CARL GUSTAV JUNG

ANTOLOGIA I




IL NOSTRO PERTURBATO MONDO MODERNO

 

Il nostro mondo è, per così dire, dissociato allo stesso modo dei nevrotici, e la cortina di ferro ne rappresenta la simbolica linea di spartizione. L'uomo occidentale, rendendosi conto dell'aggressivo desiderio di potenza dell'Est, si vede obbligato a prendere straordinarie misure di difesa. Contemporaneamente però egli si illude a proposito della propria virtù e delle sue buone intenzioni. Ciò che egli non vede è che questi sono i suoi stessi vizi, da lui dissimulati sul piano internazionale sotto la maschera delle buone maniere che il mondo comunista gli rimbalza senza vergogna e metodicamente, in modo aperto. Quanto l'Ovest ha tollerato in segreto, con un leggero senso di vergogna (cioè la menzogna diplomatica, la frode sistematica, le velate minacce), gli è oggi servito apertamente, e con prodigalità, dall'Est; e questo contraccambio provoca in noi "nodi" nevrotici. È la faccia contorta della propria cattiva "ombra" che l'uomo occidentale vede ghignare dall'altro lato della cortina di ferro.
E questo stato di cose spiega lo strano senso di impotenza di cui soffrono tanti individui nelle società occidentali. Essi hanno cominciato a capire che le difficoltà contro cui urtano, derivano da problemi morali, e che il tentativo di rispondere ad essi mediante un'accumulazione di armi nucleari o con la "competizione" economica, ha poco effetto perché è un'arma a doppio taglio. Molti tra noi oggi comprendono che sarebbero più efficaci i rimedi morali e intellettuali, poiché essi darebbero un'immunità psichica contro un contagio che non cessa di estendersi.
Tutto ciò che abbiamo intrapreso fino ad ora ha avuto notoriamente pochi risultati, e continuerà ad essere così fintantoché noi tenteremo di convincerci e di convincere il mondo, che sono soltanto loro (cioè i nostri avversari) ad avere torto. Varrebbe molto di più uno sforzo sincero per riconoscere negli altri la nostra propria ombra, e la sua azione nefasta. Se potessimo vedere questa ombra (il lato tenebroso della nostra natura), saremmo immunizzati contro ogni contagio intellettuale e morale. Nell'attuale stato di cose, ci apriamo da noi stessi la strada del contagio poiché, praticamente, facciamo le stesse cose che fanno loro. Noi però siamo afflitti dall'ulteriore svantaggio di non vedere e di non voler capire ciò che facciamo sotto il velo delle buone maniere.

 

(L'homme et ses symboles, cit., p. 85)

 

I cristiani spesso chiedono per quale motivo Dio non parli più loro, come si crede abbia fatto un tempo. Quando mi viene proposto questo problema, mi ricordo sempre di quel rabbino al quale era stato domandato perché, mentre Dio era apparso tanto frequentemente agli uomini di una volta, nessuno lo ha visto più al giorno d'oggi. Il rabbino aveva risposto: "Oggi non c'è più nessuno che sia capace di chinarsi così in basso".

 

(Ibidem, p. 102)

 

L'estensione continua della previdenza dello Stato va certamente in un senso molto giusto, essa però dà molto da pensare perché annulla la responsabilità individuale e produce caratteri infantili e gregari. Inoltre essa si accompagna al pericolo che individui irresponsabili amministrino gli uomini capaci, come era accaduto su vasta scala in Germania. È necessario vigilare, costi quel che costi, affinché sia preservato l'istinto di conservazione del cittadino; perché l'uomo, privato delle radici nutritive dei suoi istinti, è in balia del vento. Non è più nient'altro che un animale malato, demoralizzato e degenerato, e soltanto passando per una catastrofe ha la possibilità di riacquistare la salute.

 

(Aspects du drame contemporain, cit., pp. 151-152)

 

È un fatto evidente che la moralità di una società, presa nella sua totalità, è inversamente proporzionale alla sua massa, perché quanto più è grande il numero degli individui che vi sono riuniti, tanto più vengono cancellati gli attori individuali e nello stesso tempo anche la moralità che riposa interamente sul senso etico di ognuno e, per il fatto stesso, sulla libertà dell'individuo, indispensabile al suo esercizio. Per questa ragione ogni individuo, in quanto membro della società, è inconsciamente più cattivo, in un certo senso, di quanto non sia quando agisce come unità pienamente responsabile. Perché, quando è fuso nella società, egli è in una certa misura libero dalla sua responsabilità individuale.

 

(L'âme et la vie, cit., pp. 220-221)

 

Un'autorità che conduce con saggezza e prudenza la barca dello Stato, lasciando alla natura di cui fa parte anche lo spirito spazio sufficiente, non ha bisogno di temere la sua prematura decadenza. Riconosciamolo: dobbiamo constatare che una testimonianza poco lusinghiera della mancanza di maturità dell'uomo europeo consiste nel fatto che egli auspica e anzi necessita di un'autorità accresciuta. Però, che lo vogliamo o no, non possiamo eludere il fatto che milioni di individui, in Europa, sono sfuggiti all'autorità ecclesiastica come anche all'onnipotenza patriarcale di re e imperatori. Le masse liberate manifestano allora (di fronte a se stesse) un senso di colpevolezza che deriva sia dalla loro mancanza di tradizioni, sia dalla loro puerilità, e sono assolutamente pronte a divenire vittime cieche e insensate della prima potenza che si investirà dell'autorità: dobbiamo fare i conti con l'immaturità degli uomini come fatto innegabile.

 

(Ibidem, p. 348)

 

L'uomo ha difficoltà ad abbandonare le vie e i metodi della sua infanzia, necessari allora, e nocivi poi, quando appunto la loro nocività largamente si dimostra. Lo stesso accade, ingrandito gigantescamente, in relazione ai cambiamenti di atteggiamento nella storia. A una data religione corrisponde un atteggiamento generale e i cambiamenti di religione sono momenti estremamente penosi nella storia del mondo... È vero che la nostra epoca a questo proposito è di una cecità senza pari. Pensiamo che basti dichiarare falsa e priva di valore una forma di confessione per liberarci psicologicamente di tutte le conseguenze tradizionali delle religioni ebrea o cristiana. Crediamo ai lumi razionali, come se una modifica dell'orientamento intellettuale avesse mai in qualche modo avuto una qualunque influenza sui moti del sentimento o anche sull'inconscio. Dimentichiamo completamente che la religione, da duemila anni, è un atteggiamento psicologico, una forma determinata di adattamento esteriore e interiore, da cui è uscita una determinata forma di cultura, che crea un'atmosfera che non può influenzare nessuna negazione da parte dell'intelletto.

 

(Ibidem, p. 437)

 

Abbiamo sempre bisogno di un punto esterno sul quale poggiare, per poter adoperare efficacemente la leva della critica. Questo vale particolarmente per i fatti psicologici, in cui, per natura, siamo molto più coinvolti con la nostra soggettività che in qualsiasi altra scienza. Per esempio, come potremmo renderci conto delle caratteristiche nazionali, se non avessimo mai avuto l'occasione di considerare la nostra nazione dall'esterno? Considerarla dall'esterno significa considerarla dal punto di vista di un'altra nazione. Per poterlo fare, dobbiamo acquistare una sufficiente conoscenza dell'anima straniera, e nel corso di questo processo di assimilazione urtiamo in tutte quelle incompatibilità che costituiscono il pregiudizio e le caratteristiche nazionali. Tutto ciò che ci irrita negli altri può così portarci alla comprensione di noi stessi. Capisco l'Inghilterra soltanto quando vedo in che cosa io, svizzero, non mi adatto ad essa. Capisco l'Europa, il nostro problema più grande, solo quando vedo in che cosa io, come europeo, non mi adatto al mondo. Grazie alla mia conoscenza di molti americani, e ai miei viaggi in America e all'interno di quel continente, ho acquistato una considerevole conoscenza e capacità di critica del carattere europeo; mi è sempre parso che non ci possa essere nulla di più utile, per un europeo, che osservare l'Europa, una volta o l'altra, dalla cima di un grattacielo. Quando contemplai per la prima volta lo spettacolo europeo dal Sahara, circondato da una civiltà che ha con la nostra più o meno la stessa relazione dell'antichità romana con i tempi moderni, mi resi conto di quanto completamente, persino in America, fossi ancora impacciato e legato dalla coscienza culturale dell'uomo bianco. Fu allora che maturò in me il desiderio di portare più a fondo i paragoni storici, scendendo a livelli ancora inferiori di civiltà.

