GIOVANNI BOVIO

 

di D. D'A.

 

Giovanni Bovio "... E' unanimamente considerato uno dei personaggi più autentici del laicismo ottocentesco, venerato sia da coloro che ne condividevano il pensiero, fino all'esaltazione, sia da coloro che se ne consideravano avversari irriducibili; la sua onestà, la sua incorruttibilità fu un faro allorché la tensione unitaria sì era esaurita e i 'notabili' dell'Italia umbertina" .... " si abbandonavano ad ogni sorta di prevaricazione. Fu filosofo e giurista, militò nella sinistra democratica sedendo per lunghi anni a Montecitorio come rappresentante del collegio di Minervino Murge, e generalmente viene considerato uno dei più brillanti oratori politici della Nuova Italia..." (1).

Fu massone: maestro per più generazíoni.

Dirà di se stesso negli ultimi anni della sua vita: "Io sono un contemporaneo di Melchisedek, perché l'ideale è antico, ma sono anche contemporaneo con i più giovani, perché l'ideale vive tuttavolta, ed a contatto con quest'ideale gli anni mi cadono di dosso, la malattia si allontana dalle mie membra, ed io palpito, lotto e giovaneggio, e la mia stagione si rinnovella di giorno in giorno, ed in ogni ora si compie la mia resurrezione" (2).

Egli "non fu chiamato santo perché i santi si creano e si venerano sugli altari dei templi della religione ufficiale: e l'unico altare, per Bovio, fu la sua coscienza e l'unico suo tempio, l'Universo"(3).

Ai massoni napoletani, nel 1888, così esprimeva la sua concezione della libero-muratoria: "La nostra Istituzione, che è universale quanto l'umanità e antica quanto le memorie, ha le sue primavere periodiche perché da una parte custodisce le tradizioni e i riti che la legano al secoli, dall'altra si mette all'avanguardia di ogni nuovo pensiero e cammina con la giovinezza del mondo".

"Affermiamolo, consacriamolo questo nuovo pensiero, facciamolo nostro integrandolo, trasformandolo negli inerti, confortandolo nei dubbiosi, alimentandolo di ora in ora nei violenti, trasferendolo, arditi e vigili, da' templi nella vita pubblica. Esso vuole liberare le nazioni, una l'umanità, elevate a dignità umana le classi diseredate, dominatrice degli intelletti la scienza, non occhio di prete tra l'uomo e la coscienza.(4)

Informò tutta la sua vita perché l'uomo fosse libero. Operò fermamente convinto del principio per cui: "Il diritto senza dovere fa il padrone, il dovere senza diritto fa il servo; diritto e dovere equilibrati nella persona fanno l'uomo, non padrone o servo, non signore o suddito, ma l'uomo veramente, l'uomo libero" (5).

La sua vita di lotte, di orazioni grondanti impegno dì uomo giusto, dal forte ingegno e con una carica eccezionale morale ed ideale; di lezioni da vero maestro impartite dalla sua cattedra presso l'Università di Napoli, ebbe una stagione particolarmente significativa durante il colera del 1884.

Nel 1884 scoppiò a Napoli una terribile epidemia di colera. Dall'1 al 10 settembre furono riscontrati ufficialmente 3337 casi, di cui solo 349 riferiti ai quartieri dei ricchi e ben 2988 ai quartieri poveri e malsani.

Dati impressionanti ma di cui non si può avere una chiara cognizione se non si tiene nel dovuto conto cos'era la Napoli dell'epoca.

Giustino Fortunato, nel 1878, così l'aveva descritta: "Ricavo da un lavoro manoscritto dell'ufficio di statistica municipale, che, a fronte di 45.000 vani, Napoli possiede 54.000 bassi, dei quali ben 36.000 lungo le vie. E questi nondimeno, quantunque privi di luce, specialmente nei rioni della marina e su per i vicoli de' colli, umidi e muffiti, non sono il più abietto ricettacolo della plebe napoletana. Vi è qualche cosa di molto triste, vi sono i fondaci: cortili vecchi e luridi, vicoletti senza uscita, cui di solito si accede per un androne, chiusi da alte fabbriche e mezzo nascosti quà e là in tutte le dodici sezioni. Nel fondaco, le famiglie sono come ammucchiate in camere successive, le une accanto e su le altre; non più il vantaggio di una boccata d'aria o di un po' di spazio sul selciato della via; quasi non più l'idea della famiglia o della casa. E se ne hanno centotrenta di siffatti depositi di carne umana, dimore abituali del vizio e dell'abbrutimento, rifugi sicuri dei mestieri più nocivi, veri nascondigli della più squallida miseria; bolge in feste di quella dura eredità della plebe napoletana, la scrofola, che da sola, popola di tisici i due terzi dei nostri ospedali! "

