—e forse lo sai, nel camposanto—
la bimba dalle lunghe anella dĠoro,
e lĠaltra che fu lĠultimo tuo pianto,
sappi chĠio le raccolsi e che le adoro.
Per lor ripresi il mio coraggio affranto,
e mi detersi lĠanima per loro:
hanno un tetto, hanno un nido, ora, mio vanto;
e lĠamor mio le nutre e il mio lavoro.
Non son felici, sappi, ma serene:
il lor sorriso ha una tristezza pia:
io le guardo—o mia sola erma famiglia !—
sempre a gli occhi sento che mi viene
quella che ti bagn nellĠagonia
non terminata lagrima le ciglia.
31 di dicembre 1890.
VIII
I PUFFINI DELLĠADRIATICO
Tra cielo e mare (un rigo di carmino
recide intorno lĠacque marezzate)
parlano. é unĠalba cerula dĠestate:
non una randa in tutto quel turchino.
Pur voci reca il soffio del garbino
con ozose e tremule risate.
Sono i puffini: su le mute ondate
pende quel chiacchiericcio mattutino.
Sembra un vociare, per la calma, fioco,
di marinai, chĠad ora ad ora giunga
tra Ôl fievole sciacquo della risacca;
quando, stagliate dentro lĠoro e il fuoco,
le paranzelle in una riga lunga
dondolano sul mar liscio di lacca.
IX
CAVALLINO
O bel clivo fiorito Cavallino
chĠio varcai coĠ leggiadri eguali a schiera
al mio bel tempo; chi sa dir se lĠera
dĠolmo la tua parlante ombra o di pino?
Era busso ricciuto o biancospino,
da cui dorata trasparia la sera?
CĠ un campanile tra una selva nera,
che canta, bianco, lĠinno mattutino?
Non so: ch quando a te sĠappressa il vano
desio, per entro il cielo fuggitivo
te vedo incerta vison fluire.
So chĠor sembri il paese allor lontano
lontano, che dal tuo fiorito clivo
io rimirai nel limpido avvenire.
X
LE MONACHE Dl SOGLIANO
Dal profondo geme lĠorgano
tra Ôl fumar deĠ cerei lento:
cĠ un brusio cupo di femmine
nella chiesa del convento:
un vegliardo austero mormora
dallĠaltar suoi brevi appelli:
dietro questi sĠacciabattano
delle donne i ritornelli.
Ma di mezzo a un lungo gemito,
da invisibile cortina,
sĠalza a vol secura ed agile
una voce di bambina;
e dintorno a questa ronzano,
tutte a volo, unite e strette,
e la seguono e rincorrono,
voci dĠaltre giovinette.
Per noi prega, o santa Vergine,
per noi prega, o Madre pia;
per noi prega, esse ripetono,
o Maria! Maria! Maria!
Quali note! Par che tinnino
nellĠinfrangersi del cuore:
paion umide di lagrime,
paion ebbre di dolore.
Oh! qual colpa macchi lĠanima
di codeste prigioniere?
qual dolor pot precorrervi
la fiorita del piacere?
Queste bimbe, queste vergini
che offesero Dio santo,
che perdno ne sospirano
con s lungo inno di pianto?
Manda lĠorgano i suoi gemiti
traĠl fumar deĠ cerei lento:
di lontane plaghe sembrano
cupe e fredde onde di vento...
Dalle plaghe inaccessibili
cupo e freddo il vento romba:
gi sottentra ai lunghi gemiti
il silenzio della tomba.
XI
IL SANTUARIO
Come unĠarca dĠaromi oltremarini,
il santuario, a mezzo la scogliera,
esala ancora lĠinno e la preghiera
tra i lunghi intercolunnii deĠ pini;
e trema ancor deĠ palpiti divini
che lĠhanno scosso nella dolce sera,
quando dalla grandĠabside severa
uscia lĠincenso in fiocchi cilestrini.
SĠincurva in una luminosa arcata
il ciel sovrĠesso: alle colline estreme
il Carro e fermo e spia lĠombra che sale.
Sale con lĠombra il suon dĠuna cascata
che grave nel silenzio sacro geme
con un sospiro eternamente uguale.
XII
ANNIVERSARIO
Gi li vedevo gli occhi tuoi, soavi
seguirmi sempre per il mio cammino,
chinarsi mesti sul mio capo chino,
volgersi, al mio dubbiar, dubbiosi e gravi.
Come col dolor tuo mi consolavi,
come, o cuore vivente oltre il destino!
come al tuo collo ti tornai bambino
piangendo il pianto che su me versavi!
Or che rivivo alfine, or che trovai
ah! le due parti del tuo cuore infranto,
ora quellĠocchio pi che mai materno...
No: tu con gli altri, al freddo, allĠacqua, stai,
con gli altri, solitari in camposanto,
in questa sera torbida dĠinverno.
31 di dicembre 1891.
PENSIERI
I
TRE VERSI DELLĠASCREO
ÒNon di perenni fiumi passar lĠonda,
che tu non preghi volto alla corrente
pura, e le mani tuffi nella monda
acqua lucenteÓ
dice il poeta. E cos guarda, o saggio,
tu nel dolore, cupo fiume errante:
passa, e le mani reca dal passaggio
sempre pi sante...
II
I TRE GRAPPOLI
Ha tre, Giacinto, grappoli la vite.
Bevi del primo il limpido piacere;
bevi dellĠaltro lĠoblio breve e mite;
e... pi non bere:
ch sonno il terzo, e con lo sguardo acuto
nel nero sonno vigila, da un canto,
sappi, il dolore; e alto grida un muto
pianto gi pianto.
III
SAPIENZA
Sal pensoso la romita altura
ove ha il suo nido lĠaquila e il torrente,
e centro della lontananza oscura
sta, sapente.
Oh! scruta intorno glĠignorati abissi:
pi ti va lungi lĠocchio del pensiero,
pi presso viene quello che tu fissi:
ombra e mistero.
IV
CUORE E CIELO
Nel cuor dove ogni vison sĠimmilla,
e spazio al cielo ed alla terra avanza,
talor si spenge un desiderio, e brilla
una speranza:
come nel cielo, oceano profondo,
dove ascendendo il pensier nostro annega,
tramonta unĠAlfa, e pullula dal fondo
cupo unĠOmega.
V
MORTE E SOLE
Fissa la morte: costellazone
lugubre che in un cielo nero brilla:
breve parola, chiara visone:
leggi, o pupilla.
Non puoi. Cos, se fissi mai lĠimmoto
astro nei cieli solitari ardente,
se guardi il sole, occhio, che vedi ? Un vto
vortice, un niente.
VI
PIANTO
Pi bello il fiore cui la pioggia estiva
lascia una stilla dove il sol si frange;
pi bello il bacio che dĠun raggio avviva
occhio che piange.
VII
CONVIVIO
O convitato della vita, lĠora.
Brillino rossi i calici di vino;
tu n bramoso pi, n sazio ancora,
lascia il festino.
Splendano dĠaurea luce i lampadari,
fragri la rosa e il timo dellĠImetto,
sorrida in cerchio tuttavia di cari
capi il banchetto:
tu sorgi e... Triste, su la mensa ingombra,
delle morenti lampade lo svolo
lugubre lungo! triste errar nellĠombra,
ultimo, solo!
VIII
IL PASSATO
Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto:
un sorriso mi sembra ora quel pianto.
Rivedo i luoghi, dove ho gi sorriso...
Oh! come lacrimoso quel sorriso!
IX
TRA IL DOLORE E LA GIOIA
Vidi il mio sogno sopra il monte in cima;
era una striscia pallida; coĠ suoi
boschi dĠun verde quale mai n prima
vidi n poi.
Prima, il sonante nembo coi velari,
tutto ascondeva, delle nubi nere:
poi, tutto il sole disvel del pari
bello a vedere.
Ma quel mio sogno al raggio dĠunĠaurora
nuova mĠapparve e sparve in un baleno,
che il ciel non era torbo pi n ancora
tutto sereno.
X
NEL CUORE UMANO
Non ammirare, se in un cuor non basso,
cui tu rivolga a prova, un pungiglione
senti improvviso: cĠ sottĠogni sasso
lo scorpone.
Non ammirare, se in un cuor concesso
al male, senti a quando a quando un grido
buono, un palpito santo: ogni cipresso
porta il suo nido.
CREATURE
I
FIDES
Quando brillava il vespero vermiglio,
e il cipresso pareva oro, oro fino,
la madre disse al piccoletto figlio:
Cos fatto lass tutto un giardino.
Il bimbo dorme, e sogna i rami dĠoro,
gli alberi dĠoro, le foreste dĠoro;
mentre il cipresso nella notte nera
scagliasi al vento, piange alla bufera.
II
CEPPO
é mezzanotte. Nevica. Alla pieve
suonano a doppio; suonano lĠentrata.
Va la Madonna bianca tra la neve:
spinge una porta; lĠapre: era accostata.
Entra nella capanna: la cucina
e piena dĠun sentor di medicina.
Un bricco al fuoco sĠode borbottare:
piccolo il ceppo brucia al focolare.
Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.
Gesu trema; Maria si accosta al fuoco.
Ma ecco un suono, un rantolo che viene
di su, sempre pi fievole e pi roco.
Il bricco versa e sfrigge: la campana,
col vento, or sĠavvicina, or sĠallontana.
La Madonna, con una mano al cuore,
geme: Una mamma, figlio mio, che muore!
E piano piano, col suo bimbo fiso
nel ceppo, torna allĠuscio, apre, sĠavvia.
Il ceppo sbracia e crepita improvviso,
il bricco versa e sfrigola via via:
quel rantolo... finito. O Maria stanca!
bianca tu passi tra la neve bianca.
Suona dĠintorno il doppio dellĠentrata:
voce velata, malata, sognata.
III
MORTO
Manina chiusa, che nel sonno grande
stringi qualcosa, dimmi cosa ci hai!
Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande:
quello che stringe, niuno sapr mai.
Te lĠha portato lĠAngelo, il suo dono:
nel sonno, sempre lo stringevi, un dono.
La notte cĠera, non cĠera il mattino.
Questo ti rester. Dormi, bambino.
IV
ORFANO
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola pian piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento sulla mano.
La vecchia canta: Intorno al tuo lettino
cĠ rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo sĠaddormenta.
La neve fiocca lenta, lenta, lenta.
V
ABBANDONATO
Nella soffitta solo, nudo, muore.
Stille su stille gemono dal tetto.
Gli dice il Santo—Ancora un poĠ; faĠ cuore—
Mormora—Il pane; tanto che lĠaspetto—
LĠAngelo dice—or viene il Salvatore—
Sospira—un panno pel mio freddo letto—
Maria dice—é finito il tuo dolore!—
—oh! mamma io voglio, e dormire al suo petto—
Lagrima a goccia a goccia la bufera
nella soffitta. Il Santo veglia, assiso;
lĠAngelo guarda, smorto come cera;
la Vergine Maria piange un sorriso.
