FRANCESCO TENTORI

LE CORBUSIER


"Io sono architetto e urbanista: io faccio dei piani. Il mio temperamento mi spinge verso le gioie della scoperta; il movimento, la crescita, la fioritura, il meccanismo stesso della vita sono la mia passione. Pertanto io faccio dei piani che, tenendo conto delle realtà attuali, esprimono il vero volto del giorno d'oggi. Ho fatto (nel 1922) i piani per una città contemporanea di 3 milioni di abitanti. Tutti i miei critici, senza eccezione, parlarono della mia Città futura! Io protesto invano; io affermo di ignorare tutto dell'avvenire, ma di conoscere solo il presente. Inutile, perché si ricorre a un nuovo stratagemma: "Voi mi si dice vi occupate dell'avvenire" il che lascia intendere che "loro" (universalmente) si occupano del presente, del vivere attuale. Menzogna! Con tutta la modestia del ricercatore io resto attaccato al presente, al contemporaneo, all'oggi: e sono "loro" che si nutrono di passato, sono loro che vivono ieri. Questo è il dramma dei tempi moderni."
Tra le migliaia i milioni di parole, scritte o pronunciate da Le Corbusier a sostegno della propria opera può essere, la precedente dichiarazione (da “Prélude, themes préparatoires è l'action”, 15 gennaio 1933), un'efficace introduzione alla presente monografia: perché espone al lettore il punto centrale su cui si sviluppano sia la prodigiosa energia creativa di questo artista, sia la inesauribile polemica nella lotta contro il vecchio e per il nuovo.
In un'epoca, come l'attuale, che ha visto svilupparsi ben altri e universali drammi, questa lotta che è stata di tutti gli uomini e in tutte le epoche viene identificata da Le Corbusier come "il dramma dei tempi moderni", l'esclusivo, assorbente tema della sua vita d'artista. Bisogna tenerne conto, perché parlare di Le Corbusier come di un protagonista della tormentata storia contemporanea ha senso solo se poniamo attenzione al ruolo particolarissimo che egli, come architetto, ha potuto svolgere nel mondo attuale: ruolo nettamente diverso da quello del grande personaggio politico, o anche di un altro artista contemporaneo per esempio uno scrittore o un pittore.
Al contrario, l'influenza di un architetto come Le Corbusier non può essere né così diffusa né così immediata: essa può, sì, finire per incidere sul comportamento degli uomini, sui loro gusti e le loro consuetudini (e magari in modo più durevole di un quadro o di un libro), ma non di rado tale influenza si manifesta con un ritardo di decenni e anche così si tratta generalmente d'influenza di seconda o di terza mano, per interposta persona e attraverso le versioni o le addomesticate contraffazioni di qualche imitatore; il quale molto spesso avrà poi dimenticato la parte essenziale del "messaggio" originale dell'artista, o si sarà limitato a riprodurne qualche frammento.
Nessuna epoca della storia ha avuto tanto bisogno di costruzioni di ogni tipo, genere e numero quanto quella contemporanea. Il mondo moderno è stato detto è un mondo di città: grandi, complesse, in continua espansione sul territorio. Il vecchio equilibrio tra territorio e insediamenti umani è rotto, e non di rado l'espansione urbana (residenziale, o di attrezzature produttive, industrie, scali ferroviari, depositi, servizi) porta alla saldatura completa più centri. In qualsiasi paese si possono ormai percorrere regioni intere e centinaia di chilometri in un ambiente quasi compietamenite artificiale, trasformato spesso in modo radicale dall'intervento dell'uomo, dalle sue culture, dai suoi manufatti; un ambiente spesso costruito con tale densità che non riusciamo più a scorgere un solo angolo di paesaggio interamente libero da costruzioni.
Ma proprio per qusta enorme espansione delle necessità costruttive, può darsi che l'uomo contemporaneo si sia abituato a vedere l'architettura esclusivamente come casuale materializzazione non importa in che forma e con quale armonia dei diversi e complessi bisogni connessi alla vita contemporanea; a ritenere d'altro canto l'architetto un tecnico niente affatto necessario, manipolatore, forse, di determinati bisogni celebrativi (chiesa, palazzo, monumento) o di esigenze più o meno superflue (case individuali, arredamenti), nient'altro.


