HENRI MURGER

SCÈNE DE LA VIE DE BOHÈME - 2
LA BOHÈME O GLI EROI DELLA MISERIA




IV.
ALI-RODOLFO, OSSIA Il TURCO PER NECESSITÀ

Colpito d'ostracismo, da un padrone di casa nemico dell'ospitalità, Rodolfo viveva da qualche tempo più errante delle nuvole, e perfezionava a tutta scuola l’arte di andare a letto senza cena. Il suo cuoco si chiamava Azzardo, ed il suo albergo era spesso quello della Bella-Stella.
Due cose però non abbandonavano mai Rodolfo in mezzo alle sue sventure, cioè il buon umore ed il manoscritto del ‘Vendicatore’, dramma che aveva fatto delle soste in tutti i teatri di Parigi.
Un giorno Rodolfo, condotto in prigione per aver ballato un po’ troppo sfacciatamente, si trovò faccia a faccia con un suo zio, certo signor Monetti, fumista, fabbricante di stufe e sergente della guardia nazionale, cui Rodolfo non aveva veduto da molto tempo.
Commosso per la disgrazia di suo nipote, lo zio Monetti promise di migliorare la sua condizione; e, vedremo come, se il lettore non ha paura di salire sei piani.
Prendiamo dunque la ringhiera e saliamo. Auf! Centoventicinque gradini! Eccoci arrivati. Un passo di più e siamo in camera, un altro e saremo usciti; l'appartamento è piccolo, ma è alto; del resto, buon'aria e bella vista.
La mobilia era composta di camini alla prussiana, due stufe, due fornelli economici ... (sopratutto quando non vi si accende fuoco), una dozzina di tubi di terra rossa ed un gran numero di apparecchi per riscaldare gli appartamenti. Citiamo finalmente, per finire l'inventario, un hamac sospeso a due chiodi piantati nel muro, un sedile da giardino, amputato d'una gamba, un candeliere e diversi altri oggetti d'arte e di fantasia.
Il balcone, durante la bella stagione, si trasformava in parco, grazie a due piccoli cipressi.
Nel momento in cui noi entriamo, l'inquilino, vestito come un turco in un'opera buffa, sta terminando una colazione, la quale offende sfacciatamente la legge del Profeta, il che è dimostrato da un ex-prosciutto e da una bottiglia piena di vino. Finito il pasto, il giovane turco si sdraiò per terra, all’orientale, e si mise a fumare negligentemente un narguillé marcato J-G [Pipa di gesso della fabbrica J. Gambier]. Nel tempo stesso in cui si abbandonava a questa asiatica beatitudine, accarezzava la schiena di un magnifico cane di Terranuova, il quale avrebbe certamente corrisposto alle sue carezze, se non fosse stato di terra cotta.
Tutt’ad un tratto si udì un rumore di passi nel corridoio, e l'uscio della camera si aprì, per lasciar passare un personaggio, il quale, senza proferir verbo, andò difilato presso una stufa che serviva di scrittoio, aprì lo sportello del forno, e tirò fuori un rotolo di carta, che esaminò con molta attenzione.
- Come? - gridò il nuovo arrivato, con accento piemontese - tu non hai ancora finito il capitolo delle ‘‘Ventose’’?
- Vi domando scusa, caro zio - rispose il turco - il capitolo delle ‘‘Ventose’’ è uno dei più importanti dell’opera, e vuol essere accuratamente studiato. Lo sto meditando.
- Ma, sciagurato, tu mi rispondi sempre la stessa cosa. Ed il capitolo dei ‘Caloriferi’? Dov'è ?
- Il ‘Calorifero’ va bene. Ma, a proposito, mio buon zio, se voi poteste darmi un po’ di legna, non mi farebbe male. Qui sono in una piccola Siberia. Ho tanto freddo che farei scendere il termometro sotto zero, soltanto guardandolo.
- Come? Hai già bruciato la fascina?
- Scusate, zio mio, vi sono fascine e fascinette, e la vostra era sì piccola!
- Ti manderò un ceppo economico... esso conserva il calorico.
- Sì! Ma appunto perchò lo conserva per sè, non ne manda fuori.
- Bene - disse il piemontese ritirandosi - ti farò portare su un po’ di legna, ma per domani voglio il mio capitolo sui ‘Caloriferi’.
- Quando avrò del fuoco, esso m’ispirerà - disse il turco, e lo zio lo chiuse in camera a chiave.
Se noi scrivessimo una tragedia, questo sarebbe il vero momento di far comparire il confidente. Egli avrebbe nome Nureddin, oppure Osmano; si accosterebbe al nostro eroe con un fare misterioso e protettore, e gli farebbe partorire dei versi.
Ma non dettiamo tragedie, e, per quanto sia grande il bisogno, facciamo a meno del confidente.
E poi il nostro eroe non è ciò che pare: il turbante non fa il turco. Questo giovanotto è il nostro amico Rodolfo, ospitato da suo zio, pel quale sta redigendo un manuale del ‘Perfetto fumista’.
Questo degno piemontese aveva fabbricato per suo uso e consumo un assioma che poteva tener compagnia a quello di Cicerone, e nei suoi momenti d'entusiasmo egli esclamava:
NON SI DIVENTA, MA SI NASCE FUMISTA.
Un giorno pensò formulare, per l'utilità dei posteri, un codice teorico sui principi dell'arte sua, nella quale era competentissimo, e scelse suo nipote, come abbiamo veduto, per pubblicare le sue idee in una forma che tutti potessero capire. Rodolfo aveva vitto, alloggio, ecc., ecc., e, finito il ‘‘Manuale’’, doveva ricevere trecento franchi di gratificazione.
Durante i primi giorni, il signor Monetti, per incoraggiare il nipote, gli aveva fatta un'anticipazione di cinquanta franchi. Ma Rodolfo, che da più di un anno non aveva posseduto simile somma, era uscito mezzo pazzo, in compagnia dei suoi scudi, ed era rimasto fuori tre giorni, ritornando a casa il quarto giorno soltanto... e solo!
Monetti, il quale aveva premura di vedere finito il suo ‘‘Manuale’’, perché voleva chiedere una privativa, temeva che il nipote facesse nuove scappate, e per obbligarlo a lavorare, pensò di metterlo nella impossibilità di uscire; quindi gli portò via tutti i suoi abiti, lasciandogli invece il vestito da maschera, col quale l'abbiamo veduto.
Nondimeno il ‘Manuale’ andava sempre pianino. Rodolfo non aveva nessuna delle attitudini necessarie per questo genere di letteratura. Lo zio si vendicava di questa indifferenza in fatto di camini, facendogli soffrire mille privazioni. Una volta gli diminuiva il pasto, un'altra, e questo succedeva più spesso, non gli dava tabacco da fumare.
Una domenica, Rodolfo, dopo aver sudato sangue ed acqua sul famoso capitolo delle ‘Ventose’, ruppe la penna che gli bruciava le dita, ed andò a passeggiare nel parco.
Quasi per irritarlo di più ed accrescergli la voglia di fumare, egli non poteva arrischiarsi a guardare d'intorno, senza vedere, a tutte le finestre una faccia di fumatore.
Al dorato balcone d'una casa nuova, un ‘lion’ in veste da camera, masticava tra' denti l’aristocratica ‘panatela’. Al piano disopra, un artista cacciava fuori la nebbia odorosa del tabacco di levante, che abbruciava in una pipa a beccuccio d'ambra. Alla finestra d'un caffè, un rubicondo tedesco, faceva spumeggiar la birra, sollevando nubi opache, da una pipa di Cudmer. Da un'altra parte gruppi di operai che se ne andavano fuori delle porte della città, passavano cantando col loro ‘gessino’ in bocca. Insomma, tutti i pedoni che riempivano la via, fumavano.
- Ahimè! - diceva invidiosamente Rodolfo - i camini di mio zio ed io siamo i soli che non fumiamo in tutto il creato!
E Rodolfo, colla fronte appoggiata alla ringhiera del balcone, pensò alle amarezze della vita.
