ROBERTO SANESI

LORD GEORGE GORDON BYRON

POESIE
LA SPOSA DI ABIDO
RACCONTO TURCO

IL CORSARO

MANFRED


POETA O PERSONAGGIO

Irrazionale, stravagante, doloroso, solitario nella furia degli elementi che lo circondano, tenebroso, bello e tragico, appassionato e un po' cinico, dominato - secondo l'immagine di Charles Du Bos - da un perenne besoin de fatalité, e ossessionato dalla necessità di una libertà morale senza confini. Una libertà morale che se pure si carica a volte di un significato politico si esprime spesso, simbolicamente, attraverso ogni possibile atto di trasgressione sessuale. Si aggiunga a tutto questo l'esaltazione dell'esotico (dove anche la Grecia e Roma hanno una forte connotazione esotica) e nel cliché generico del primo eroe romantico si riconoscerà anche il ritratto di lord Byron.
È difficile dire se in Byron si debba considerare maggiormente il poeta o il personaggio, entrambi contraddittori e forse proprio per questo rappresentativi di un'epoca il cui pensiero cominciava a spingersi, dopo Rousseau, a quell'analisi della coscienza individuale, a quell'affannosa ricerca di un'identità che deriva, con maggiore o minore consapevolezza, da una visione tragica della vita. Certo i due aspetti sono legati, ma è più probabile che sia stato il personaggio (in parte costruito) a creare il mito del poeta Byron, a gettare sulla sua poesia quella luce sulfurea, satanica, cui raramente sono sfuggiti il critico e il lettore, piuttosto che il poeta con la sua opera a creare, o per lo meno a rafforzare, il mito del tipico personaggio romantico, del ribelle aristocratico che nella pienezza di un cieco ottimismo liberale coglie l'angoscia dell'uomo contemporaneo, erede deluso della Rivoluzione francese cui fra le guerre napoleoniche e il disordinato progresso industriale appare chiaro il crollo degli orientamenti illuministici.

Non a caso Byron poeta, giudicato nella trama della tradizione, della società e della cultura inglesi, a parte le infatuazioni del momento assume scarso rilievo, tanto è vero che ancora oggi si può dire siano rari i tentativi di una serena analisi critica dei testi e di un'eventuale rivalutazione letteraria; mentre la sua influenza fu profondissima nell'Europa “continentale” e in particolare in quei paesi dove si stavano preparando le rivoluzioni nazionali o dove, anche se era stato raggiunto un assetto sociale apparentemente stabile, i fermenti ideologici non avevano cessato di minare le coscienze nel ragionevole dubbio che l'uomo fosse ancora ben lontano da uno stato ideale. Ma anche volendo porre attenzione soltanto al personaggio Byron come prototipo evidente dell'uomo romantico sarà necessario distinguere fra i motivi autentici e gli atteggiamenti istrionici, fra le ragioni che lo spingevano - sia pure inconsciamente, talvolta ad assumere una maschera (e le ragioni prime andranno ricercate nell'infanzia disagiata, nell'educazione calvinista, nell'imperfezione fisica, nell'assenza d'amore da parte della madre), e le cause seconde non meno significative da un punto di vista psicologico, per le quali, una volta assunta una maschera, il poeta era costretto a mantenerla contro la propria volontà oppure, secondo il caso, a mutarla coscientemente, con perfetto senso dell'opportunità del momento. Poiché a Byron non dovette mancare, a dispetto della natura collerica più che romanticamente appassionata, una natura fredda e calcolatrice in grado di dominare lo slancio emotivo ogni volta che ciò potesse essere utile a cancellare o a modificare la figura che egli intendeva esibire pubblicamente. Anche se questo, probabilmente, fu vero solo all'inizio, prima cioè che il poeta fosse coinvolto nella trama che si era costruita.

Comunque lo si voglia intendere, resta il fatto che Byron, “alienato dalla sua società e dalla sua cultura; isolato in un universo senza senso e spinto verso una fine senza senso; un vulcano, agli occhi dei contemporanei, acceso di fuoco infernale; impulsivo, incontrollabile, incestuoso, omosessuale, eterosessuale quel che bastava per suscitare l'invidia di qualsiasi tomo; il più affascinante degli amici e a volte il più indifferente; di una bellezza eccezionale oscurata forse da una incipiente pinguedine; convinto della disperazione della condizione umana e tuttavia pronto a morire per la libertà politica della Grecia; una mente brillante ma indisciplinata e, nel senso goethiano, veramente incolta ma di una creatività inesauribile” [1] fu un vero protagonista, ammirato - sia pure con qualche sospetto - da uomini come Goethe, Foscolo, Schopenhauer e Stendhal; da altri aspramente accusato di istrionismo e rozzezza (si vedano per esempio i giudizi di Leopardi); e comunque - a torto o a ragione - simbolo per generazioni di un concetto eroico, disperato e nello stesso tempo positivo della vita.

LE CIRCOSTANZE E LA DISPOSIZIONE

Fra la prima generazione romantica (Coleridge, Wordsworth) e la seconda (Byron, Shelley, Keats) la situazione politica europea si era notevolmente mutata. Negli anni di formazione di Byron, racchiusi fra la Rivoluzione francese e la Santa Alleanza e caratterizzati dalle lunghe lotte con la repubblica francese e Napoleone, anche in Inghilterra si assiste a un progressivo rafforzamento delle posizioni reazionarie, e la guerra che in pratica si protraeva fino dal 1793 ebbe un'influenza negativa - com'era ovvio - sullo sviluppo sociale della nazione. Come scrisse G. M. Trevelyan, “per le violente alterazioni che produsse nella vita economica e il suo tono di reazione antigiacobina contro ogni proposta di riforma e ogni moto di simpatia con le richieste e le sofferenze dei poveri, la guerra costituiva il peggior clima possibile nei confronti dei mutamenti sociali e industriali allora in rapido progresso. La moderna squallida città inglese crebbe allora per corrispondere alle improvvise esigenze del nuovo tipo di industriale e di costruttore a buon mercato, cui mancò ogni controllo e guida a opera di un pubblico potere. Un individualismo preponderante, che nessuna idea ispirava se non il rapido profitto, creò il lurido e volgare modello della moderna vita industriale e di quante la circonda”. [2]

E ancora: “Mentre Napoleone scorrazzava per l'Europa, la stravaganza e l'eccentricità dei nostri 'dandies' raggiungeva il suo acme nei giorni di Brummel il Bello, e la poesia e la pittura di paesaggio inglese traversavano il momento del loro maggior fulgore. Wordsworth, il cui genio, in tempo di pace, era stato spronato e turbato dalla Rivoluzione francese, aveva recuperato in modo così completo il suo equilibrio durante la lunga guerra da esser capace di esprimere, in parecchie poesie, il filosofico concetto di "una pace essenziale, che sussiste nel cuore / di un'agitazione senza fine": sentimento più difficile da suscitare e da custodire nelle circostanze della moderna guerra totalitaria.” [3] Raramente, almeno dal periodo della rivolta del 1640, le condizioni dei contadini e degli operai inglesi erano state tanto misere, e raramente la differenza fra le classi sociali era stata così evidente. In questi anni d'interessi rigidamente divisi il guadagno medio di un operaio inglese era di undici sterline annue (l'età media di un operaio cotoniero era di quarant'anni), mentre per il proprietario terriero e per il nuovo industriale la guerra rappresentò soltanto un cospicuo aumento dei redditi.
L'habeas corpus fu sospeso, qualsiasi associazione operaia fu dichiarata illegale, qualsiasi tentativo di migliorare le condizioni delle classi non privilegiate fu considerato vera e propria sedizione. Nel campo di San Pietro, a Manchester, il 16 agosto 1819 sessantamila persone che si erano riunite allo scopo di chiedere il suffragio universale furono caricate dalla milizia a cavallo. Si ebbero undici morti. A ricordo del fatto, per assonanza con Waterloo si diede al luogo il nome di Peterloo. Non è da meravigliarsi quindi se fu in questo periodo che nacque il socialismo inglese. Né è da meravigliarsi se l'atteggiamento della nuova generazione romantica si distinse notevolmente da quello della generazione precedente, che se aveva mostrato qualche entusiasmo per la Rivoluzione francese si era poi racchiusa nel proprio moralismo di fondo. Il tono di Byron e di Shelley è raramente solo malinconico. E piuttosto ribelle, appassionato, tenebroso, anticonformista, ateo, scettico, per quanto questi aspetti possano apparire contraddittori, e per quanto - in Byron - certo non dettati soltanto da una cosciente considerazione dello stato attuale delle cose ma anche complicati da vicende personali e dalla particolare natura del poeta, che si può sospettare sia giunto a volte a crearsi ostacoli fittizi per alimentare una passione non sempre sicuramente autentica fino a reagire, poi, da masochista. Non scelse forse, come mediatore-antagonista di se stesso, l'aristocrazia e la borghesia del suo tempo, quasi cercandone con accanimento il disprezzo? Poiché è errato che Byron sia stato un “vero” aristocratico, cresciuto in un'atmosfera di privilegio e di abitudine al potere. Potrebbe essere più esatto dire, forse, che Byron si servì a un certo punto della sua appartenenza a una classe sociale per accentuare quegli aspetti contro i quali avrebbe poi potuto scagliare, dall'interno, quelle invettive che già i suoi gesti esprimevano. Gesti che, mentre ricadevano su di lui, giungevano a significare una vittoriosa protesta. Ma è possibile che egli abbia voluto costruire, con determinazione, la figura simbolica tramandata come “prototipo romantico”, e che l'abbia voluta costruire solo per distruggere, in se stesso e con se stesso, il simbolo di una condizione inaccettabile? Se la domanda è legittima, la risposta non è semplice. In alcuni appunti scritti per un romanzo è rintracciabile un frammento che potrebbe benissimo essere autobiografico: “Evidentemente era preda di qualche irrimediabile inquietudine; ma che sorgesse dall'ambizione, dall'amore, dal rimorso, dal dolore, da una o da tutte queste cose, o semplicemente da un temperamento morboso affine alla malattia, non potei scoprirlo: c'erano circostanze che avrebbero potuto giustificare l'applicazione di ognuna di queste cause; ma, come ho detto prima, erano così contraddittorie e contraddette che nessuna potrebbe essere definita con precisione. Dove c'è mistero, si suppone in genere che debba esservi male: io non so come questo possa essere, ma in lui certamente c'era il primo, sebbene non mi sia possibile accertare l'estensione dell'altro.” Com'è ovvio, a costituire il personaggio contribuirono la disposizione naturale e le circostanze, gli aspetti incidentali della sua vita (il rango sociale, la bellezza, gli amori regolari e irregolari) e lo Zeitgeist, lo “spirito del tempo”, quell'ansia cosmica, quella disposizione allo spleen che, trovano nel Werther di Goethe il prototipo.