IL LUCIDO VISIONARIO

L'uomo contemporaneo è dunque facilmente insensibile al messaggio di un architetto come Le Corbusier, che considera oggetto della sua arte indistintamente tutte le manifestazioni architettoniche dalle più semplici alle più complesse, dalle più inutili alle più indispensabili, dalle più piccole alle più grandiose. Altrettanto facilmente Le Corbusier può essere scambiato per un visionario: proprio perché egli non si è mai stancato di predicare un modo di vita più confortevole, più armonico, più bello, mentre troppo spesso l'uomo contemporaneo è rassegnato a considerare tutte le calamità che lo affliggono congestione, rumori, pericoli, malattie, inquinamento atmosferico, insalubrità dell'ambiente nient'altro che fatalità, se non proprio requisiti indispensabili al vivere associato.
E di questo stesso avviso può essere non soltanto l'uomo della strada, ma anche l'amministratore, il tecnico, io scienziato, il politico: tutti concordi nel ritenere che i problemi dell'urbanesimo attuale vanno affrontati con ben altro impegno e ben maggiori energie di quelle di cui dispone un individuo isolato, sia pure egli un grande artista. Ricerca, documentazione, pianificazione anche relative ad una sola regione o ad una sola città presuppongono ormai uffici enormi, con personale altamente specializzato, apparecchiature scientifiche, squadre di urbanisti, di sociologi, di economisti, di calcolatori, di progettisti.

LA MISSIONE DELL’ARCHITETTO

Per questo, tanto più del miracoloso ha la costanza di Le Corbusier, la sua enorme fiducia esclusivamente in se stesso, la sua inesauribile speranza nell'affermazione dei principi che egli non si è stancato di sostenere in mezzo secolo di pazienti ricerche; di grandi, anche se non molto numerose, realizzazioni; di ancor più grandi e numerosissimi progetti; ma anche di instancabile propaganda a contatto coi pubblici più diversi e in ogni angolo del mondo, sotto ogni regime politico che fosse solo disposto ad ascoltare neanche accettare le sue teorie. Le Corbusier spesso ha affermato che la sua architettura, i suoi principi, hanno bisogno di almeno venti o trent'anni per essere accolti e tradotti in pratiche applicazioni. Qualsiasi uomo, qualsiasi artista che non fosse di taglia eccezionale, si sarebbe scoraggiato di fronte ad una prospettiva di questo genere, e avrebbe ben presto ripiegato su traguardi più immediati, più facilmente raggiungibili. Le Corbusier ha avuto, invece, questa inesauribile carica, come ha avuto la fortuna di vivere tanto a lungo da assistere al primo raccolto di quel seme cominciato a spargere cinquant'anni addietro.
Egocentrico come un bambino, scienziato ma anche un po' Cagliostro, perseguitore accanito e quasi cinico di occasioni per realizzare le sue architetture, bisogna ricordarsi l'esempio di questa costanza per far tacere i critici malevoli, che son sempre stati moltissimi uno stuolo rabbioso, provocato dalla grandezza e dal coraggio di quest'uomo e per spiegare certi suoi atti, facilmente tacciabili di opportunismo. Del resto non di un santo stiamo delineando la biografia, né di un politico e neanche di un artista "impegnato" (almeno non nei termini miopi e contingenti che, talora, l'impegno politico comporta).
Con gli occhi fissi al suo sogno di una architettura nuova, Le Corbusier ha avuto la ventura di vivere in un'epoca dilaniata dalle contraddizioni politiche, dalle fazioni in lotta, dalle guerre; la ventura di vivere in un continente antico, come l'Europa, in cui industrialesimo e prima guerra mondiale avevano solo iniziato la reazione a catena degli sconvolgimenti più diversi dell'assetto sociale tradizionale; la ventura di vivere in un paese, come la Francia, il cui regime democratico ha sempre subito ondeggiamenti tra spinte reazionarie e progressiste, per non parlare dei contraccolpi dai paesi europei: rivoluzione russa, fascismo, nazismo, falangismo. Non sembra difficile, dopo tutto, comprendere oggi lo sbandamento che doveva indurre, negli anni '30, nell'animo di un artista come Le Corbusier, l'eclissi degli istituti democratici, la grande crisi economica mondiale; mentre alle frontiere di Francia brillavano come miraggi di rinnovamento egualmente accoglibili, egualmente sostenuti da un ferratissimo meccanismo di propaganda gli esempi dei nuovi stati totalitari.
Appoggiato, in Francia, solo da una raffinata ma volubile clientela di ricchi (che gli potevano commettere, al più, la progettazione delle loro case), respinto viceversa da autorità statali, municipali, enti pubblici, industriali, ecc., Le Corbusier offre al mondo intero la disponibilità dei propri principi e della propria architettura. Ed è così, di volta in volta, "democratico" a Ginevra, dove partecipa nel 1927 al concorso per la sede della Società delle Nazioni; "comunista" a Mosca, dove progetta nel 1928 e per incarico del Ministero dell'Industria Leggera il palazzo del Centrosoyus (ultimato nel 1935), dove ritorna, nel 1931, invitato al concorso internazionale per il Palazzo dei Soviet; persino "fascista" a Roma dove invitato per una conferenza nel 1934 ritiene di suggerire a Bottai, allora governatore della capitale, un piano d'espansione che salvaguardi la bellezza dell'agro romano.
Ma rileggiamo il suo intervento a un convegno della Reale Accademia d'Italia nel 1936, e capiremo subito quale integrità, quale nobiltà sia nella sua anima tormentata di artista incompreso.