Tutto ad un tratto un sonoro scoppio di risa si fece udire sotto di lui. Rodolfo si sporse un po’ in fuori per vedere donde usciva questo razzo di pazza allegria, e si accorse d'essere stato veduto dalla inquilina del piano disotto, madamigella Sidonia, prima donna del teatro del Lussemburgo.
Madamigella Sidonia s'avanzò sulla sua terrazza rotolando fra le dita, con sveltezza castigliana, un fogliettino di carta, pieno di tabacco biondo, che portava in una borsetta di velluto ricamato.
- Oh! la bella fumatrice! - mormorò Rodolfo con ammirazione contemplativa.
- Chi è questo Alì pascià? - pensava dal canto suo madamigella Sidonia.
E fra sè cercava un pretesto per discorrere con Rodolfo, che dal canto suo faceva altrettanto.
- Ah, Dio mio! - esclamò madamigella Sidonia, come parlando fra sè - che noia !... non ho fiammiferi!
- Signora, mi permettereste di offrirvene? - disse Rodolfo, lasciando cadere sulla terrazza due o tre fiammiferi involtati in un pezzetto di carta.
- Mille grazie! - rispose Sidonia accendendo la sua sigaretta.
- Dio mio, signora... - continuò Rodolfo - potrei ardire di domandarvi un cambio del piccolo servigio, che il mio buon angelo mi ha concesso di rendervi?
- Come? Egli domanda già? - pensò Sidonia guardando Rodolfo attentamente. - Ah... Questi turchi! si dice che siano volubili, ma molto piacevoli. Parlate, signore - diss'ella alzando la testa verso Rodolfo - che desiderate?
- Signora, io vi domanderei la carità di un po’ di tabacco; son due giorni che non fumo. Una pipata sola...
- Con molto piacere, signore. Come faremo? Datevi il disturbo di scendere un piano.
- Ahimè non mi è possibile !... Son chiuso in camera, ma mi resta la libertà di servirmi di un mezzo assai semplice - disse Rodolfo.
Egli attaccò la sua pipa ad una cordicella e la lasciò scivolare sulla terrazza: madamigella Sidonia la caricò ella stessa e con abbondanza. Poi Rodolfo si mise ad operare l'ascensione della pipa, adagio e con riguardo: gli arrivò sana e salva.
- Ah! signora - diss’egli a Sidonia - quanto mi sarebbe sembrata migliore questa pipa, se io avessi potuto accenderla al fuoco dei vostri occhi!
Era la centesima edizione di tale piacevolezza, ma madamigella Sidonia la trovò magnifica egualmente.
- Voi m'adulate! - si credette in dovere di rispondere.
- Vi assicuro, signora, che voi mi sembrate bella quanto le tre Grazie.
- Decisamente Alì pascià è galante - pensò Sidonia. - Siete voi turco davvero? - domandò ella a Rodolfo.
- Non per vocazione - rispose Rodolfo - ma per necessità. Io sono autore drammatico, signora.
- Ed io artista - rispose Sidonia. Ed aggiunse: - Mio signor vicino, volete farmi l’onore di venire a pranzo e passare la sera in casa mia?
- Ah! signora! benché la vostra offerta mi schiuda il cielo, m'è impossibile accettarla. Ho già avuto l'onore di dirvi, ch'io mi trovo chiuso in camera; è mio zio che mi tien carcerato, il signor Monetti fumista, del quale sono il segretario.
- Ah, ah, eppure pranzerete con me - rispose Sidonia - ascoltate bene: io entrerò in camera mia, e batterò nel soffitto. Al luogo dove io batterò, guardate bene e vedrete i segni di un buco che fu chiuso: trovate il modo di tirar fuori il mattone che chiude il foro; benché ciascuno in casa sua, noi saremo quasi insieme.
Rodolfo si mise immediatamente al lavoro, e dopo cinque minuti di sforzi, riuscì ad aprire la comunicazione fra le due camere.
- Ah - disse Rodolfo - il buco è piccolo, ma vi è spazio sufficiente per mandarvi il mio cuore.
- Adesso mettiamoci a pranzo. Preparate la tavola in casa vostra, io vi passerò i piatti.
Rodolfo lasciò calare nella camera di Sidonia il suo turbante attaccato ad una funicella e lo tirò su carico di vivande. Quindi il poeta e l'artista si misero a mangiare, ciascuno dal canto proprio. Rodolfo divorava coi denti il pasticcio, cogli occhi, Sidonia.
- Ahimè! disse Rodolfo finito il pranzo - grazie a voi, il mio stomaco è sodisfatto: non sazierete voi la fame del mio cuore che è digiuno da tanto tempo?
- Povero ragazzo! - disse Sidonia. E salita sopra un mobile, porse fino alle labbra di Rodolfo una mano, che questi coperse di baci.
- Che disgrazia! - disse Rodolfo - che voi non possiate imitare San Dionigi il quale aveva il diritto di portare in mano la propria testa!
Dopo pranzo incominciò una conversazione erotico-letteraria. Rodolfo parlò del suo ‘‘Vendicatore’’, e madamigella Sidonia lo pregò di darne lettura. Inginocchiato sull'orlo del buco, Rodolfo prese a declamare il dramma all’attrice, la quale, per qssere più vicina, s'era. seduta nella poltrona che aveva collocata sopra a un mobile. Madamigella. Sidonia dichiarò che il “Vendicatore” era un capolavoro, e, sccome ella aveva molte aderenze nel teatro, promise a Rodolfo di far rappresentare il suo dramma.
Nel momento più tenero della conversazione, lo zio Monetti fece sentire nel corridoio i suoi passi leggieri, come quelli del ‘Commendatore’.
Rodolfo ebbe appena il tempo di chiudere il buco del pavimento.
- Prendi - disse Monetti a suo nipote - è una lettera per te, la quale ti è stata scritta da un mese.
- Vediamo - disse Rodolfo. - Ah, zio mio! - egli esclamò dopo averla letta - zio mio, sono ricco! Questa lettera mi annunzia che ho guadagnato un premio di trecento franchi ad un’Accademia di giuochi. Presto, il mio vestito, la mia roba. Io non posso uscire in questa maniera.
- Tu non uscirai se non quando il mio ‘Manuale’ sarà finito - disse lo zio chiudendo in camera Rodolfo.
Rodolfo, rimasto solo, non esitò un monento sul partito da prendere.
Legò fortemente, a un ferro del balcone, un lenzuolo trasformato in corda a nodi, e ad onta del pericolo del tentativo, discese sulla terrazza di Sidonia.
- Chi è? - gridò Sidonia udendo battere ai vetri.
- Silenzio, aprite.
- Che volete? Chi siete?
- Potete domandarlo? Sono l'autore del “Vendicatore”, vengo a prendere il mio cuore che ho lasciato cadere in camera vostra.
- Sciagurato ragazzo! Potevate cadere!
- Ascoltatemi, Sidonia - continuò Rodolfo facendo vedere la lettera poco prima ricevuta. - Lo vedete: la gloria e le ricchezze mi sorridono: faccia altrettanto l'amore.
La mattina dopo, coll'aiuto di un travestimento mascolino procurato da Sidonia, Rodolfo potè fuggire dalla casa di suo zio. Egli volò dal corrispondente deli Accademia dei giuochi, e ricevette una rosa selvatica d'oro, della forza di cento scudi, che durarono press'a poco quanto la vita delle rose.
Un mese dopo il signor Monetti veniva invitato ad assistere alla prima rappresentazione del “Vendicatore”. Mercè il talento di Sidonia, il dramma ebbe diciassette rappresentazioni che fruttarono all'autore la cospicua somma di quaranta franchi.
Qualche tempo dopo, durante la bella stagione, Rodolfo stava sul viale di Saint-Cloud; egli abitava al terzo albero a sinistra, uscendo dal Bosco di Boulogne, al quinto ramo.

V.