I PRIMI ANNI

George Gordon Byron, nato a Londra il 22 gennaio 1788, discendente di un'antica famiglia normanna impetuosa e stravagante, ebbe un'infanzia tutt'altro che ricca e felice. Il padre, il capitano John Byron, morì a Valenciennes nel 1791 (qualcuno ha parlato di suicidio, ma non vi sono prove), dopo aver dilapidato quasi completamente sia il patrimonio della prima moglie - da cui aveva avuto una figlia: Augusta sia quello della seconda. La madre, Catherine Gordon, discendente dalla famiglia reale di Scozia, di modi provinciali, psichicamente debole, oppressiva, inasprì il carattere del futuro poeta passando da atteggiamenti di morbosa tenerezza a atteggiamenti di inspiegabile violenza. Più d'una volta, a quanto pare, schernì ferocemente il figlio per la deformità che lo affliggeva della nascita. Un'imperfezione ai tendini lo costrinse sempre a zoppicare. In queste occasioni, al dolore fisico si aggiungeva un profondo senso di vergogna che raramente, per quanto mascherato, lo abbandonò. Mentre la figura del padre, col tempo, assumeva valori quasi mitici (è nota la difesa che ne fece il poeta in una lettera del 1823 a J. J. Coulmann per correggere quanto era stato scritto in una premessa alla traduzione francese delle sue opere), l'insofferenza verso il temperamento materno non cessò mai, anzi andò accumulandosi, e ancora nel 1804, in una lettera a Augusta, si può leggere fra altre cose: “Per parte mia non ho nulla da dirti che ti possa divertire, se non una ripetizione dei miei lamenti contro la mia tormentatrice, il cui atteggiamento diabolico (perdona se macchio questo foglio con un termine così rude) sembra aumentare con l'età ed acquistare col tempo nuova forza. Più la conosco e più la mia avversione cresce... afferma che la odio, che faccio lega con i suoi peggiori nemici, vale a dire tu, lady Carlisle e Mr. Hanson, e poiché non fingo né la contraddico siamo tutti onorati da una numerosissima serie di epiteti, alcuni troppo grossolani perché li possa ripetere...” Il periodo trascorso nella squallida casa di Aberdeen dove la signora Byron si era trasferita alla morte del marito, in un'atmosfera di miseria, di tristezza e d'isterismo dovette essere in incubo. Furono gli anni oscuri di quelle “fatali esperienza cui Byron spesso fece riferimento in tono sempre misterioso e che devono essere associate con ogni probabilità alla “nurse” scozzese May Gray: “Le mie passioni si svilupparono molto presto, così presto che pochi mi crederebbero se dovessi precisare il periodo e i fatti. Forse fu questa una delle ragioni che causarono l'anticipata malinconia dei miei pensieri, avendo anticipato la vita.” E si comprende come Byron sia stato spinto fin dall'infanzia a cercare un difficile equilibrio nel più violento ed estroverso anticonformismo e in definitiva in una continua contemplazione di sé. Nel 1798, alla morte del prozio William, quinto lord Byron, gli spettò il titolo di baronetto, ma i beni che accompagnavano il titolo non erano tali da potergli offrire molto più che diritti formali, sebbene gli permettessero almeno un'educazione pari al suo rango. La condizione economica familiare restò in qualche modo precaria, anche perché è difficile dire che la madre e il figlio fossero buoni amministratori, mentre la necessità di mantenere un decoro pari al titolo acquisito (e alle esigenze personali, poi, del poeta) rendeva la situazione ancora più tempestosa. Byron non poteva sottrarsi all'ingranaggio delle convenzioni aristocratiche, né tanto meno a se stesso.
Furono certamente tutte queste circostanze a contribuire fortemente, unite al temperamento già difficile e sensibile del ragazzo, a quegli oscuri “vizi privati” di cui si è sempre parlato a proposito di Byron, sebbene non siano mai state portate prove concrete che le sue propensioni omosessuali - per altro, a quanto sembra, limitate a un periodo molto giovanile - abbiano avuto inizio durante gli anni di scuola ad Harrow, dove si iscrisse nel 1801. Doveva ancora incontrare la sorellastra Augusta ed esperimentare la prima delusione amorosa con Mary Chaworth, prima di entrare, nel 1805, al Trinity College di Cambridge ed essere attratto dal giovane compagno di studi John Edleston: “una passione e un amore violento, sebbene puro”, come riferì più tardi egli stesso. Intanto si andavano organizzando, “nel periodo più romantico della mia vita”, quelle prove poetiche che apparvero, stampate privatamente nel 1806, con il titolo Fugitive Pièces (Frammenti fuggitivi) seguite l'anno successivo da Hours of Idleness (Ore d'ozio), indicative se non altro di uno stato d'animo, dell'atmosfera delle sere di Cambridge trascorse con gli amici (con Edward Long in particolare) a far della musica o a chiacchierare pigramente bevendo “soda”. Fu questo secondo volume di versi, preceduto da una nota estremamente egocentrica e descritto in una lettera come una raccolta che doveva “essere lodata dai recensori, ammirata dalle duchesse e venduta da tutti i librai della metropoli”, a provocare una stroncatura sulla “Edinburgh Review” e la conseguente satira di Byron pubblicata nel 1809 con il titolo English Bards and Scotch Reviewers (Bardi inglesi e recensori scozzesi), dove si manifesta apertamente per la prima volta l'orgoglio, la stravaganza, la violenza, il gusto dell'invettiva. La timidezza, il riserbo, la scontrosità del “bambino piuttosto brutto e con una evidente tendenza all'obesità”, così era stato descritto, erano superati (almeno in apparenza, poiché conosciamo la reazione del timido), e ormai la figura di Byron si stava precisando. Conscio della debolezza fisica conseguenza della sua deformazione agli arti inferiori, il poeta non poteva accontentarsi di un ruolo puramente letterario. Cominciò ad impegnarsi in vari sport, (il nuoto, il pugilato) e a costruirsi come personaggio. I suoi contatti con la vita sociale aristocratica londinese si fecero più frequenti. Ebbe bisogno di cavalli, di cani, di servitù, e nei 1808, lasciata Cambridge da pochi mesi, i suoi debiti erano già saliti a dodicimila sterline. Per molti, più che un vero interesse per l'avventura fu la convinzione che la vita all'estero potesse essere meno dispendiosa a spingerlo al gran tour, per quanto un viaggio sul continente era allora considerato indispensabile per l'educazione di un nobile, e rientrava quindi nella prassi.

IL “GRAND TOUR” E IL PELLEGRINAGGIO
DEL GIOVANE AROLDO

Il 2 luglio del 1809 il poeta lasciò l'Inghilterra con l'amico John Cam Hobhouse, e insieme raggiunsero Lisbona, attraversarono la Spagna fino a Gibilterra, e, dopo aver toccato Malta, sbarcarono in Albania. Visitarono All Pascià. Trascorsero l'inverno a Atene alloggiati in casa di una vedova la cui figlia, Teresa Macri, verrà celebrata dal poeta come “la fanciulla d'Atene”, e passarono poi a Costantinopoli, dove si divisero. Dopo un altro inverno trascorso a Atene Byron rientrò in Inghilterra. Era il luglio dei 1811. A un certo punto del suo diario il poeta scriverà: “Amo l'energia, anche l'energia animale, d'ogni specie; e ho bisogno di entrambe: dell'energia della mente e dell'energia del corpo.” Nei due anni del grand tour, per quanto il tono lieve 4 e divertito delle prime lettere non sembri corrispondere molto al tono che ci si potrebbe aspettare conoscendo - ora - il ritratto tenebroso di sé lasciato da Byron, si direbbe che il poeta mettesse a punto quegli aspetti (energia della mente ed energia del corpo) che contribuirono fortemente a farne uno splendido irregolare. Compresi i “vizi privati”. Dominato da un'ansia che oggi tendiamo a riconoscere come “tipicamente romantica” (“genio e sregolatezza”), corteggia qualche ragazza in Spagna, a Malta ha un'avventura con la signora Spencer Smith (la “Florence” del Giovane Aroldo), a Atene si invaghisce di un ragazzo, Nicolò Giraud, a cui nel 1811 lascia per testamento settemila sterline (lascito soppresso in un testamento successivo), e c'erano state prima la già citata “fanciulla d'Atene” e tre sorelle, “tutte e tre al di sotto dei quindici anni”. Attraversa a nuoto l'Ellesponto, e intanto scrive, con lo stesso piglio e con la stessa facilità con cui agisce. Come ha notato Emilio Cecchi, che per quanto abbia malignamente esagerato, ha afferrato con molta acutezza i lati negativi del poeta, “i versi gli furono un abbellimento, un esercizio di destrezza, come il tiro alla pistola, il nuoto, il cavalcare”. Sappiamo infatti che “compose Lara, la notte, spogliandosi di ritorno dai balli mascherati nell'inverno del 1814 particolarmente orgiastico. La Sposa di Abydo fu scritta in quattro giorni; il Corsaro in dieci. Intese l'arte come la intendevano in certe corti provinciali del rinascimento: solo che egli era a un tempo l'artista e il mecenate che faceva lavorar l'artista per balocco, senza pigliano sul serio” (Cecchi). In certo senso, a giudicare dal fatto che si mostrò piuttosto incerto sull'opportunità di pubblicano, preferendogli il poemetto satirico Hints from Horace (Accenni da Orazio) piuttosto tedioso, Byron non dovette prendere molto sul serio il suo Childe Harold's Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo), i cui primi due canti erano stati portati a termine a Smirne nel marzo del 1810. Fu invece proprio questo poema autobiografico in stanze spenseriane a dare a Byron una celebrità inattesa e senza precedenti. “Mi sono svegliato... e mi sono trovato famoso”. Ma già un successo non indifferente il poeta lo aveva raggiunto ii 27 febbraio del 1812 con il suo discorso alla Camera dei Lords contro i provvedimenti ancora più gravi che si intendevano prendere per soffocare i disordini causati dalla crescente disoccupazione nell'Inghilterra del nord. E fu un discorso, sebbene qua e là piuttosto retorico e facile, non privo di vigore e assai indicativo del temperamento byroniano. Basta vederne un frammento: “Ho attraversato il teatro della guerra nella penisola; sono stato in alcune delle provincie più oppresse della Turchia; eppure mai, sotto i più dispotici governi infedeli ho scorto la miseria così squallida come quella che ho visto al mio ritorno, proprio nel cuore di un paese cristiano. E quali sono i vostri rimedi? Dopo mesi di inazione, e mesi di azione peggiore dell'inattività, finalmente ecco il grande specifico, la sempre efficace panacea di tutti i medici dello Stato... Dopo aver sentito il polso e scosso la testa sul paziente, con la prescrizione della solita ricetta d'acqua calda e salassi - l'acqua calda della vostra stupida polizia e il bisturi delle vostre forze militari - queste convulsioni devono aver termine nella morte. A parte l'evidente ingiustizia e la sicura inutilità del progetto, non vi sono pene capitali sufficienti nei vostri statuti? Non c'è abbastanza sangue nel vostro codice penale, che debba esserne versato ancora di più, così che salga fino al cielo e testimoni contro di voi? Come potrete portare a effetto questo progetto? Potete forse mettere in prigione un'intera nazione?...” Pochi giorni dopo (secondo alcuni il 29 febbraio, secondo altri il 10 marzo) l'editore Murray di Londra pubblicò i primi due canti del Giovane Aroldo. Qui Byron, nel racconto del suo viaggio da Lisbona a Atene espresso in toni tutti fondati sul sentimento e sull'esclamazione, in modi compositivi fluenti e spesso piacevoli ma certo non privi di inesperienza ritmica, in uno slancio continuo e sostenuto in cui si possono ravvisare - nello stesso tempo - soluzioni coraggiose e banalità d'ogni sorta, riuscì ad esprimere esattamente il personaggio malinconico e ribelle, misantropo e ambizioso, l'esule volontario nostalgico di un passato eroico, deluso da un presente meschino, che già era stato impostato dai primi romantici.