CONTRO L’ACCADEMIA

Il tema del convegno - il rapporto tra architettura e arti decorative è un argomento che sta molto a cuore, sia agli architetti monumentalisti e accademici dell'Italia "ufficiale", sia ai gerarchi fascisti che esigono si celebri il ritorno dell'Italia alla grandezza dell'antica Roma "faro di civiltà per il mondo intero". Il fascismo, infatti, superate le ultime opposizioni interne con la violenza, con gli assassinii, è ormai alla ricerca di una "copertura", è in fase di grande espansione, è in fase di esportazione: indifferentemente sport, aeronautica o architettura possono servire da ambasciatori, per ricuperare dignità agli occhi delle nazioni.
Tra i convenuti in massima parte architetti, pittori e scultori nel tronfio costume gallonato, con feluca e spadino, dell'Accademia si aggira uno strano e scontroso invitato: un architetto e pittore svizzerofrancese di quarantotto anni, CHARLES EDOUARD JEANNERET, noto al mondo intellettuale per il curioso nome d'arte Le Corbusier che si è scelto, per le sue polemiche internazionali e anche per un famigerato slogan che ha ormai fatto il giro del mondo intero: "La casa è una macchina per abitare".
La maschera di liberalismo che il fascismo vuole ostentare agli occhi del mondo esige che, tra i portatori del "Verbo" accademico, sia ascoltato anche questo eretico, portatore di scandalo. Le Corbusier ha scritto la sua relazione sullo Zeppelin che lo riporta da un viaggio di conferenze nell'America Latina; anziché rileggerla al Convegno, preferisce improvvisare le seguenti dichiarazioni:

"In questo Congresso, ove, regna così grande affabilità, io provo un timore: che un equivoco si sia insinuato nella nostra discussione, e cioè che l'architettura moderna, in piena gestazione, in pieno travaglio di conquista in un ambiente pieno di ostacoli, questa architettura moderna che domanda almeno altri dieci anni di realizzazioni per poter essere utilm'ente discussa, non si trovi oggi insidiata da certi falsi problemi, attirata verso certi ozi di Capua, verso una fraternizzazione, una conciliazione, una illusione d'intesa cordiale che non corrisponde affatto alla realtà, meno che meno alla composizione della presente assemblea.
Il mondo esplode davanti alla civiltà macchinista! Una nuova civiltà è in germoglio... Sul piano dell'arte e del pensiero stiamo combattendo oggi una vera battaglia. Sul piano dell'architettura noi abbiamo già conseguito la vittoria morale in campo universale: gli allievi delle scuole, la clientela dei vari paesi, il pubblico posto di fronte a prove evidenti di giudizio, i tecnici di tutte le materie: tutti si radunano intorno a questa vittoria. E tuttavia si tratta ancora di una vittoria incompleta, opinabile, soggettiva.
[...] proprio perché la vittoria del nuovo è universalmente acquisita, la reazione si mostra così implacabile, così spietata. E la reazione di gente disturbata nelle sue abitudini antiquate, nei suoi gusti, nei suoi interessi.
Dappertutto si cerca di cacciarci, di rifiutarci. E si potrebbe quasi dire: dappertutto siamo vinti: in Francia, Russia, Germama, Italia. Parole nemiche servono in ogni circostanza a portare un colpo fatale alle nostre iniziative: i nostri sforzi sono tacciati di bolscevismo in Occidente, di fascismo nell'URSS; i grattacieli tacciati di capitalismo; Picasso di spirito "piccolo borghese"... Queste verità è bene denunciarle in questa sede; dire che oggi siamo in guerra...
[...] quando uno rappresenta un'idea pura e categorica, automaticamente viene a trovarsi in una condizione in cui i modi civili, l'amabilità devono essere per il momento messi da parte, onde consentire all'idea nuova di manifestarsi nettamente... due pugili di affrontano sul ring, ma uno solo rimarrà in piedi, coperto di allori, di trofei, di porpora... Noi domandiamo di salire sul ring, per affrontare lealmen'te il nostro impegno e io lo affermo con forza per dimostrare la nostra potenza. Questo deve essere detto in questa Accademia d'Italia... La nuova civiltà di cui ho parlato è la civiltà macchinista. Implica forse questo attributo l'apparenza esteriore d'un'arte meccanica, implica di necessità come soggetto la macchina? No.


LA CIVILTA DELLE MACCHINE

"La macchina ha sconvolto la società; essa ha rotto lo stato sociale esistente; essa ha immerso gli uomini nei guai; essa li costringe a riflettere; essa li porta lentamente a ritrovare il fondamento stesso della coscenza: per il momento magari soltanto un'etica, ma in seguito anche una nuova estetica... Nuove tecniche di costruzione: accaio, cemento armato... L'architettura moderna è nata dal contatto delle tecniche scientifiche con una nuova estetica, un'estetica fondamentale, essenziale.
Questa nuova civiltà comporta una conoscenza illimitata di tutte le manifestazioni del pensiero umano attraverso i tempi e lo spazio: folklore e alta cultura. Si è parlato molto in questo convegno di "ritorno", ma se proprio dobbiamo usare questo termine, si tratti dunque di un ritorno all'uomo, e niente affatto di un ritorno verso un "rinascimento" qualsiasi... Oggi il problema che si pone alle società moderne non è certo quello delle fastose corti rinascimentali... Tra i giovani (e alcuni possono avere i capelli bianchi) regna un fervore insolito, una vera brama di rispondere ai bisogni di intere masse di popolazione; per conseguenza le migliori energie sono oggi dirette verso la soluzione del problema fondamentale di tutta la società vivente: la creazione di alloggi. Alloggi per il corpo, per lo spirito, per l'anima stessa... Ho cercato di dimostrare nella mia relazione quale sia il gigantesco campo dell'architettura contemporanea. Ho detto che l'architettura coinvolge l'intero fenomeno visuale, tutto quello che si costruisce: a partire dagli innumerevoli oggetti della produzione contemporanea per arrivare alla costruzione di porti, canali, strade, ferrovie, aeroporti, città, fattorie, villaggi. Tale è il programma dell'architettura. Io affermo che si tratta di un obiettivo immenso che richiede tutte le nostre energie... Io affermo che la coscienza dell'architettura deve essere in tutte le cose.
L'architettura è costruire alloggi. Gli alloggi si costruiscono con i materiali. I materiali si mettono in opera mediante tecniche. Le tecniche sono universali e internazionali.
L'architettura è condizionata dal corso del sole: nostro padrone. Dunque, dai climi.
L'architettura è condizionata dalla topografia, dalla geografia. Pertanto essa abbraccia il paesaggio e lo esprime. Essa non fa che un unico indissolubile con la natura. L'architettura è condizionata dallo spirito di un'epoca. Lo spirito di un'epoca è fatto delle profondità della storia, della nozione di presente, del discernimento dell'avvenire...".