LO SCUDO DI CARLOMAGNO

Verso la fine del mese di dicembre, i fattorini dell'Aministrazione Bidault furono incaricati di distribuire un centinaio circa di biglietti d'invito, dei quali ecco la copia autentica:

"Signore,
I signori Rodolfo e Marcello vi pregano onorare della vostra presenza la loro casa, sabato prossimo, vigilia di Natale. Si riderà.
Non si vive che una volta.
PROGRAMMA DELLA FESTA.
Parte prima:
Alle ore sette si apriranno le sale: conversazione viva ed animata.
Alle otto, ingresso e passeggiata nella sala degli spiritosi autori della Montagna partoriente, commedia rifiutata al teatro dell'Odéon.
Alle otto e mezzo, il distinto artista, signor Alessandro Schaunard, eseguirà sul pianoforte la famosa sinfonia imitativa: ‘L'influenza del blu sulle arti’.
Alle nove, prima lettura delle ‘Memorie’ sull'abolizione della tragedia.
Alle nove e mezzo, il signor Gustavo Colline, filosofo iperfisico, ed il signor Schaunard, intavoleranno una discussione di filosofia e politica comparata. (Allo scopo di evitare ogni possibile collisione fra i due antagonisti, saranno entrambi legati).
Alle dieci, il signor Tristan, letterato, racconterà i suoi primi amori. Il signor Schaunard l’accompagnerà sul pianoforte.
Alle dieci e mezzo, seconda lettura delle ‘Memorie’ sull'abolizione della tragedia.
Alle undici, racconto di un principe straniero su di una caccia al ‘casoar’.
Parte seconda:
A mezzanotte, il signor Marcello, pittore-storico, si farà bendare e schizzerà alla matita bianca l'incontro di Napoleone e Voltaire ai Campi Elisi. Il signor Rodolfo improvviserà pure un parallelo fra l'autore della ‘Zaira’ e il vincitore della battaglia d' Austerlitz.
A mezzanotte e mezzo, il signor Colline, pudicamente svestito, imiterà i giuochi atletici della quarta olimpiade.
Ad un'ora dopo mezzanotte, terza lettura delle ‘Memorie’ sull'abolizione della tragedia e questua a benefizio degli autori tragici, che un giorno si troveranno senza lavoro.
Alle due, apertura dei giuochi ed organizzazione delle quadriglie , che si prolungheranno fino al mattino.
Alle sei, levata del sole e coro finale.
Durante tutta la festa agiranno dei ventilatori.
N. B Chiunque volesse leggere o recitar versi, sarà immediatamente scacciato e consegnato ai gendarmi. Gli invitati sono vivamente pregati di rispettare gli avanzi delle candele."

Due giorni dopo, diverse copie di questo invito circolavano nella terza categoria della letteratura e delle arti, e vi suscitavano una profonda sensazione.
Però fra gl'invitati ve ne erano alcuni, che mettevano in dubbio le spiendidezze annunziate dai due amici. - Diffido assai - diceva uno degli scettici - andai qualche volta il mercoledì da Rodolfo, via della Tour d' Auvergne, non si poteva sedere che col pensiero e si beveva dell'acqua torbida. - Questa volta la cosa sarà seria. Marcello m'ha fatto vedere il programma della festa, e promette sarà di un effetto sorprendente. - Ci saranno donne? Sì: Femia Teinturière ha chiesto d'essere la regina della festa, e Schaunard deve condurvi alcune signore del gran mondo. Ecco in poche parole l’origine di quella festa, la quale destava tanto stupore nel mondo della bohème che vive al di là dei ponti. Da circa un anno, Marcello e Rodolfo avevano annunziato questa sontuosa festa, che doveva aver sempre luogo sabato prossimo; ma circostanze imprevedute avevano costretto la loro promessa a fare il giro di tutte le cinquantadue settimane, dimodoché erano giunti al punto di non poter più muovere un passo, senza inciampare in qualche ironia dei loro amici, fra i quali ce n'erano dei così indiscreti, da formulare energiche proteste. La cosa incominciava a prendere il carattere d'una tortura: allora i due amici risolsero di finirla, liquidando l'impegno assunto. Per questo motivo, essi avevano diramato l'invito che si è veduto. - Ora - disse Rodolfo - non possiamo più ritirarci; abbiamo abbruciate le nostre navi: abbiamo ancora otto giorni per trovare i cento franchi che ci sono indispensabili per far le cose bene. - Dal momento che ci vogliono, li avremo - rispose Marcello. E colla solita confidenza che avevano nel caso, i due amici si addormentarono, convinti che i loro cento franchi erano in viaggio: il viaggio dell'impossibile. Però, l'antivigilia del giorno fissato per la festa, vedendo che nulla ancora era arrivato, Rodolfo pensò che forse sarebbe stato più sicuro l'aiutare il caso, se non si voleva restare in piazza al momento di accendere i candelieri. Per facilitarne maggiormente l'esecuzione, i due amici modificarono progressivamente la suntuosità del programma, che s'erano imposti. Di modificazione in modificazione, dopo aver fatto subire molti tagli all'articolo rinfreschi, dopo avere accuratamente riveduto e corretto l'articolo dolci, il totale della spesa si trovò ridotto a soli quindici franchi. La questione era semplificata, ma non risolta. - Vediamo, vediamo - disse Rodolfo - bisogna ricorrere ai grandi mezzi: prima di tutto questa volta non possiamo far riposo.
- Impossibile! - rispose Marcello.
- Quanto tempo è oh' io ho udito il racconto della battaglia di Studzianka?
- Due mesi circa.
- Due mesi; bene, è un'onesta dilazione, mio zio non potrà lamentarsi. Anderò domani a farmi raccontare la battaglia di Studzianka... saranno cinque franchi. Questi sono sicuri.
- Ed io - disse Marcello - anderò a vendere il mio Castello abbandonato al vecchio Medici. Saranno altri cinque franchi. Se ho tempo di farci due torrette ed un mulino, ritrarrò forse dieci franchi, e avremo il danaro per il nostro preventivo.
I due amici si addormentarono e sognarono che la principessa Belgioioso li pregava di mutare i loro giorni di ricevimento per non costringerla a cambiare i suoi.
Marcello, svegliatosi assai di buon'ora, prese una tela e si mise presto presto a fabbricare un Castello abbandonato, soggetto che un rigattiere della piazza del Carrousel gli chiedeva particolarmente.
Rodolfo, dal canto suo, andò a trovare suo zio Monetti, il quale si compiaceva nel racconto della ritirata di Russia. Rodolfo, cinque o sei volte all'anno e nelle più gravi circostanze, gli procurava la gioia di raccontare le sue campagne, mediante un po’ di denaro che il fumista veterano non gli disputava troppo, quando sapeva dimostrare un grand'entusiasmo al racconto delle sue imprese.
Verso le due, Marcello, a fronte bassa e con un quadro sotto il braccio, incontrò sulla piazza del Carrousel il suo amido Rodolfo, che ritornava da suo zio: la sua attitudine annunziava una cattiva notizia.
- Ebbene - domandò Marcello - sei riuscito?
- No: mio zio è andato a Versailles a vedere il museo :e tu? - Quell'animale di Medici non vuol più Castelli abbandonati: egli mi ha chiesto il Bombardamento di Tangeri.
- Noi perdiamo la riputazione, se non diamo la nostra festa - mormorò Rodolfo. - Che penserà mai il mio amico, il critico influente, - se gli faccio mettere per nulla una cravatta bianca e guanti gialli?
Ritornarono tutti e due allo studio, in preda a viva inquietudine.
In quel momento, suonarono le quattro all’orologio d'un vicino.
- Non abbiamo più che tre ore per noi - disse Rodolfo.
- Ma - esclamò Marcello accostandosi al suo amico sei tu sicuro, proprio sicuro, che non ci sia più danaro in casa? eh!
- Nè in casa, né altrove. Da dove mai potrebbe scaturire?