Tace il bambino, aspetta sino a sera,
allĠuscio guarda, coi grandi occhi, fiso.
La notte cade, lĠombra si fa nera;
egli va, desolato, in Paradiso.
LA CIVETTA
Stavano neri al lume della luna
gli erti cipressi, guglie di basalto,
quando tra lĠombre svol rapida una
ombra dallĠalto:
orma sognata dĠun volar di piume,
orma di un soffio molle di velluto,
che pass lĠombre e scivol nel lume
pallido e muto;
ed i cipressi sul deserto lido
stavano come un nero colonnato,
rigidi, ognuno con tra i rami un nido
addormentato.
E sopra tanta vita addormentata
dentro i cipressi, in mezzo alla brughiera
sonare, ecco, una stridula risata
di fattucchiera:
una minaccia stridula seguita,
forse, da brevi pigolii sommessi,
dal palpitar di tutta quella vita
dentro i cipressi.
Morte, che passi per il ciel profondo,
passi con ali molli come fiato,
con gli occhi aperti sopra il triste mondo
addormentato;
Morte, lo squillo acuto del tuo riso
unico muove lĠombra che ci occulta
silenzosa, e, desta allĠimprovviso
squillo, sussulta;
e quando taci, e par che tutto dorma
nel cipresseto, trema ancora il nido
dĠogni vivente: ancor, nellĠaria, lĠorma
cĠ del tuo grido.
LE PENE DEL POETA
I
I DUE FUCHI
Tu poeta, nel torbido universo
tĠaffisi, tu per noi lo cogli e chiudi
in lucida parola e dolce verso;
si chĠopera di te ci che lĠuom sente
tra lĠombre vane, tra gli spettri nudi.
Or qual nĠhai grazia tu presso la gente?
Due fuchi udii ronzare sotto un moro.
Fanno queste api quel lor miele (il primo
diceva) e niente pi: beate loro!
E lĠaltro: E poi fa afa: troppo timo!
II
IL CACCIATORE
Frulla un tratto lĠidea nellĠaria immota;
canta nel cielo. Il cacciator la vede,
lĠode; la segue: il cuor dentro gli nuota.
Se poi col dardo, come fil di sole
lucido e retto, bttesela al piede,
oh il poeta! gioiva; ora si duole.
Deh! gola dĠoro e occhi di berilli,
piccoletta del cielo alto sirena,
ecco, tu pi non voli, pi non brilli,
pi non canti: e non basti alla mia cena.
III
IL LAURO
NellĠorto, a Massa - o blocchi di turchese,
alpi Apuane ! o lunghi intagli azzurri
nel celestino, allĠorlo del paese!
un odorato e lucido verziere
pieno di frulli, pieno di sussurri,
pieno deĠ flauti delle capinere.
NellĠaie acuta la magnolia odora,
lustra lĠarancio popolato dĠoro -
io, quando al Belvedere era lĠaurora,
venivo al piede dĠuno snello alloro.
Sorgeva presso il vecchio muro, presso
il vecchio busto dĠun imperatore,
col tronco svelto come di cipresso.
Slanciato avanti, sopra il muro, al sole
dava la chioma. Intorno era un odore,
sottil, di vecchio, e forse di vole.
Io sognava: una corsa lungo il puro
Frigido, lĠoro di capelli sparsi,
una fanciulla . . . Ancora al vecchio muro
tremava il lauro che parea slanciarsi.
UnĠalba - si sentia di due fringuelli
chiaro il francesco mio: la capinera
gi desta squittina di tra i piselli -
tu pi non cĠeri, o vergine fugace:
netto il pedale era tagliato: vĠera
quel vecchio odore e quella vecchia pace:
il lauro, no. Sarchiava l vicino
Fiore, un ragazzo pieno di bont.
Gli domandai del lauro; e Fiore, chino
sopra il sarchiello: Faceva ombra, sa!
E mĠaccennavi un campo glauco, o Fiore,
di cavolo cappuccio e cavolfiore.
IV
LE FEMMINELLE
E dice la rosa alba: oh! chi mi svelle?
Son mesta come un colchico: dal ciocco
tanto mi germin di femminelle!
Erano come punte tenerine
di sparagio: poi fecero lo stocco;
buttano anchĠesse e sĠarmano di spine.
Vivono deĠ miei fiori color dĠalba,
dĠalba rosata; e tu non giovi, o ruta.
Mettono un boccio: una corolla scialba,
subito aperta, subito caduta.
LĠULTIMA PASSEGGIATA
I
ARANO
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazente;
ch il passero saputo in cor gi gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi sĠode
il suo sottil tintinno come dĠoro.
II
DI LASSô
La lodola perduta nellĠaurora
si spazia, e di lass canta alla villa,
che un fil di fumo qua e l vapora;
di lass largamente bruni farsi
i solchi mira quella sua pupilla
lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi.
Qualche zolla nel campo umido e nero
luccica al sole, netta come specchio:
fa il villano mannelle in suo pensiero,
e il canto del cuculo ha nellĠorecchio.
III
GALLINE
Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cor, come a noi grami:
che dĠarguti galletti ha piena lĠaia;
e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami:
zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.
Cantano a sera intorno a lei stornelli
le fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre il granturco sfogliano, e i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.
IV
LAVANDARE
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come lĠaratro in mezzo alla maggese.
V
I DUE BIMBI
I due bimbi si rizzano: uno, a stento,
indolenzito; grave, lĠaltro: il primo
alza il corbello con un gesto lento;
e in quel dellĠaltro fa cader, bel bello,
il suo tesoro dĠaccattato fimo:
e quello va pi carico e pi snello.
Il vinto siede, prova unĠaltra volta
coi noccioli, li sperpera, li aduna,
e dice (forse al grande olmo che ascolta?):
E poi si dica che non ha fortuna!
VI
LA VIA FERRATA
Tra gli argini su cui mucche tranquilla-
mente pascono, bruna si difila
la via ferrata che lontano brilla;
e nel cielo di perla dritti, uguali,
con loro trama delle aeree fila
digradano in fuggente ordine i pali.
Qual di gemiti e dĠululi rombando
cresce e dilegua femminil lamento?
I fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora, al vento.
VII
FESTA LONTANA
Un piccolo infinito scampando
ne ronza e vibra, come dĠuna festa
assai lontana, dietro un vel dĠoblio.
L, quando ondando vanno le campane,
scoprono i vecchi per la via la testa
bianca, e lo sguardo al suoi fisso rimane.
Ma tondi gli occhi sgranano i bimbetti,
cui trema intorno il loro ciel sereno.
Strillano al crepitar deĠ mortaretti.
Mamma li stringe allĠodorato seno.
VIII
QUEL GIORNO
Dopo rissosi cinguetti nellĠaria,
le rondini lasciato hanno i veroni
della Cura fra gli olmi solitaria.
Quanti quel roseo campanil bisbigli
ud, quel giorno, o strilli di rondoni
impazenti a glĠinqueti figli!
Or nel silenzio del meriggio urtare
l dentro odo una seggiola, una gonna
frusciar dĠun tratto: alla finestra appare
curoso un gentil viso di donna.
IX
MEZZOGIORNO
LĠosteria della Pergola in faccende:
piena di grida, di brusio, di sordi
tonfi; il camin fumante a tratti splende.
Sulla soglia, tra il nembo degli odori
pingui, un mendico brontola: Altri tordi
cĠera una volta, e altri cacciatori.
Dice, e il cor sĠ beato. Mezzogiorno
dal villaggio a rintocchi lenti squilla;
e dai remoti campanili intorno
unĠondata di riso empie la villa.
X
GIAĠ DALLA MATTINA
Acqua, rimbomba; dondola, cassetta;
gira, coperchio, intorno la bronzina;
versa, tramoggia, il gran dalla bocchetta;
spolvero, svola. Nero da una fratta
lĠasino attende gi dalla mattina
presso la risonante cateratta.
Le orecchie scrolla e volgesi a guardare
ch tardi, tra finire, andar bel bello,
intridere, spianare ed infornare,
sul desco fumerai, pan di cruschello.
XI
CARRETTIERE
O carrettiere che dai neri monti
vieni tranquillo, e fosti nella notte
sotto ardue rupi, sopra aerei ponti;
che mai diceva il querulo aquilone
che muggia nelle forre e fra le grotte?
Ma tu dormivi sopra il tuo carbone.
A mano a mano lungo lo stradale
vena fischiando un soffio di procella:
ma tu sognavi chĠera di natale;
udivi i suoni dĠuna cennamella.
XII
IN CAPANNELLO
Cigola il lungo e tremulo cancello
la via sbarra: ritte allo steccato
cianciano le comari in capannello:
parlan dĠuno chĠ un altro scrivo scrivo;
del vin che costa un occhio, e ce nĠ stato;
del governo; di questo mal cattivo;
del piccino; del grande chĠ sui venti;
del maiale, che mangia e non ingrassa -
Nero avanti a quelli occhi indifferenti
il traino con fragore di tuon passa.
XIII
IL CANE
Noi mentre il mondo va per la sua strada,
noi ci rodiamo, e in cuor doppio lĠaffanno,
e perch vada, e perch lento vada.
Tal, quando passa il grave carro avanti
del casolare, che il rozzon normanno
stampa il suolo con zoccoli sonanti,
sbuca il can dalla fratta, come il vento;
lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia.
Il carro dilungato lento lento.
Il cane torna sternutando allĠaia.
XIV
O REGINELLA
Non trasandata ti cre per vero
la cara madre: tal, lungo la via,
tela albeggia, onde godi in tuo pensiero:
presso la festa, e ognuno a te domanda
candidi i lini, poi che in tua bala
il cassone odorato di lavanda.
Felici i vecchi tuoi; felici ancora
i tuoi fratelli; e pi, quando a te piaccia,
chi sua ti porti nella sua dimora,
o reginella dalle bianche braccia.
XV
TI CHIAMA
Quella sera i tuoi vecchi (odi? ti chiama
la cara madre: al fumo della bruna
pentola, con irrequieta brama,
rissano i bimbi: frena tu, severa,
quinci una mano trepida, quindi una
stridula bocca, e al piccol volgo impera;
s che in pace, tra un grande acciottolo,
bruchi la sussurrante famigliola),
quella notte i tuoi vecchi un dolor pio
soffocheranno contro le lenzuola.
XVI
O VANO SOGNO
Al camino, ove scoppia la mortella
tra la stipa, o chĠio sogno, o veglio teco:
mangio teco radicchio e pimpinella.
Al soffiar delle raffiche sonanti,
lĠaulente fieno sul forcon mĠarreco,
e visito i miei dolci ruminanti:
poi salgo, e teco - O vano sogno! Quando
nella macchia fiorisce il pan porcino,
lo scolaro i suoi divi ozi lasciando
spolvera il badale calepino:
chioccola il merlo, fischia il beccaccino;
anchĠio torno a cantare in mio latino.