 

(da Ricordi, sogni e riflessioni di C. G. Jung,
Milano, Il Saggiatore, 1965, pp. 278-279)

 

Il germe del male dissociante mise radici nell'animo umano il giorno in cui nacque la coscienza, al contempo bene supremo e sorgente di ogni male. È difficile giudicare il presente immediato nel quale viviamo. Se ci riportiamo però alla storia della malattia spirituale dell'umanità, troviamo casi anteriori che potremo molto più facilmente giudicare. Una delle crisi più gravi è costituita dalla malattia del mondo romano del primo secolo dell'era cristiana. Il fenomeno di dissociazione si rivelò con spaccature di un'ampiezza mai vista che disgregarono io stato politico e sociale, le convinzioni religiose e filosofiche, e passarono attraverso una deplorevole decadenza delle arti e delle scienze. Riduciamo l'umanità di allora alle proporzioni di un solo individuo; ci troviamo di fronte a una personalità altamente differenziata da tutti i punti di vista, che all'inizio è riuscita, con estrema sicurezza di sé, a estendere la sua potenza a tutto il suo seguito ma che, una volta ottenuto il successo, si è dispersa in parecchie occupazioni e interessi differenti; al punto da finire per dimenticarsi la propria origine, le sue tradizioni e anche i propri ricordi personali, e da immaginarsi di essere identica ad altra cosa, il che la precipita in un irrimediabile conflitto con se stessa. Questo conflitto provoca alla fine un tale stato di debolezza che l'ambiente, precedentemente soffocato, fa un'irruzione devastatrice che accelera il processo di decomposizione.
Lo studio della natura dell'anima, a cui mi sono dedicato per parecchi decenni, mi ha imposto, così come ad altri studiosi, il principio di non considerare mai un fatto psichico sotto un unico aspetto, ma di tener sempre conto anche del suo aspetto contrario. Giacché un'esperienza, per quanto poco vasta, mostra che le cose hanno almeno due lati, e spesso ne hanno anche di più. La massima di Disraeli di non prendere troppo alla leggera le cose insignificanti e troppo a cuore le cose importanti è un'altra espressione della stessa verità; una terza versione potrebbe esserci fornita dall'ipotesi che ogni manifestazione psichica è compensata interiormente dal suo contrario, o, per ricondurci ai proverbi, che "gli estremi si toccano" e "non tutto il male viene per nuocere".

 

(L'homme à la découverte
de son âme
, cit., pp. 43-44)

 

Le catastrofi gigantesche che ci minacciano non sono avvenimenti elementari di natura fisica o biologica, esse sono di natura psichica. Siamo minacciati da guerre spaventose e rivoluzioni, le quali altro non sono che epidemie psichiche. In ogni momento, qualche milione di uomini può essere afferrato da una follia che ci precipiterebbe nuovamente in una guerra mondiale o in una rivoluzione devastatrice. Invece di essere esposto a pericoli rappresentati da bestie feroci, da acque straripanti o da montagne che franano, l'uomo d'oggi è minacciato dalle elementari potenze della psiche. La psiche è una grande potenza che supera di molto tutte le potenze terrestri. Il secolo dei lumi, che ha tolto alla natura e alle istituzioni umane il loro carattere divino, ha ignorato il dio del terrore che dimora nell'anima. Il timor di Dio è più spiegabile in rapporto all'estrema potenza della psiche che per qualunque altra ragione.
Ma sono semplici astrazioni. Ognuno sa che quel diavolo di intelletto ha ben altri modi di esprimersi. È invece ben diverso se questo psichismo, duro come granito, obiettivo e pesante come il piombo, si oppone all'individuo sotto forma di esperienza interiore e gli dice, con voce appena percettibile: "È così che ciò avverrà, che quello deve accadere". Allora l'uomo si sente chiamato, come i gruppi sociali quando si tratta di guerra, di rivoluzioni o di qualunque altra follia. Non è invano che la nostra epoca invoca proprio la personalità salvatrice, cioè colui che si distingue dalla ineluttabile potenza della collettività liberandosi in tal modo, spiritualmente. Egli accende per gli altri una luce di speranza, e annuncia che almeno un essere è riuscito a sfuggire alla funesta identificazione con l'anima di gruppo. Infatti, a causa della propria incoscienza, il gruppo non può decidere liberamente, e questo avviene perché la psiche produce in lui tutto il suo effetto, come una legge naturale che nulla può ostacolare. Il gruppo si incammina allora in un corso causalmente determinato che si arresta soltanto con la catastrofe. Il popolo aspira sempre all'eroe, uccisore di draghi, quando sente il pericolo dello psichico; da qui il grido di richiamo alla personalità.

 

(Problèmes de l'âme moderne, cit., pp. 258-259)

 

Ma dimentico che, almeno apparentemente, noi uomini occidentali ignoriamo ancora questo fatto: mentre noi sconvolgiamo il suo mondo materiale con la superiorità delle nostre conoscenze tecniche, l'oriente, dal canto suo, getta lo scompiglio nel nostro mondo spirituale con le superiori conoscenze psichiche. Non abbiamo ancora pensato che, se noi lo dominiamo dall'esterno, l'oriente potrebbe conquistarci dall'interno.
L'oriente sembra effettivamente avere un qualche rapporto con la causa della nostra attuale trasformazione psichica. L'oriente però non è un monastero tibetano di Mahatmab; ma dimora essenzialmente nel nostro intimo. È indubbiamente la nostra anima che crea nuove forme spirituali, forma che racchiudono realtà psichiche capaci di opporre freni salutari alla sfrenata sete di saccheggio dell'uomo ariano. E forse qualcosa di analogo a quel restringersi della vita che in oriente assume l'aspetto di una pericolosa acquiescenza; è forse una sorta di stabilità dell'esistenza che compare necessariamente quando le esigenze dell'anima divengono tanto pressanti quanto i bisogni della vita sociale. Siamo però ancora ben lontani dall'età dell'americanismo; non ci troviamo piuttosto, e più semplicemente, all'inizio di una nuova cultura psichica? Non ho la pretesa di atteggiarmi a profeta, ma mi sembra che non possiamo tratteggiare un quadro molto preciso del problema psichico dell'uomo moderno, senza sottolineare l'aspirazione alla quiete nello stato d'inquietudine e alla sicurezza nello stato di insicurezza.

 

(Ibidem, pp. 187-189)

 

L'UOMO E LA NATURA - IL CONTADINO

 

Sappiamo che lo sviluppo accelerato delle città con la divisione del lavoro che favorisce la produttività, la crescente industrializzazione dei piani, e l'aumento di sicurezza della vita, sottraggono agli uomini parecchie occasioni per liberarsi delle loro energie affettive. Il contadino con la sua attività estremamente diversificata, attività che gli procura, grazie ai suoi contenuti simbolici, soddisfazioni inconsce, ignote e irraggiungibili sia all'operaio dell'officina sia al burocrate - la vita a contatto della natura, i bei momenti in cui il contadino, padrone e fecondatore della terra, affonda il suo aratro nel terreno, in cui con gesto regale sparge le sementi delle future messi, la sua comprensibile angoscia di fronte alla potenza distruttiva degli elementi, la sua gioia di fronte alla fecondità della sua sposa che gli dona figli e figlie che rappresentano per lui un aumento di forza lavorativa e un maggior benessere - ahimè! noialtri gente di città, moderne macchine cittadine, quanto siamo lontani da tutto questo! Non siamo forse già privi della più naturale e della più bella di tutte le soddisfazioni fin dalla venuta della nostra propria semenza, della "benedizione" dei nostri bambini, che non possiamo più guardare con gioia completa? Potremmo contare sulle dita di una mano i matrimoni in cui fioriscono tutte le arti dell'alcova. Non è forse questo un primo addio alla gioia donata da madre natura ai suoi figli primigenii? Può sgorgare da tutto ciò una qualche soddisfazione?