- Se guardassimo sotto i mobili... nelle sedie? Si dice che ai tempi di Robespierre, gli emigrati nascondessero i loro tesori. Chi sa? La nostra sedia a braccluoli appartenne forse ad un emigrato; è così dura, che ho pensato spesso esservi dentro del metallo. Vuoi farle l’autopsia?
- Quest’è comico - disse Rodolfo con tono severo, ma indulgente.
Tutt’ad un tratto Marcello, che aveva continuato le sue ricerche in tutti i canti dello studio, mandò un grido di trionfo.
- Siamo salvi! Io ero sicuro che c’erano dei valori qui dentro! Prendi... guarda!
Ed egli faceva vedere a Rodolfo una moneta grande come uno scudo, corrosa a metà dalla ruggine e dal verderame.
Era una moneta Carlovingia di qualche valore artistico. Nell'iscrizione ben conservata, si leggeva la data del regno di Carlomagno.
- Questa vale trenta soldi - disse Rodolfo dando uno sguardo di sprezzo alla moneta ritrovata dal suo amico.
- Trenta soldi bene spesi fanno molto effetto - rispose Marcello. - Bonaparte ha fatto miracoli con mille e duecento uomini. L'abilità compensa il numero. Vado a cambiare lo scudo di Carlomagno; vado dal Medici. Non c'è niente da vendergli qui! Ma, per esempio, se portassi via il modello del tibia di Jaconowiacki, il tamburo maggiore russo!! Esso accrescerebbe il volume.
- Porta via il tibia. È desolante! Non ci resterà più neppure un solo oggetto d’arte!
Mentre Marcello era assente, Rodolfo, deciso a dare la sua festa a qualunque costo, andò a trovare il suo amico Colline, il filosofo iperfisico, che stava di casa lì presso.
- Vengo a pregarti di farmi un piacere - gli disse. Nella mia qualità di padrone di casa, bisogna assolutamente che io abbia un abito nero, ed... io non ne ho... prestami il tuo.
- Ma - rispose esitando Colline - nella mia qualità d'invitato, ho anch’io bisogno dell'abito nero.
- Ti permetto di venire in redingote.
- Tu sai bene che io non ho mai avuto redingote.
- Bene, ascolta; la cosa può accomodarsi altrimenti. In caso di bisogno, tu potresti anche non venire alla mia festa, e prestarmi il tuo abito nero.
- Tutto ciò non può stare; dal momento che figuro sul programma, non voglio mancare.
- Mancherà ben altro - rispose Rodolfo. - Prestami il tuo abito nero, e se vuoi venire, vieni come vuoi... in maniche di camicia... ti farò passare per un servitore fedele.
- Oh no! - disse Colline arrossendo. - Metterò il mio soprabito color nocciuola. Ma ad ogni modo ciò mi dispiace.
E vedendo che Rodolfo si era già impossessato del famoso abito nero, gridò:
- Ma aspetta, aspetta. C'è dentro qualche cosetta.
Il vestito di Colline merita una speciale menzione. Prima di tutto, quell'abito era completamente azzurro e, solo per abitudine, Colline lo chiamava il suo abito nero. Siccome egli era il solo di tutta la compagnia che possedesse un vestito, così gli amici avevano preso anch'essi l'abitudine di chiamare vestito ufficiale del filosofo... l'abito nero di Colline. Questo celebre vestito aveva inoltre una forma particolare e molto bizzarra: le falde erano lunghissime ed attaccate ad un taglio cortissimo; esse possedevano due saccoccie, veri abissi, nei quali Colline aveva l'abitudine di tenere una trentina di volumi, che portava ordinariamente con sè. Ciò faceva dire ai - suoi amici, che durante la chiusura delle biblioteche, i sapienti ed i letterati potevano continuare i loro studi nelle falde dell'abito di Colline, biblioteca ambulante, sempre aperta ai lettori.
Per un caso straordinario, quel giorno l'abito di Colline non conteneva se non un volume in quarto di Bayle, un trattato delle facoltà iperfisiche in tre volumi, un torno di Condillac, due volumi di Swedenborg, ed il Saggio sull'uomo di Pope. Quando ebbe sbarazzato il suo vestito-biblioteca, egli permise a Rodolfo di indossarlo.
- Oh bella! - disse questi - la tasca sinistra è ancora assai pesante.
- Ah! è vero! - disse Colline - ho dimenticato di vuotare la tasca delle lingue straniere.
E levò due grammatiche arabe, un dizionario malese ed un trattato sull'allevamento dei buoi, in chinese: quest'era la sua lettura favorita.
Allorché Rodolfo ritornò a casa, trovò Marcello che giuocava alle piastrelle con vari pezzi da cinque franchi. Sul principio, Rodolfo respinse la mano che il suo amico gli porgeva: sospettava un delitto.
- Facciamo presto, facciamo presto - disse Marcello. - Noi abbiamo i quindici franchi necessari. Senti come li ho avuti. Là dal Medici ho trovato un antiquario. Quando ebbe veduto la mia moneta, stette per svenire: era la sola che mancasse al suo medagliere. Mandò in tutti i paesi del loboer trovarla; invano... aveva perduto ogni speranza. Quand’ebbe bene esaminato il mio scudo di Carlomagno, non esitò un momento ad offrirmi cinque franchi. Medici mi diede nel gomito ed il suo sguardo compì la frase. Egli voleva dire: "Dividiamo il guadagno, ed io vi terrò di balla. Così salimmo fino a trenta franchi. Ne diedi quindici all'ebreo, ed il resto è qui. Adesso i nostri invitati possono arrivare: siamo in grado di far loro venire le traveggole. Come, tu hai un vestito nero, tu?
- Sì - disse Rodolfo - l'abito nero di Colline.
E frugato nelle tasche per prendere il fazzoletto da naso, ne fece uscire un piccolo volume dimenticato nella tasca delle lingue straniere.
I due amici cominciarono immediatamente a fare i preparativi. Misero in ordine lo studio: accesero il fuoco nella stufa: un telaio ornato di candele steariche fu sospeso al soffitto come lumiera: posero una tavola da scrivere, in mezzo allo studio, perché servisse di tribuna agli oratori, e davanti ad essa collocarono l'unica sedia a bracciuoli che doveva servire al critico influente. Tutti i volumi, romanzi, poemi, appendici dei vari autori, che dovevano onorare di loro presenza la festa, furono disposti in bell’ordine sulla tavola. Affine poi di evitare ogni specie di collisione fra i differenti corpi di letterati, lo studio fu diviso in quattro sezioni, all’ingresso di ciascuna delle quali si leggeva scritto su quattro cartelli improvvisati:
Sezione dei Poeti
Romantici
Sezione dei Prosatori
Classici
Le signore dovevano occupare uno spazio destinato nel centro.
- Ah! ma noi manchiamo di sedie - disse Rodolfo.
- Oh - rispose Marcello - ce ne sono molte sul pianerottolo, appese al muro. Prendiamole!
- Certamente; bisogna impossessarsene - rispose Rodolfo andando a prendere quelle sedie, che appartenevano a qualche vicino.
Suonarono le sei; i due amici andarono a pranzo in tutta fretta, e ritornarono subito per illuminare la sala. Essi stessi, ne rimasero abbagliati. A sette ore arrivò Schaunard accompagnato da tre signore, che avevano dimenticato di prendere i loro diamanti ed i loro cappellini. Una di esse, aveva uno scialle rosso, macchato di vino. Schaunard la mostrò particolarmente a Rodolfo.
- È una signora molto per bene - diss’egli - è una - inglese, che dopo la caduta degli Stuardi è condannata all'esilio; ella vive modestamente dando lezioni d’inglese. Suo padre fu cancelliere sotto Cromwell, com’ella mi disse; bisogna essere cortese con lei; non darle troppo del tu.
Il rumore dei passi di molte persone si udirono per le scale: erano gl'invitati che arrivavano: essi rimasero stupiti nel vedere del fuoco nella stufa.
Rodolfo, vestito di nero, andava incontro alle signore, e baciava loro la mano con una grazia tutto affatto régence; allorché vi furono una ventina di persone, Schaunard chiese se si mandava in giro qualche bibita.