DIALOGO
Scilp: i passeri neri su lo spalto
corrono, molleggiando. Il terren sollo
rade la rondine e vanisce in alto:
vitt. . . videvitt. Per gli uni il casolare,
lĠaia, il pagliaio con lĠaereo stollo;
ma per l altra il suo cielo ed il suo mare.
Questa, se gli olmi ingiallano la frasca,
cerca i palmizi di Gerusalemme:
quelli, allor che la foglia ultima casca,
restano ad aspettar le prime gemme.
Dib dib bilp bilp: e per le nebbie rare,
quando alla prima languida dolciura
lĠolmo gi sogna di rigermogliare,
lasciano a branchi la citt sonora
e vanno, come per la mietitura,
alla campagna, dove si lavora.
Dopo sementa, presso lĠabituro
il casereccio passero rimane;
e dal pagliaio, dentro il cielo oscuro
saluta le migranti oche lontane.
Fischia un grecale gelido, che rade:
copre un tendone i monti solitari:
a notte il vento rugge, urla: poi cade.
E tutto bianco e tacito al mattino:
nuovo: e dai bianchi e muti casolari
il fumo sbalza, qua e l turchino.
La neve! (Videvitt: la neve? il gelo?
ei di voi, rondini, ride:
bianco in terra, nero in cielo
vĠ di voi chi vide . . . vide . . . videvitt?)
La neve! Allora, poi che il cibo manca,
alla citt dai mille campanili
scendono, alla citt fumida e bianca;
a mendicare. Dalla lor grondaia
spiano nelle chiostre e nei cortili
la granata o il grembiul della massaia.
Tornano quindi ai campi, a seminare
veccia e saggina coi villani scalzi,
e - videvitt - venuta dĠoltremare
trovano te che scivoli, che sbalzi,
rondine, e canti; ma non sai la gioia
-scilp- della neve, il giorno che dimoia.
NOZZE
a G.V
Dava moglie la Rana al suo figliolo.
Or con la pace vostra, o raganelle,
suon lo chiese ad un cantor del brolo.
Egli cant: la cobbola giuliva
parve un picchierellar trito di stelle
nel ciel di sera, che ne tintinniva.
Le campagne addolc quel tintinnio
e i neri boschi fumiganti dĠoro.
ti ti ti ti ti ti ti ti ti
torotorotorotorotx
torotorotorotorolililx
é notte: ancora in un albor di neve
sale questĠinno come uno zampillo;
quando la Rana chiede, quanto deve:
se quattro chioccioline, o qualche foglia
dĠappio o voglia un mazzuolo di serpillo,
o voglia un paio di bachi, o ci che voglia.
Oh! risposĠegli: nulla al Rosignolo,
nulla tu devi delle sue cantate:
ei lĠha per nulla e d per nulla: solo,
si lĠascoltate e poi non gracidate.
Al lume della luna ogni ranocchia
gracid: Quanta spocchia, quanta spocchia!
LE GIOIE DEL POETA
I
IL MAGO
ÒRose al verziere, rondini al verone!Ó
Dice, e lĠaria alle sue dolci parole
sibila dĠali, e lĠirta siepe fiora.
Altro il savio potrebbe; altro non vuole;
pago se il ciel gli canta e il suol gli odora;
suoi. nunzi manda alla nativa aurora,
a biondi capi intreccia sue corone.
II
IL MIRACOLO
Vedeste, al tocco suo, morte pupille!
Vedeste in cielo bianchi lastricati
con macchie azzurre tra le lastre rare;
bianche le fratte, bianchi erano i prati,
queto fumava un bianco casolare,
sfogliava il mandorlo ali di farfalle.
Vedeste lĠerba lucido tappeto,
e sulle pietre il musco smeraldino;
tremava il verde ciuffo del canneto,
sbocciava la ninfea nellĠacquitrino,
tra rane verdi e verdi raganelle.
Vedeste azzurro scendere il ruscello
fuori dei monti, fuor delle foreste,
e quelle creste, aereo castello,
tagliare in cielo un lembo piu celeste:
era colore di viola il colle.
Vedeste in mezzo a nuvole di cloro
rossa raggiar la fuga deĠ palazzi
lungo la ripa, ed il tramonto dĠoro
dalle vetrate vaporare a sprazzi,
a larghi fasci, a tremule scintille.
Dormono i corvi dentro i lecci oscuri
qualche fiaccola va pei cimiteri;
dentro i palazzi, dentro gli abituri,
al buio, accanto ai grandi letti neri,
dormono nere e piccole le culle.
III
IN ALTO
Nel ciel dorato rotano i rondoni.
Avessi al cor, come ali, cos lena!
Pur lĠamerei la negra terra infida,
sol per la gioia di toccarla appena,
fendendo al ciel non senza acute strida.
Ora quel cielo sembra che mĠirrida,
mentre vado cos, grondon grondoni.
IV
GLORIA
-Al santo monte non verrai, Belacqua?-
Io non verr: lĠandare in su che porta?
Lungi la Gloria, e piedi e mani vuole;
e l non sĠapre che al pregar la porta,
e qui star dietro il sasso a me non duole,
ed ascoltare le cicale al sole,
e le rane che gracidano, Acqua acqua!
V
CONTRASTO
I
Io prendo un poĠ di silice e di quarzo:
lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:
veĠ la fiala come un d di marzo,
azzurra e grigia, torbida e serena!
Un cielo io faccio con un poĠ di rena
e un poĠ di fiato. Ammira: io son lĠartista.
II
Io vo per via guardando e riguardando,
solo, soletto, muto, a capo chino:
prendo un sasso, tra mille, a quando a quando:
lo netto, arroto, taglio, lustro, affino:
chi mi sia, non importa: ecco un rubino;
vedi un topazio; prendi unĠametista.
VI
LA VITE E IL CAVOLO
Dal glauco e pingue cavolo si toglie
e fugge allĠolmo la pampinea vite,
ed a s, tra le branche inaridite,
tira il puniceo strascico di foglie.
Pace, o pampinea vite ! Aureo sĠaccoglie
il sol nel lungo tuo grappolo mite;
aurea la gioia, e dentro le brunite
coppe ogni cura in razzi dĠoro scioglie.
Ma, nobil vite, alcuna gloria spesso
pur di quel gramo, se per lui lĠoscuro
paiol borbotta con suo lieve scrollo;
e il core allegra al pio villan, che dĠesso
trova odorato il tiepido abituro,
mentre aĠ fumanti buoi libera il collo.
FINESTRA ILLUMINATA
I
MEZZANOTTE
a A. B.
Otto... nove... anche un tocco: e lenta scorre
lĠora; ed un altro... un altro. Uggiola un cane.
Un chi singhiozza da non so qual torre.
é mezzanotte. Un doppio suon di pesta
sĠode, che passa. CĠ per vie lontane
un rotolo di carri che sĠarresta
di colpo. Tutto chiuso, senza forme,
senza colori, senza vita. Brilla,
sola nel mezzo alla citt che dorme,
una finestra, come una pupilla
II
UN GATTO NERO
aperta. Uomo che vegli nella stanza
illuminata, chi ti fa vegliare?
dolore antico o giovine speranza?
Tu cerchi un Vero. Il tuo pensier somiglia
un mare immenso: nellĠimmenso mare,
una conchiglia; dentro la conchiglia,
una perla: la vuoi. Vecchio, un gran bosco
nevato, ai primi languidi scirocchi,
per la tua faccia. Un gatto nero, un fosco
viso di sfinge, tĠapre i suoi verdi occhi...
III
DOPO?
Forse una buona vedova. . . QuandĠella
facea lĠimbastitura e il sopramano,
venne il suo bimbo e chiese la novella.
Venne ai suoi piedi: ella cont del Topo,
del Mago . . . Alla costura, egli, pian piano,
lĠultima volta le sussurr, Dopo?
Dopo tanto, cĠ sempre qualche occhiello.
Il topo morto, sĠ smarrito il mago.
Il bimbo dorme sopra lo sgabello,
tra le ginocchia, al ticchettio dellĠago.
IV
UN RUMORE . . .
Una fanciulla. . . La tua mano vola
sopra la carta stridula: sĠimpenna:
gli occhi cercano intorno una parola.
E la parola te la d la muta
lampada che sussulta: onde la penna
la via riprende scricchiolando arguta.
St! un rumore . . . ai labbri ti si porta
la penna, un piede dondola . . . Che cosa?
Nulla: un tarlo, un brandir lieve di porta . .
Oh! mamma dorme, e sogna . . . che sei sposa.
V
POVERO DONO
Getta quellĠarma che tĠincanta. Spera
lĠultima volta. Aspetta ancora, aspetta
che il gallo canti per la citt nera.
Il gallo canta, fuggono le larve.
Fuggir, fuggir la maledetta
maga che con fatali occhi tĠapparve.
Verr tua madre morta, col suo mesto
viso, col mormoro della sua prece. . .
ti pregher che tu lo serbi questo
povero dono chĠella un d ti fece!
VI
UN RONDINOTTO
é ben altro. Alle prese col destino
veglia un ragazzo che con gesti rari
fila un suo lungo penso di latino.
Il capo ad ora ad ora egli solleva
dalla catasta dei vocabolari,
come un galletto garrulo che beva.
Povero bimbo! di tra i libri via
appare il bruno capo tuo, scompare;
come dĠun rondinotto, quando spia
se torna mamma e porta le zanzare.
VII
SOGNO DĠOMBRA
Rantolo dĠavo, rantolo dĠinfante.
Par lĠuno il cigolo dĠun abbaino
a cui percuota lĠaquilone errante:
lĠaltro e come a fior dĠacqua un improvviso
vanir di bolla, donde un cerchiolino
sĠapre ogni volta e scivola nel viso.
Vissero. Quanto? le pupille fisse
chiedono. Uno la gente di sua gente
vide; lĠaltro, non s. Ma lĠuno visse
quello che lĠaltro: un sogno dĠombra, un niente.
VIII
MISTERO
Vergine . . . bianca sopra il bianco letto,
ti prese il sonno a mezzo la preghiera?
Tu hai le mani in croce sopra il petto.
Ti prese tra i due ceri e le corone
quel sonno? in mezzo agli Ave della sera?
Tu dici ancora quella orazone.
Tieni il rosario tra le mani pie.
Non muove i labbri un tremito leggiero?
Ma non scorrono pi le avemarie,
e tu contemplerai sempre un mistero.
IX
VAGITO
Mammina . . . bianca sopra il letto bianco
tu dormi. Chi sul volto ti compose
quel dolor pago e quel sorriso stanco ?
Tu dormi: intorno al languido origliere
tutto biancheggia. Intorno a te le cose
fanno piccoli cenni di tacere.
E tutto albeggia e tutto tace. Il fine
questo, questo il cominciar dĠun rito?
Di tra un silenzio candido di trine
parla il mistero in suono di vagito.