 

(L'áme et la vie, cit., pp. 189-190)

 

Il processo di civilizzazione medesimo consiste nel domare progressivamente tutto quanto vi è di animale nell'uomo; addomesticamento che non potrebbe attuarsi senza ribellione da parte della sua natura animale, assetata di libertà. Così di quando in quando una sorta di ebbrezza si impadronisce dell'umanità, che si infrange essa stessa sempre più contro le costrizioni della civilizzazione. L'antichità ne è stata testimone quando il flutto delle orge demoniache, venute dall'Oriente, si è abbattuto su di lei. Queste orge divennero parte integrante, essenziale e caratteristica della cultura antica; lo spirito che le animava ha contribuito non poco allo sviluppo, in numerose sette e in parecchie scuole filosofiche dell'ultimo secolo avanti Cristo, dell'ideale stoico dell'ascetismo; in questo modo scaturirono dal caos politeista di quell'epoca, le religioni ascetiche di Mitra e di Cristo. Una seconda ondata di ebbrezza e di libertà si impadronì del mondo occidentale all'epoca del Rinascimento. È difficile esprimere un giudizio sulla propria epoca; tuttavia nell'elenco dei problemi rivoluzionari sollevati dalla prima metà del secolo XX, assume rilievo il "problema sessuale" che generò tutta una letteratura di un genere particolare. La psicanalisi, ai suoi inizi, affonda le proprie radici in "questo movimento" che influenzò in modo essenziale e unilaterale la formazione delle sue concezioni teoriche. Giacché nessuno riesce mai a sottrarsi alle correnti contemporanee nelle quali è immerso. Quindi il "problema sessuale" è stato ricacciato sullo sfondo, in larga parte, dai problemi politici e da quelli della concezione del mondo. Ma ciò non modifica assolutamente il fatto essenziale che la natura umana, istintiva, urta continuamente con i limiti imposti e valorizzati dalla civilizzazione. Questi talvolta cambiano nome, la situazione generale rimane tuttavia fondamentalmente la stessa.

 

(Ibidem, pp. 192-193)

 

 

LE ETÀ DELLA VITA

 

Immaginate un sole animato da sentimenti umani e dalla potenza umana del tempo. Il mattino nasce dal mare notturno dell'inconscio ed osserva il vasto e variegato mondo di cui aumenta la comprensione a misura che si alza nel cielo. All'allargarsi del suo campo d'azione, che deriva dalla sua ascesa, il sole si renderà conto della propria importanza e scorgerà il fine dal punto più alto e nella più grande estensione della sua benedizione. Con questa convinzione raggiungerà lo Zenith, che non aveva mai sognato, perché la sua esistenza individuale, che è unica, non poteva conoscere prima il suo punto culminante. A mezzogiorno comincia la discesa che determina una inversione di tutti i valori e degli ideali del mattino.

 

(Ibidem, pp. 181.182)

 

Il passaggio dal mattino al pomeriggio della vita avviene attraverso una sorta di trasmutazione dei valori. Si impone la necessità di riconoscere la validità non già dei nostri antichi ideali, ma dei loro contrari, d'avvertire l'errore in quello che fino a quel momento era la nostra convinzione, di sentire la menzogna in ciò che era la verità e di valutare quanta resistenza ed anche animosità vi fosse in ciò che noi credevamo amore.
Il vino della giovinezza non sempre si schiarisce nell'età matura, a volte si intorbidisce.
Senza essere preparati gli uomini raggiungono la seconda metà della vita. Esistono da qualche parte scuole, e non soltanto scuole superiori o di un grado più elevato, che preparino i quarantenni alla loro vita di domani e alle sue esigenze come le università e le scuole superiori danno ai giovani una prima conoscenza del mondo e della vita? Non esistono. È all'improvviso che perveniamo al mezzogiorno della vita; peggio ancora, vi giungiamo armati delle idee precostituite, degli ideali, delle verità che avevamo fino ad allora. È impossibile vivere la sera della vita secondo gli stessi canoni del mattino, poiché ciò che allora era di grande importanza ne avrà poca adesso e la verità del mattino sarà l'errore della sera.
Tanto la nostra educazione collettiva si preoccupa di educare la gioventù quanto poco pensa all'educazione dell'adulto del quale si suppone sempre - non si sa a che titolo - non ne abbia più bisogno. Per questo passaggio straordinariamente importante dall'attitudine biologica all'attitudine culturale, per la trasformazione dell'energia dalla sua forma biologica alla sua forma culturale egli è per così dire provvisto di consigli. Questo processo di trasformazione, essendo un processo individuale, non può essere diretto da regole e preclusioni generali.

 

(Ibidem, pp. 181-182)

 

L'uomo non raggiungerebbe certamente i settanta o gli ottant'anni se la durata della vita non corrispondesse al senso della sua esistenza. Così anche il pomeriggio della vita deve avere un senso ed uno scopo propri, non può essere solamente un misero prolungamento del mattino. Quest'ultimo ha certamente come scopo lo sviluppo degli individui, il suo consolidarsi e il suo riprodursi nel mondo esterno, così come il pensiero del proprio declino - tale è evidentemente il suo scopo naturale -. Una volta raggiunto, largamente raggiunto, questo obiettivo, è necessario continuare a guadagnare denaro senza tregua ed allargare la propria esistera oltre ogni limite ragionevole?
Colui che trasporta così la legge del mattino, cioè lo scopo naturale, senza bisogno, nel pomeriggio della vita, subirà per questo danni psichici esattamente come il giovane che, volendo conservare nell'età adulta il suo egoismo infantile, paga il suo errore con le sconfitte sociali.

 

(Ibidem, pp. 185-186)

 

Non dimentichiamo che sono molto pochi gli artisti della vita; l'arte di vivere è la più nobile e la più rara di tutte; chi riesce a vuotare in bellezza tutto il contenuto della coppa? Troppe cose restano che molti non hanno vissuto e che del resto con la miglior volontà del mondo non avrebbero potuto vivere, di modo che essi arrivano alla soglia della vecchiaia carichi di desideri non realizzati, che li costringono a volgere involontariamente lo sguardo verso il passato.
Per uomini simili il volgersi indietro è particolarmente dannoso. Essi hanno bisogno di avere una prospettiva pel domani, uno scopo per l'avvenire. Perciò tutte le grandi religioni hanno le loro promesse dell'al di là, pongono uno scopo ultraterreno da raggiungere, permettendo così ai mortali di tendere verso una meta nella seconda metà della vita, come nella prima. Ma se mete quali l'espansione e l'elevazione suprema della vita appaiono plausibili all'uomo odierno, l'idea della continuazione dopo la morte gli sembra dubbia ed oltremodo incredibile. La fine della vita, cioè la morte, non può essere uno scopo ragionevole se non quando la vita è così penosa, che si è contenti di vederla finire, oppure se si è convinti che il sole cerchi il suo declino "per illuminare popoli lontani", per la stessa ragione per cui si innalzava verso il mezzogiorno. Ai nostri giorni, disgraziatamente, la fede è divenuta un'arte così difficile, da essere quasi inaccessibile, soprattutto per la parte colta dell'umanità. Si è troppo abituati a pensare che sull'immortalir esistano una quantità di idee contraddittorie senza prove decisive. Siccome la parola scienza è il solo grande termine contemporaneo che sembri avere un'assoluta forza persuasiva, si esigono prove "scientifiche". Ma le persone colte e che pensano sanno perfettamente che una simile prova è filosoficamente impossibile. Non si può sapere assolutamente nulla a questo proposito.
Mi sarà concesso di osservare che, per le stesse ragioni, non possiamo sapere se non accade nulla dopo la morte? La risposta è un ‘non liquet’, né positiva, né negativa. In realtà non sappiamo in proposito nulla di scientificamente determinato; di fronte a questo problema ci troviamo come di fronte alla questione di sapere se Marte è o non è abitato; e per gli abitanti di Marte, se ve ne sono, è del tutto indifferente che noi affermiamo o neghiamo la loro esistenza. Essi possono esserci o no. Altrettanto dicasi per ciò che riguarda l'immortalità. Potremmo dunque lasciare dà parte questo problema.
Ma a questo punto si ridesta la mia coscienza di medico, per portare a questo problema un contributo essenziale. In effetti, ho osservato che una vita orientata verso uno scopo è, in genere, migliore, più ricca, più seria di una vita senza scopo, ed ho pure osservato che è preferibile avanzare seguendo il cammino del tempo, anziché volerne risalire il corso. Per lo psichiatra, il vecchio che non vuole rinunciare alla vita è altrettanto debole e malato quanto il giovane incapace di evolversi. Si tratta infatti, tanto nell'un caso quanto nell'altro, in genere, della medisima brama infantile, del medesimo orgoglio e capriccio. Come medico, io sono convinto che è più igienico, per così dire, vedere nella morte una meta a cui tendere, e che vi è qualcosa di insano nella resistenza che noi le opponiamo e che toglie alla seconda metà della vita il suo scopo. Perciò trovo molto ragionevoli tutte quelle religioni che hanno una meta ultraterrena, non foss'altro che dal punto di vista dell'igiene psichica. Se vivo in una casa sapendo che dopo quindici giorni crollerà sul mio capo, ogni mia funzione vitale sarà disturbata data idea, se invece io mi ci sento al sicuro, posso viverci a mio agio e normalmente. Per la salute mentale sarebbe bene poter pensare che la morte non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e sconosciuto processo vitale. Sebbene la maggior parte degli uomini ignori la ragione per cui il corpo abbisogna di sale, cerchiamo tutti di procurarcene, per un bisogno istintivo. Altrettanto accade per le cose psichiche. La maggior parte degli uomini, in ogni. tempo, ha sentito la necessità di credere alla sopravvivenza. Questa constatazione non ci porta al di fuori, ma nel bel mezzo della grande via strategica della vita umana. Pensando che la vita oltrepassi i confini della morte, noi agiamo secondo il senso della vita, anche se il significato di questa idea ci sfugge.