- A momenti - rispose Marcello - aspettiamo che arrivi il critico influente per accendere il ponce.
A otto ore, tutti gli - invitati erano presenti, e si incominciò ad eseguire il programma. Ciascun divertimento era alternato con un giro di qualche cosa. Non si seppe mai cosa fosse.
Verso le dieci, si vide comparire la bianca sottoveste del critico influente; egli non si fermò che un'ora, e fu assai sobrio nell’accettare qualche cosa.
A mezzanotte, siccome non c'era più legna, e il freddo era intenso, gli invitati (quelli che stavano seduti) tirarono a sorte chi getterebbe sul fuoco la propria sedia.
- Ad un'ora, tutti erano in piedi.
Un'amabile allegria non cessò di regnare tra gli invitati. Non si ebbe a lamentare alcun sinistro accidente, se non uno strappo fatto alla tasca delle lingue straniere del vestito di Colline, ed uno schiaffo che Schaunard diede alla figlia del cancelliere di Cromwell.
Questa memorabile serata fu l'oggetto della cronaca del quartiere per otto giorni. Femia Teinturière, che era stata la regina della festa, aveva l'abitudine di dire,parlandone alle sue amiche:
- Era fieramente bella; c'erano perfino delle candele steariche, cara mia!

VI.
MADAMIGELLA MUSETTE

Madamigella Musette era una bella ragazza di vent'anni, la quale, non appena arrivata a Parigi, era divenuta... ciò che diventano le belle ragazze quando hanno la vita sottile, molta civetteria, un po’ di ambizione e poca ortografia. Dopo essere stata per molto tempo la delizia delle scene del quartiere Latino, dov'ella cantava (con una voce sempre fresca, se non sempre intonata) un gran numero di canzoni campagnuole, le quali le meritarono il nome sotto il quale fu poi celebrata dai più squisiti gioiellieri della rima; madamigella Musette, diciamo, abbandonò improvvisamente la via dell'Arpa, per andar ad abitare le alture del quartiere Breda. Non tardò a diventare una delle ‘lionnes’ dell’aristocrazia del piacere, e s'incamminò, a poco, a poco, verso quella celebrità, che consiste nell'essere citata nei giornali eleganti di Parigi, o litografata dai negozianti di stampe.
Madamigella Musette, però, era un'eccezione fra le donne in mezzo a cui viveva. Natura elegante e poetica per istinto, come lo sono tutte le donne veramente donne, amava il lusso e tutti i piaceri ch'esso procura; la sua ambizione provava ardenti desideri per tutto ciò che è bello e distinto.
Figlia del popolo, ella non si sarebbe trovata imbarazzata in mezzo alle sontuosità principesche. Ma madamigella Musette, che era bella e giovane, non avrebbe mai acconsentito di essere l’amante di un uomo che, come lei, non fosse stato giovane e bello.
Una volta respinse le magniche offerte di un vecchio così ricco che lo chiamavano il Perù della Chaussée-d’Antin, il quale aveva messo ai piedi dei suoi capricci una scala d'oro. Spiritosa ed intelligente, detestava gli sciocchi ed i fatui, qualunque fosse la loro età, il loro titolo e il loro nome.
Musette dunque era una brava e bella ragazza, la quale adottava, in amore, la metà del celebre assioma di Champfort:
L’AMORE È LO SCAMBIO DI DUE CAPRICCI.
Perciò le sue relazioni non furono mai precedute da uno di quegli schifosi contratti, che disonorano la moderna galanteria. Come diceva ella stessa, giuoava un giuoco leale, e voleva le si corrispondesse con altrettanta sincerità.
Ma se i suoi capricci erano vivi e spontanei, essi non avevano mai una vita abbastanza lunga per arrivare all’altezza di una passione. La mobilità eccessiva dei suol capricci, e la poca cura ch'ella si dava di esaminare la borsa e le scarpe di coloro che le volevano fare la corte, cagionavano gravi cambiamenti nella sua esistenza, la quale era una perpetua alternativa di coupés blu e di omnibus, di primi e sesti piani, di vestiti di seta e di cotone. Oh, incantevole ragazza i sagoma vivente della gioventà, dal riso sonoro e dall’allegro canto! Oh cuore pietoso, palpitante per tutti senza il secondo fine del guadagno! oh madamigella Musette! Degnissima sorella di Bernerotte e di Mimì Pinson! Ci vorrebbe la penna di Alfredo de Musset per cantare degnamente la tua corsa vagabonda e spensierata pei fioriti sentieri della giovinezza! Certo, egli avrebbe voluto illustrarti com’esse, se ti avesse udito qual io ti udii, cantare colla tua voce, stonata sì, ma bella, il rustico ritornello della canzone a te favorita.
La storia che noi raccontiamo è uno dei più cari episodi della vita di questa gentile avventuriera, la quale mandò tante volte al diavolo i pregiudizi.
Nel tempo in cui era l'amica d'un giovane consigliere di Stato, che le aveva dato in mano la chiave del suo patrimonio, madamigella Musette aveva l'abitudine di dare ricevimento una volta la settimana nelle sue belle sale della via La Bruyère. Quelle serate rassomigliavano alla più gran parte delle serate parigine, colla differenza che là gli invitati si divertivano. Quando non c’era più posto, essi sedevano l'un sull'altra, e succedeva spesso che un bicchiere serviva ad una coppia. Rodolfo, ch’era amico di Musette e che non le fu mai altro se non amico (nè l’uno né l'altra non seppero mai perché), domandò un giorno a Musette il favore di presentarle il suo amico Marcello, un giovane di talento al quale l’avvenire stava ricamando un abito d’accademico.
- Conducetelo pure da me rispose Musette.
La sera in cui essi dovevano recarsi insieme da Musette, Rodolfo salì a prenderlo nella sua camera: stava facendosi toilette.
- Come? - disse Rodolfo - tu vai in conversazione con una camicia di colore?
- Offendo forse la moda? - rispose tranquillamente Marcello.
- Come? Se tu l'offendi? A morte, a morte, tu l’offendi, o sciagurato! -
- Diavolo - disse Marcello guardandosi la camicia (la quale era a fondo blu, con quadri rappresentanti una caccia ai cinghiali, inseguiti da cani, ecc.) - il guaio si è che qui non ne ho altre. Ah bah! che fare? Mi metterò un colletto bianco, e siccome Matusalemme si abbottona fino al collo, non si vedrà la mia biancheria.
- Come? - disse Rodolfo inquieto - indosserai ancora Matusalemme ?
- Ahimè? - rispose Marcello - È forza! Dio ed il mio sarto lo vogliono! Del resto, esso ha i bottoni nuovi e l'ho rammendato poco fa io stesso, abbastanzabene.
Matusalemme era l'abito di Marcello; gli aveva dato quel nome, perché era il veterano della sua guardaroba.
Matusalemme era fatto all'ultima moda di quattr’anni prima: era d'un color verde scuro, ma Marcello assicurava, che veduto al lume di candela, sembrava nero.
In cinque minuti Marcello fu pronto: egli era vestito col più perfetto cattivo gusto: toilette di pittoruccio che va in conversazione.
Scommette almeno dieci contro uno, che i Francesi non furono tanto stupiti dal colpo di Stato del 2 dicembre, quanto lo furono Marcello e Rodolfo arrivando alla casa di Musette. Ecco la causa del loro stupore. Madamigella Musette, la quale da qualche tempo trovavasi in collera col suo consigliere di Stato, era stata da lui abbandonata in una circostanza assai grave. Perseguitata e citata in giudizio dai creditori e dal padrone di casa, i suoi mobili furono sequestrati e portati nel cortile, per essere venduti il domani. Malgrado questo incidente, madamigella Musette non ebbe, neppure per un istante, l'idea di mancar di parola ai suoi invitati, e non fece dare alcun contr'ordine. Anzi, con tutta gravità, fe’ disporre il cortile come una sala e mettere un tappeto per terra; preparò tutto, come di consueto, si vestì per ricevere, ed invitò tutti gli inquilini della casa alla sua festa, alla quale Dio nella sua bontà, volle contribuire con una splendida illuminazione.