"Ma, se ciò relativamente è per la città in generale, si immagini ognuno quel che poi debba essere quella parte della vecchia Napoli, che ne è proprio il basso ventre".

Una epidemia di colera, nella descritta realtà sociale e sanitaria, determinò il panico.

Lo stesso Umberto I ritenne di dover lasciare una festa a Pordenone per accorrere "dove si moriva"; e se ne ebbe un monumento sulla cosiddetta Via Nuova di Capodimonte che Gioacchino Murat aveva realizzato alcuni decenni prima.

L'atto del Re fu apprezzato quale gesto coraggioso ma determinò altri problemi: durante una epidemia di quella specie è opportuno evitare assembramenti, la presenza dei Re li favorì perché accorrevano anche coloro che ancora sani volevano dirgli "Maestà non è il colera è la fame".

Senza creare assembramenti, chiamati dalla volontà di operare per il bene dell'umanità, nel mentre anche i preti noti trovavano di meglio che organizzare continue processioni, accorsero a Napoli volontari, massoni, socialisti, repubblicani, per soccorrere i colerosi.

Le difficoltà di intervento erano enormi!

Le condizioni di vita descritte portavano anche ad un relativo senso della morale, ad una eccezionale diffidenza nei confronti della medicina. E' utile evincerle da due testimonianze di memorialisti stranieri: "La prostituzione nelle infime classi è un mestiere come un altro; non ha nulla di particolare; permette persino di essere una buona madre di famiglia. Di giorno le prostitute vivono come tutte le altre donne: lavorano un po', ciarlano, hanno famiglia, hanno figli e sono sfuggite dalle altre. Il mestiere notturno è in coscienza loro onesto, quanto onesto furto".

"E come possedere idee di moralità? Vivono nelle stesse camere varie famiglie, dormono nello stesso letto padre, madre, fratelli, sorelle. Al teatro anatomico, ove si sezionano i cadaveri dei poveri che non pagarono il mortorio, fra le ragazze dai dodici anni in su non si notò nessuna vergine ". Aveva scritto nel suo libro su Napoli nel 1877 White Mario, scrittrice inglese, moglie del Fratello Alberto Mario, che venuta in Italia negli anni '50 aveva partecipato alla congiura di Pisacane, del cui testamento politico fu depositaria, e che fu molto attiva nella spedizione dei Mille e nei successivi movimenti garibaldini di cui fu memorialista.

Axel Munthe, medico e scrittore svedese testimonia:

"Ho conosciuto un medico, al quale, ogni volta che egli apprestava una pozione al malato, si rivolgeva questa apostrofe: "bevete prima voi".

Giovanni Bovio si prodigò per l'organizzazione e la razionalizzazione dell'intervento dei volontari. Cosicché i massoni, alla luce del sole con le tre stellette massoniche sul petto e la croce verde sul braccio, intervennero direttamente in soccorso della popolazione.

Tra questi Luigi Musini, (massone, giornalista, garibaldino, socialista, già eroe di Villa Glori nel '67 ed entrato in Parlamento assieme ad Andrea Costa, entrambi rappresentanti del "nuovo socialismo" romagnolo staccatosi dall'anarchia) che lascia una cruda testimonianza nel suo libro "Da Garibaldi al socialismo".

"Vidi Musini e Costa all'opera. Essi girano giorno e notte nei quartieri più infetti, il primo come medico il secondo come infermiere" dirà l'inviato del Messaggero di Roma in un resoconto di quel giorni.