 

(Il problema dell'inconscio nella psicologia
moderna
, Einaudi, 1964, pp. 187-189)

 

 

IL RUOLO DELLA COLLETTIVITÀ

 

Ordunque, l'abdicazione dal sè a vantaggio del collettivo corrisponde a un ideale sociale: essa passa anche per una virtù e un dovere nei confronti della società, quantunque possa essere usata abusivamente e per scopi egoistici. Di un egoista diciamo che è "pieno di sè": "sè" in questo caso non ha naturalmente niente a che vedere con il concetto del sè, come io l'ho utilizzato in quest'opera. La realizzazione del proprio sè si situa all'opposto della spersonalizzazione di se stesso. Scambiare l'individuazione e la realizzazione del proprio sè per egoismo è un equivoco assai comune, perché le menti fanno generalmente poca differenza tra individualismo e individuazione. L'individualismo accentua deliberatamente e mette in rilievo la pretesa particolarità dell'individuo, in opposizione al riguardo e ai doveri in favore della collettività.
Al contrario l'individuazione è sinonimo di migliore e più completo compimento dei compiti collettivi di un individuo, è prendere sufficientemente in considerazione le proprie particolarità, il che permette all'individuo di divenire, nell'edificio sociale, una pietra più appropriata e meglio inserita di quanto sarebbe se queste stesse particolarità rimanessero trascurate e oppresse.
La scossa subita dalla coscienza moderna a causa della serie di catastrofi avvenute durante la guerra mondiale, si accompagna interiormente alla scossa subita dalla fede in noi stessi e nella nostra bontà. Un tempo era lecito giudicare gli altri, gli stranieri, dei buoni a nulla, sia dal punto di vista politico che morale; l'uomo moderno deve invece riconoscere di essere, politicamente e moralmente, come tutti gli altri.
Mentre un tempo credevo che il dovere impostomi da Dio consistesse nel richiamare gli altri all'ordine, oggi so di avere bisogno quanto gli altri di tale richiamo e so che farei meglio, a mettere ordine in casa mia.

 

(L'âme et la vie, cit., pp. 237-28)

 

 

LA COLPEVOLEZZA COLLETTIVA

 

Il fatto psicologico della colpevolezza collettiva è una tragica fatalità. Tutti sono colpiti senza discriminazione, il giusto come il colpevole, tutti coloro che, per un qualunque motivo, si trovano in prossimità del luogo in cui fu perpetrato il fatto spaventoso. Ovviamente, ogni uomo ragionevole e coscienzioso non tradurrà sconsideratamente la colpevolezza collettiva in colpevolezza individuale, che rende l'individuo responsabile senza colpirlo. Egli sarà in grado di distinguere il criminale dal "colpevole collettivo". Ma quale è la percentuale di individui coscienziosi e ragionevoli, e quanti si impegnano a esserlo o a diventarlo?

 

(Aspects du drame contemporain, cit., pp. 141-142)

 

Non basta recitare il mea culpa e accettare i propri lati peggiori, la propria "ombra", dobbiamo invece domandarci come potremo d'ora in avanti transigere e vivere con essa.
Quale atteggiamento bisogna assumere per continuare a vivere malgrado il cattivo cucre che portiamo, insieme all'altro, nel nostro petto?
È necessario un ampio rinnovamento spirituale, prima di poter dare un valido responso a tale quesito - e tale rinnovamento non può essere dato bell'e fatto a chiunque, ma ognuno dovrà conquistarlo per conto proprio, nella sua sfera, e in funzione dei suoi dati personali. Vecchie formule, che un tempo resero fruttuosa la vita, non possono, senza perdere la loro efficacia, essere ora applicate senza discernimento, perché le verità eterne non vogliono essere trasmesse meccanicamente: esse vogliono, in ogni epoca, ricreate dall'animo umano, rispuntare spontaneamente, splendenti di nuova giovinezza.

 

(Ibidem, pp. 189-190)

 

 

L'INCONSCIO

 

In effetti lo spirito ha raggiunto il suo attuale stadio di coscienza come la ghianda si trasforma in quercia, come i sauri si sono trasformati in mammiferi. Come si è trasformata durante un tempo lunghissimo, così continua ancora a svilupparsi in quanto siamo spinti tanto da forze interiori quanto da stimoli esterni. Queste forze interiori provengono da una sorgente profonda che non è alimentata dalla coscienza e sfugge al suo controllo.
Nell'antica mitologia queste forze erano chiamate ‘mana’, spirito, demoni o dei. Esse sono sempre attive anche oggi. Se si conformano ai nostri desideri, parliamo di ispirazione o di impulsi felici e ci compiacciamo di essere "tipi intelligenti". Se queste forze ci sono sfavorevoli diciamo che si tratta di mancanza di fortuna o che certe persone ci sono ostili o che la causa della nostra disgrazia deve essere patologica. La sola cosa che non sappiamo ammettere è che dipendiamo da "potenze" che sfuggono alla nostra volontà. È per altro vero che negli ultimi tempi l'uomo civilizzato ha acquisito una certa dose di volontà, che può usare come meglio crede. Ha imparato a svolgere il proprio lavoro efficacemente senza ricorrre al canto o al tam-tam per ipnotizzarsi. Può anche tralasciare la preghiera quotidiana con la quale implorava l'aiuto di Dio. Può compiere ciò che ha deciso di fare e, almeno apparentemente, tradurre le sue idee in azioni senza ostacoli mentre il primitivo sembra essere bloccato ad ogni passo da paure, superstizioni, ed altri invisibili ostacoli. "Volere è potere" riassume la superstizione dell'uomo moderno.
Ma l'uomo contemporaneo sostiene questa convinzione al prezzo di una notevole mancanza di introspezione.
Non si accorge che, malgrado il suo raziocinio e la sua efficienza, è sempre posseduto da "potenze" che sfuggono al suo controllo. I suoi dei e i suoi demoni non sono affatto spariti. Hanno semplicemente cambiato nome. Lo tengono in sospeso con l'inquietudine, con vaghe apprensioni, con complicazioni psicologiche, col bisogno insaziabile di pillole, d'alcool, di tabacco, di nutrimento e soprattutto con una varietà impressionante di nevrosi.

 

(L'homme et ses symboles, cit., pp. 81-82)

 

Abbiamo una paura profonda come un abisso della laidezza del nostro inconscio personale: per questo l'europeo preferisce dire agli altri come dovrebbero agire. Non possiamo concepire come il miglioramento del tutto cominci dall'individuo, ivi compreso se stesso. Molti pensano che sia dannoso gettare, anche una sola volta, uno sguardo dentro di sé. Questo ci rende malinconici come un giorno mi ha assicurato un teologo.

 

(L'âme et la vie, cit., p. 295)

 

 

GLI ARCHETIPI

 

Gli archetipi sono come i letti dei fiumi abbandonati dall'acqua, che però possono nuovamente accoglierla dopo un determinato periodo di tempo. Un archetipo è simile a una gola di montagna in cui la corrente della vita si sia lungamente riversata: quanto più ha scavato questo letto, quanto più ha conservato questa direzione, tanto più è probabile che, presto o tardi, essa vi ritorni.

 

(Aspect du drame contemporain, cit., pp. 98-99)

 

Ma che, in un paese veramente civile nel quale si suppone il Medioevo sia stato superato da molti secoli, un vecchio dio della tempesta e dell'ebbrezza, voglio dire Wotan, da tempo messo in pensione - quella della storia -; che quel dio, come un vulcano spento, possa risvegliarsi e dar prova di una rinnovata attività: ecco, questo è un fatto più che curioso; è sintomatico e non manca di un suo lato comico.
Come sappiamo, è nei movimenti giovanili della Germania che è stato richiamato alla vita ed onorato, dalla sua risurrezione, con sanguinosi sacrifici di montoni.
Questi biondi adolescenti (talvolta anche ragazze) che vedevamo instancabilmente errare su tutte le grandi strade, dal Capo Nord alla Sicilia, col sacco in spalla e armati di chitarra, erano i fedeli servitori dell'infaticabile dio errabondo. Più tardi, verso la fine della repubblica di Weimar, le migliaia di disoccupati che si incontravano dappertutto, nomadi, vennero a ingrossare le fila dei viaggiatori vagabondi. Dal 1933 però questa forma di pellegrinaggio (Wandern) fini, sostituito da una marcia cadenzata, alla quale presero parte centinaia di migliaia di individui, dal bambino di cinque anni al veterano. Il movimento hitleriano mise letteralmente in piedi tutta la Germania, offrendo lo spettacolo di una migrazione di popolo sul posto, migrazione che ritma il suo passo: Wotan il dio errante si era risvegliato.
[...] Wotan, instancabile errabondo, torbido fautore che suscita, ovunque, querele e dispute o che esercita effetti magici, era immediatamente stato mutato dal cristianesimo in una specie di diavolo; della sua esistenza restava soltanto un fuoco fatuo che bruciava talvolta nelle notti tempestose, sotto le sembianze di un cavaliere fantasma accompagnato dalla sua coorte; e questo ormai soltanto nelle tradizioni puramente locali che si andavano sempre più assopendo.
[...] Questo stormire nella foresta vergine dell'inconscio non è stato percepito, festeggiando il solstizio d'estate, soltanto dagli adolescenti tedeschi:, prima di loro l'avevano già intuitivamente presentito Nietzsche, Schuler, Stefan George e Klages.