Questa pazzia fece un gran furore; le serate di Musette non furono mai tanto allegre, tanto vivaci. Gl’invitati ballavano e cantavano ancora, quando vennero i facchini a prendere mobili, tappeto, divani, ed allora la compagnia fu costretta a ritirarsi.
Musette accompagnò tutti i suoi invitati cantando.
Marcello e Rodolfo rimasero soli con Musette, che era salita in camera sua, dove non c'era più altro che il letto.
- Riflettendoci bene, la mia avventura non è poi molto allegra - disse Musette - bisognerà che me ne vada ad alloggiare all'albergo della Stella. Lo conosco già quell'albergo: non manca di correnti d'aria.
- Ah, signora - disse Marcello - s’io avessi le ricchezze di Pluto, vorrei offrirvi un tempio più splendido di quello di Salomone. Ma...
- Voi non siete Pluto, amico mio. Non importa; vi sono riconoscente della buona intenzione. Ah, bah! - soggiunse guardando il suo appartamento - io m'annoiavo qui dentro,
poi i mobili erano vecchi. Sono quasi sei mesi che li avevo! Ma ciò non è tutto; dopo il ballo si cena, mi pare.
- Ceniamo - rispose Marcello.
Siccome Rodolfo aveva vinto la mattina stessa un po’ di danaro al giuoco, condusse Musette e Marcello da un trattore, che apriva allora bottega.
Dopo colazione i tre amici, che non avevano volontà di andare a dormire, progettarono di finire la giornata in campagna. Si trovavano presso la strada ferrata: montarono dunque nel primo treno per Saint-Germain, e partirono.
Corsero pei boschi tutto il giorno, e non ritornarono a Parigi che a sette ore di sera, a dispetto di Marcello, il quale sosteneva che non poteva essere se non mezzogiorno, e che, se era oscuro, ciò dipendeva dal cielo, coperto di nubi.
Durante tutta la notte della festa e tutto il dì successivo, Marcello, che aveva il cuore come il salnitro, e s'infiammava al primo sguardo, s'era invaghito di madamigella Musette, e le aveva fatto una corte colorata, come egli diceva a Rodolfo. Aveva perfino offerto alla bella ragazza di comprarlo dei mobili più belli dei suoi vecchi, e ciò col ricavato della vendita del famoso quadro, il ‘Passaggio del mar Rosso’.
L’artista quindi vedeva con dispiacere avvicinarsi il momento, in cui avrebbe dovuto staccarsi da Musette, la quale poi, mentre gli permetteva di baciarle le mani, il collo e diversi altri accessori, si limitava a respingerlo con bontà quando tentava di parlarle al cuore.
Arrivando a Parigi, Rodolfo lasciò il suo amico colla ragazza, la quale pregò l'artista di accompagnarla a casa.
- Mi permetterete di venirvi a vedere? - domandò Marcello - vi farò il ritratto.
- Caro mio; non posso darvi il mio indirizzo perché domani non ne avrò più neppur io; però verrò io a visitarvi e vi accomoderò il vestito che ha un buco sì grande da lasciarvi sloggiare senza pagare il fitto.
V'aspetterò come il Messia - diss’egli.
Non tanto tempo però - disse Musette ridendo.
- Che amabile ragazza! - diceva Marcello andandosene adagio adagio - è la dèa dell'allegria. Farò due buchi al mio vestito.
Non aveva fatto ancora trenta passi, che sentì battersi sulle spalle: era Musette.
- Mio caro signor Marcello - gli disse - siete voi un vero cavaliere?
- Lo sono; Rubens è la mia dama: ecco la mia divisa.
- Ebbene, ascoltate la mia sciagura e abbiate pietà di me, nobile signore rispose Musette la quale, benché sulla grammatica si abbandonasse ad orribili stragi, nondimeno aveva una tinta di letteratura. - Il padrone di casa ha portato via la chiave del mio appartamento e sono undici
ore di sera; capite?
- Capisco - rispose Marcello offrendo il braccio a Musette.
Egli la condusse al suo studio, posto allora sulla Ripa dei fiori. Musette cascava dal sonno; ma ebbe abbastanza forza per dire a Marcello:
- Rammentatevi ciò che mi avete promesso.
- O Musette, ragazza adorabile - disse l'artista con voce commossa - voi siete sotto un tetto ospitale; dormite in pace, buona notte; io... me ne vado;
- Perché? - disse Musette ad occhi chiusi - io non ho paura, v'assicuro; vi sono due camere, io starò sul canapè.
- È troppo duro per dormirvi; è pieno di sassi scardassati. Vi do l'ospitalità in casa mia, e io vado a domandarla ad un amico, che abita qui sul mio pianerottolo; è più prudente. Ho l'abitudine di mantenere la parola, ma ho ventidue anni, e voi ne avete diciotto, o Musette; e... io me ne vado. Buona notte.
La mattina dopo alle otto, Marcello entrò in camera sua con un vaso di fiori, che aveva comperato al mercato: trovò Musette che si era coricata vestita e che dormiva ancora. Udendo il rumore ch'egli fece entrando, si svegliò e gli porse la mano.
- Bravo ragazzo - diss’ella.
- Bravo ragazzo! - ripeté Marcello - non è questo un sinonimo di ridicolo?
- Oh! perché dite così? Non siete amabile! Invece di dirmi delle cattiverie, regalatemi quel vaso di fiori.
- L'ho portato difatti con questa intenzione. Prendetelo dunque, ed in ricompensa dell'ospitalità, cantatemi una delle vostre belle canzonette; l'eco della mia soffitta conserverà qualche cosa della vostra voce, ed io vi sentirò ancora allorché non sarete più qui.
- Ah! voi dunque volete mettermi alla porta! E se non volessi andarmene? Sentite, Marcello, io non mendico frasi per esprimere il mio modo di pensare. Voi mi piacete, ed io vi piaccio. Ebbene, non me ne andrò: sto qui e ci starò fin tanto che i fiori che mi avete regalato non appassiranno.
- Oh! - gridò Marcello - fra due giorni essi saranno avvizziti! Se l’avessi saputo, avrei comperato della sempreviva!
Da quindici giorni Musette e Marcello vivevano insieme, e facevano la più bella vita del mondo, quantunque spesso si trovassero senza un soldo. Musette provava per l'artista una tenerezza che non aveva nulla di comune colle sue precedenti passioni, e Marcello incominciava a temere di esserne seriamente innamorato. Non sapendo che anch'ella temeva d'essere innamorata, egli guardava ogni mattina quale fosse lo stato dei fiori, la morte dei quali doveva produrre la rottura della loro relazione. Non sapeva spiegarsi come per tanti giorni si conservassero freschi. Ma in breve, però, ebbe la chiave del mistero. Una notte, svegliandosi, non trovò più Musette accanto a sè. Si alzò e vide nell'altra stanza la sua amante, che approfittando del di lui sonno, si era alzata per annaffiare i fiori e impedire così che morissero.

VII.
LE ONDE DEL FIUME D'ARGENTO

Era il 19 marzo... Se dovesse toccare l'età del signor Raoul-Rochette, il quale ha veduto fabbricare Ninive, Rodolfo non dimenticherà mai questa data, poiché fu in quel giorno, festa di San Giuseppe, a tre ore dopo mezzogiorno, che il nostro amico usciva dalla casa di un banchiere, dove aveva ricevuto cinquecento franchi in monete suonanti ed aventi corso.
Il primo uso che Rodolfo fece di questa frazione di Perù che gli era caduta in tasca, fu quello di non pagare i suoi debiti, poiché si era promesso di fare economia e di non tentar nulla di extra. D'altra parte, a questo proposito aveva delle idee estremamente fisse, e diceva che prima di pensare al superfluo bisognava occuparsi del necessario, motivo per cui non pagò i suoi creditori, e comprò una pipa turca, che da lungo tempo desiderava.