A quel consesso togato di accademici, riuniti per disquisire se alla "nuova" architettura fascista si addicesse meglio il decoro dell'affresco o quello della pittura a olio, del mosaico o dello stucco, Le Corbusier getta in faccia queste verità: essi si occupano di falsi problemi, di problemi decrepiti; essi non hanno coraggio di cimentarsi con i problemi veri del giorno d'oggi; essi non hanno la forza di creare, ma imitano cose morte.


CHE COS'È L'ARCHITETTURA MODERNA

L'architettura moderna nasce da un preciso slancio utopistico, che accomuna molti precursori: quello di costruire con i nuovi materiali degli edifici grandiosi, delle realtà artificiali quasi in gara con la natura, rivaleggianti con le dimensioni geografiche. Ma se questo gigantismo e titanismo lo possiamo trovare non soltanto in Le Gorbusier, bensì anche in altri maestri anteriormente alla prima guerra mondiale, in Erich Mendelsohn, tedesco, e nel nostro Antonio Sant'Elia possiamo però ben di che in questo campo Le Corbusier per primo inserisce d'autorità, come protagonista, l'uomo. Solo vaghe tracce di destinazioni funzionali, d'indicazioni di utilizzazione, accompagnano, infatti, gli schizzi di Mendelsohn e Sant'Elia, che generalmente trattano anche di edifici (centrali elettriche, dighe, industrie, stazioni) in cui la macchina, più che l'uomo, è la protagonista: e l'uomo anzi rimane esterno, quasi attonito o annichilito di fronte a quei mastodonti. Nei colossali edifici di Le Corbusier, invece, l'uomo è sempre, in ogni caso, il centro dell'attenzione: questi giganti non sono più spettacolo da osservare, dall'esterno, ma piuttosto gigantesche impalcature entro cui l'uomoprotagonista vive e lavora, e da cui si affaccia ad ammirare il mondo nei suoi beni essenziali: natura, cielo, sole.
Nel 1921, su L'Esprit Nouveau egli ha lanciato l'allarme: "Architettura o rivoluzione" (ristampato nella più celebre raccolta di Le Corbusier, “Vers une architecture”, 1923):

"La formidabile attività industriale dei nostri giorni produce continuamente sotto i nostri occhi oggetti sorprendenti che ci turbano per la loro intima novità. Sono questi oggetti della vita moderna che creano uno stato d'animo moderno. E allora riguardiamo con sgomento la vecchiaia putrefatta del nostro alloggio, guscio di lumaca che ci serra col suo quotidiano contatto, vecchiaia putrefatta e senza utilità... La famiglia muore e gli uomini si stancano, legati come schiavi a situazioni anacronistiche. Lo spirito di ogni uomo, educato a collaborare quotidianamente con l'evento moderno, ha manifestato, conscio o no, i suoi desideri. Questi desideri si ricollegano fatalmente alla famiglia, istinto base della società: ogni uomo sa ormai che ha bisogno di sole, di calore, di aria pura e di pavimenti puliti... [Ma attualmente] l'operaio, l'intellettuale, non sono in grado di soddisfare le profonde esigenze della famiglia: essi ogni giorno adoperano l'attrezzo che l'epoca moderna ha prodotto, lucido e utile nella sua azione, ma non sono in grado di adoperano per il proprio benessere. Non c'è niente di più scoraggiante e di più irritante. Non c'è niente di pronto. Si può senz'altro scrivere: "architettura o rivoluzione..."".