 

(Ibidem, pp. 79-81)

 

Wotan mi sembra un'ipotesi pertinente come altre mai. In realtà esso sembra aver soltanto dormito al Kiffhaüsen, fino a che i corvi si sono presentati al rapporto dell'alba. (I corvi, nella mitologia germanica ricoprivano, presso Wotan, il ruolo di vigili e di agenti di collegamento). Wotan è una qualità, una caratteristica fondamentale dell'anima tedesca, un "fattore" psichico di natura irrazionale, un ciclone che annienta e spazza in lontananza la zona calma in cui regna la cultura. Coloro che credono a Wotan sembrano, a dispetto di tutte le loro bizzarrie, aver visto più giusto dei detentori della ragione ragionante.

[...] La razza germanica (correntemente ariana), la comunità popolare tedesca, il suolo e il sangue, i canti di Wagalaweia, le cavalcate delle Valchirie, un Gesù trasformato in un eroe biondo dagli occhi azzurri, la madre greca di San Paolo, il diavolo divenuto un Alberich internazionale, riedito sotto le sembianze di ebrei e di frammassoni le aurore boreali di una cultura nordica, le razze mediterranee inferiori [...] tutto questo costituisce una indispensabile messa in scena e traduce in fondo un medesimo stato d'animo, la presa di possesso da parte di un dio dei tedeschi, la cui dimora è invasa da una potente ventata.

 

(Ibidem, pp. 91-92)

 

La Germania è un paese di catastrofi spirituali: alcune qualità offerte dalla natura non vi contrattano mai altro che una pace puramente formale con la ragione, dominatrice del mondo. Il suo antagonista è un vento che, proveniente dalle immensità asiatiche, da cui nasce, soffia su un largo fronte, dalla Tracia alla Germania, penetrando anche in Europa, dove talvolta spazza dall'esterno i popoli come fossero foglie d'autunno; talvolta ispira, dall'interno, pensieri perturbatori del mondo, come una specie di elementare Dioniso, che annienta l'ordine apollineo. L'istigatore di tempeste è stato chiamato Wotan. Per studiare in modo preciso il suo carattere, dobbiamo conoscere non soltanto gli effetti storici dei disordini spirituali e dei rovesciamenti politici, ma anche i racconti mitologici che ci giungono da epoche in cui ancora non si spiegava tutto con l'uomo, non si riconduceva ancora tutto alle sue limitate possibilità, ma si trovavano le più profonde cause nella sfera dell'anima e delle sue autonome potenz. La più remota intuizione ha sempre incarnato tali potenze negli dei: essa li definiva, alla sua propria maniera, con una cura minuziosa e assai circostanziata, attraverso i miti. Questa operazione era tanto più agevole trattandosi di tipi o di immagini originali, solidamente costruiti, innati nell'inconscio di parecchi popoli, il cui comportamento particolare veniva così a caratterizzarsi.
Per questo possiamo parlare dell'archetipo "Wotan", il quale, in quanto fattore psichico autonomo, produce effetti collettivi e abbozza, proprio per questa trascrizione nei fatti e nella vita, un'immagine della propria natura.
Wotan possiede la sua particolare biologia, che si distingue dall'essenza degli individui presi uno alla volta; questi sono soltanto temporaneamente sotto l'irresistibile influsso di tale condizionamento inconscio. Ma nel frattempo l'esistenza dell'archetipo Wotan sarà per loro un fatto tanto inconscio quanto, per esempio, un'epilessia latente.

 

(Ibidem, pp. 93-95)

 

L'avvenire si prepara a lungo termine nell'inconscio; e per questo motivo i chiaroveggenti possono indovinano molto tempo prima. Così, ad esempio, alla notizia dell'incoronazione dell'imperatore a Versailles, Jakob Burckhardt esclamò: "il declino della Germania!". Già gli archetipi di Wagner battevano alla porta, e con essi arrivava l'esperienza dionisiaca di Nietzsche, che sarebbe più giusto attribuire al dio dell'ubriachezza, a Wotan.

 

(Ma vie ecc., cit., p. 272).

 

 

SIMBOLI E SEGNI

 

II segno è sempre qualcosa di meno del concetto che rappresenta, mentre il simbolo rinvia sempre ad un contenuto più ampio di quanto sia il suo senso immediato ed evidente. I simboli sono inoltre prodotti naturali e spontanei. Nessun genio ha mai ottenuto alcunché dicendosi: "adesso invento un simbolo". Nessuno può prendere un pensiero, più o meno razionale, costituente la conclusione logica di un ragionamento, o creato espressamente, e dargli in seguito una forma "simbolica".
Sotto qualunque travestimento, per quanto fantastico si ponga, una tale idea rimarrà sempre un segno, collegato al pensiero cosciente che vuole significare; e non un simbolo che suggerisce un qualcosa che non è ancora conosciuto. Nei sogni i simboli si presentano spontaneamente poiché il sogno è un avvenimento e non un'invenzione. I sogni sono quindi la fonte principale alla quale attingiamo la nostra conoscenza simbolica.
In questo secolo di sconvolgimenti sociali e di rapidi cambiamenti è auspicabile saperne molto di più che per il passato sugli esseri umani considerati individualmente, poiché molto dipende dalle qualità mentali e morali di ciascuno di essi. Pertanto, se vogliamo vedere le cose nella loro giusta prospettiva, dobbiamo capire il passato dell'uomo altrettanto bene che il suo presente. Ed è perciò che la comprensione dei miti e dei simboli è essenziale.

 

(L'homme et ses symboles, cit., pp. 58 e 55)

 

 

L'ARTE

 

L'arte è nata nell'artista come un istinto che lo domina e fa dell'uomo un proprio strumento. Ciò che in ultima analisi vuole da lui è l'anima: non lui come individuo, ma l'opera d'arte da creare. In quanto persona può avere i suoi umori, i suoi capricci e le sue mire egoistiche. In quanto artista, al contrario, è "uomo" nel senso più elevato; egli è un uomo collettivo, che porta ed esprime l'anima inconscia e attiva dell'umanità. In ciò consiste il suo compito, la cui esigenza a volte predomina tanto che la felicità umana e tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta per l'uomo medio verrà sacrificato al suo destino.
Il segreto della creazione e dell'azione dell'arte consiste nel rituffarsi nello stato originale dell'anima, perché, da allora, su questo piano non è più l'individuo ma tutto il gruppo che vibra alle sollecitazioni del vissuto, non si tratta più difatti o misfatti di un singolo essere, bensì della vita di tutto un popolo. E per questo che un capolavoro, pur essendo contemporanmente obiettivo ed impersonale, ci colpisce in ciò che abbiamo di più profondo; è per questo che gli avvenimenti personali di un poeta, siano essi fausti o infausti, non sono mai essenziali per la sua arte. La sua biografia personale può essere quella di un filisteo, di una brava persona, di un nevrotico, di un folle o di un criminale: interessante o meno, essa è secondaria per l'essenza della poesia.

 

(L'áme et la vie, cit., pp. 269-270 e 267-268)

 

 

IL MITO

 

Allo stesso modo delle equazioni matematiche di cui noi ignoriamo a quali realtà psichiche corrispondono, anche per le realtà mitiche non sappiamo, di primo acchito, a quali realtà psichiche si riferiscono.