SOLITUDINE
I
Da questo greppo solitario io miro
passare un nero stormo, un aureo sciame;
mentre sul capo al soffio di un sospiro
ronzano i fili tremuli di rame.
é sul mio capo unĠeco di pensiero
lunga, n so se gioia o se martoro;
e passa lĠombra dello stormo nero,
e passa lĠombra dello sciame dĠoro.
II
Sono citt che parlano tra loro,
citt nellĠaria cerula lontane;
tumultuanti dĠun voco sonoro,
di rote ferree e querule campane.
L, genti vanno irrequete e stanche,
cui falla il tempo, cui lĠamore avanza
per lungi, e lĠodio. Qui, quellĠeco ed anche
quel polverio di ditteri, che danza.
III
Parlano dallĠazzurra lontananza
nei giorni afosi, nelle vitree sere;
e sono mute grida di speranza
e di dolore, e gemiti e preghiere. . .
Qui quel ronzo. Le cavallette sole
stridono in mezzo alla gramigna gialla;
i moscerini danzano nel sole;
trema uno stelo sotto una farfalla.
CAMPANE A SERA
Odi, sorella, come note al core
quelle nel vespro tinnule campane
empiono lĠaria quasi di sonore
grida lontane ?
A quel tumulto aereo risponde
dal cuore un fioco scampano, s lieve,
come stormeggi, dietro macchie fonde,
candida pieve.
Forse una pieve neĠ cilestri monti
la sagra annunzia ad ogni casolare,
onde si fece aĠ placidi tramonti
lungo parlare;
ed or, sospeso il ticchettio dellĠago,
guardano donne verso la marina,
seguendo un fiocco di bambagia, vago,
che vi sĠostina.
Grandi occhi, sotto grandi archi di ciglia,
guardano il cielo, empiendosi di raggi,
l dove lĠaria allumina vermiglia
boschi di faggi.
Voci soavi, voi tinnite a festa
da cos strana e cupa lontananza,
che l si trova il desiderio, e resta
qua la speranza.
Io mi rivedo in un branchetto arguto
di biondi eguali su per lĠAppennino
opaco dĠelci: o snelle, vi saluto,
torri dĠUrbino!
Vi riconosco, o due sottili torri,
vi riconosco, o memori Cesane
folte di lazzi cornoli i borri
e dĠavellane.
Vaga lo stuolo delle rosee bocche
peĠ clivi, e sparge nella via maestra
messe di fiordalisi e lĠauree ciocche
della ginestra.
Nella via bianca il novo drappo svaria
coi rosolacci e le sottili felci;
e par che attenda, nella solitaria
ombra dellĠelci;
pare che attenda nella via tranquilla,
sotto questĠampio palpito sonoro,
uno dai neri monti su cui brilla
porpora e oro.
ELEGIE
I
LA FELICITË
Quando, allĠalba, dallĠombra sĠaffaccia,
discende le lucide scale
e vanisce; ecco dietro la traccia
dĠun fievole sibilo dĠale,
io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: gi in cuore
io la vedo, gi tendo le mani,
gi tengo la gloria e lĠamore.
Ahi! ma solo al tramonto mĠappare,
su lĠorlo dellĠombra lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.
La via fatta, il trascorso dolore,
mĠaccenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.
II
SORELLA
a Maria
Io non so se pi madre gli sia
la mesta sorella o pi figlia:
ella dolce ella grave ella pia,
corregge conforta consiglia.
A lui preme i capelli, lĠabbraccia
pensoso, gli dice, Che hai?
a lui cela sul petto la faccia
confusa, gli dice, Non sai?
Ella serba nel pallido viso,
negli occhi che sfuggono intorno,
ah! per quando egli parte il sorriso,
le lagrime per il ritorno.
Per lĠassente la madia che odora,
serb la vivanda pi buona;
e lo accoglie lo sguardo che ignora,
col bacio che sa, ma perdona.
Ella cuce: nellĠombra romita
non sĠode che lĠago e lĠanello;
ecco, lĠago fra le agili dita
ripete, Stia caldo, sia bello!
Ella prega: un lungo alito dĠave-
marie con un murmure lene...
ella prega; ed unĠeco soave
ripete, Sia buono, stia bene!
III
X AGOSTO
San Lorenzo, io lo so perch tanto
di stelle per lĠaria tranquilla
arde e cade, perch s gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
lĠuccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena deĠ suoi rondinini.
Ora l come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido nellĠombra, che attende,
che pigola sempre pi piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
lĠuccisero: disse: Perdono;
e rest negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora l, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dallĠalto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! dĠun pianto di stelle lo inondi
questĠatomo opaco del Male!
IV
LĠANELLO
Nella mano sua benedicente
lĠanello brillava lontano.
Egli alz quella mano, morente:
di caldo sĠemp quella mano..
O mio padre, di sangue! LĠanello
lo tenne sul cuore mia madre...
O mia madre! Poi lĠebbe il fratello
mio grande... o mio piccolo padre!
Nel suo gracile dito il tesoro
raggi di benedizone.
Una macchia avea preso quellĠoro,
di ruggine, presso il castone...
O mio padre, di sangue! Una sera,
la macchia volevi lavare,
o fratello? che pianto fu ! tĠera
caduto lĠanello nel mare.
E nel mare rimasto; nel fondo
del mare che grave sospira;
una stella dal cielo profondo
nel mare profondo lo mira.
Quella macchia ! SĠadopra a lavarla
il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
al cielo infinito; ah! in vano.
V
AGONIA DI MADRE
Muore. Sfugge alla morta pupilla
gi il bimbo che geme al suo piede:
ode un suono lontano di squilla:
son due . . . gli occhi, grave, apre: vede.
Uno piange, ma lĠaltro sorride
dĠun bianco sorriso di cieco.
Ella guarda, ella pensa: lo vide
cos: quando? e ha come lĠeco
dĠun gran pianto nel cuore, la traccia
di lagrime morte negli occhi.
Ah! ricordano un peso le braccia,
ricordano un peso i ginocchi,
grave. Due sono i bimbi: uno piange;
ma dorme il pi piccolo ancora:
ella versa dal cuor che si frange,
le lagrime dĠora e dĠallora.
- Dormi, o angelo - o angelo, dstati,
destati - mormora il cuore.
Tra la culla e una bara sĠarresta
la mano sua, rigida. Muore.
Il suo primo, il suo morto sparito
con lei che nellĠombra lo reca:
piange lĠaltro; ella nĠode il vagito
col bianco stupore di cieca.
VI
LAPIDE
Dietro spighe di tasso barbasso,
tra un rovo, onde un passero frulla
improvviso, si legge in un sasso:
QUI DORME PIA GIGLI FANCIULLA.
Radicchiella dallĠocchio celeste,
dianto di porpora, sai,
sai, vilucchio, di Pia? la vedeste,
libellule tremule, mai ?
Ella dorme. Da quando raccoglie
nel cuore il soave oblio? Quante
oh! le nubi passate, le foglie
cadute, le lagrime piante;
quanto, o Pia, si mor da che dormi
tu! Pura di vite create
a morire, tu, vergine, dormi,
le mani sul petto incrociate.
Dormi, vergine, in pace: il tuo lene
respiro nellĠaria lo sento
assonare al ronzio delle andrene,
coi brividi brevi del vento.
Lascia argentei il cardo al leggiero
tuo alito i pappi suoi come
il morente alla morte un pensiero,
vago, ultimo: lĠombra dĠun nome.
IDA E MARIA
O mani dĠoro, le cui tenui dita
menano i tenui fili ad escir fiori
dal bianco bisso, e s, che la fiorita
sembra che odori;
o mani dĠoro, che leggiere andando,
rigasi il lin, miracolo a vederlo,
qual seccia arata nellĠautunno, quando
chioccola il merlo;
o mani dĠoro, di cui lĠopra alterna
sommessamente suona senza posa,
mentre vi mira bionde la lucerna
silenzosa:
or mĠapprestate quel che gi chiedevo
funebre panno, o tenui mani dĠoro,
per che i morti chiamano e chĠio devo
esser con loro.
Ma non sia raso stridulo, non sia
puro amanto; sia di queĠ sinceri
teli, onde grevi a voi lasci la pia
madre i forzieri;
teli, a cui molte calcole sonare
ud San Mauro e molte alate spole:
un canto a tratti nĠemergea di chiare,
lente parole:
teli, che a notte biancheggiar sul fieno
vidi con occhio credulo dĠincanti,
neĠ prati al plenilunio sereno
riscintillanti .
IN CAMPAGNA
I
IL VECCHIO DEI CAMPI
Al sole, al fuoco, sue novelle ha pronte
il bianco vecchio dalla faccia austera,
che si ricorda, solo ormai, del ponte,
quando non cĠera.
Racconta al sole (i buoi fumidi stanno,
fissando immoti la sua lenta fola)
come far sacca si dov, quellĠanno,
delle lenzuola.
Racconta al fuoco (sfrigola bel bello
un ciocco dĠolmo in tanto che ragiona),
come a far erba uscisse con Rondello
Buovo dĠAntona.
II
NELLA MACCHIA
Errai nellĠoblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra quercie rigonfie di galle;
errai nella macchia pi sola,
per dove tra foglie marcite
spuntava lĠazzurra vola;
errai per i botri solinghi:
la cincia vedeva dai pini:
sbuffava i suoi piccoli ringhi
argentini.
Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme dĠun grido, dĠun volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico allĠombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!
III
IL BOVE
Al rio sottile, di tra vaghe brume,
guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano
che fugge, a un mare sempre pi lontano
migrano lĠacque dĠun ceruleo fiume;
ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento, il salice e lĠontano;
svaria su lĠerbe un gregge a mano a mano,
e par la mandra dellĠantico nume:
ampie ali aprono imagini grifagne
nellĠaria; vanno tacite chimere,
simili a nubi, per il ciel profondo;
il sole immenso, dietro le montagne
cala, altissime: crescono gi, nere,
lĠombre pi grandi dĠun pi grande mondo.
IV
LA DOMENICA DELLĠULIVO
Hanno compiuto in questo d gli uccelli
il nido (oggi la festa dellĠulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su lĠalloro,
al bosco, lungo il chioccolo dĠun rivo,
nellĠombra mossa dĠun tremolo dĠoro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio dĠape, un vol di maggiolino.
V
VESPRO
Dal cielo roseo pullula una stella.
Una campana parla della cosa
col suo grave dan dan dalla badia;
onde tra i pioppi tinti in color rosa
suona un continuo scalpicciar per via:
passa una lunga e muta compagnia
con fasci di trifoglio e lupinella.
Una fanciulla cuce ed accompagna,
cantarellando, dalla nera altana,
un canto che sĠalz dalla campagna,
quando nel cielo tacque la campana:
sĠalz da un olmo solo in una piana,
da un olmo nero che da s stornella.
VI
CANZONE D ÔAPRILE
Fantasma tu giungi,
tu parti mistero.
Venisti, o di lungi?
ch lega gi il pero,
fiorisce il cotogno
laggi.