Munito di questo acquisto, si diresse verso l'abitazione di Marcello, il quale l'ospitava da lungo tempo. Entrando nello studio dell'artista, le tasche di Rodolfo suonavano come un campanile da villaggio in giorno di festa solenne. Udendo questo rumore insolito, Marcello pensò che fosse uno dei suoi vicini, gran giuocatore di Borsa, il quale passasse la rivista dei suo guadagni d’aggiotaggio, e mormorò:
- Ecco! quest’intrigante ricomincia i suoi epigrammi. Se questa storia deve continuare, cambierò casa. Non si può lavorare con un fracasso simile. E una cosa che ti fa venir la voglia di lasciare la professione. di artista e diventare ladro.
E Marcello, non sospettando che il suo amico Rodolfo si fosse trasformato in Creso, si rimise al suo quadro del ‘Passaggio del mar Rosso’, che stava sul cavalletto da quasi tre anni.
Rodolfo, il quale non aveva emesso parola, ruminando un’esperienza che voleva fare sul suo amico, diceva fra sè:
- Vedremo se si riderà sì o no. Dio che allegria! e lasciò cadere per terra un pezzo da cinque franchi.
L'artista alzò gli occhi e guardò Rodolfo, il quale era serio come un articolo della ‘Revue des deux Mondes’.
L'artista raccolse la moneta con un'aria molto sodisfatta, e fece gratissime accoglienze. Quantunque pittore, egli sapeva star nel mondo, ed era gentilissimo coi forestieri. Marcello, del resto, sapendo che Rodolfo era uscito per cercare del danaro, e vedendo che il suo amico vi era riuscito, si limitò ad ammirare il risultato, senza chiedergli coll'aiuto di quali mezzi l'avesse ottenuto.
Senza dir parola, si rimise al suo lavoro e finì di annegare un egizio nei flutti del mar Rosso. Ma mentre compiva quest’omicidio, Rodolfo lasciò cadere un altro pezzo da cinque franchi. Ed osservando quale faccia avrebbe fatto il pittore, se la rideva sotto i baffi.
Al sonoro rumore del metallo, Marcello, quasi colpito da scossa elettrica, s'alzò d'un tratto, esclamando:
- Come? C’è una seconda strofa?...
- Una terza moneta rotolò sul pavimento, poi un'altra, poi un'altra ancora, infine tutta una quadriglia di scudi si mise a ballare per la camera.
Marcello incominciava a dar segni visibili di alienazione mentale, e Rodolfo rideva come la platea del Teatro Francese alle prime rappresentazioni della tragedia: ‘Giovanna di Fiandra’.
Improvvisamente, e senza riguardi, Rodolfo prese a piene mani il danaro nelle tasche, e gli scudi incominciarono una pioggia favolosa. Era uno straripamento del fiume d'argento? il baccanale di Giove che entra in casa di Danae.
Marcello era immobile, muto, lo sguardo fisso; lo stupore operava a poco a poco su lui una metamorfosi eguale a quella, di cui una volta la curiosità rese vittima la moglie di Loth. Nel momento in cui Rodolfo gettava per terra il suo ultimo pugno di scudi, l'artista aveva già tutto un fianco di sale. Senza esagerazione.
Rodolfo rideva talmente, che, accanto a quella tempestosa ilarità, i suoni di un'orchestra di Sax, sarebbero sembrati sospiri di bambini lattanti.
Abbagliato, strangolato, stupidito dall’emozione, Marcello credette di sognare. Per scacciare quell’incubo che lo assediava, si morse a ,sangue un dito, ed il dolore gli fece gettare un grido.
Allora s’accorse d’essere sveglio, e vedendo che egli calpestava tanto danaro, esclamò come nelle tragedie:
Che vedo io mai? - Poi aggiunse prendendo la mano di Rodolfo: - Spiegami. questo mistero.
- Se te lo spiegassi non sarebbe più un mistero.
- Ma infine ?...
- Quest'oro è il frutto dei miei sudori - disse Rodolfo raccogliendo il danaro, che pose su di una tavola.
Poi se ne allontanò alcuni passi, e guardandolo rispettosamente, diceva:
- Ora potrò finalmente realizzare i miei sogni.
- Non ci deve mancar molto ai seimila franchi - diceva Marcello contemplando gli scudi che brillavano sulla tavola. E pensava: - Ho un'idea! Incaricherò Rodolfo di comprare il mio ‘Passaggio del mar Rosso’.
Tutt’ad un tratto, Rodolfo prese una posa teatrale, e con grande solennità nella voce e nel gesto, disse enfaticamente all'artista:
- Odimi, Marcello: la ricchezza che ho fatto brillare ai tuoi occhi, non è il risultato di vili raggiri; io non ho fatto mercato della mia penna; sono ricco, ma onesto; quest'oro mi fu dato da mano generosa, ed io ho giurato di impiegarlo ad acquistare col lavoro una posizione seria come si conviene ad un uomo virtuoso. Il lavoro è il più santo dei doveri...
- Ed il cavallo è il più nobile degli animali - disse Marcello interrompendo Rodolfo. - Ma che cosa significa questo discorso? Da dove levi questa prosa? Dalle cave del buon senso, senza dubbio.
- Non interrompermi e frena i tuoi scherzi riprese molto seriamente Rodolfo - essi si spunterebbero contro la corazza di una invulnerabile volontà, di cui sono oramai rivestito.
- Oh Dio! basta, basta di questo prologo; dove vuoi arrivare?
- Ecco quali sono i miei progetti. Trovandoci al coperto dalle noie materiali della vita, voglio lavorare assiduamente, finirò la mia grand'opera e mi farò un largo seggio nella pubblica opinione. Prima di tutto rinunzio alla bohème; mi vestirò come gli altri, mi farò un abito nero, ed entrerò nel gran mondo. Se tu vuoi imitarmi, continueremo ad abitare insieme, ma bisogna che tu adotti il mio programma. La più stretta economia regolerà la nostra esistenza. Regolandoci, abbiamo davanti a noi tre mesi di lavoro assicurato senz'alcun pensiero. Ma ci vuole economia.
- Amico mio - disse Marcello - l'economia è una scienza alla portata dei ricchi soltanto, ma né io, né tu, non ne conosciamo neppure i primi elementi. Nondimeno, facendo un’anticipazione di fondi di sei franchi, compreremo le opere di Giovanni Battista Say, il quale è un distintissimo economista, ed egli c’insegnerà forse il modo di mettere in pratica quest’arte... To! ma tu hai una pipa turca?
- Sì, l’ho pagata venticinque franchi.
- Come? tu spendi venticinque franchi per una pipa, e mi vieni a parlar di economie.
- Questa è proprio economia. Io rompevo tutti i giorni una pipa di due soldi, alla fine dell'anno questa spesa saliva ad una somma assai maggiore di quella che ho fatto. In realtà dunque è un’economia.
- In complesso - disse Marcello - hai ragione: io non l'avrei pensato.
In quel momento un orologio vicino suonò le sei.
- Andiamo a pranzo presto - disse Rodolfo - voglio mettermi al lavoro subito stasera. Ma a proposito di pranzo, faccio una riflessione: noi perdiamo tutti i giorni un tempo prezioso nel far la nostra cucina; ora il tempo è ricchezza di chi lavora, dunque bisogna economizzarlo; incominciando da oggi mangeremo fuori.
- Sì - disse Marcello. - A venti passi da casa c’è un trattore eccellente; è un po’ caro, ma siccome è vicino, la corsa sarà meno lunga, e noi ci indennizzeremo col risparmio del tempo.
- Vi andremo oggi; ma domani, o dopo, cercheremo di adottare un’altra misura ancor più economica. Invece d’andare dal trattore, prenderemo una cuoca.
- No, no - disse Marcello - prendiamo piuttosto un servitore, il quale nello stesso tempo sarà anche cuoco. Guarda che immensi vantaggi ne avremo. In primis, la nostra casa sarà sempre in ordine, egli darà il lucido alle nostre scarpe, laverà i miei pennelli, farà le nostre commissioni; io tenterò di inculcargli il gusto delle arti belle, e lo farò mio aiutante. In questo modo risparmieremo almeno sei ore al giorno fra tutti e due e potremo invece dedicarle al lavoro.