Questa ingenua velleità di persuadere l'uditorio borghese capitalista, spingendolo sulla strada delle riforme (non per umanità: per semplice interesse, quello di arrestare lo spettro della rivoluzione) non abbandonerà mai Le Corbusier: rappresenta per così dire, la valvola di sfogo che gli consente di vivere. Più tardi passerà magari ad altri tentativi: spaventando le autorità con la minaccia della guerra aerea e delle sue catastrofi; ma non per ricavarne, come Picasso da Guernica, un quadro di protesta, bensì per ottenere un'ulteriore dimostrazione, per assurdo, della bontà delle sue soluzioni. E sempre, in quella che egli chiama "la civilisation de l'argent", farà ricorso ad un altro, fondamentale argomento: le sue idee sono le più economiche, quelle che fanno risparmiare spazio, tempo e denaro.
Tuttavia, insieme a questo ingenuo persuasore, vive in lui lo spirito del ribelle: nello stesso articolo citato in apertura, da Prélude, 1933, Le Corbusier aggiunge:

"Io faccio dei piani con l'analisi, il calcolo, l'immaginazione, il lirismo. Piani prodigiosamente veri, indiscutibili. Piani prodigiosamente sconcertanti. Essi mostrano l'altra faccia, costruttiva, delle gigantesche opere distruggitnici della guerra. Per entrambi piani e guerra servono le medesime risorse (le tecniche), ma applicate con spirito diverso. I piani mobilitano l'opera umana, ma per servire l'uomo, laddove si è tante volte stupefacentemente consentito di mobilitare il mondo intero per distruggere e assassinare".

Commentando le assurdità del gusto piccolo borghese, che vorrebbe imitare il lusso delle reggie e lo prostituisce nella bruttura avvilente del sovraccarico, dell'inutile, scrive, ancora su L'Esprit Nouveau (n. 19, novembre 1923), un elogio della semplicità rivoluzionaria:

"Lenin è seduto alla Rotonda su una sedia di vimini; ha pagato il caffè venti centesimi, un soldo di mancia. Ha bevuto in una tazzina di porcellana bianca. Ha in testa una bombetta e porta un colletto lucido liscio. Scrive per delle ore su fogli di carta da macchina. Il calamaio è liscio e rotondo, di vetro di bottiglia.
Si prepara a governare 100 milioni di uomini".

Eterno fascino del totalitarismo: unico modo, sembra a Le Corbusier, in quegli anni per uscire dalla soffocante irrazionalità e stupidità del mondo. "Le plan: dictateur": i piani urbanistici devono avere autorità dittatoriale, dichiarerà nel 1932 (“La Ville Radieuse”, 1933).

"Per una strada strettamente professionale, sono giunto a conclusioni rivoluzionarie. Professionalmente, io eseguo i piani per quello che riguarda il mio mestiere, in cui sono buon giudice. Se ciascuno facesse altrettanto e la totalità di questi sforzi particolari fossi armonizzata per il bene pubblico da una autorità, non si avrebbe altro che un "Piano Quinquennale", indiscutibile, ma ineseguibile! Ineseguibile a causa del presente contratto sociale!. Allora?... Il contratto sociale attuale fa fremere, si oppone alle realizzazioni, respinge i provvedimenti indispensabili e urgenti per la salute pubblica. È la VITA che ci ha dettato i nostri piani. Obbediamo alla VITA. Il piano precisa gli obiettivi e richiede le azioni indispensabili... Atto rivoluzionario? E per rivoluzionario si vuoi sempre far intendere: distruttivo.
Niente affatto: atteggiamento costruttivo, eminentemente, assolutamente...".

E poco oltre incalza:

"La proprietà è sterile... J.J. Rousseau (nel Contratto Sociale) ammetteva il principio della proprietà individuale del suolo, ma lo faceva precisando istintivamente la doppia funzione di beneficio, ma anche di obbligo: l'uomo possiede quello che egli stesso può coltivare o lavorare. Oggi si possiedono dei terreni ma senza affatto impegnarsi per lavorarli. Peggio, ii più inconfutabile diritto giuridico autorizza un proprietario a non lavorarli, a suo piacimento. E improvvisamente, per effetto di questa snaturalizzazione della proprietà, il lavoro grazie al quale funziona la libertà individuale l'entusiasmo creativo, la fede civica e l'operosità collettiva, divengono tutti irrealizzabili ... .Chi ha torto? Il piano o lo statuto giuridico? Il programma o la carenza individuale; la vita o la morte; l'azione o l'inazione?".