Sperimentò la pienezza della Sazietà:
Odiò restare nella sua terra nativa, che gli parve
Assai più solitaria della triste cella
Dell'eremita. Poiché aveva percorso il lungo labirinto.
Del Peccato, né mai aveva espiato il male fatto,
Aveva sospirato a molte ma anta una sola,
E quella amata, ahimè, non fu mai sua.

Con in più un'inquietudine nuova, come nota Mario Praz, e l'apparente aderenza a una situazione reale non solo autobiografica, dell'individuo come della società. Né va sottovalutato il fatto, a giustificare il successo del poema, che in quegli anni era di moda la letteratura di viaggio e d'avventura, il gusto dell'esotico, per cui Byron si trovò ad aver scritto proprio ciò che ci si attendeva qualcuno scrivesse. Tutt'altro che perfetto (d'altra parte, per seguire Emilio Cecchi, “benedetto quando si lasciava passivamente all’istinto, si dava nella sua immediatezza e contraddittorietà, ficcando in una sorta di giornale poetico, di zibaldone, quanto giorno per giorno gli frullava pel capo”), il Giovane Aroldo, aumentato di un terzo canto nel 1816 e completato con un quarto canto nel 1818, rimane l'esempio più rappresentativo dei pregi e dei difetti dell'atteggiamento byroniano nel periodo che precede la sua definitiva partenza dall'Inghilterra, anche se è un luogo comune affermare che esista un netto stacco fra le opere di questo periodo e le opere successive. In realtà Byron oscillò fin dall'inizio fra un certo razionalismo classico che gli derivava da Pope e l'abbandono romantico, così come si possono rintracciare, sebbene poco marcati, elementi satirici anche nei passi romantici, ed elementi romantici nelle sue satire.

AUGUSTA E IL MATRIMONIO

Intanto nell'agosto del 1811 gli era morta la madre,

e per quanto i suoi rapporti con lei fossero stati improntati - a dir poco - a una netta insofferenza, almeno nella sua immaginazione i legami familiari dovevano avere una tale importanza che Byron fu assalito da un senso di rimorso apparentemente inspiegabile. Questo lutto, aggiunto alla morte per annegamento dell'amico Matthews, contribuì a portare il poeta alla convinzione che “qualche maledizione pesa su di me e sui miei”, e a rafforzare in lui quella tristezza - e il cinismo che prese a sovrapporre all'autentica sofferenza - che aveva pubblicamente sottolineato nel poema narrativo descrivendosi come “il cupo viaggiatore”, “il freddo straniero” dal “cuore di marmo”. Le porte della società londinese gli si erano spalancate quasi all'improvviso. Diventato un homme à bonne fortune passò da un'avventura all'altra, ma se la relazione con la brillante e alla moda Caroline Lamb (“... è difficile dire che avesse qualche particolare attrattiva personale. La sua figura, sebbene elegante, era troppo sottile per essere apprezzabile, e mancava di quella pienezza che vanamente l'eleganza cerca di sostituire. Ma era, comunque, giovane.., possedeva una notevolissima vivacità mentale, e una immaginazione resa più viva dalla lettura di romanzi...”) lo rese oggetto di invidia da parte degli amici; il rapporto incestuoso con la sorellastra Augusta (“il solo amore del quale Byron non si confessi... immediatamente arcistufo”) suscitò - com'è ovvio - lo scandalo, e rese il personaggio ancora più tenebroso e satanico. Su questo rapporto sembrerebbe poco pietoso e opportuno discutere ancora dopo tanto, forse troppo, di cui si è scritto, se il poeta stesso non lo avesse ostentato quasi in cerca di morbosa ammirazione e anche adombrato in alcune opere (per esempio in Manfredi), così da farne un elemento di rilevante importanza. Furono certamente numerose le ragioni che portarono Byron all'incesto, in parte dovute alle circostanze (il poeta, che sempre aveva trovato in Augusta - ora signora Leigh - una confidente comprensiva e affettuosa, dopo la morte della madre si trovò a vivere vicino a lei molto più di quanto fosse mai accaduto prima) e in parte dovute al suo besoin de fatalité, alla sua volontaria acquiescenza a quel destino familiare di passione e violenza e sregolatezza da cui era ossessionato e che non fece mai nulla per evitare, poiché l'evitarlo gli avrebbe probabilmente impedito di essere quell'eroe da leggenda - nobile eroe segnato da una tenebrosa eredità - che egli amava apparire. E ciò non significa, nella perpetua contraddizione, che veramente non ne soffrisse. Fatto è che questa relazione con la sorellastra vi fu, e lo testimoniano molte allusioni e molte lettere del poeta, che ancora nel 1819, da Venezia, scrive a Augusta: “Non ho mai cessato né posso cessare di provare quell'attaccamento perfetto e illimitato che mi legò e che mi lega a te - e che mi rende completamente incapace di vero amore per qualsiasi altro essere umano...”. E nella Epistola a Augusta:

Sorella mia! mia dolce sorella! vi fosse
Un nome ancora più caro e più puro
Quello sarebbe il tuo.
Monti e mari ci dividono, ma io
Non chiedo lacrime, ma tenerezza
In risposta alle mie: dovunque io vada
Tu per me resti uguale - un amato rimorso
Che non mi lascerà. Eppure
Vi sono due cose nel mio destino,
Un mondo in cui vagare, e una casa con te.

Al di là, in questo caso, di qualsiasi facile illazione, si dovrà dire che si trattò di una passione autentica, forse la sola profonda, e che anche il dolore e il rimorso più tardi confessati furono veri. Byron si dovette rendere conto d'avere oltrepassato il segno e si lasciò convincere da alcuni amici a cercare un nuovo interesse sentimentale, e magari a sposarsi. Ed ecco subito, di nuovo, emergere il cinismo: “Tutto sommato, bisognerà ridursi al matrimonio. E non posso figurarmi nulla di più incantevole, dopo sposato, che andare a vivere in campagna; e ammazzare il tempo leggiucchiando il giornale locale e abbracciando la cameriera di mia moglie”, si legge in una lettera a Moore. E la moglie, che dovette sopportare questo trattamento e insulti ancora peggiori (brutalità, iracondia, ubriachezza, indifferenza, infedeltà), fu Anna Isabella Milbanke. Il matrimonio, celebrato nel gennaio del 1815, durò ben poco. E non, come si potrebbe credere, perché la moglie fosse venuta a conoscenza della relazione con Augusta (anzi, dietro assicurazione che questo rapporto era stato interrotto lady Byron accordò alla cognata perdono e protezione), ma a causa dei continui maltrattamenti subiti, dell'atteggiamento del poeta nei suoi confronti anche dopo la nascita della figlia cui fu posto il nome di Augusta Ada. Finché pensò che Byron fosse mentalmente malato sopportò le sue furie, ma quando ebbe da un medico la precisa assicurazione che il poeta era completamente responsabile delle proprie azioni chiese la separazione: la ottenne, dopo qualche istrionica protesta, nel gennaio del 1816. Nell'aprile dello stesso anno, dopo che Claire Clairmont gli si offri come amante, Byron lasciò l'Inghilterra per sempre.

LE “OPERE INGLESI”

Fra il ritorno dal grand tour e il definitivo abbandono dell'Inghilterra, fra i tanti amori leciti e illeciti e le diverse esplosioni eccentriche (“Se non fosse stato in fondo all'anima un dandy oggi del Byron non ci sarebbe da ricordare più nulla”, notò malignamente il Beerbohm), Byron scrisse seguendo in un certo senso il filone del Giovane Aroldo una serie di racconti in versi. I cosiddetti “racconti orientali” The Giaour (Il Giaurro, 1813), The Bride of Abydos (La sposa di Abydo, 1813) e The Corsair (Il corsaro, 1814), poi Lara (1814), The Siege of Corinth (L'assedio di Corinto, 1816) e Parisina (1816) nonché alcune poesie fra cui varrà la pena ricordare She Walks in Beauty (Ella cammina ravvolta di bellezza), If That High World (Se quel mondo supremo), Oh! snatched Away in Beauty's Bloom (Oh! divelta nel fiore della sua bellezza), Sun of the Sleeplees! (Il sole degli insonni!) e Stanzas for Music (Stanze per musica).

Ciò che colpisce in particolare nei racconti in versi - a parte l'ovvia e insistita ambientazione esotica, il linguaggio melodrammatico che rischia sempre e spesso raggiunge il risibile, l'assurdità delle situazioni e l'inconsistenza psicologica dei personaggi (il tono generale è quello dei peggiori libretti per opera lirica, del romanzaccio d'appendice e di certi film di Rodolfo Valentino) ciò che colpisce ma non meraviglia, conoscendo ormai il poeta, è la più assoluta soggettività d'intenzioni e di sviluppo (quasi una incapacità congenita a comprendere la più elementare reazione umana), la più completa astrazione dal mondo e dal tempo vissuti da Byron, e, sempre, un più o meno scoperto riferimento alla figura dell'autore, a quello autentico come a quello in continua costruzione. La continua messa a punto di una autobiografia romanzesca.