 

(Ma vie ecc., cit., p. 354)

 

Si può percepire l'energia specifica degli archetipi quando si abbia occasione di apprezzare il fascino che essi esercitano. Sembra che essi gettino il malocchio. La stessa qualità caratterizza i complessi personali, e, proprio come i complessi personali, anche i complessi sociali di carattere archetipico hanno una storia. Ma mentre i complessi individuali non causano che anomalie personali, gli archetipi creano miti, religioni e filosofie che influenzano e caratterizzano intere nazioni ed epoche. Consideriamo i complessi personali come una compensazione di attitudini che sorgono da una coscienza unilaterale o pervertita. Allo stesso modo i miti di carattere religioso possono essere interpretati come una sorta di terapia mentale diretta contro la sofferenza e i motivi di inquietudine che affliggono l'umanità; la fame, la guerra, le malattie, la morte.

 

(L'homme et ses symboles, cit., p. 79)

 

 

I MISFATTI DELL'INTELLETTUALISMO

 

Il nostro intelletto ha compiuto imprese prodigiose mentre la nostra dimora spirituale cadeva in rovina. Siamo assolutamente convinti che anche con i più moderni e potenti telescopi costruiti in America non si scoprirà al di là delle più lontane nebulose nessun empireo dove l'acqua e il fuoco si amalgamino; e sappiamo che il nostro sguardo errerà disperatamente attraverso il morto vuoto degli spazi infiniti. E quando la fisica matematica ci svela il mondo dell'infinitamente piccolo - insiemi di elettroni per sempre, nell'eternità - non siamo per nulla avanzati.
Alla fine dissotterriamo la saggezza di ogni tempo e di tutti i popoli e scopriamo che ciò che ci sta più a cuore e che ci è più prezioso è già stato detto nel modo più accattivante e più bello possibile. Come bambini avidi, tendiamo le mani verso queste ricchezze e afferrandole ci immaginiamo anche di possederle. Ma ciò che noi prendiamo non ha più valore e le nostre mani si affaticano a cogliere. Perché fino a dove può giungere il nostro sguardo troveremo sempre delle ricchezze. Tutte queste acquisizioni si trasformano in acqua e più di un apprendista stregone ha finito per nuocere a se stesso in queste acque chiamate e mobilitate da lui stesso a meno che prima non abbia ceduto alla follia salvatrice di optare tra questa buona saggezza o quell'altra cattiva. È tra questi adepti che incontriamo i malati di angoscia che immaginano di avere l'incarico di una missione profetica. In effetti l'artificiale distinzione fra vera e falsa saggezza fa nascere nell'anima una scissione e una solitudine, malattia analoga a quella dell'alcoolizzato che spera sempre di trovare dei compagni di vizio. Quando la nostra eredità naturale si è levata in volo, allora, per dirla con Eraclito, tutto lo spirito è stato invaso dalla sua luminosa altezza. Insomma un'altra descensus spiritus sancti: ogni simbolo è anche profetico. Ma quando lo spirito si appesantisce, diviene acqua e il battesimo del fuoco è sostituito dal battesimo dell'acqua.
La formula magica del prete nella notte del sabbathus sanctus riproduce questo procedimento: Descendat in hanc plenitudinern fontis virtus spiritus sancti. Ed è accaduto l'inevitabile: l'anima è diventata acqua, come dice Eraclito, e l'intelletto nel suo lucifermo orgoglio si è impadronito del seggio dove fino a allora aveva dominato lo spirito. Lo spirito può arrogarsi la patris potestas sull'anima, cosa che non può fare l'intelletto nato dalla terra che è una spada e un martello per l'uomo e non un creatore del mondo spirituale, un padre dell'anima.

(L'âme et la ve, cit., pp. 331-333)

 

LA SCIENZA

 

Abbiamo mai visto - tranne che in epoche assai cupe della storia - una verità scientifica che abbia avuto bisogno di essere elevata alla dignità di dogma? La verità può esistere per se stessa e da sola; soltanto le opinioni vacillanti hanno bisogno di essere sostenute da un procedimento dogmatico. Il fanatismo è il sempre presente fratello del dubbio.

 

(L'âme ei la vie, cit., pp. 253-54)

 

Ce la prendiamo tanto contro i "fantasmi metafisici" da quando qualcuno ha pensato di spiegare il processo cellulare in modo vitalistico: l'ipotesi fisica è tanto accreditata come scientifica, eppure essa non è per niente meno fantastica della prima. Essa però ha il vantaggio di quadrare con il pregiudizio materialista ed è per questo motivo che qualsiasi assurdità viene consacrata come scientifica, giacché permette di mutare un fatto psichico in fatto fisico. Speriamo che non siano tanto lontani i tempi in cui i nostri scienziati si sbarazzino di questi resti di materialismo vuoto e ormai vecchio.

 

(Ibidem, p. 247)

 

La scienza non è certamente uno strumento perfetto; è però inestimabile e superiore; diventa negativa soltanto in quanto vuole essere un fine in se stessa. La scienza è fatta per servire; commette un errore quando vuole usurpare un trono. Deve mettersi anche al servizio delle altre scienze vicine, perché ognuna, proprio a causa della sua insufficienza, ha bisogno di essere sostenuta dalle altre. La scienza è lo strumento dello spirito occidentale e, grazie ad essa, noi possiamo aprire molte più porte che con le mani nude. Essa contribuisce alla nostra comprensione e non offusca la nostra intelligenza a meno che noi non consideriamo come intelligenza assoluta la comprensione ch'essa ci ha trasmessa.

(Ibidem, pp. 256-257)

 

LA CONCEZIONE DEL MONDO

 

Il mondo non esiste unicamente in sé e per sé, è anche come mi appare. Anzi, non abbiamo, a dire il vero, alcun criterio che possa farci esprimere un giudizio su un mondo a cui il soggetto non potrebbe paragonarsi. Trascurare il fattore soggettivo equivarrebbe a negare il grande dubbio, sempre esistente, sulla possibilità della conoscenza assoluta. Ci si impegnerebbe così sulla via di quel vuoto e piatto positivismo che ha deturpato l'inizio del nostro secolo, e nello stesso tempo arriveremmo a quell'arroganza intellettuale, annunciatrice di rozzezza di sentimenti e di quella violenza che è tanto stupida quanto è pretenziosa. Sopravvalutando l'intelligenza obbiettiva, noi respingiamo l'importanza del fattore soggettivo, il significato del soggetto stesso. Ora, quale è il soggetto? È l'uomo, il soggetto siamo noi. È malsano dimenticare che vi è un soggetto che conosce, e che nessuna conoscenza, e di conseguenza, per noi, nessun mondo esiste senza che vi sia qualcuno che dica: "Io conosco", ponendo in tal modo il termine obiettivo di ogni conoscenza.

 

(L'âme et la vie, cit., pp. 365-366)

 

Molti scienziati evitano di formarsi una concezione del mondo perché questo non sarebbe scientifico. Essi, evidentemente, non vedono chiaramente i risultati del loro modo di agire. In realtà lasciano volontariamente calare le tenebre sulle loro idee direttrici, ossia essi restano a un grado di coscienza inferiore e più primitivo di quello che corrisponderebbe alle loro attitudini coscienti. Critica e scetticismo non costituiscono sempre una prova di intelligenza, al contrario, soprattutto quando ci si trincera dietro lo scetticismo per mascherare la mancanza di una propria concezione del mondo. Molto spesso ciò che manca è più spesso il coraggio morale che non l'intelligenza. Perché non possiamo vedere il mondo senza vedere noi stessi e vediamo noi stessi come vediamo il mondo, e per far questo ci vuole parecchio coraggio. Per questo motivo è sempre disastroso non avere una concezione del mondo.

 

(Ibidem, p. 366)

 

 

LA PSICOLOGIA

 

Ogni psicologo dovrebbe essere soprattutto e innanzitutto persuaso che il suo parere rappresenta soltanto un pregiudizio personale. Questo, è vero, vale quanto un altro ed è anche assai probabile che rappresenti per molti l'ipotesi fondamentale. Per questo motivo generalmente val la pena di utilizzare un tale parere il più largamente possibile. Esso farà maturare frutti che avranno una certa utilità. Ma in nessun caso bisogna abbandonarsi all'illusione ascientifica che un pregiudizio soggettivo possa essere anche una virtù psichica fondamentale e universale, perché da simile illusione non scaturisce nessuna scienza, ma soltanto una credenza la cui "ombra" è l'impazienza e il fanatismo. Le opinioni contraddittorie sono necessarie al divenire di una scienza. Bisognerebbe però che esse non si irrigidissero le une contro le altre: esse dovrebbero invece, e il più rapidamente possibile, cercare la loro sintesi.