Fortunatamente, come si è detto, questi interrogativi sociali senza risposta non esauriscono e non rallentano l'energia creativa di Le Corbusier né la distraggono dal fulcro principale della sua attività: la formulazione di una organica teoria del vivere moderno (dalla casa sede della vita individuale, familiare alla città sede della vita associata, di lavoro e di svago); accanto alla teoria come applicazioni, dimostrazioni esemplificative i suoi progetti e le realizzazioni.


I PRINCIPI DI LE CORBUSIER

Nella teoria come nei progetti, Le Corbusier procede per approfondimenti successivi. Ogni enunciato viene lentamente elaborato, limitato, reso sempre più completo, più intelligibile; si integra, a poco a poco, con altri enunciati per formare un unico sistema (ma anche questo aperto: sempre perfettibile).
La stessa cosa succede ai suoi progetti. Partendo dai due estremi opposti del suo campo d'azione la singola cellula abitativa (l'alloggio) e l'intero organismo (la città) egli li sottopone entrambi, e certe volte per decine d'anni, a controlli, rettifiche, cambiamenti, miglioramenti, integrazioni. Perché egli è soprattutto convinto di un fatto: quasi tutti gli organismi architettonici (semplici o complessi; per la residenza o per la vita associata; per la produzione o per il consumo; per la cultura o per la salute pubblica), tutte le funzioni (ossia tutti i bisogni umani) possono trovare soddisfacimento in un numero limitato di soluzioni, e non già in un numero sterminato, tante cioè quante sono in pratica le singole occasioni di costruire: è stato proprio questo anarchismo e questo disordine la causa del caos della città contemporanea, della sua mancanza di armonia, della sua disfunzione.
Le variabili di ogni problema sono in numero limitato, come nelle equazioni matematiche. Le variabili dell'architettura abbiamo già visto sono le condizioni geografiche e climatiche; molto meno quelle dovute a consuetudini locali, ormai livellate dalla civiltà macchinista. Pertanto ad ogni problema esiste una gamma anche estremamente limitata di soluzioni; queste soluzioni, riunite in serie omogenee, costituiscono l'agglomerato urbano, la forma della città.
Sono queste limitate (come numero) soluzioni che costituiscono i vari tipi edilizi, al cui studio Le Corbusier ha dedicato buona parte del suo tempo.
Chiaramente, Le Corbusier per primo è consapevole che alcuni bisogni sfuggono alla legge della tipicità: non soltanto quelli assolti da organismi particolarmente complessi, ma anche da organismi semplici, elementari: primo fra tutti quella stessa casa dell'uomo che egli ha definito "macchina per abitare" (ma abitare, precisa il Maestro, non vuoi dire soltanto mangiare e dormire. Vuoi dire anche pensare, studiare, riunirsi tra amici, divertirsi).
La complessità o meno di un organismo, anzi, non c'entra affatto coll'essere riducibile a un problema tipico. Infatti ii metodo di lavoro di Le Corbusier (e con lui di tutti i maestri del periodo cosiddetto "funzionalista" o "razionalista" dell'architettura contemporanea) consiste nell'analisi, nella scomposizione dell'organismo architettonico per giungere alla individuazione delle singole funzioni che lo costituiscono, né più né meno come una macchina può essere smontata in tutti i suoi elementi. Quindi anche il più complesso organismo (i due progetti per la sede della Società delle Nazioni a Ginevra, 1927, e per la sede del Soviet Supremo dell'URSS a Mosca, 1931, restano a questo proposito i due capolavori insuperati dell'architettura moderna razionalista) può essere il risultato di un semplice procedimento di montaggio (assemblaggio: termine meccanico che in architettura ha il suo equivalente in composizione di più parti, tutte rigorosamente tipiche e, volendo, producibili in serie). Accade così che la produzione architettonica di Le Corbusier è in ogni tempo contraddistinta da questa permanente dicotomia: tra edifici in serie e monotipi irriproducibili. Tuttavia anche questi ultimi, pur con la loro estrema varietà di forma e di spazi, sono subordinati agli stessi principi teorici degli altri, e rientrano, pertanto, nel medesimo rigore concettuale.
Esaminando i vari punti della teoria di Le Corbusier, si parlerà prevalentemente dei suoi progetti tipo: i limiti di questo testo ovviamente non consentono di diffondersi sugli altri; varranno tuttavia le illustrazioni a far comprendere la ricchezza inesauribile della fantasia dell'architetto anche nei temi più piccoli e insignificanti. È da notare, peraltro, che, contrariamente alle sue aspirazioni di teorico, Le Corbusier si è trovato molto più spesso a realizzare architetture atipiche, piccoli capolavori di bravura, che non quei "grandi insiemi" che il Maestro per tutta la vita ha sognato.
Anzitutto: perché una teoria? Si può rispondere solo con un paradosso: perché dappertutto c'è architettura, tranne che nell'architettura stessa, ben inteso in quella del nostro secolo, misero, eterogeneo miscuglio decorativo che non riesce a mascherare la miseria spirituale e materiale che dietro vorrebbe nascondersi.