Di cincie e fringuelli
risuona la ripa.
Sei tu tra gli ornelli,
sei tu tra la stipa?
Ombra! anima! sogno!
sei tu . . . ?
Ogni anno a te grido
con palpito nuovo.
Tu giungi: sorrido;
tu parti: mi trovo
due lagrime amare
di pi.
QuestĠanno . . . oh! questĠanno,
la gioia vien teco:
gi lĠodo, o mĠinganno,
quellĠeco dellĠeco;
gi tĠodo cantare
Cu . . . cu.
VII
ALBA
Odoravano i fior di vitalba
per via, le ginestre nel greto;
alavano prima dellĠalba
le rondini nellĠuliveto.
Alavano mute con volo
nero, agile, di pipistrello;
e tuttora gemea lĠassolo,
che gi spincionava il fringuello.
Tra i pinastri era lĠalba che i rivi
mirava discendere gi:
guizz un raggio, soffio su gli ulivi;
virb... disse una rondine; e fu
giorno: un giorno di pace e lavoro,
che lĠuomo mieteva il suo grano,
e per tutto nel cielo sonoro
saliva un cantare lontano.
VIII
DALLĠARGINE
Posa il meriggio su la prateria.
Non ala orma ombra nellĠazzurro e verde.
Un fumo al sole biancica; via via
fila e si perde.
Ho nellĠorecchio un turbino di squilli,
forse campani di lontana mandra;
e, tra lĠazzurro penduli, gli strilli
della calandra.
IX
IL PASSERO SOLITARIO
Tu nella torre avita,
passero solitario,
tenti la tua tastiera,
come nel santuario
monaca prigioniera
lĠorgano, a fior di dita;
che pallida, fugace,
stup tre note, chiuse
nellĠorgano, tre sole,
in un istante effuse,
tre come tre parole
chĠella ha sepolte, in pace.
Da un ermo santuario
che sa di morto incenso
nelle grandi arche vuote,
di tra un silenzio immenso
mandi le tue tre note,
spirito solitario.
X
STOPPIA
DovĠ, campo, il bruso della maretta
quando rabbrividivi ai libeccioli?
Ti resta qualche fior dĠerba cornetta,
i fioralisi, i rosolacci soli.
E nel silenzio del mattino azzurro
cercano in vano il solito sussurro;
mentre nellĠaia, l, del contadino
trebbiano nel silenzio del mattino.
DovĠ, campo, il tuo mare ampio e tranquillo,
col tenue vel di reste, ai pleniluni?
Pei nudi solchi trilla trilla il grillo,
lucciole vanno per i solchi bruni.
E nella sera, con ansar di lampo,
cercano il grano nel deserto campo;
mentre tuttora, l, dalla riviera
romba il mulino nella dolce sera.
XI
LĠASSIUOLO
DovĠera la luna? ch il cielo
notava in unĠalba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggi;
veniva una voce dai campi:
chi . . .
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
comĠeco dĠun grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chi . . .
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri dĠargento
(tintinni a invisibili porte
che forse non sĠaprono pi? . . .);
e cĠera quel pianto di morte. . .
chi . . .
XII
TEMPORALE
Un bubbolo lontano. . .
Rosseggia lĠorizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
unĠala di gabbiano.
XIII
DOPO LĠACQUAZZONE
Pass strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene, di bosso.
Presso la chiesa; mentre la sua voce
tintinna, canta, a onde lunghe romba;
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
tornano a bomba.
Un vel di pioggia vela lĠorizzonte;
ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
placido olezza: va da monte a monte
lĠarcobaleno.
XIV
PIOGGIA
Cantava al buio dĠaia in aia il gallo.
E gracid nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dor la nebbia della macchia,
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi tra il cantare delle raganelle
guizz sui campi un raggio lungo e giallo.
Stupano i rondinotti dellĠestate
di quel sottile scendere di spille:
era un bruso con languide sorsate
e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:
di stille dĠoro in coppe di cristallo.
XV
SERA DĠOTTOBRE
Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.
Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina! . . .
XVI
ULTIMO CANTO
Solo quel campo, dove io volga lento
lĠocchio, biondeggia di pannocchie ancora,
e il solicello vi si trascolora.
Fragile passa fraĠ cartocci il vento:
uno stormo di passeri sĠinvola:
nel cielo un gran pallore di viola.
Canta una sfogliatrice a piena gola:
Amor comincia con canti e con suoni
e poi finisce con lacrime al cuore.
XVII
IL PICCOLO BUCATO
Come tetra la sizza che combatte
gli alberi brulli e fa schioccar le rame
secche, e sottile fischia tra le fratte !
Sur una fratta (o forse un biancor dĠale ?)
un corredino ride in quel marame:
fascie, bavagli, un piccolo guanciale.
Ad ogni soffio del rovaio, che romba,
le fascie si disvincolano lente;
e da un tugurio triste come tomba
giunge una nenia, lunga, pazente.
XVIII
NOVEMBRE
Gemmea lĠaria, il sole cos chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo lĠodorino amaro
senti nel cuore
Ma secco il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al pi sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. é lĠestate,
fredda, dei morti.
PRIMAVERA
I
IL FIUME
Fiume che l specchiasti un casolare
coĠ suoi rossi garofani, qua mura
dĠerme castella, e tremula verzura;
eccoti giunto al fragoroso mare:
ed ecco i flutti verso te balzare
su dallĠinterminabile pianura,
in larghe file; e nella riva oscura
questa si frange, e in quella in alto appare;
tituba e croscia. E l, donde tu lieto,
di sasso in sasso, al pi dĠuna betulla,
sgorghi sonoro tra le brevi sponde;
a un poĠ dĠauretta scricchiola il canneto,
fruscia il castagno, e forse una fanciulla
sogna a quellĠombre, al mormoro dellĠonde.
II
LO STORNELLO
- Sospira e piange, e bagna le lenzuola
la bella figlia, quando rif il letto,-
tale alcuno comincia un suo rispetto:
trema nellĠaurea notte ogni parola;
e sfiora i bossi, quasi arguta spola,
lĠaura con un bruire esile e schietto:
- e si rimira il suo candido petto,
e le rincresce avere a dormir sola.-
Solo, l dalla siepe, il casolare;
nel casolare sta la bianca figlia;
la bianca figlia il puro ciel rimira.
Lo vuole, a stella a stella, essa contare;
ma il ciel cammina, e la brezza bisbiglia,
e quegli canta, e il cuor piange e sospira.
III
LA PIEVE
Giorno dĠarrivi il tuo, san Benedetto:
ecco una prima rondine che svola.
E trova i pioppi nella valle sola,
la grande pieve, il nido piccoletto.
Razzano i vetri; lĠocchio del coretto
nereggia sotto un ciuffo di vola:
ecco la cigolante banderuola,
gli embrici roggi del loquace tetto.
E di saluti sonano le gronde
e il chiuso, dove il cielo vaporato
da un rosseggiar di peschi e dĠalbicocchi.
E la rondine stridula risponde
alando con lievi ombre: sul prato
le segue un cane coĠ fuggevoli occhi.
IV
IN CHIESA
Sciama con un ronzio dĠapi la gente
dalla chiesetta in sul colle selvaggio;
e per la sera limpida di maggio
vanno le donne, a schiera, lente lente;
e passano tra lĠalta erba stridente,
e pare una fiorita il lor passaggio:
le attende a valle tacito il villaggio
con le capanne chiuse e sonnolente.
Ma la chiesetta ancor nellĠalto svaria
tra le betulle, e il tetto dĠun intenso
rossor sfavilla nel silenzio alpestre.
Il rombo delle pie laudi nellĠaria
palpita ancora; un lieve odor dĠincenso
sperdesi tra le mente e le ginestre.
GERMOGLIO
La scabra vite che il lichene ingromma
come di gialla ruggine, germoglia:
spuntar vidi una, lucida di gomma,
piccola foglia.
Al sol che brilla in mezzo a gli umidicci
solchi anche lĠolmo screpolato muove:
medita, il vecchio, rame, pei viticci
nuovi, pur nuove:
cui tremolando cercano coi lenti
viticci i tralci a foglie color rame,
mentre su loro tremolano ai venti
anche le rame.
Da qual profonda cavit mĠha scosso
il canto dellĠaereo cuculo?
fiorisce a spiga per le prode il rosso
pandicuculo?
é del fior dĠuva questa ambra che sento
o una lieve traccia di vole?
dove si vede il grappolo dĠargento
splendere al sole?
grappolo verde e pendulo, che invaia
alle prime acque fumide dĠagosto,
quando il villano sente sopra lĠaia
piovere mosto:
mosto che cupo brontola e tra nere
ombre sospira e canta San Martino,
allor che singultando nel bicchiere
sdrucciola vino;
vino che rosso avanti il focolare
brilla, al fischiare della tramontana,
che giunge come un fragoroso mare
e sĠallontana
simile a sogno: quando su le strade
volano foglie cui persegue il cuore
simili a sogno; quando tutto cade,
stingesi, e muore.
Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia
la scabra vite che il lichene ingromma:
spunta da un nodo una lanosa foglia
molle di gomma.
DOLCEZZE
I
BENEDIZIONE
EĠ la sera: piano piano
passa il prete pazente,
salutando della mano
ci che vede e ci che sente.
Tutti e tutto il buon piovano
benedice santamente;
anche il loglio, l, nel grano;
qua, neĠ fiori, anche il serpente.
Ogni ramo, ogni uccellino
s del bosco e s del tetto,
nel passare ha benedetto;
anche il falco, anche il falchetto
nero in mezzo al ciel turchino,
anche il corvo, anche il becchino,
poverino,
che lass nel cimitero
raspa raspa il giorno intiero.
II
CON GLI ANGIOLI
Erano in fiore i lilla e lĠulivelle;
ella cuciva lĠabito di sposa:
n lĠaria ancora apra bocci di stelle,
n sĠera chiusa foglia di mimosa;
quandĠella rise; rise, o rondinelle
nere, improvvisa: ma con chi? di cosa?
rise, cos, con gli angioli; con quelle
nuvole dĠoro, nuvole di rosa.
III
IL MENDICO
Presso il rudere un pezzente
cena tra le due fontane:
pane alterna egli col pane,
volti gli occhi allĠoccidente.
Fa un incanto nella mente:
carne fatto, ecco, lĠun pane.
Tra il gracchiare delle rane
sciala il mago sapente.
Sorge e beve alle due fonti:
chiara beve acqua nellĠuna,
ma nellĠaltra un dolce vino.
Giace e guarda: sopra i monti
sparge il lume della luna;
getta lĠarti al ciel turchino,
baldacchino
di mirabile lavoro,
chĠei trapunta a stelle dĠoro.
IV
MARE
MĠaffaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano lĠonde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira lĠacqua, alita il vento:
sul mare apparso un bel ponte dĠargento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?
V
A NANNA
Come un rombo dĠarnia suona
tra il cricchiar della mortella.