Andrea Costa, mito delle plebi romagnole, grande protagonista delle lotte operaie dell'epoca, accorse a Napoli.

"Appena giunto a Napoli, si era presentato al Comitato della Croce Verde, formato da volontari appartenenti soprattutto alla Massoneria ed ai partiti estremisti e diretto da Giovanni Bovio. Vi erano con lui altri deputati: Cavallotti, Maffi, Musini. Giorno e notte percorreva le luride vie del Mercato e del Borgo, entrava nei tuguri infetti dal morbo: penetrava nelle stanze che parevano tane, portava medicinali, accompagnava i colerosi al lazzaretto, li assisteva. Attorno a lui cadevano, contagiati, i compagni: "Ilmorbo è gravissimo", scriveva agli amici di Imola,"Valdrè è morto. Egli è il secondo della nostra squadra".

"Benché pedinato da un agente di polizia, "(grande eco ebbe sulla stampa in quei giorni la denuncia del pedinamento dei volontari intervenuti a soccorso dei colerosi) "Costa continuò il suo ministero, e anche quando Cavallotti e la squadra tosco-lombarda lasciarono Napoli il 25 settembre, volle rimanere sino alla fine. Si chiesero uomini da mandare nel vicino comune di Afragola, ma uomini coraggiosi che sapessero imporsi al contadini, i quali, retrogradi com'erano, non volevano saperne di cure e di disinfezioni. Egli fu tra i primi ad offrirsi".

"Soltanto il 4 ottobre lasciò Napoli per tornare a Imola. Ma prima di partire Giovanni Bovio, Gran Maestro della Loggia napoletana, lo accolse nella setta. Quando egli lasciò Napoli, era il fratello Costa" (6).

Durante questa epidemia massoni caddero, uomini liberi videro la luce.

Bovio ricorderà i martiri con questa lapide:

 

QUALE TU SII

E QUALUNQUE FORTUNA TI MENI

STRANIERO

TU SEI GIUNTO IN LUOGO

CHE VIDE NEL COLERA DEL

MDCCCLXXXIV

ACCORRE DA OGNI TERRA D'ITALIA

RE MINISTRI

REPUBBLICANI SOCIALISTI

A RIFERMARE INNANZI ALLA MORTE

CHE DOVE UNA E' LA PATRIA

UNO E' IL DOLORE.

STRANIERO

DI AI TUOI

Cio' CHE CARITA' E VALORE

RICONGIUNSERO

NON UOMINI NON SECOLI

DIVIDERANNO MAI.

 

"La sua filosofia", ha scritto Tommaso Ventura nel 1958, "né servile né timida, seppe antivedere, ammonire, correggere, ed interpretando il sentimento universale, spiegò il presente e lo superò con l'occhio dell'avvenire. E però in essa i bísogni delle plebi diventarono conclusioni; i fremiti e le aspirazioni di libertà diventarono teorica; i dolori degli oppressi si fecero protesta; gli ideali di giustizia sociale si fecero sistema".

Quanto ingegno, quanta tensione morale ed ideale. Le sue azioni, i suoi atti sempre coerenti con le sue convinzioni ed il suo pensiero che furono e, forse ancora più oggi, sono di attualità.

 

NOTE

 

1- P. ROSARIO, F. ESPOSITO: "I drammi massonizzanti di Bovio " in "Massoneria e Letteratura"- Ed. Bastogi - p. 117

 

2- M.R. recensione a "Bovio nel cinquantenario della sua morte " in Lumen, n° 1, anno 1954, pag. 39.

 

3- E. RIPARDI: "Il teatro di Giovanni Bovio... ", in Lumen Vitae n° 8-9, anno 1955, pag. 276.

 

4- G. Bovio: "Parole a tutti i Liberi Muratori di Napoli..." in Lumen Vitae n° 2, anno 195 7, pag. 71.

 

5- G. BOVIO: in Lumen Vitae, n' 5, anno 1958, pag. 155.

 

6 LILLA LIPPARINI: "Andrea Costa rivoluzionario" Longanesi 1977.

 

(tratto da "Hiram" n.1, gennaio 1988, pag.10 - Ed. Società Erasmo)