"Eppure l'Architettura c'è. Meravigliosa cosa, la più bella, prodotto di popoli felici e fattore di felicità dei popoli. Le città felici hanno un'architettura. Dovunque c'è architettura: n'egli apparecchi telefonici e nel Partenone. Come starebbe bene anche nelle nostre case! Le case fanno le strade e le strade fanno le città; le città sono organismi dotati di un'anima e di una viva capacità di sentire di soffrire e di ammirare. Come starebbe bene l'architettura anche nelle strade e nelle città!" (L'Esprit Nouveau, n. 1112, 1921).
L'architettura dei tempi nuovi non è ancora nei palazzi e nelle case. Nulla lo ha permesso, tutto vi si è opposto, poiché il programma sociale non è stato formulato o è incompiutamente formulato, oppure è intorbidato dalla zavorra rognosa dei residui, delle decomposizioni. L'architettura dei tempi moderni sta negli oggetti stessi che sono il prodotto dei tempi, in tutto ciò che è soggetto all'indagine del nostro occhio, a ciò che l'occhio vede, misura e apprezza. Ed ecco ciò che costituisce da cento oppure da dieci anni una prodigiosa apparizione, una novella fauna: le macchine, nella più vasta accezione di questa nozione. Essa si estende da un oggetto all'altro, dalla penna stilografica che vi togliete di tasca alla macchina per scrivere dell'ufficio, all'ascensore del grattacielo di Manhattan, all'aeroplano che fa il trasporto di passeggeri e posta oltre l'Oceano, a questo Zeppelin nel quale io sto scrivendo in questo preciso momento, ecc. Quali ne sono le regole? Precise, drammatiche, rigorose: l'economia. Abbiamo or ora sorvolato, a cento metri di altezza, sulla linea dell'Equatore, uno dei grandi transatlantici della Hamburg American Line, poi un "misto" della Blue Star. V'era architettura in quei due scafi fendenti flutti?... Senza alcun dubbio. Dalla mia cabina io non vedo altro, della nostra immensa nave volante, che le sode sospese sotto di essa e che ne misurano la velocità. Volete forse impedirmi di commuovermi alla vista di questi quattro cappi di canapo, le cose più eleganti che si possono vedere al mondo, che esprimono la lotta tra velocità e peso, e la cui matematica è la stessa dei capitelli dorici del Partenone… chiara materializzazione delle leggi della natura?" (Convegno di Roma, 1936).

Non ci sono architetture, gli oggetti moderni "hanno preceduto le case e i palazzi perché non esistevano leggi edilizie sbagliate per deformarne lo sviluppo": pertanto la teoria non può consistere, in un primo momento, che in princìpi astratti; l'esemplificazione deve essere data proprio attraverso gli oggetti d'uso comune, le macchine, gli utensili, gli aerei (macchine però, al servizio dell'uomo, subordinate all'uomo. Contro gli stolti apologeti di un macchinismo fine a se stesso, Le Corbusier sarà sempre altrettanto violento che con i retrogradi denigratori della civiltà macchinista).