Nonna, detta la corona:
nonna, or d la tua novella.
Ella dice, ellĠ pur buona,
la pi lunga, la pi bella:
- Sola (o Dio: bubbola e tuona!)
sola va la reginella.
Ecco un lume, una stellina,
ma lontanamente, appare.
Via, conviene andare andare.
Va e va.- Ma ciondolare
gi comincia una testina;
due sonnecchiano; cammina
che cammina,
e le son tutte arrivate:
sono in collo delle fate.
VI
IL PICCOLO ARATORE
Scrive. . . (la nonna ammira): ara bel bello,
guida lĠaratro con la mano lenta;
semina col suo piccolo marrello:
il campo bianco, nera la sementa.
DĠinverno egli ara: la sementa nera
dĠinverno spunta, sfronza a primavera;
fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo
rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.
VII
IL PICCOLO MIETITORE
Legge . . . (la nonna ammira): ecco il campetto
bianco di grano nero in lunghe righe:
esso tuttĠocchi, con il suo falsetto
a una a una miete quelle spighe;
miete, e le spighe restano pur quelle;
miete e lega coi denti le mannelle;
e le mannelle di tra i denti suoi
parlano . . . come noi, meglio di noi.
VIII
NOTTE
Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti,
e la lucerna i biondi capi indora:
i biondi capi, i neri occhi stellanti,
volgono alla finestra ad ora ad ora:
attendon esse a cavalieri erranti
che varcano la tenebra sonora?
Parlan dĠamor, di cortesie, dĠincanti:
cos parlando aspettano lĠaurora.
TRISTEZZE
I
PAESE NOTTURNO
Capanne e stolli ed alberi alla luna
sono, od un tempio dellĠantico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi
su la campagna, e pi profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.
Ecco la falce dĠoro allĠorizzonte:
due nere guglie a man a man dipinge,
indi non so che candido. Una fronte
bianca di sfinge?
II
RAMMARICO
Chi questo nuovo pianto in cuor mi pone ?
Verso occidente, o dolce madre Aurora,
da te lontano la mia vita corsa.
Il cielo sĠalza e tutto trascolora;
passano stelle e stelle in lenta corsa;
emerge dallĠazzurro la grandĠOrsa,
e sta nellĠarme fulgido Orone.
Come pi lieta la tua vista, quando
un poco accenni delle rosee dita;
e la greggia sĠavvia scampanellando,
esce il bifolco e rauco i bovi incta,
Canta lass la lodola - apparita
ecco Giulietta, e piange, al suo balcone!-
III
SOGNO
Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato
Stanco tornavo, come da un vaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.
Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed unĠangoscia muta.
- Mamma?—é l che ti scalda un poĠ di cena—
Povera mamma! e lei, non lĠho veduta.
IV
I GATTICI
E vi rivedo, o gattici dĠargento,
brulli in questa giornata sementina:
e pigra ancor la nebbia mattutina
sfuma dorata intorno ogni sarmento.
Gia vi schiudea le gemme questo vento
che queste foglie gialle ora mulina;
e io che al tempo allor gridai, Cammina,
ora gocciare il pianto in cuor mi sento.
Ora, le nevi inerti sopra i monti,
e le squallide pioggie, e le lunghe ire
del rovaio che a notte urta le porte,
e i brevi d che paiono tramonti.
infiniti, e il vanire e lo sfiorire,
e i crisantemi, il fiore della morte.
V
LA SIEPE
Qualche bacca sui nudi ramicelli
del biancospino trema nel viale
gelido: il suol rintrona, andando, quale
per tardi passi il marmo degli avelli.
Le pasce il piccol re, re degli uccelli
ed altra gente piccola e vocale.
SĠodono a sera lievi frulli dĠale,
via, quando giunge un volo di monelli.
AnchĠio; ricordo, ma pass stagione;
quelle bacche a gli uccelli della frasca
invidiavo, e le purpuree more;
e lĠala, i cieli, i boschi, la canzone:
i boschi antichi, ove una foglia casca,
muta, per ogni battito di cuore.
VI
IL NIDO
Dal selvaggio rosaio scheletrito
penzola un nido. Come, a primavera,
ne prorompeva empiendo la riviera
il cinguettio del garrulo convito!
Or vĠ sola una piuma, che allĠinvito
del vento esita, palpita leggiera;
qual sogno antico in anima severa,
fuggente sempre e non ancor fuggito:
e gi lĠocchio dal cielo ora si toglie;
dal cielo dove un ultimo concento
sal raggiando e dilegu nellĠaria;
e si figge alla terra, in cui le foglie
putride stanno, mentre a onde il vento
piange nella campagna solitaria.
VII
IL PONTE
La glauca luna lista lĠorizzonte
scopre i campi nella notte occulti
e il fiume errante. In suono di singulti
lĠonda si rompe al solitario ponte.
Dove il mar, che lo chiama? e dove il fonte,
chĠesita mormorando tra i virgulti?
il fiume va con lucidi sussulti
al mare ignoto dallĠignoto monte.
Spunta la luna: a lei sorgono intenti
gli alti cipressi dalla spiaggia triste,
movendo insieme come un pio sussurro.
Sostano, biancheggiando, le fluenti
nubi, a lei volte, che salan non viste
le infinite scale del tempio azzurro.
VIII
AL FUOCO
Dorme il vecchio avanti i ciocchi.
Sogna un nuvolo di bimbi,
che cinguetta. Il ceppo al foco
russa roco.
Dorme anchĠesso. A tutti i nocchi
sogna grappoli e corimbi.
Rosei pendono nellĠaria
solitaria.
Bianchi i bimbi tra il fogliame,
su su, a quel roseo sorriso
vanno. Il ceppo occhi di brace
apre, e tace.
Ecco pendulo lo sciame
dal grande albero improvviso,
su su. Il vecchio nel cor teme,
guarda e geme.
Ogni bimbo al suo fiore alza
la mano e. . . scivola e va.
Sbarra il ceppo la pupilla:
crocchia e brilla.
E il vegliardo, al crocchiar, balza
nella rotta oscurit.
Gira lento gli occhi. Solo!
solo! solo!
IX
IL LAMPO
E cielo e terra si mostr qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa appar spar dĠun tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
sĠapr si chiuse, nella notte nera.
X
IL TUONO
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor dĠarduo dirupo
che frana, il tuono rimbomb di schianto:
rimbomb, rimbalz, rotol cupo,
e tacque, e poi rimareggi rinfranto,
e poi van. Soave allora un canto
sĠud di madre, e il moto di una culla.
XI
LONTANA
Cantare, il giorno, ti sentii: felice?
Cantavi; la tua voce era lontana:
lontana come di stornellatrice
per la campagna frondeggiante e piana.
Lontana s, ma io sentia nel cuore
che quel lontano canto era dĠamore:
ma s lontana, che quel dolce canto,
dentro, nel cuore, mi moriva in pianto.
XII
I CIECHI
Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:
e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
- Il nostro pane - gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Ges, lĠhai detto.
XIII
DALLA SPIAGGIA
I
CĠ sopra il mare tutto abbonacciato
il tremolare quasi dĠuna maglia:
in fondo in fondo un ermo colonnato,
nivee colonne dĠun candor che abbaglia:
una rovina bianca e solitaria,
l dove azzurra lĠacqua come lĠaria:
il mare nella calma dellĠestate
ne canta tra le sue larghe sorsate.
II
O bianco tempio che credei vedere
nel chiaro giorno, dove sei vanito?
Due barche stanno immobilmente nere,
due barche in panna in mezzo allĠinfinito.
E le due barche sembrano due bare
smarrite in mezzo allĠinfinito mare;
e piano il mare scivola alla riva
e ne sospira nella calma estiva.
XIV
NOTTE DI NEVE
Pace! grida la campana,
ma lontana, fioca. L
un marmoreo cimitero
sorge, su cui lĠombra tace:
e ne sfuma al cielo nero
un chiarore ampio e fugace.
Pace! pace! pace! pace!
nella bianca oscurit.
XV
NEVICATA
Nevica: lĠaria brulica di bianco;
la terra bianca; neve sopra neve:
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
cade del bianco con un tonfo lieve.
E le ventate soffiano di schianto
e per le vie mulina la bufera:
passano bimbi: un balbettio di pianto;
passa una madre: passa una preghiera.
XVI
NOTTE DOLOROSA
Si muove il cielo, tacito e lontano:
la terra dorme, e non la vuol destare;
dormono lĠacque, i monti, le brughiere.
Ma no, ch sente sospirare il mare,
gemere sente le capanne nere:
vĠ dentro un bimbo che non pu dormire:
piange; e le stelle passano pian piano.
XVII
NOTTE Dl VENTO
Allora sentii che non cĠera,
che non ci sarebbe mai pi...
La tenebra vidi pi nera,
pi lugubre udii la bufera...
uuh...uuuh...uuuh...
Venia come un volo di spetri,
gridando ad ogni mpito pi:
un fragile squillo di vetri
seguiva quelli ululi tetri...
uuh...uuuh...uuuh...
Oh! solo nellĠombra che porta
quei gridi... (chi passa laggi?)
Ohl solo nellĠombra gi morta
per sempre... (chi batte alla porta?)
uuh...uuuh...uuuh...
XVIII
LA BAIA TRANQUILLA
Getta lĠancora, amor mio:
non unĠonda in questa baia.
Quale assiduo sciacquo
fanno lĠacque tra la ghiaia!
Vien dal lido solato,
vien di l dalla giuncaia,
lungo vien come un addio,
un cantar di marinaia.
Tra le vetrici e gli ontani
vedi un fiume luccicare;
uno stormo di gabbiani
nel turchino biancheggiare;
e sul poggio, pi lontani,
i cipressi neri stare.
Mare ! mare!
dolce l, dal poggio azzurro,
il tuo urlo e il tuo sussurro.
IL BACIO DEL MORTO
I
é tacito, grigio il mattino;
la terra ha un odore di funghi;
di gocciole pieno il giardino.
Immobili tra la leggiera
caligine gli alberi: lunghi
lamenti di vaporera.
I solchi ho nel cuore, i sussulti,
dĠun pianto sognato: parole,
sospiri avanzati ai singulti:
un solco sul labbro, che duole.
II
Chi sei, che venisti, coi lieti
tuoi passi, da me nella notte?
Non so; non ricordo: piangevi.
Piangevi: io sentii per il viso
mio piangere fredde, dirotte,
le stille dallĠocchio tuo fiso
su me: io sentii che accostavi
le labbra al mio labbro a baciarmi;
e invano volli io levar gravi
le palpebre: gravi: due marmi.
III
Chi sei? donde vieni? presente
tuttora? mi vedi? mi sai?
e lacrimi tacitamente ?
Chi sei ? Trema ancora la porta.
Certo eri di quelli che amai,
ma forse non so che sei morta. . .
N so come unĠombra dĠarcano,
tra lĠumida nebbia leggiera,
io senta in quel lungo lontano
saluto di vaporiera.