Byron vuol essere Lara, Byron vuoi essere il corsaro come saranno Byron anche Manfredi e Caino (e non ha nessuna importanza che il poeta abbia una volta, timidamente, protestato contro l'identificazione con i suoi personaggi), così come non è casuale, a proposito di questa possibilità di identificazione, che due di questi racconti in versi d'amore e morte e mistero abbiano per tema un incesto. Reale in Parisina, supposto ne La sposa di Abydo: “L'altra notte ho finito Zuleika (La sposa di Abydo), il mio secondo Racconto Turco. Credo sia stata la sua composizione a tenermi in vita - poiché il racconto è stato scritto per tener lontani i miei pensieri dal ricordo del Caro, sacro nome, che mai tu sia rivelato...”.

Per mostrare quale sia il tono di questi racconti, e come qua e là vengano ad inserirsi apostrofi occasionali alla perduta libertà dei popoli, saranno sufficienti poche citazioni da Il Giaurro, nella versione ottocentesca del Mazzoni:

Tal questa terra è ancor, tale è la Grecia,
Ahi ma Grecia che fu! sì spenta e bella,
Sì vaga e fredda insiem, che, d'alma priva,
Di sé innamora e raccapriccia a un tempo.

Sì, l'obblio di te stessa a le codarde
Tue catene t'addusse e a lo spietato
Giogo t'assoggettò de' tuoi tiranni

Chi vien su negro corridor tonante,
Che l'ale al piè, che rallentato ha il freno?
Tremano al suon de le ferrate piante
Sotto, intorno, lontan, l'aere e il terreno;
Il fulmineo galoppo e l'incessante
Flagello echeggia e le caverne in seno...

Come alzando la testa il cigno insorge
E con l'ala d'orgoglio agita l'onda
Quando un piede stranier passa ei scorge
De l'azzurro suo lago in su la sponda,
Così Leila il suo collo ancor più bianco,
Armata di beltà, levar solia,
Tal che il folle ardimento erger nemmeno
Ne' suoi vezzi lo sguardo ardito avrìa;
Così nobile e vago era il suo incesso,
Così sacro il suo core a l'amor suo.
L'amor suo? - Fiero Hassan, di', chi fu desso?
Ah che nome sì bel, no, non fu tuo!

Sono di questo tipo, e anche peggiori, i versi che suscitarono tanta ammirazione nei contemporanei. Forse si trattò, più che altro, di un successo “popolare”; ma la cosa è comprensibile, se si tien conto degli argomenti e della foga con cui sono esposti. Né stupisce che le lodi maggiori venissero da altre nazioni, anche favorite dai fatto che - per quanto possa sembrare strano - la sua opera “non soltanto non perde, ma guadagna se tradotta in prosa straniera” (Swinburne). Però anche Goethe, portato sempre come esempio massimo e indiscutibile dell'ammirazione che si ebbe in Europa per il poeta, finì col rilevare che “le sue poesie sono discorsi parlamentari rientrati”. Ora, nessuno potrà negare che “in un'epoca che ha perduto il gusto per le qualità che la poesia di Byron dimostra di possedere è molto arduo fare un'analisi accurata dei suoi vizi e dei suoi difetti” [6], ma pare altrettanto arduo poter affermare con T.S. Eliot - e proprio a proposito di alcuni dei versi citati da Il Giaurro - che di fronte a certi passi si possa trovare una “potente suggestione”. Al massimo, vi si potrà riscontrare una certa piacevolezza. Si dovrebbe allora, molto crocianamente, antologizzare una serie di frammenti e passare la scelta, dopo un'astratta distinzione fra la “poesia” e la “non poesia”' come unica e valida opera byroniana.

Eppure più giustamente lo stesso Eliot vede come in un poeta come Byron la quantità sia inevitabile e di conseguenza come il giudizio non possa evitare un'analisi che tenga conto del fatto che egli scrisse racconti in versi e poemi drammatici, cioè composizioni in cui anche il soggetto, il peso e la sequenza dei fatti, i personaggi, in una parola la struttura, hanno importanza dichiarata e fondamentale. Ma se la sua struttura non regge, se Byron fu sempre sordo alla lingua (“...scrive in una lingua imbalsamata o inerte”) [7] se le sue poesie brevi anche se non disprezzabili non si distinguono per particolari qualità da quelle di molti contemporanei minori, quali sono gli aspetti positivi della sua opera, quali sono le ragioni per cui a Byron spetta una posizione preminente nella storia della letteratura inglese dell'ottocento? Per poter rispondere con esattezza sarebbero necessarie molte considerazioni, ma una cosa è certa: Byron mostrò di avere, e lo traspose nella sua opera, esattamente ciò che il suo tempo richiedeva: il senso dell'azione.

“... E QUALCOS'ALTRO, PIÙ ASSAI DEL FAUST,
MI FECE SCRIVERE
MANFREDI”

Dopo Waterloo (alla notizia che Napoleone era stato sconfitto, Byron esclamò: “Mi spiace terribilmente, davvero!”) la pace non aveva portato né quiete né abbondanza all'Europa. In Inghilterra, alla cessazione delle ordinazioni belliche subentrò una crisi gravissima. Le industrie fallivano, gli agricoltori erano ridotti alla miseria, gli operai disoccupati aumentavano. I fermenti ideologici si facevano sempre più scoperti: la messa a punto del primo progetto di legge operaia, le agitazioni per la riforma elettorale e parlamentare, la nascita del movimento radicale; e intanto, sul continente, fra cospirazioni e reazioni, si stavano preparando le lotte per l'indipendenza. È naturale, in questi anni, che chiunque proclamasse con forza la parola libertà e difendesse la dignità dell'uomo e si battesse contro ogni vieta e restrittiva convenzione dovesse riscuotere l'entusiasmo di molti. Per quanto l'atteggiamento di Byron ci possa oggi apparire (e lo sia anche stato) superficiale e viziato da eccessivo individualismo, e più dettato da una natura tendente al super-umano che da una cosciente socialità (ma non manca in Byron l'invettiva diretta e precisa, legata a fatti contingenti), il poeta si schierò apertamente a fianco delle menti più illuminate e progressiste, e al momento non era necessario che la sua opera venisse analizzata con sottili e distaccati strumenti critici. L'incontro con Shelley a Ginevra, che Byron raggiunse dopo aver visitato il campo di battaglia di Waterloo e aver viaggiato lungo il Reno, fu di grande importanza, poiché servì se non altro a chiarire nel poeta quel sentimento di partecipazione umanitaria già mostrato, e a rafforzare in lui il senso della storia. Inoltre fu Shelley a far conoscere a Byron il Faust di Goethe, e sappiamo quanto peso ebbe quest'opera nella sua già evidente propensione agli elementi magici. Gli scritti di questo periodo assumono un tono diverso, rivelano una diversa maturità. Mentre nei primi due canti del Giovane Aroldo predominava il paesaggio “evasivo” del Portogallo e della Spagna, delle isole dello Ionio e della Grecia, e le associazioni con una tematica della libertà dei popoli erano in genere occasionali e in certo senso astratte, nate dal rimpianto di epoche eroiche lontane, nel terzo canto - pur persistendo il leitmotiv della transitorietà dell'amore e della futilità della ricerca della perfezione - emergono con evidenza assai maggiore e significativa le associazioni storiche e ideologiche: Napoleone, Waterloo, le Alpi, Rousseau. Neppure qui sarà possibile dire, con il giovane Aroldo, “Io non vivo in me stesso, ma divengo / Parte di ciò che mi circonda” (III, 72, 1-2). Byron non l’aggiunge, come tante volte riesce a Shelley, una completa partecipazione con il mondo. Shelley contempla in sé l'universo, Byron contempla sé nell'universo, sempre. In tanti suoi passaggi, come per esempio in quello di Waterloo, si sente la volontarietà del sentimento, il riflesso “letterario”.

Arresta! - quella che coi pié calpesti
D'un impero è la polve! E qui sepolte
D'ampio tremuoto le ruine stanno.
Oh! Perché un colossal marmo non sorge
Che additi il loco, o trionfai colonna,
Onde a' più tardi posteri l'orgoglio
Varchi del vincitor? - Sol qui più forte
Favella verità, che tal rimane
Questo campo qual era. - Oh! come il sangue
Corse a torrenti a fecondar le messi!
Questo frutto, e non altro - o tu fra quanti
Bellici campi furo - ultimo e primo
Ebbe il mondo da te; questo e non altro
Da te, che i regi susciti - Vittoria?
[8]

Ma con il terzo canto del Giovane Aroldo, un'opera come The Prisoner of Chillon (Il prigioniero di Chillon, poemetto sul patriota repubblicano Francois de Bonnivard) è un sintomo, preciso dell'emergenza di certi problemi. Così come Prometheus (Prometeo) e Manfred (Manfredi, portato a termine a Roma nel 1817) testimoniano dell'accentuarsi del gigantesco e del tenebroso sotto l'influenza di Shelley e di Goethe e della profonda impressione che ebbero sul poeta i maestosi paesaggi alpini. “Sono un innamorato della Natura e un ammiratore della Bellezza. Posso sopportare qualsiasi fatica e dare il benvenuto ad ogni privazione; e ho contemplato alcuni dei più sublimi spettacoli del mondo. Ma in tutto questo, il ricordo dell'amarezza e più specialmente della recente domestica desolazione, che dovrà accompagnarmi per tutta la vita, ha esercitato il suo triste influsso su di me; qui, né la musica dei pastori, né il fragore della valanga, né i torrenti, le montagne i ghiacciai, le nuvole, hanno alleggerito per un momento il peso che grava sul mio cuore, o mi hanno permesso di perdere e dimenticare questa mia maledetta identità nella gloria, nella potenza e nella maestà che è intorno, sopra e sotto di me”, scrive il poeta il 29 settembre 1816 nel suo diario per Augusta; e nel 1820, in una lettera a Murray da Ravenna, riferendosi al rapporto fra il Faust di Goethe e il suo Manfredi, Byron afferma fra l'altro che “furono lo Staubach, la Jungfrau e qualcos'altro più assai del Faust che mi fecero scrivere il Manfredi”. Su questo qualcos'altro che si è sempre soffermata la critica nel tentativo di comprendere quale sia in realtà la misteriosa, intima tortura di Manfredi. Ora non è chiaro che si tratti necessariamente, ancora una volta, di incesto, ma per quanto nel poema drammatico si riscontrino - con quella goethiana - altre e più probabili influenze (per esempio Marlowe, Beckford, Chateaubriand) tali da giustificare l'insistenza del poeta sull'originalità della sua opera (e infatti a un'indagine attenta i personaggi di Faust e di Manfredi risultano caso mai antitetici); per quanto una figura - come è quella di Manfredi - di uomo solitario perseguitato da un destino inevitabile, colpevole di un crimine misterioso e inespiabile, torturato dal rimorso e potente al punto da poter evocare esseri occulti ricorrendo alle arti magiche, fosse una figura entrata nel patrimonio letterario dell'epoca; per quanto, insomma, il dramma di Manfredi si possa ragionevolmente intendere anche come completa creazione fantastica, senza alcun rapporto con fatti e ragioni personali, non si potrà sottovalutare che si tratta di un dramma di Byron, di un poeta in cui sempre e scopertamente predomina una tendenza all'espressione autobiografica. Resta il fatto che realmente vi fu un rapporto fra Byron ed Augusta, forse il più vero e profondo, e a giudicare anche solo dal frammento di diario citato (e la Lettera ad Augusta è di quel tempo) almeno in parte si potrà dire che nel rimorso e nel dolore che torturano Manfredi si specchiano il rimorso e il dolore di Byron. E gli indizi, nel dramma, sono più d'uno. Nel primo atto: a mezzanotte, in una galleria gotica del suo castello fra i monti, Manfredi, meditando a voce alta, presenta se stesso:

la Sofferenza dovrebb'essere Maestra all'uomo saggio;
Il Dolore è Conoscenza: coloro che più sanno devono
Più amaramente piangere sulla fatale verità che l'Albero
Del Sapere non è quello della Vita. Filosofia e scienza,
E le sorgenti del Meraviglioso e la saggezza del Mondo.
Tutto ho sperimentato, e nella mia mente è il potere
Di soggiogare ogni cosa a se stessa - ma ciò non vale a nulla...

e subito dopo, evocando gli spiriti dell'universo, afferma che su di lui pesa una maledizione:

Spiriti della Terra e dell'Aria,
Non mi potrete eludere! Per un potere che è assai più profondo
Di quello invocato, per una tiranna malìa
Che nacque in una stella maledetta, relitto
Ardente di un mondo distrutto, un inferno
Che vaga nell'eterno Spazio; per la maledizione tremenda
Che mi pesa sull'anima, per il pensiero
Che è in me ed attorno a me, io vi costringo
Alla mia volontà. - Apparite!

E gli spiriti della terra, dell'oceano, dell'aria, della notte, delle montagne, dei venti e della stella di Manfredi appaiono, ma non possono esaudire il suo desiderio, non hanno il potere di concedergli l'oblio. Uno degli spiriti assume per un attimo l'aspetto di una bellissima donna, e Manfredi dopo aver pronunciato poche parole (“Ti abbraccerò / e noi saremo ancora... Il mio cuore è spezzato!”), cade svenuto mentre una voce pronuncia un incantesimo:

...e ti condanno
A essere a te stesso il proprio inferno...
Non dormire e non morire
Sarà il tuo destino...

Dopo l'accenno al cacciatore di camosci che lo ha trattenuto dal gettarsi da una rupe e lo ha accompagnato nella sua capanna (Atto secondo, scena prima: “Le mie offese caddero su coloro che mi amavano - / Su quelli che amavo di più”) si ha una “confessione” più ampia, sebbene ancora molto reticente, alla Maga delle Alpi:

Pure ve ne fu Una...
Ella era come me nell'aspetto - i suoi occhi
I suoi capelli - le sue fattezze - tutto, anche il tono
Della sua voce, tutto diceva che era come me...
E la tenerezza - ma questa l'avevo per lei;
E l'umiltà - che io non ebbi mai.
I suoi errori furono miei - le sue virtù solo sue
L'amavo e la distrussi.

Infine, sempre nel secondo atto, di fronte al fantasma di Astarte, l'uomo “di molti pensieri e di molte azioni nel bene e nel male, estremo in entrambi”, fatale a se stesso e agli altri, esclama:

Mi amasti troppo,
Così come troppo ti amai; non eravamo
Fatti per torturarci - sebbene fosse
Il più mortale di tutti i peccati
Amarci come ci amammo.

Né chi sia Astarte ci sarà rivelato nel terzo atto dal vecchio servo Manuel, interrotto dall'arrivo dell'abate

...ma con lui La sola compagna dei suoi sogni
E delle sue veglie... lei che fra tutti gli esseri
Viventi sulla terra sembrava essere l'unica
Che egli amasse, com’era naturale, dato il vincolo
Di sangue, Lady Astarte, sua...

Ce n'è a sufficienza, come si vede, per presumere che un parallelo con l'episodio di Augusta sia legittimo. Con Manfredi, ed è indicativo, Byron passa a una struttura “drammatica”, ma sarebbe un errore voler giudicare quest'opera come si giudica un'opera scritta per il teatro; se non altro perché il poeta stesso affermò ripetutamente di provare un profondo disprezzo per le scene. E il non averne tenuto conto che ha probabilmente portato la critica, più volte, a considerare Manfredi un dramma mancato, perché assurdo nell'assunto e indifferenziato per quanto riguarda la psicologia o la concretezza dei personaggi. Si è ormai ripetuto troppe volte come in Byron la poesia si manifesti come “presenza”' senza gradazioni e contrasti, in un tono alto e uniforme, e non sarà quindi il caso di insistere su questi aspetti, evidenti anche qui; ma significherebbe esser legati a un preconcetto voler negare che in Manfredi non esista una potenza elementare notevole, una rara abilità narrativa (basterebbe un paragone anche superficiale con uno qualsiasi dei poemetti orientali) e qualità liriche non indifferenti.

Il soggiorno svizzero con Shelley e Claire Clairmont non durò a lungo. In ottobre il poeta raggiunse l'Italia attraverso il Sempione, si fermò brevemente a Milano e in novembre era già a Venezia.

VENEZIA: IL CULMINE DEL ROMANTICISMO
BYRONIANO E IL POEMA SATIRICO

La fama che lo accompagnava ci può apparire oggi inverosimile, e assunse in realtà dimensioni che toccarono il ridicolo. Basterà citare una pagina del Guerrazzi e un frammento di lettera di Schopenhauer. “Dicevanlo sangue di re, potentissimo di averi, d'indole sanguigno, per costume feroce, negli esercizi cavallereschi maestro: era Giorgio Byron, desiderai vederlo: mi parve Apollo del Vaticano... Se costui è un tristo, pensai, Dio è un ingannatore; negando risolutamente che il Creatore avesse voluto riporre un'anima male in sembianze tanto formose...” E Schopenhauer, nel 1819: “Avevo una lettera di presentazione di Goethe a Byron. In Venezia fui per tre mesi durante la dimora di Byron. Sempre volevo andare da lui con la lettera di Goethe, quando un giorno vi rinunciai definitivamente. Con la mia amata ero a passeggio sul Lido, quando la mia Dulcinea con la più grande eccitazione gridò: 'Ecco il poeta inglese!' Byron mi passò innanzi a cavallo, e la donna per tutto il giorno non si poté liberare di questa impressione. Allora decisi di non consegnare la lettera di Goethe. Mi spaventai delle corna.”

A Venezia, dove a parte alcuni viaggi (a Roma, a Ravenna, a Bologna) rimase fino al 1819, Byron non mancò di tener fede al personaggio.
“Ho preso in fitto un ottimo appartamento nella casa di un 'mercante di Venezia' che è un negoziante sempre occupato pei suoi affari ed ha una moglie di ventidue anni. Marianna (questo è il suo nome) è nel suo aspetto completamente simile a un'antilope. Ha occhi grandi, neri, orientali... la bocca piccola - la pelle chiara e morbida, con una specie di color di etisia - la fronte ben fatta: i suoi capelli sono neri, lucidi e inanellati, del colore di quelli di lady Jersey: la persona è sottile e graziosa”, scrive in una lettera a Moore ii 17 novembre 1816. E poi, a Murray: “Io sono caduto in amore, amore senza fondo”. Gli amori, il nuoto, le cavalcate ce lo mostrano (ingrassato, pallido, le spalle arrotondate un po' cadenti, le mani piccole gonfie) sulla scena di palazzo Mocenigo, la nuova dimora, fra servitori e cani, scimmie, uccelli, un lupo e una volpe, come un principe orientale o un raffinato decadente annoiato.
Ma mentre in questa specie di harem pazzesco continua a sperimentare con Marianna Segato (e poi con Margherita Cogni, moglie di un fornaio) il suo “lungo labirinto del peccato”, non dimentica, con lo stesso impeto, di essere un poeta. Scrive The Lament of Tasso (Il lamento di Tasso), il quarto canto del Giovane Aroldo; Beppo, A Venetian Story (Beppo, Una storia veneziana) e comincia Don Juan (Don Giovanni), il suo capolavoro. “Scaverò la miniera della mia giovinezza fino alle ultime radici del minerale, e poi - buona notte. Ho vissuto e sono contento” (Lettera a Moore del 2 febbraio 1818).

E intanto, però, scavava più a fondo anche in se stesso e nei problemi della poesia, propria e altrui. La presa di coscienza delle sue più vere qualità deve farsi risalire a questi anni, con la rilettura del Pope sempre ammirato e con il contatto diretto con la poesia burlesca italiana e con l'ottava rima usata per la prima volta in Beppo.

Al cortese lettor del nostro sobrio clima
Questo modo di scrivere parrà piuttosto esotico;
Ma fu Luigi Pulci il prence della rima
Semiseria...