 

(L'âme et la vie, cit., p. 243)

 

Sarebbe proprio l'ora che la psicologia universitaria aprisse gli occhi sulla realtà e che si interessasse, parallelamente alle esperienze di laboratorio, all'anima umana come è in realtà. Non dovremmo più lamentare che i "professori" proibiscano ai loro allievi di interessarsi alla psicanalisi o di utilizzarne le nozioni. Non si dovrebbe più indirizzare alla nostra psicologia il rimprovero "di utilizzare in modo poco scientifico le esperienze attint dalla vita quotidiana". So che la psicologia generale potrebbe trarre il massimo profitto da un serio studio dei problemi onirici, se soltanto essa giungesse a liberarsi del pregiudizio, sconsiderato e profano, secondo cui il sogno è soltanto l'eco di eccitazioni somatiche. La sopravvalutazione dell'importanza somatica è, anche in psichiatria, una delle principali cause della stagnazione della psicologia patologica che prospera soltanto nella misura in cui è direttamente resa fruttifera dall'analisi. Il dogma: "Le malattie mentali sono malattie del cervello" è un residuo del materialismo che fioriva intorno al 1870. Esso si è trasformato in un pregiudizio assolutamente ingiustificabile che frena ogni progresso scientifico.

(Ibidem, pp. 246-247)

 

LA PSICOTERAPIA

 

Spesso mi vengono chiesti chiarimenti circa il mio metodo analitico o psicoterapeutico. Non posso rispondere in modo univoco: la terapia è diversa per ogni caso. Quando un medico mi dice che segue rigorosamente questo o quel metodo, ho i miei dubbi sull'efficacia della sua terapia. È stato scritto tanto sulla resistenza che oppone il malato, da far sembrare quasi che il medico voglia tentare di imporgli qualcosa, mentre la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso. La psicoterapia e l'analisi variano tanto quanto gli individui umani. Per quanto è possibile tratto ogni paziente come un caso individuale, perché la soluzione del problema è sempre individuale: regole generali si possono stabilire solo cum grano salis! Una verità psicologica è valida solo se si può anche capovolgere: una soluzione che può essere fuori questione per me, potrebbe essere proprio quella giusta per qualcun altro.
Naturalmente, un medico deve avere familiarità con i cosiddetti "metodi"; ma deve guardarsi dall'applicarli in modo stereotipato Le premesse teoriche vanno applicate con cautela.
Oggi forse sono valide, domani lo saranno altre. Nelle mie analisi, non vi hannb alcuna parte. Non sono sistematico, e volutamente. Secondo me, avendo a che fare con individui, ciò che importa è la comprensione dell'individuo. Abbiamo bisogno di un linguaggio diverso per ogni paziente: in un'analisi mi si può sentir usare il linguaggio di Adler, in un'altra quello di Freud.
L'importante è che io mi ponga dinanzi al paziente come un essere umano di fronte a un altro essere umano: l'analisi è un dialogo, che richiede due interlocutori. L'analista e il paziente seggono uno di fronte all'altro, gli occhi negli occhi: il medico ha qualcosa da dire, ma anche il paziente.
Dal momento che l'essenza della psicoterapia non consiste nell'"applicare un metodo", il solo studio della psichiatria non è sufficiente. Io stesso ho dovuto lavorare ancora molto prima di possedere il bagaglio necessario per la psicoterapia. Fin dal 1909 mi resi conto che non potevo curare le psicosi latenti se non capivo il loro simbolismo, e fu allora che mi misi a studiare la mitologia.
Con pazienti intelligenti e colti lo psichiatra ha bisogno di conoscenze più vaste di quelle meramente professionali. Deve capire, al di là di ogni assunto teorico, quali sono le autentiche motivazioni del paziente, altrimenti provoca inutili resistenze. Non si tratta, dopo tutto, di confermare una teoria, bisogna invece che il paziente riesca a comprendersi come individuo. Questo, comunque, non è possibile senza un raffronto con le concezioni collettive, di cui il medico deve avere conoscenza. Perciò il semplice tirocinio medico non è sufficiente, poiché l'orizzonte della psiche umana comprende infinitamente di pid del limitato campo visivo del gabinetto di consultazione medica.
L'anima è certamente più complessa e inaccessibile del corpo: rappresenta, per così dire, quella metà del mondo che perviene all'esistenza solo quando ne diveniamo coscienti. Per questa ragione la psiche costituisce un problema non solo personale, ma universale, e lo psichiatra ha a che fare con un intero mondo.
Oggi possiamo vedere, come mai in passato, che il pericolo che ci minaccia tutti non deriva dalla natura, ma dall'uomo, dall'anima dell'individuo e della massa. Il vero pericolo è nell'aberrazione psichica dell'uomo. Tutto dipende dal fatto che la nostra psiche funzioni bene o no: se certe persone perdono la testa, oggi, la conseguenza è il lancio della bomba all'idrogeno!
Lo psicoterapeuta non deve però limitarsi a capire il paziente; è importante anche che capisca se stesso. Per questo motivo la conditio sine qua non della preparazione dell'analista è la sua stessa analisi, la cosiddetta analisi didattica. Il trattamento del paziente comincia, per così dire, dal medico: solo se questi sa far fronte a se stesso e ai suoi problemi, sarà in grado di proporre al paziente una linea di condotta. Ma solo allora. Nell'analisi didattica il medico deve imparare a conoscere la propria anima e a prenderla sul serio: se egli non sa farlo, non potrà apprenderlo neppure il paziente. Questi perderà una parte della sua che non ha imparato a conoscere. Non basta perciò, nell'analisi didattica, acquisire, un sistema concettuale: il medico deve rendersi conto che l'analisi lo riguarda, che essa ha che fare con la vita reale, e non è un metodo che si possa imparare a memoria (in senso letterale!)

 

(Ricordi, sogni e riflessioni di
C. G. Jung
, cit. pp. 158-159)

 