LA NOTTE DEI MORTI
I
La casa serrata; ma desta:
ne fuma alla luna il camino.
Non filano o torcono: festa.
Scoppietta il castagno, il paiolo
borbotta. Sul desco cĠ il vino,
cui spilla il capoccio da solo.
In tanto essi pregano al lume
del fuoco: via via la corteccia
schizza arida... Mormora il fiume
con rotto fragore di breccia...
II
é forse (io non odo: non sento
che il fiume passare, portare
quel murmure al mare) dĠun lento
vegliardo la tremula voce
che intuona il rosario, e che pare
che venga da sotto una croce,
da sotto un gran peso; da lunge
Quei poveri vecchi bisbigli
sonora una romba raggiunge
col trillo dei figli deĠ figli.
III
Oh! i morti! Pregarono anchĠessi,
la notte dei morti, per quelli
che tacciono sotto i cipressi.
Passarono... O cupo tinnito
di squille dagli ermi castelli!
o fiume dallĠinno infinito!
Passarono... Sopra la luna
che tacita sembra che chiami,
io vedo passare un velo, una
breve ombra, ma bianca, di sciami.
I DUE CUGINI
I
Si amavano i bimbi cugini
Pareva, un incontro di loro,
lĠ incontro di due lucherini:
volavano. NellĠ abbracciarsi
i tcchi cadevano, e lĠoro
mescevano i riccioli sparsi.
Poi lĠuno appass come rosa
che in boccio appassisce nellĠorto;
ma lĠaltra la piccola sposa
rimase del piccolo morto.
II
Tu piccola sposa, crescesti:
man mano intrecciavi i capelli,
man mano allungavi le vesti.
Crescevi sottĠocchi che negano
ancora; ed i petali snelli
cadevano: il fiore gi lega.
Ma lĠaltro non crebbe. Dal mite
suo cuore, ora, senza perch,
fioriscono le margherite
e i non ti scordare di me.
III
Ma tu . . . ma tu lĠami. Lo vedi,
lo chiami. La senti da lunge
la fretta dei taciti piedi . . .
Tu lĠami, egli tĠama tuttora;
ma egli col capo non giunge
al seno tuo nuovo, che ignora.
Egli esita: avanti la pura
tua fronte ricinta dĠun nimbo,
piangendo lĠantica sventura
tentenna il suo capo di bimbo.
PLACIDO
I
Io dissi a quel vecchio, ÒDove?Ó Io
cercava un fanciullo mio buono,
smarrito: il mio Placido: mio!
Cercavo quelli occhi (... un cipresso?)
coĠ quali chiedeva perdono
di vivere, dĠesserci anchĠesso.
Cercavo. Ero giunto. Era quello
per certo il paese azzurrino
suo: monti, una selva, un castello,
poi monti: pi su, San Marino.
Il
Nel chiuso (... una croce?) noi soli
tre sĠera: non cĠera altro fiore
che lĠoro di due girasoli.
Nel chiuso non cĠera altra voce,
rammento, che il cupo stridore
dĠun fuco ronzante a una croce;
e qualche fruscio di virgulto
al passo del vecchio, che aveva
le chiavi; e dĠun tratto, un singulto
di lei: di Maria, che piangeva.
III
E in fine, guardandosi attorno,
ÒQuiÓ disse quellĠuomo. A Sogliano
la torre son mezzogiorno.
Stridevano gli usci, i camini
fumavano tutti: lontano
sĠudiva un vocio di bambini.
E lui? ÒQuiÓ mi disse: Ònon vede?Ó
Io vidi: tra il grigio becchino
e noi, vidi un nero, al mio piede,
di terra ah! scavata il mattino!
TRAMONTI
I
LA SIRENA
La sera, fra il sussurro lento
dellĠacqua che succhia la rena,
dal mare nebbioso un lamento
si leva: il tuo canto, o Sirena.
E sembra che salga, che salga,
poi rompa in un gemito grave.
E lĠonda sospira tra lĠalga,
e passa una larva di nave:
unĠombra di nave che sfuma
nel grigio, ove muore quel grido;
che porta con s, nella bruma,
dei cuori che tornano al lido:
al lido che fugge, che scese
gi nella caligine, via;
che porta via tutto, le chiese
che suonano lĠavemaria,
le case che su per la balza
nel grigio traspaiono appena,
e lĠombra del fumo che sĠalza
tra forse il bruso della cena.
II
PIANO E MONTE
Il disco, grandissimo, pende
rossastro in un latte dĠopale:
e intaglia le case ed accende
i lecci nel nero viale;
che fumano, come foreste,
di polvere gialla e vermiglia:
sĠannuvola in rosa e celeste
quel botro color di conchiglia.
Qua lampi di vetri, qua lente
cantate, qua grida confuse:
l placido il muto orente
nellĠombra dei monti si chiuse.
Si vedono opache le vette,
pace e silenzio tra i monti:
un breve squittir di civette,
un murmure lungo di fonti:
via via con fragore interrotto
si serra la casa tranquilla:
chiusa: nel bianco salotto
la tacita lampada brilla.
IL CUORE DEL CIPRESSO
I
O cipresso, che solo e nero stacchi
dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
irto ,di cardi e stridulo di biacchi:
in te sovente, al tempo delle more,
odono i bimbi un pispillo secreto,
come dĠun nido che ti sogni in cuore.
LĠultima cova. Tu canti sommesso
mentre sĠallunga lĠombra taciturna
nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
ella ricerchi tra queĠ bronchi unĠurna.
II
Pi brevi i giorni, e lĠombra ogni d meno
sĠindugia e cerca, irrequieta, al sole;
e il sole freddo e pallido il sereno.
LĠombra, ogni sera prima, entra nellĠombra:
nellĠombra ove le stelle errano sole.
E il rovo arrossa e con le spine ingombra
tutti i sentieri, e cadono gi roggie
le foglie intorno (indifferente oscilla
lĠermo cipresso), e gi le prime pioggie
fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.
III
E il tuo nido? il tuo nido?... Ulula forte
il vento e tĠurta e ti percuote a lungo:
tu sorgi, e resti; simile alla Morte.
E il tuo cuore? il tuo cuore?... Orrida trebbia
lĠacqua i miei vetri, e l ti vedo lungo,
di nebbia nera tra la grigia nebbia.
E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
la neve, muta a guisa del pensiero,
cade. Tra il bianco e tacito franare
tu stai, gigante immobilmente nero.
ALBERI E FIORI
I
FIOR DĠACANTO
a Egisto Cecchi
Fiore di carta rigida, dentato
petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;
fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industra te dĠapi
schifa, e tu schifi.
LĠape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi lĠape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera viola,
dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra lĠarene.
Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo nettare ignoto,
fiore dĠacanto.
II
NEL GIARDINO
Nel mio giardino, l nel canto oscuro
dove ora il pettirosso tintinna
col gelsomino rampicante al muro,
cĠ la gagga;
e or che ottobre dentro la vermiglia
foresta il marzo rende morto al suolo,
e sembra marzo, come rassomiglia
bacca a bocciuolo,
alba a tramonto; nelle tenui trine
lĠuna si stringe, al roseo vespro, quando
lĠaltro i suoi fiori, candide stelline,
apre, alitando;
ed al sospiro dellĠavemaria,
quando nel bosco dalle cime nude
il d sĠesala, il cuore in una pia
ombra si chiude;
e lĠanima in quellĠombra di ricordi
apre corolle che imbocciar non vide;
e lĠombra di fior dĠangelo e di fior di
spina sorride.
III
NEL PARCO
a Mario Racah
Certo il signore, e la chiomata moglie,
part peĠ campi, ch gi il tordo zirla:
muto, tra unĠampia musica di foglie
(dolce sentirla
dĠautunno, a tarda notte, se il libeccio
soffia con lunghi fremiti sonori),
muto il palazzo. SĠode un cicaleccio
di tra gli allori ;
un cicaleccio donde acuti appelli
sĠalzano come strilli di piviere:
il gatto fuori: ruzzano i monelli
del giardiniere.
Torvo, aggrondato, il candido palazzo
formicolare aĠ piedi suoi li mira;
e s nĠecheggia un cupo, a quel rombazzo,
battito dĠira;
ma non sĠadira il giovinetto alloro,
il leccio, il pioppo tremulo ed il lento
salice: a prova corrono con loro;
cantano al vento.
IV
ROSA DI MACCHIA
Rosa di macchia, che dallĠirta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina;
se sottil mano i fiori tuoi non coglie,
non ti dolere della tua fortuna:
le invidate rose centofoglie
colgano a una
a una: al freddo sibilar del vento
che lĠarse foglie a una a una stacca,
irto il rosaio dondoler lento
senza una bacca;
ma tu di bacche brillerai nel lutto
del grigio inverno; al rifiorir dellĠanno
i fiori nuovi a qualche vizzo frutto
sorrideranno:
e te, col tempo, stupir cresciuta
quella che allĠalba svolta gi leggiera
col suo stornello, e risalir muta,
forse, una sera.
V
PERVINCA
So perch sempre ad un pensier di cielo
misteroso il tuo pensier sĠavvinca,
s come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca;
io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta dĠun convento oscura,
o presso lĠarche, tra vilucchi e bronchi,
lungo la mura.
Solo tra lĠarche errava un cappuccino;
pareva spettro da quellĠarche uscito,
bianco la barba e gli occhi dĠun turchino
vuoto, infinito;
come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
pi dĠanacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;
e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
lĠavemaria.
VI
IL DITTAMO
Dittamo nato allĠumile finestra,
donde pel Corpusdomini sorrisi
alla soave tra fior di ginestra
e fiordalisi
processone; io so di te, che immensa
virt possiedi neĠ chiomanti capi,
cespo lanoso ed olezzante, mensa
ricca dellĠapi.
Te, con la freccia tremolante al dosso,
cerca nei monti il daino selvaggio,
farmaco certo - di lui segue un rosso
rigo il vaggio -
Dittamo blando per la mia ferita
lĠavete, o balze degli aerei monti,
dove nellĠalto piange la romita
culla dei fonti ?
Bianche ai dirupi pendono le capre;
lĠaquila passa nera e solitaria;
sibila lĠerba inaridita; sĠapre,
sotto il pi, lĠaria.
VII
EDERA FIORITA
ad Ettore Toci
Quando, di maggio, tu le dolci sere
imbalsamavi coĠ tuoi fiori, ornello
(era un sussurro alle finestre nere
del paesello!);
non ti rincrebbe dĠun infermo arbusto
che, mosso anchĠegli da dolcezza estiva,
con le sue foglie, come cuori, al fusto
lento saliva.
Non ti rincrebbe. Ed ora che gelata
la tramontana soffia, e che traspare
gi dalle porte chiuse la fiammata
del focolare;
ora che il verno spoglia le foreste
e le tue foglie per le vie disperde;
o vecchio ornello, te ricopre e veste
lĠedera verde.