Il riferimento (Don Juan, IV, 6) è la testimonianza diretta e inequivocabile del nuovo stile, anche se com'è naturale - altre fonti e suggestioni contribuirono a spingere Byron verso il poema eroicomico: il Casti de Gli animali parlanti (tradotto in inglese da W. S. Rose nel 1816), il Tasso e il Berni (“Berni è il padre di tal genere di scritti, che io credo si adattino benissimo anche nella nostra lingua”: da una lettera del marzo 1818 a Murray) fra gli italiani; e poi W. Tennant, il primo ad avere introdotto lo stile eroicomico in Inghilterra, e J. H. Frere, Butler, Boileau. È una tradizione che si accorda perfettamente al temperamento di Byron, e che gli permette di ritornare per altra via a Pope, uno dei pochi poeti che egli abbia realmente ammirato, e di avvicinarglisi (e di superano) come non gli era accaduto mai prima di allora. E sarà il caso di accennare a certe posizioni critiche assunte dal poeta, tipiche, anche queste, della sua contraddittorietà di fondo. Spesso limitate e dettate da forti pregiudizi, ma raramente banali, le sue affermazioni sembrerebbero denunciare una netta scissione fra ispirazioni e natura: meditative, di “pensiero” (da cui una certa affinità con Shelley) le prime, tutta improntata al gesto e all'immediatezza la seconda. Una frattura (un equilibrio dei due aspetti mai raggiunto) che potrebbe in parte spiegare come Byron e Shelley - nelle stesse circostanze, entrambi in rivolta contro la società del loro tempo - si ritrovino alla fine su fronti opposti: nichilismo da una parte, socialismo utopistico dall'altra. Una frattura che porta necessariamente, come accade a Herbert Read, a chiedersi in che misura, e come, Byron sia un romantico rispetto ai romantici. Nel Diario del 1813 Byron pone Walter Scott, “il più inglese dei bardi”, alla sommità di un'ideale piramide di valori, e Coleridge e Wordsworth molto più in basso, un solo gradino prima degli “altri” indifferenziati. Il 18 novembre 1820, in una lettera a Murray definisce la poesia di Keats “una specie di masturbazione mentale”. Il 5 settembre 1821 scrive a Octavius Gilchrist: “Quei poveri idioti dei Laghi... stanno diluendo la letteratura tanto quanto possono”: e fra i “poveri idioti” sono da annoverare, ancora, Coleridge e Wordsworth. Rivelatrice, e assai più ragionevole, la lettera a Murray del 17 settembre 1817: “Riguardo alla poesia in generale sono convinto, quanto più ci penso, che egli e tutti noi - Scott, Southey, Wordsworth, Moore, Campbell, io - siamo tutti nel falso, l'uno come l'altro, e siamo in un falso sistema, o sistemi, poetico rivoluzionario, e dal quale nessuno, tranne Rogers e Crabbe, è libero: e che la presente e le future generazioni saranno finalmente di questa opinione. Io sono più confermato in questo per avere di recente riletto alcuni dei nostri classici, particolarmente Pope, che questo ho provato: ho preso le poesie di Moore, le mie e di alcuni altri, e le ho paragonate tratto per tratto con quelle di Pope, e son rimasto davvero meravigliato (avrei voluto che non fosse così) e mortificato dall'ineffabile distanza del senso, dell'armonia, dell'effetto, e anche dell'immaginazione, passione e invenzione che c'è fra il piccolo uomo della regina Anna e noi del Basso Impero. Dipende da ciò che allora era tutto Orazio, ed era tutto Claudiano, fra noi, e se dovessi ricominciare mi modellerei in conformità.”
Da simili giudizi è facile rilevare come in Byron vi fosse una nostalgia fortissima per quell'ordine, per quella disciplina classica che gli erano negati. Se aderire all'universo e fondersi con l'universo è un modo di procedere romantico, nota Herbert Read, allora Byron è un romantico, mentre Wordsworth e Coleridge (“sempre attenti a porre logiche distinzioni fra uomo e natura”) sono classici. “Ma se scrivere versi di questa facilità e soavità è essere classici, allora Byron era classico, e i poeti di Kubla Khan e di Michael erano sperimentalisti romantici, ossessionati da una nozione di corrispondenza tra forma e sentimento”. [10] Si può non essere d'accordo sull'affermazione che in Byron siano tipici i passaggi per i quali appare legittimo parlare di “soavità” (e in realtà simili passaggi sono rarissimi), e si può discutere sui termini usati da Read per distinguere un atteggiamento classico da uno romantico; ma quel che è certo è che Byron non si è mai preoccupato molto - prima del Don Juan - di far corrispondere forma e sentimento (forse sarebbe meglio dire, sia pure con distinzione assai sospetta, forma e contenuto) ed è quindi significativo che egli abbia raggiunto l'unità espressiva, e il rigore e la disciplina che ammirava nel “piccolo uomo della regina Anna”, in un poema che è, sì, ancora romantico, ma non nel senso (nel cliché, se si vuole) in cui il romanticismo, e quello di Byron in particolare, è stato inteso generalmente. Nella parabola compositiva del poeta, c'è a questo punto, uno scarto nettissimo che coinvolge intenzioni, forma, struttura, linguaggio.

In pratica, il quarto canto del Giovane Aroldo e Don Juan sono contemporanei; ma mentre nel Giovane Aroldo si sentono ancora, e in qualche caso persino accentuate, le ragioni che io motivarono fin dall'inizio (“essere divertente e patetico, descrittivo e sentimentale, tenero e satirico”: avere cioè una varietà di modi e tutti, per così dire, di tipo emozionale), Don Juan è subito improntato a una misura diversa, a un tono più controllato. Il Giovane Aroldo (anche nel quarto canto) è ancora un'opera d'appassionata eloquenza. Si vedano, come esempio, alcuni frammenti su Venezia e Roma:

Or non più l'eco di Vinegia il verso
Di Torquato ripete, e taciturno
Discorre il gondolier per la laguna.
Crollan di sulla riva i suoi superbi
Palagi: né all'orecchio ormai lusinga
Vien di musiche note. Ahimè! già furo
Suoi dì di gloria! - e pur Vinegia è bella;
Bella è tuttor. - Cadon gl'imperi, e sperse
Le arti sen van - ma non però si spegne
Natura mai: quanto costei diletta
Un dì le fu già non obblìa: divino
D'ogni piacer costei soggiorno, e della
Terra t'eliso, e dell'Italia incanto.

Roma! Città dell'alma! O tu eletta
Sovra ogni terra a me! Qui si riduca
Quale ha vedovo il cor, e in te s'affissi,
D'imperi che già fur madre diserta!
E nel petto profondo i suoi soffoghi
Levi martiri - Oh! che mia fieno i nostri
Affanni, i nostri guai? - Vien! tu cui sono
Angosce del morir d'un dì le pene;
Vieni, e questi cipressi osserva, e il tristo
Odi gufo ulular, e l'orme imprimi
Sovra troni spezzati, e le ruine
De' templi; - sotto a' nostri pié s'accoglie
Fral come frale è umana argilla - un mondo.

L'edra, il cipresso, i rovi, e le serpenti
Erbe miste, confuse, ed ammontate
Qui crescono: poggetti, ove già turo
Dorate loggie, formansi; crollanti
Archi, colonne scavezzate, e scisse
Volte, e grotte soavi in sotterrane
Converse umide stanze, ove a dilungo
Poiché di notte tenebre le estima
Che a mezzo giunta sia - volteggia il gufo;
Palagi questi son, terme, delubri?
Chi 'l può decida: ché null'altro, nulla,
Fuor che nude pareti, intravedervi
La scienza potrìa. Leva lo sguardo
Al monte Imperial! Così finisce
Ogni grandezza tua, mortal superbo!
[12]

E spesso emergono, nel tono concitato ad esclamativo che caratterizza quest'ultimo canto dominato dal senso delle glorie passate e del presente abbandono, quegli appelli alla libertà di fronte ai quali gli italiani non potevano restare indifferenti nel clima in cui si stavano preparando i moti del '21:

Eppur, - tuo sacro, o Libertà, vessillo
Lacero, e innanzi ognor sospinto, al nembo
Simìl che porta il folgore, lottante
Sta contro i venti...
Sfrondata è la tua pianta, e rozza e vile
E della scure al tempestar la scorza.
Ma serba ancor succo vitale - e posti
Profondamente i bei semi ne furo
Fin nelle boreali ultime terre;
Ond'è che il cor nello sperar s'allieta
D'almi germogli in più ridente aprile.
[13]

Pur non negando che nella sua opera vi siano momenti di lirico abbandono (ma sono scarsi, e la poesia in cui si avvicinò maggiormente a un certa purezza è in verità assai fragile: “Così mai più andremo vagabondi / Fin nella tarda notte, / Anche se il cuore continua a amare / E la luna continua a risplendere”' ecc.), Byron non fu né tentò mai di essere un poeta lirico.

Piuttosto, fra vari modi diversi e talvolta contrastanti finché non riuscì a trovare un soggetto che richiedesse un linguaggio diretto più secco e quotidiano e permettesse finalmente il passaggio dall'enfasi al “parlato” senza che si venissero a perdere, per questo, le possibilità di mantenere quella tematica corrispondente sia alla natura del poeta sia ai gusti del tempo. In Don Juan, satira epica, si potrebbe dire che gli ingredienti sono ancora - almeno in buona parte - gli stessi dei racconti in versi o del Giovane Aroldo (esotismo, passioni, tragedie, donne, corsari, ecc.) ma non più trattati con intenzioni nostalgiche o evasive. Qui Byron si muove su un terreno concreto, sembra sapere con esattezza cosa vuole (vede con occhi diversi i paesaggi e la società visitati e vissuti) e mantenendosi vicino a una realtà mondana (cose, persone, scene e avvenimenti veri) la sua voce ha un registro tagliente, un timbro severo anche nei momenti di apparente cinismo. La sua opposizione alla società non è più astratta, i suoi bersagli sono dichiarati e riconoscibili, così che se il suo modello era la poesia di Pope (poesia togata anche nell'espressione satirica) ora il modello è superato, ed è opportuno rifarsi piuttosto all'incisiva denuncia di Swift. Nell'impianto tutto terreno delle avventure di Don Giovanni dalla Spagna alla Grecia, dall'oriente alla Russia e all'Inghilterra non solo i personaggi (Donna Giulia, Haidèe, Gulbeyaz, lord Henry, lady Adeline: volta a volta teneri, appassionati, tragici o distorti in una satira feroce) acquistano un'evidenza mai prima raggiunta dal poeta, ma persino la natura è restituita più felicemente. Come nota il Grierson, in certe scene “la natura stessa sembra prendere la penna e scrivere in versi più semplici e appassionati, sebbene meno solenni, di quelli che dettò a Wordsworth” [14]

Era la costa - penso fosse la costa che prima
Vi descrivevo - Sì, era quella costa
Al momento serena come il cielo,
Le sabbie immote e l'onde azzurre quiete,
E ogni cosa era in pace, se si esclude il grido
Dell'uccello marino e il balzo del delfino e il lieve
Fremito d'onde minuscole respinte
Da rocce basse o scogliere e rigettate
Contro quei limiti che a stento intimidivano.

Era l'ora più fresca, quando il sole tondo
Affonda rosso dietro il colle azzurro
Che sembra allora il limite del mondo
E la natura immobile recinge di silenzio e d'ombra,
Col rilievo dei monti lontani che da un lato
Si stende a semicerchio, e il mare fondo e freddo
E quieto al lato opposto, e il cielo roseo
Con un'unica stella che splende come un occhio...