Intorno alla natura della psiche si sono fatte tutte le affermazioni possibili e immaginabili. Tra l'altro, la psiche appare come un processo dinamico che si fonda sulla natura antitetica della psiche e dei suoi contenuti e che rappresenta un dislivello tra i suoi poli. Poiché le ipotesi scientifiche non devono essere moltiplicate oltre il necessario, e l'interpretazione energetica si è dimostrata valida come principio generale di spiegazione delle scienze naturali, dobbiamo attenerci ad essa anche in psicologia.
Non vi sono del resto dati di fatto sicuri che potrebbero far preferire un'altra interpretazione, e inoltre la polarità, o la natura contraddittoria della psiche e dei suoi contenuti è stata comprovata dall'esperienza psicologica come un dato essenziale.
Ora, se il concetto energetico della psiche è corretto, tutte le affermazioni che cercano di oltrepassare i limiti posti dalla polarità della psiche - come ad esempio le affermazioni circa una realtà metafisica - se pretendessero a una qualche validità, non potrebbero che essere paradossali.
La psiche non può spingersi al di là di se stessa, non può cioè stabilire alcuna verità assoluta, perché la sua stessa polarità determina la relatività delle sue affermazioni. Tutte le volte che la psiche proclama verità assolute - quali ad esempio, "l'Essere eterno è movimento" o "l'Essere eterno è l'Uno" - necessariamente cade in uno o nell'altro degli opposti. Si potrebbe egualmente affermare "l'Essere eterno è quiete", o "l'Essere eterno è il Tutto". Nell'unilateralità la psiche si disgrega e perde la capacità di conoscere. Diventa una irriflessiva (perché irriflessa) successione di stati psichici, ognuno dei quali crede a torto di giustificarsi da sé, perché o non vede, o non vede ancora, un altro stato.
Con questo naturalmente non si esprime una valutazione, si enuncia il dato di fatto che il limite viene oltrepassato molto spesso e persino inevitabilmente poiché "tutto è trapasso". La tesi è seguita dall'antitesi, e tra le due si erge un terzo fattore, una ‘lysis’, che prima non era percettibile. Così la psiche ancora una volta non fa che dar prova della sua natura antitetica, senza essere affatto riuscita ad andare al di là di se stessa.
Nel mio tentativo di delineare i limiti della psiche non intendo affermare implicitamente che solo la psiche esiste, ma solo che, per quanto riguarda la percezione e la conoscenza, noi non possiamo vedere al di là della psiche. La scienza è tacitamente convinta dell'esistenza di un oggetto non-psichico, trascendente; ma sa anche quanto sia difficile comprendere, la reale natura dell'oggetto, specialmente quando l'organo della percezione fallisca o addirittura manca, e quando le forme appropriate di pensiero non esistono o devono ancora essere create. In casi nei quali né i nostri organi di senso, né i mezzi artificiali per aiutarli possono attestare la presenza di un oggetto reale, le difficoltà crescono enormemente, al punto che si è tentati di asserire semplicemente che non è presente alcun oggetto reale. Non sono mai giunto a questa frettolosa conclusione, perché non sono mai stato incline a credere che I nostri sensi fossero capaci di afferrare tutte le forme dell'esistenza. Perciò ho perfino azzardato il postulato che il fenomeno delle figure archetipiche, dunque di fatti squisitamente psichici, potrebbe fondarsi su una base psicoide, e cioè su una forma di esistenza solo limitatamente psichica, oppure del tutto diversa. In mancanza di dati empirici non posso conoscere né capire tali forme di esistenza, che comunemente sono dette "spirituali". Dal punto di vista scientifico non ha importanza che cosa io posso credere a questo riguardo, e devo contentarmi della mia ignoranza. Ma in quanto gli archetipi agiscono su di me, per me sono reali ed effettivi, anche se non conosco quale sia la loro vera natura. Ciò ovviamente vale non solo per gli archetipi, ma anche per la natura della psiche in genere. Qualunque cosa essa possa affermare di se stessa, non andrà mai oltre se stessa. Sia l'atto della comprensione che il suo contenuto sono in sé psichici, e pertanto noi siamo inesorabilmente chiusi in un universo esclusivamente psichico. Tuttavia abbiamo buone ragioni per supporre che al di là di questo velo esista l'oggetto assoluto ma incompreso che opera e influisce su di noi anche quando - come è specialmente il caso dei fenomeni psichici - non si possono fare constatazioni reali. Affermazioni concernenti la possibilità o l'impossibilità sono valide soltanto entro l'ambito di particolari discipline; fuori di esse sono pure congetture.
Sebbene non sia consentito, da un punto di vista oggettivo, fare delle affermazioni a caso - e cioè senza una ragione sufficiente - tuttavia ve ne sono alcune che sembra debbano esser fatte senza ragioni obiettive. In tal caso la motivazione è psicodinamica, che di solito si considera soggettiva e puramente personale. Ma così si commette l'errore di non riuscire a distinguere se l'affermazione
provenga soltanto da un soggetto singolo, e sia provocata da motivi esclusivamente personali, o se avvenga generalmente e derivi da un pattern dinamico presente nella collettività. In questo caso non dovrebbe essere classificata come soggettiva, ma psicologicamente oggettiva, dal momento che un imprecisato numero di individui sono indotti, da un impulso interno, a fare una dichiarazione identica, ovvero sentono che una certa concezione è una necessità vitale. Dal momento che l'archetipo non è affatto una forma inattiva, ma è una forza reale carica di energia specifica, può ben essere considerato come la causa efficiens di simili affermazioni, ed essere inteso come il loro soggetto. In altri termini non è l'individuo in quanto tale che fa quella affermazione, ma è l'archetipo che in essa si esprime. Se le affermazioni sono impedite, o non vengono prese in considerazione, ne derivano disturbi psichici - come è attestato non solo dall'esperienza medica, ma anche dalla comune conoscenza. Questi disturbi si presentano, in casi individuali, come sintomi nevrotici; quando si tratta di persone che non sono suscettibili di nevrosi, sorgono forme di nevrosi collettive.
Le affermazioni archetipiche si basano su presupposti istintivi e non hanno nulla a che fare con la ragione; non solo non sono fondate razìonalmente, ma neanche possono essere confutate con argomentazioni razionali. Hanno sempre fatto parte della scena del mondo, "représentations collectives", come giustamente le ha chiamate Lévy-Bruhi. Certamente l'io e la sua volontà hanno una parte di primo piano nella vita; ma ciò che l'io vuole è soggetto al massimo a interferenze, in modi dei quali di solito non è cosciente, dipendenti dalla autonomia e dalla numinosità dei processi archetipici. La considerazione pratica di questi processi è l'essenza della religione, almeno nei limiti in cui essa può essere soggetta a speculazione psicologica.

 

(Ibidem, pp. 388-390)

 

Il soggetto era un uomo di trentadue anni, impiegato, all'epoca dell'esperimento, in una clinica, e aveva voluto di buon grado prestarsi a questa esperienza. Io non sapevo nulla della sua vita. Dopo l'esperimento gli domandai:
- Ha lei notato di aver talvolta lungamente esitato?
- No, ho sempre risposto direttamente.
- Sa di aver commesso errori di riproduzione?
- No, tutte le mie riproduzioni erano fedeli.
-Ha comunque notato qualcosa di speciale?
- No, altrimenti lo direi.
- Posso permettermi di espone una riflessione? Lei deve aver avuto tempo fa una storia assai sgradevole, probabilmente una storia di coltello che ha indubbiamente avuto spiacevoli conseguenze.
L'uomo a momenti cadde dalla sedia! - Come lo sa?
Io gli chiesi se era una notizia esatta. Egli rispose:
- Sì. Ma io ero molto lontano dal pensano.
Egli aveva scontato una pena in una prigione all'estero a causa di una rissa, nel corso della quale aveva gravemente ferito con un coltello il suo avversario. Quella era una macchia nera nella sua vita ed egli aveva naturalmente fatto attenzione a che nessuno del suo attuale "giro" ne venisse a conoscenza. Quanto a lui, si era sforzato di dimenticare. All'epoca dell'incidente, che risaliva a una decina di anni addietro, era ancora giovane. Neppure per un istante aveva immaginato che sarebbe stato possibile ritrovarne la traccia. Ma, constatate voi stessi! Le parole "coltello", "lancia", "battere", "appuntito" lo facevano sussultare. E questo già permette di abbozzare una diagnosi. Il fatto più interessante è che il soggetto stesso non si era accorto assolutamente delle sue esitazioni: perché ogni volta che una parola induttrice critica coglie nel segno, la coscienza ne è immediatamente affascinata; essa si rivolge all'interno e non nota più ciò che avviene all'esterno. Il soggetto perciò non può constatare la sua eccitazione. Egli è vittima di una assenza che afferra per un istante, durante il quale il tempo scorre, la sua attenzione.
Poi torna in sé e riflette: "Cosa stavamo dicendo?". Senza rendersi conto che è stato altrove col pensiero, trascinato a sua insaputa, come da un turbine, nella complessità dei suoi ricordi e delle sue immagini interiori. Talvolta con l'aiuto di pochissime associazioni possiamo arrivare a un qualche risultato. Ero stato messo alle strette da un professore di diritto che si interessava a questi esperimenti, pur senza crederci molto. Andai a fargli visita, munito dei miei accessori, lista di parole induttrici e cronometro. Era un anziano signore che, giunto alla quinta associazione, si stancò e mi disse:
- In fondo, cosa vuole che ne venga fuori?
- Non va male, stanno venendo fuori dei dati dei quali potrei metterla al corrente.
Le reazioni critiche erano state:

Parole induttrici: denaro morte abbracciare cuore palpitare la seminatrice

Parole indotte: poco morire bello palpitare la seminatrice

Si trattava di un insegnante universitario che si avvicinava alla settantina e pensava di ritirarsi. Potei rischiare le seguenti conclusioni:

1) Ii mio paziente doveva avere difficoltà finanziarie poiché alla parola "denaro" associava "poco" e a "pagare" reagiva violentemente.

2) Quando si raggiunge questa età, involontariamente si pensa alla morte; naturalmente non se ne parla, la qual cosa però non impedisce all'inconscio di ammetterla con discrezione. Alla parola "morte" il soggetto risponde con "morire": egli non abbandona questo tema; pensa morte e ne conserva il pensiero.

3) "Abbracciare" - "bello". Ecco un'altra scoperta, è come un grido del cuore! In un vecchio giurista questo fatto ci sorprende; ma sappiamo che l'amore sboccia a ogni età. Ricordiamoci però che in età avanzata certi ricordi sentimentali ritornano alla luce volentieri, che ci si ricorda con tenerezza degli incontri del tempo passato.
Doveva essergli tornata alla memoria qualche avventura erotica; io lo avevo associato alla seminatrice che serve d'effige alle monete francesi. Perché non ci poteva essere qualche francese di mezzo?
Gli dissi: - Chiaramente Lei ha delle difficoltà finanziarie; pensa alla sua morte, che potrebbe derivare da una crisi cardiaca; di tanto in tanto ha delle palpitazioni. Ha poi dolci ricordi, probabilmente di un'avventura amorosa, con una francese". Egli dette una manata sul tavolo.
- Ha della magia nera, gridò. Come sa tutto questo?
- È esatto?
- Certo che è esatto!
Corse quindi nella stanza accanto e disse alla moglie: - Vieni, bisogna che anche tu faccia questa prova; anzi, è meglio di no, è senz'altro preferibile!
Penserete che le mie conclusioni non mancassero d'audacia. Indubbiamente, ma devo riconoscere che al tempo di questo esperimento non ero più un principiante; ne avevo già fatti parecchi, e una lunga abitudine sperimentale aveva affinato il mio giudizio.

 

(L'homme à la découverte de son
âme
, cit., pp. 141-142)