Sui rami nudi i fiori suoi ti pone,
tra verdi e gialli, piccoli, comĠera
la tua fiorita morta: illusone
di primavera.
VIII
VIOLE DĠINVERNO
- DĠonde, o vecchina, queste volette
serene come un lontanar di monti
nel puro occaso ? Poi che il gelo ha strette
tutte le fonti ;
il gelo brucia dalle stelle, o nonna,
ogni foglia, ogni radica, ogni zolla -
- Tiepida, sappi, lungo la Corsonna
geme una polla.
L noi sciacquiamo il candido bucato
nellĠonda calda in mezzo a nevi e brine;
e il poggio pieno di vole, e il prato
di pratelline -
Ah! . . . ma, poeta, non ancor nel pio
tuo cuore lĠonda che discioglie il gelo ?
non la polla, calda nellĠoblio
freddo del cielo?
Ch sempre, se ti agghiaccia la sventura,
se lĠodio altrui ti spoglia e ti desola,
spunta, al tepor dellĠanima tua pura,
qualche vola.
IX
IL CASTAGNO
a Francesco Pellegrini
I
Quando sfioriva e rinverdiva il melo,
quando sĠapriva il fiore del cotogno,
il greppo, azzurro, somigliava un cielo
visto nel sogno;
brullo io te vidi; e gi per ogni ripa
erano colte tutte le vole,
e tu lasciavi ai cesti ed alla stipa
tutto il tuo sole;
e, pio castagno, i rami dalla bruma
ancora appena e dal nevischio vivi,
a mano a mano dĠuna lieve spuma
verde coprivi.
Ma poi, vedendo sotto il fascio greve
le montanine tergersi la fronte,
tu che le sai da quando per la neve
scendono il monte,
ecco, pietoso tu di lor, tessesti
lungo i torrenti, allĠorlo dei burroni,
una fredda ombra, che gem di mesti
cannareccioni.
II
E qualche cosa gi nellĠaspro cardo
chiuso ascondevi, come lĠavo buono
che nellĠirsuta mano cela un tardo
facile dono.
Ai primi freddi, quando il buon villano
rinumer tutti i suoi bimbi al fuoco;
e con lui lungamente il tramontano
brontol roco;
e tu quei cardi, in mezzo alle procelle,
spargesti sopra lĠerica ingiallita,
e li schiudevi per piet di quelle
povere dita
Tutti spargesti i cardi irti e le fronde
fragili, e tutto port via festante
la grama turba. Nudo con le monde
rame, o gigante,
stavi, e vedevi tu la vite e il melo
vestiti dĠoro e porpora al riflesso
gi delle nevi, e per lo scialbo cielo
nero il cipresso.
III
Per te i tuguri sentono il tumulto
or del paiolo che inqueto oscilla;
per te la fiamma sotto quel singulto
crepita e brilla:
tu, pio castagno, solo tu, lĠassai
doni al villano che non ha che il sole;
tu solo il chicco, il buon di pi, tu dai
alla sua prole;
ha da te la sua bruna vaccherella
tiepido il letto e non desa la stoppia;
ha da te lĠavo tremulo la bella
fiamma che scoppia.
Scoppia con gioia stridula la scorza
deĠ rami tuoi, coĠ frutti tuoi la grata
pentola brontola. Il vento fa forza
nellĠimpannata.
Nevica su le candide montagne,
nevica ancora. Lieto lĠavo, e breve
augura, e dice: Tante pi castagne,
quanta pi neve.
X
IL PESCO
a Adolfo Cipriani
Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
di vecchi morti; ove a dormir con essi
niuno pi scende; sempre chiuso; nero
dĠalti cipressi.
Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
di l dellĠerto muro e delle porte
chĠhanno obliato i cardini, si crede
morta la Morte,
anchĠessa. Eppure, in un bel d dĠAprile,
sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
vivo, dal muro sporgere un sottile
ramo di pesco.
Figlio dĠignoto ncciolo, dĠallora
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?
ed ora invidii i mandorli che indora
lĠalba negli orti?
od i cipressi, gracile e selvaggio,
dimenticti, col tuo riso allieti,
tu trovatello in un eremitaggio
dĠanacoreti?
XI
CANZONE DI NOZZE
ad Enrico Bemporad
Guardi la vostra casa sopra un rivo,
sopra le stipe, sopra le ginestre;
ed entri lĠeco dĠun gorgheggio estivo
dalle finestre.
Dolce dormire con nel sogno il canto
dellĠusignuolo! E sian sotto la gronda
rondini nere. Dolce avere accanto
chi vi risponda,
sul far dellĠalba, quando voi direte
pian piano: é vero che non sĠ pi soli?
S: si, diranno, vero ver... Che liete
grida! che voli!
sul far dellĠalba, quando tutto ancora
sembra dormir dietro le imposte unite!
Sembra, e non .Voi s, forse, in quellĠora,
madri, dormite.
Sognate biondo: nelle vostre teste
non un fil bianco: bianche, nel giardino,
sono, s, quelle chĠora vi tendeste,
fascie di lino.
XII
I GIGLI
Nel mio villaggio, dietro la Madonna
dellĠacqua, presso a molti pii bisbigli,
sorgono sopra lĠesile colonna
verde i miei gigli:
miei, ch a deporne i tuberi in quel canto
del suo giardino fu mia madre mesta.
DĠaltri il giardino: di mia madre ( tanto!...)
nulla pi resta.
Sono tanti anni!... Ma quei gigli ogni anno
escono ancora a biancheggiar tra folti
cesti dĠortica; ed ora... ora saranno
forse gi clti.
Forse gi sono su lĠaltar, l presso,
a chieder acqua, or chĠ mietuto il grano,
per il granturco: e nel pregar sommesso
meridano,
guardando i gigli, alcuna ebbe un fugace
ricordo; e chiede che Maria mi porti
nella mia casa, per morirvi in pace
presso i miei morti
COLLOQUIO
I
Brulli i pioppi nellĠaria di vola
sorgono sopra i lecci, sfavillando
come oro: sopra il tetto della scuola
si sfrangia un orlo a fiocchi rosei; quando,
lieve come un sospiro, entra; poi sola,
bianca, le mani al cuore, rist, ansando;
gira gli occhi - dovĠ la famigliuola? -
e ha sui labbri il suo sorriso blando;
ma piange. Oh: s: son quello: il tuo Giovanni...
un poĠ mutato. O madre seppellita,
che gli altri lasci, oggi, per me; parliamo.
Io devo dirti cosa da molti anni
chiusa dentro. E non piangere. La vita
che tu mi desti - o madre, tu ! - non lĠamo.
II
Non piangere. é uno sforzo cos mesto
viverla senza te questa tua vita!
ad ogni gioia tanto dolor questo
subito ricordar te, seppellita!
Dai sogni, oh! brevi, della gioia desto
io mi ritrovo a piangere infinita-
mente con te: morire! cos presto!
partire, o madre, come sei partita!
Tu non dovevi. Con quelli occhi in pianto!
con quella bimba che parlava appena!
Dovevi, o madre pia, dirlo a Dio padre,
che non potevi; e ti lasciasse; e in tanto
te la guarisse Dio quella tua vena
che ci si ruppe nel tuo cuore, o madre!
III
Non piangere. . . Sarebbe cos bello
questo mondo odorato di mistero!
sarebbe la tua via come un sentiero
con lĠerba intatta, allĠombra dellĠornello.
E nuova tu saresti anche allĠamello,
anche al frullo dĠun passero ciarliero!
Ma rasentando il muto cimitero,
ti fermeresti pallida al cancello . . .
E io direi del sonno delle larve
che sognano ali, e delle siepi tetre
chĠhanno nel sonno grappoli di fiori.
Pianger ti lascierei di ci che sparve;
indi sorrideremmo anche alle pietre
bianche, l, tra cipressi e sicomori.
IV
Ma . . . ma tu piangi come non ti vidi
piangere mai, nel dolce viso attento.
Ma se lo so, con che dolce lamento
chiedevi al cielo e con che fiochi gridi
che ti lasciasse! Quali madri i nidi
lasciano soli pigolare al vento ?
SĠera per mamma, tĠavrei qui; lo sento:
viva; lo so: perdonami; sorridi.
Ma se lo so: fioccava senza fine;
e tu, tra i ceri, con la morte accanto,
sentendo gli urli della tramontana,
parlavi, ancora, delle due bambine
cui non potevi, non potevi, in tanto,
cucire i piccoli abiti di lana.
V
Ma s: la vita mia (non piangere!) ora
non poi tanto sola e tanto nera:
cant la cingallegra in su lĠaurora,
cantava a mezzod la capinera.
I canarini cantano la sera
per la mia cena piccola e canora:
poi nellĠorto vedessi a primavera
come il ciclame e lĠulivella odora!
I gerani vedrai, messi al coperto
dal gelo: qualche foglia ha la cedrina,
ricordi ? lĠerba che piaceva a te . . .
Sorridi? a questo sbatter dĠusci ? é certo
Ida tua che sfaccenda, oggi, in cucina.
E Maria? Maria prega, oggi, per me.
IN CAMMINO
Siede sopra una pietra del cammino,
a notte fonda, nel nebbioso piano:
e tra la nebbia sente il pellegrino
le foglie secche stridere pian piano:
il cielo geme, immobile, lontano,
e lĠuomo pensa: Non sorger pi.
Pensa: un occhiata quale passeggero,
vana, ha gettata a passeggero in via,
la sua vita, e impresse nel pensiero
lĠorma che lascia il sogno che sĠoblia;
unĠorma lieve, che non sa se sia
spento dolore o gioia che non fu.
Ed ecco - quasi sopra la sua tomba
siede, tra lĠinvisibile caduta -
passa uno squillo tremulo di tromba
che tra la nebbia, nel passar, saluta;
squillo che viene dĠoltre lĠombra muta,
dĠoltre la nebbia: di pi su: pi su,
dove serene brillano le stelle
sul mar di nebbia, sul fumoso mare
in cui tĠallunghi in pallide fiammelle
tu, lento Carro, e tu, Stella polare,
passano squilli come di fanfare,
passa un nero triangolo di gru.
Tra le serene costellazoni
vanno e la nebbia delle lande strane;
vanno incessanti a tiepidi valloni,
a verdi oasi, ad isole lontane,
a dilagate cerule fiumane,
vanno al misteroso Timbuct.
Sono passate . . . Ma la testa alzava
dalla sua pietra intento il pellegrino
a quella voce, e tra la nebbia cava
riprese il suo bordone e il suo destino:
tranquillamente seguit il cammino
dietro lo squillo che vana laggi.
ULTIMO SOGNO
Da un immoto fragor di carraggi
ferrei, moventi verso lĠinfinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...
un silenzio improvviso. Ero guarito.
Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.
Libero!... inerte s, forse, quandĠio
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscio
sottile, assiduo, quasi di cipressi;
quasi dĠun fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre pi lontano.
- Fine -