Don Juan, come ogni poema che abbia compiutezza, non si presta a citazioni, ma non sarà inopportuno disporre, a fronte dei momenti più liberi e aperti appena suggeriti, altri momenti da cui risulta con maggiore evidenza la vena satirica eroicomica, come nell'episodio del naufragio:

Lo spirito non v'è nulla che calmi
Come il rumme e la vera religione:
Chi spiriti bevea, chi dicea salmi;
Le voci bianche il vento, ed il bordone
Facean l'onde che urlavan lì a due palmi;
Curò il terrore l'indisposizione
Del mal di mare, e rispondeano in coro
Preci e bestemmie all'ocean sonoro...
E alcun metteva in mare le scialuppe,
Altri guardava sulla tolda, e c'era
Un tal che assoluzion chiese a Pedrillo:
Il qual, confuso, al diavolo spedillo.
[15]

O come nelle scene inglesi, in cui sembra quasi di ravvisare un mondo pariniano.

Pallide Dame, ed altre imbellettate
Ingannano del giorno l'ore liete;
Se vaghe sono fanno cavalcate
Di comparir sfogando la lor sete;
Ed altre sul sola vedi sdraiate
Cui fu natura avara, e stanno quiete
Ragionando sul diritto e sul dovere,
O van scrivendo a qualche cavaliere.
[16]

Qualunque siano state, per Byron, le fonti della leggenda di Don Giovanni (Tirso de Molina o Molière, Mozart o la pantomima del clown Grimaldi al Covent Garden), il poeta utilizzò queste fonti in vista di uno scopo preciso, che era di fustigare i costumi di una società ipocrita e vanitosa quanto feroce e ridicola; e il valore del risultato non sta, o non sta soltanto, nelle qualità liriche o realistiche del dettato espressivo o nella varietà e nell'ampiezza narrative.

Byron utilizzò le fonti del “burlador de Sevilla” allo stesso modo in cui, per esempio, Giraudoux ha utilizzato nel suo teatro alcune fonti classiche, ed ebbe il merito di fare di Don Giovanni un personaggio contemporaneo e significativo.

DAL PO ALL'ARNO

Nell'aprile del 1819, terminato il secondo canto del Don Juan e in aspra polemica con l'editore e con amici e critici fra i quali il Foscolo (“Perché non fa qualcosa di più delle Lettere di Ortis... che ha fatto in tutto questo tempo?”), Byron incontra Teresa Gamba, moglie diciassettenne del più che sessantenne conte Guiccioli, e la segue a Ravenna. Ii 29 giugno scrive a Murray: “... cavalco o guido ogni giorno nella foresta, la pineta... e vedo la mia Dama ogni giorno in ore proprie (o improprie)... Perdendo lei, perderei un essere che ha corso per me molti rischi, e che ho molte ragioni d'amare... Io non so cosa farei se morisse, se non farmi saltare il cervello...”
In breve tempo diviene l'amante legittimo della contessa. Ma quasi per stanchezza, si direbbe, dopo il disordine di palazzo Mocenigo, con quella specie di passività che viene a volte il sospetto fosse la componente più vera del suo comportamento con le donne. O solo un tentativo di coerenza con il modello oramai costituito. “L'amore? Che sfaticata!”, gli sfuggì detto una volta. A Ravenna non rinuncia al suo serraglio (nel catalogo sono inclusi dieci cavalli, otto cani, tre scimmie, cinque gatti, cinque pavoni, un corvo, un'aquila, un falco, un paio di porcellini d'India e una gru egiziana) né alle cavalcate, al nuoto e alla caccia, ma lo show diventa fiacco, il poeta si imborghesisce, diventa avaro (eppure aveva venduto da poco la proprietà inglese), e alle pubblicizzate abitudini eroiche e stravaganti se ne sovrappongono altre: solo verdura, biscotti secchi, acqua minerale e magnesia fatta arrivare dall'Inghilterra. La romantica testarda Teresa, né di particolare intelligenza né di particolare bellezza con quella sua testa sproporzionata, non gli offre in pratica che un surrogato di vita matrimoniale, senza furie, senza slanci autentici. Il poeta, dopo la separazione della contessa dal marito, entra in famiglia, e poiché i Gamba erano ardenti patrioti anche il poeta partecipa alla loro attività politica ed entra a far parte della Carboneria. Quando Shelley lo va a visitate lo trova “grandemente migliorato sotto tutti gli aspetti... nel genio, nel temperamento, nelle vedute morali...”. C'è da dubitarne. Nel genio: certo Byron scrisse moltissimo in questo periodo, dal quinto canto del Don Juan ai drammi poetici The Two Foscari (I due Foscari), Sardanapalus (Sardanapalo), Cain (Caino) e Marino Faliero, da The Prophecy of Dante (La profezia di Dante) a The Vision of judgment (La visione del Giudizio) oltre a una parziale traduzione del Morgante Maggiore e ad alcune poesie fra le quali può essere citata Stanzas to the Po (Stanze al Po) per il riferimento a Ravenna e all'amante:

Fiume che scorri presso antiche mura
Dove dimora la donna del mio amore, quando
Ella cammina lungo le tue sponde e forse
Di me richiama un lieve fugace ricordo...

Ma anche se Caino (“un soggetto metafisico, qualcosa nello stile di Manfredi”) contiene alcuni passi di indubbio vigore ed avvicina Byron a certe posizioni eterodosse, “sataniche”, di Shelley; anche se La visione del Giudizio può essere considerato un capolavoro di satira privata nessuna di queste opere è paragonabile a Don Juan, né ad alcune parti del Giovane Aroldo. Sono piuttosto il risultato di una attività frenetica, di gesto, scomposta e spesso superficiale: “una convulsione in fondo a cui non succede niente” (Cecchi) o ben poco. Nel temperamento e nelle vedute morali è altrettanto difficile notare un miglioramento: basterebbe citare il cinismo con cui si comporta in varie occasioni nei confronti di Shelley, e l'irresponsabilità verso Allegra, la figlia avuta da Claire Clairmont e lasciata in un convento di Bagnacavallo, dove morirà nel marzo del 1821. E fino a che punto fu autentica, efficace (e rischiosa) l'attività politica? Sembrerebbe onesto dire che almeno le intenzioni furono sincere: è difficile infatti affermare che a Byron difettasse l'entusiasmo per qualsiasi impresa in cui fosse implicito un movente di pur generico anticonformismo. Ma è proprio il fatto che qualsiasi impresa di questo genere riscuoteva il suo interesse a sollevare il sospetto che l'impegna fosse unicamente individualistico, una semplice necessità di estorsione. Se si pensa alla reale situazione politica italiana del 1821, la cui gravità non è il caso di sottolineare retoricamente, e poi si pensa a Byron che sta “fra tutto il sudore, la polvere e le bestemmie di un universale imballaggio” in procinto di partire per Pisa (“dove vado a passare l'inverno”) perché con il fallimento dei moti rivoluzionari la famiglia Gamba al completo è stata condannata all'esilio e il poeta naturalmente la segue; se si pensa a questo si ha una vaga sensazione di superficialità, la sensazione che tutto sommato Byron, con i suoi sogni di Italia libera, non avesse capito molto, o per lo meno non avesse “sentito” molto. Avevano invece probabilmente capito i suoi “amici carbonari”' a giudicare da quanto si legge in una pagina di diario (18 febbraio 1821): “Io credo che essi mi considerino solo come un deposito da essere sacrificato in caso di accidenti.” La scelta di Pisa come nuova residenza dipese dal giudizio del poeta: “Eravamo incerti fra la Svizzera e la Toscana, e io detti il mio voto a Pisa, che è più vicina al Mediterraneo, che amo per le sponde che bagna e per i miei ricordi giovanili del 1809. La Svizzera è un maledetto, egoista, porco paese di bruti, situata nella regione più romantica del mondo. Non ho mai potuto sopportare i suoi abitanti, e ancora meno i loro visitatori inglesi...” (da una lettera a Moore del 19 settembre 1821). E a Pisa, mentre si scatenavano i giudizi - negativi e positivi, sempre estremi - sul contenuto del Caino (“contro la bontà e la potenza della divinità, contro la ragionevolezza della religione in genere”), si apre un nuovo periodo, che vedrà la nascita e il fallimento del periodico “The Liberal” (Il liberale) e la messa a punto di altri canti del Don Juan, ripreso con la promessa alla Guiccioli di non toccare argomenti troppo spinti. In casa Lanfranchi (“Sto qui in un vecchio famoso palazzo feudale sull'Arno, abbastanza grande per una guarnigione, con prigioni sotterranee e segrete nelle mura...”) si formò presto un curioso, eterogeneo circolo d'amici di Shelley, che già si era stabilito nella città toscana: Edward Williams, Thomas Medwin, E. J. Trelawny, il pittore americano West e John Taaffe, ai quali si aggiungerà più tardi Leigh Hunt con la numerosa famiglia. L'idea di far giungere Leigh Hunt dall'Inghilterra era stata di Shelley, che intendeva finalmente realizzare quel “giornale proprio” di cui tante volte aveva parlato con l'amico. Il primo numero di “The Liberal (ne uscirono in tutto solo quattro numeri) apparve il 15 ottobre 1822, e di Byron conteneva La visione del Giudizio, una prosa e alcuni epigrammi. Ma Shelley, che vi aveva collaborato con una traduzione del Faust di Goethe e con una poesia, non poté vederlo. L'8 luglio, mentre tornava da Pisa a Villa Magni (fra Lerici e San Terenzo) dove si era intanto stabilito, un'improvvisa tempesta travolse la barca aperta dove viaggiava con l'amico Williams e un marinaio. Il suo corpo fu ritrovato dieci giorni dopo, e arso sulla spiaggia alla presenza di Byron e di Trelawny. “Abbiamo bruciato i corpi di Shelley e di Williams sulla spiaggia, per poterli rimuovere e render loro regolare sepoltura. Non potete avere alcuna idea dello straordinario effetto di una simile pira funeraria, su una spiaggia desolata, con le montagne per sfondo e il mare davanti, e il singolare aspetto che il sale e l'incenso davano alla fiamma. Tutto di Shelley si consumò, tranne il cuore che non volle prender la fiamma ed è ora conservato in spirito di vino” (Byron a Moore il 27 agosto 1822). E anche l'avventura di Byron si avvicinava al termine, con pochi sussulti prima dell'impresa finale. Nello stesso mese in cui era accaduta la tragedia di Shelley la famiglia Gamba dovette lasciare la Toscana: una lite di strada fra i servi di casa Byron e un sergente maggiore pisano aveva coinvolto anche il poeta e i suoi amici, per cui il governo, che non vedeva il momento di liberarsi di questo gruppo eterogeneo continuamente vigilato da agenti del governo austriaco, colse l'occasione per invitarli a lasciare la città. In settembre Byron raggiunse i Gamba a Genova, dove si erano sistemati nella villa Saluzzo di Albaro, e qui gli pervennero le prime feroci reazioni della stampa inglese a “The Liberal”: “una sozza macchia sulla nostra letteratura, “una pubblicazione ignobile”, “lord Byron vi ha collaborato con empietà, volgarità, e assenza d'umanità e di cuore; Shelley con una ridicola cosa su Goethe; e Leigh Hunt con stupidaggini, vuotezza, ignoranza e cattivi versi”. Questi alcuni dei giudizi che apparvero su “The Literary Gazette” e su “The Courier”. L'entusiasmo di Byron per la rivista si affievolì ben presto, notevolmente aiutato dalle difficoltà che gli procurava la turbolenta convivenza col direttore e la sua numerosa famiglia. In più, nel poeta si era fatta strada la convinzione che gli attacchi fossero stati determinati unicamente dalla sua presenza. D'altra parte Byron, che apparve a lady Blessington sempre più eccentrico e demodé, sempre più simile a qualcosa dei suoi primi incredibili personaggi, doveva nascondere sotto gli atteggiamenti consueti una profonda stanchezza, una tristezza e un'insoddisfazione più vere di quanto avesse mai confessato poeticamente, e forse la coscienza di un momento di aridità espressiva. A parte alcuni nuovi canti del Don Juan, le sue opere di questo periodo sembrerebbero confermare per lo meno un'incertezza di direzione. The Age of Bronze (L'età del bronzo) è un poema satirico ispirato dal congresso di Verona, il dramma incompiuto The Deformed Transformed (Il deforme trasformato) è una variazione del tema di Faust su sfondo storico, The Island (L'isola) è un poemetto narrativo fondato sulla storia dell'ammutinamento del “Bounty” e sulla vita degli ammutinati a Tahiti, di tono non diverso, anche per le parentesi amorose (l'idillio di Neuka e Torquil) e l'ambientazione esotica, da quello dei primi racconti in versi. Byron aveva bisogno di un radicale mutamento di scena, e per un certo periodo pensò anche di abbandonare l'Europa per l'America. Non poteva, imborghesito negli scialbi affetti domestici di Teresa, dimenticare quel modulo eroico che si era costruito e di cui doveva fatalmente essere vittima. Già nel febbraio del 1823, giungendogli le notizie della ripresa delle lotte per l'indipendenza della Grecia, il poeta aveva cominciato a pensare alla possibilità di offrire il suo aiuto agli insorti, e ne aveva parlato a Hobhouse e ad altri amici inglesi. Ma fu in aprile, con l'arrivo del capitano Blaquière inviato a Genova dal comitato inglese per gli aiuti alla Grecia, che si precisò il suo destino. L'ultimo atto era cominciato.

“ALLORA GUARDATI ATTORNO, E SCEGLI
LA TUA TERRA, E PRENDI IL TUO RIPOSO”

Secondo molte testimonianze, i preparativi per il viaggio in Grecia furono particolarmente meditati e seri. Byron lasciò ben poco all'ispirazione “romantica”' e anzi si sforzò di comprendere quali fossero realmente le necessità dei rivoluzionari: informò il comitato che ai greci mancava quasi completamente l'artiglieria, raccolse tutto il suo denaro, si procurò medicinale, equipaggiò il brigantino inglese “The Hercules” con barili di polvere da sparo e due piccoli cannoni. Era davvero - come se avesse deciso, quasi consapevole della morte che io attendeva, di abbandonare la poesia per un gesto che avrebbe dato a molta della sua poesia un vero significato. Da allora scrisse solo quattro brevi composizioni, fra cui quella che può essere considerata il compendio dei suoi ultimi mesi di vita: On this day I complete my thirty-sixth year (In questo giorno concludo il mio trentaseiesimo anno), datata 22 gennaio 1824.
Sebbene tutt'altro che memorabili per particolari qualità poetiche, alcuni di questi versi sono di un certo interesse ai fini biografici, in quanto costituiscono il riflesso esatto di una nuova condizione:

È tempo che questo cuore si fermi,
Poiché il cuore di altri ha cessato di battere:
Eppure, per quanto non possa essere amato,
Che io continui a amare.
I miei giorni oramai hanno il colore
Della foglia gialla; e i fiori
E i frutti dell'amore sono fuggiti...

Calpesta le passioni che sempre si rinnovano
Umanità immeritevole! - verso di te indifferenti
Il sorriso o lo sguardo severo
Della Bellezza.
Se tu hai rimpianto la giovinezza,
Perché mai vivere?

Allora guardati attorno, e scegli la tua terra,
E prendi il tuo riposo.

Le difficoltà pratiche e sentimentali furono superate abbastanza rapidamente, e il 16 luglio 1823 “The Hercules” lasciò Genova. Erano a bordo Byron, Pietro Gamba, Trelawny e un giovane medico italiano, nonché otto servitori cinque cavalli e due cani. A Livorno salì sul brigantino un giovane scozzese, Hamilton Browne. Il 2 agosto giunsero in vista delle isole dello Ionio, e osservando il profilo delle lontane montagne della Morea Byron confidò a Trelawny di sentirsi come se “il peso degli undici lunghi anni d'amarezza trascorsi da quando fui qui la prima volta mi fosse stato tolto dalle spalle”. Il mattino seguente il gruppo sbarcò a Cefalonia, che si presentava come uno dei luoghi più adatti per soffermarsi a studiare gli sviluppi dell'intricata situazione politica greca. Byron volle fin dall'inizio mostrarsi del tutto diverso da come si era dipinto nel Giovane Aroldo: a Itaca, per esempio, si rifiutò di visitare qualsiasi luogo di interesse storico, e affermò di detestare l'antiquariato. Una volta sbarcato in Grecia il suo desiderio fu di vivere e agire nel presente, senza rimpianti per le glorie di un tempo. In effetti, e non perché vi morì, l'avventura greca fu la meno retorica, la più “umana” fra quelle del poeta. Ma non era facile agire. Byron si rese conto ben presto che l'impresa cui si era accinto non sarebbe stata semplice. Nel labirinto della politica greca la passione si mutò in decisione. Nella piccola casa di Metaxata, di fronte al mare, l'estate e l'autunno passarono, e non c'era altro da fare che cavalcare fra gli olivi, leggere i romanzi di Walter Scott, ricevere talvolta qualche emissario delle varie correnti rivoluzionarie per riceverne notizie contrastanti: il denaro diminuiva, aumentava il dubbio di riuscire a portare un aiuto concreto alla causa che era stata scelta con tanto entusiasmo. Finalmente in dicembre al poeta parve opportuno mettersi dalla parte del principe Mavrocordato, che più di altri garantiva una seria possibilità di costituire un'autorità alquanto stabile, e salpò per Missolungi, dove giunse ii 5 gennaio 1824. Qui, in una casa a tre piani occupata dal colonnello Stanhope e da un gruppo di sulioti che Byron aveva assoldato a Cefalonia, riprese con instancabile ostinazione a lavorare per rafforzare la resistenza greca. I compiti principali erano due: formare una brigata d'artiglieria, assalire e conquistare Lepanto al comando di forze il cui nucleo avrebbe dovuto essere costituito dalla sua guardia di slioti. Purtroppo non riuscì a concretare nulla. Il febbraio e il marzo trascorsero fra ribellioni, pioggia, scaramucce, scosse telluriche, dimostrazioni di incompetenza, richieste di rimpatrio da parte degli artificeri inglesi, tradimenti. Quando la flotta turca apparve all'orizzonte e sembrò chiaro che la città difficilmente avrebbe potuto difendersi se fosse stata assalita, il poeta volle organizzare personalmente le poche truppe e rincuorare i cittadini terrorizzati. La sera, dopo una cavalcata di miglia sotto una pioggia dirotta e insistente, ebbe un violento attacco di febbre reumatica. Il 10 e l’11 di aprile volle uscire di nuovo a cavallo, ma la sua fibra - già provata negli ultimi due mesi dalle fatiche e dal clima - non era ormai pii in grado di reggere a simili sforzi, e i medici cominciarono ad essere seriamente preoccupati, tanto che pensarono di imbarcarlo per Zante se le condizioni del mare lo avessero consentito. Il giorno 15 Byron era già grave. William Parry, in The Last Days of Lord Byron (Gli ultimi giorni di Lord Byron), riferisce: “...parlò con me delle mie avventure. Parlò anche di morte con grande compostezza, e per quanto non credesse che la sua fine fosse vicina c'era qualcosa in lui di così serio e fermo, di così rassegnato e composto, di così diverso da quanto avessi visto prima in lui, che la mia mente cominciò a temere, e a tratti mi parve di presentire la sua rapida dissoluzione”. I suoi discorsi cominciarono a farsi sconnessi. Fra le altre cose affermò che avrebbe desiderato tornare in Inghilterra per vivere con la moglie e la figlia Ada. Il giorno 18 delirava: in italiano e in inglese, immaginando forse l'attacco a Lepanto, gridava: “Avanti! Avanti! Coraggio! Seguite il mio esempio!”. E nel delirio più volte nominò la sorella, la moglie, la figlia, i luoghi dell'infanzia. Le sue ultime parole furono: “Ora devo dormire”. Morì il giorno dopo, lunedì 19 aprile 1824, alle sei e un quarto del pomeriggio.
Vittima di un mito creato da se stesso, eroe forse solo al momento in cui diviene vittima, Byron continuò dopo la morte ad essere o troppo ingiustamente lodato o troppo ingiustamente negato. Senza dubbio la sua figura umana si confonde con la sua opera e la domina come è raro che accada, e di fronte all'una e all'altra pare inevitabile una presa di posizione estrema: “ci si attendeva di trovare un poeta, e ci si trova di fronte a un uomo”. Rimane in ogni caso il fatto, come ha notato il Grierson [17], che l'Europa alla quale Byron si rivolgeva era disposta a comprendere e comprese meglio la sua violenza che “la metafisica di Shelley o i lumi che venivano da Wordsworth”' e che la poesia inglese “sarebbe di gran lunga più povera senza la voce appassionata ed essenzialmente umana, che declama in Araldo e scorre come un torrente in Don Juan”.