- Ah! - disse Rodolfo - io ho bene un’altra idea, io; ma andiamo a pranzo.
Cinque minuti dopo, i due amici erano a tavola in un gabinetto del vicino trattore, e continuavano a parlare di economia.
- Ecco qui la mia idea: se invece di prendere un servitore, noi pigliassimo una cameriera? - disse Rodolfo.
- Una cameriera in due?!! - esclamò Marcello atterrito. - Questa sarebbe un’avarizia spinta fino alla prodigalità, e noi spenderemo i nostri risparmi per comprare dei coltelli da scannarci. Io preferisco un servitore. Prima di tutto, un servitore dà una certa considerazione.
- Difatti - disse Rodolfo - cercheremo un giovanotto intelligente, e se ha qualche cognizione d'ortografia, lo farò copiare.
- Sarà una risorsa per la sua vecchiaia - disse Marcello sommando il conto, che ammontava a quindici franchi.
- Oh! bella! - diss’egli - è caro. Al solito noi pranzavamo con trenta soldi fra tutti e due.
- Sì - disse Rodolfo - ma noi pranzavamo male, ed eravamo obbligati di cenare la sera. Tutt’insieme è - un'economia.
- Tu sei il più forte - mormorò l'artista convinto da questo ragionamento - tu hai sempre ragione. Lavoreremo stasera?
- Oh no! Io vado a trovare mio zio - disse Rodolfo - è un brav'uomo, gli parlerò della mia nuova posizione, ed egli mi darà dei buoni consigli. E tu dove vai, Marcello?
- Io andrò a trovare il vecchio Medici per vedere se ha quadri da restaurare. A proposito: dammi cinque franchi.
- Per far che? - e glieli diede.
- Per passare il ponte delle Arti.
- Ah!... Questa è una spesa inutile, e benché modica, s'allontana dal nostro principio.
- Ho torto - disse Marcello - passerò sul ponte Nuovo... ma prenderò una carrozza.
I due amici si lasciarono, prendendo ciascuno una strada differente, la quale, per un caso strano, li condusse tutti e due nello stesso luogo, ove s'incontrarono.
- Oh! non hai trovato tuo zio? - domandò Marcello.
- E tu non hai veduto Medici? - chiese Rodolfo; e dettero ambedue in una risata. Però ritornarono a casa loro di buon'ora all'indomani.
Due giorni dopo, Rodolfo e Marcello erano completamente trasformati. Vestiti di nuovo, come sposi di prima classe, essi erano così belli, così lucenti, così eleganti, che incontrandosi per strada esitavano a salutarsi l'un l'altro.
Il loro sistema d'economia era in pieno vigore, ma l’organizzazione del lavoro durava fatica a realizzarsi. Avevano preso un servo. Un uomo di trentaquattro anni, svizzero d'origine, e di una intelligenza che rammentava quella di Jocrisse. Del resto, egli non era nato per essere servo, e se uno dei padroni gli dava da portare un pacco un po’ visibile, Battista arrossiva e lo affidava a un fattorino di piazza.
Nondimeno, Battista aveva delle buone qualità. Quando gli si dava una lepre, per esempio, egli sapeva che doveva farla cuocere. Inoltre, siccome prima di essere servo era stato distillatore, così aveva conservato un grand’amore per la sua arte antica, e spendeva la più gran parte del tempo (che doveva ai suoi padroni) per trovar una squisita vulneraria, alla quale voleva dare il suo nome: egli riusciva altresì nel verde di noce. Dove poi Battista poteva dirsi senza rivali era nell'arte di fumare i sigari di Marcello e di accenderli coi manoscritti di Rodolfo.
Un giorno, Marcello lo pregò di servirgli di modello, vestito da Faraone, pel suo ‘Passaggio del mar Rosso’. A questa proposizione, Battista rispose con un assoluto rifiuto, e chiese il suo conto. -
- Va bene - disse Marcello - vi aggiusterò il conto stasera.
Quando Rodolfo tornò a casa, il suo amico gli dichiarò che bisognava licenziare Battista.
- Non ci serve proprio a nulla - diss’egli.
- È vero - rispose Rodolfo.
- È così bestia che si può cucinarlo.
- È un oggetto d'arte vivente.
- È pigro.
- Mandiamolo via.
- Però ha qualche buona qualità. Egli fa benissimo lo stufato.
- E il verde di noce? - disse Marcello. - Egli è il 'Raffaello del verde di noce.
- Sì, ma non sa far altro, e questo non ci basta. Noi perdiamo. tutto il nostro tempo in discussioni con lui.
- Ciò che ci impedisce di lavorare.
- Egli è causa ch’io non potrò finire il mio ‘Passaggio del mar Rosso’ in tempo per l'esposizione. Ha rifiutato di servirmi da Faraone.
- In grazia sua non ho potuto finire il lavoro che mi chiedevano: ha ricusato di andare alla biblioteca a prendere le annotazioni che mi occorrevano.
- Egli ci rovina.
- Decisamente, noi non possiamo più tenerlo.
- Mandiamolo via L.. Ma, allora bisognerà pagano.
- Lo pagheremo, ma che se ne vada; dammi del danaro che gli possa saldare il conto.
- Come del danaro? Ma non sono io che tengo la cassa, sei tu.
- Oh no, sei tu. Tu sei incaricato dell'intendenza generale - disse Rodolfo.
- Ma io ti giuro che non ho un soldo! - esclamò Marcello.
- Come? Non ci sarebbe digià più danaro? È impossibile! Non si possono spendere cinquecento franchi in otto giorni, sopratutto quando, come noi, si vive coll'economia la più assoluta, che fa limite allo stretto necessario. Bisogna verificare i conti - disse Rodolfo - troveremo l'orrore.
- Sì - disse Marcello - ma non troveremo il danaro. Non importa; consultiamo i libri delle spese.
Ecco un saggio di questa contabilità, che. aveva incominciato sotto gli auspici della santa Economa.
- Il 19 marzo - leggeva Marcello - rimossi cinquecento franchi. Spesi: in una pipa turca venticinque franchi; pranzo quindici franchi; spese diverse quaranta franchi.
- Che sono queste spese? - disse Rodolfo;
- Lo sai bene: è quella sera in cui non ritornammo a casa se non alla mattina. Del resto, abbiamo risparmiato legna e candele.
- E poi? - continua.
- Il 20 marzo: colazione un franco e cinquanta; tabacco venti centesimi; pranzo due franchi; un occhialino due franchi e cinquanta centesimi. E questo è per te, l'occhialino. Che bisogno avevi tu d'un occhialino? Ci vedi benissimo...
- Sai bene che dovevo fare un rendiconto dell’Esposizione per la Sciarpa d’Iride; è impossibile fare della critica di pittura senza occhialino; è una spesa legittima. E poi?...
- Una mazza di giunco...
- Ah, questa è per conto tuo - disse Rodolfo - tu non avevi bisogno di mazza.
- Questo è tutto quanto si spese il 20 - disse Marcello senza rispondere. - Il 21 abbiamo pranzato fuori, fatto colazione e cenato.
- Non abbiamo dovuto spendere molto quel giorno lì.
- No; difatti trenta franchi soli.
- Ma per qual cosa, allora?
- Non lo so più: è notato sotto la rubrica spese diverse.
- Titolo vago e perfido - interruppe Rodolfo.
- Il 22: è il giorno che venne Battista. Noi gli abbiamo dato un acconto di cinque franchi sui suo stipendio; cinquanta centesimi per l’organetto che suonava per la strada; per il riscatto di quattro fanciulli chinesi condannati ad essere gettati nel fiume Giallo da parenti d'una barbarie incredibile, due franchi e quaranta centesimi.
- Nel 23: non c’è notato nulla. Nel 24 idem. Questi sono due buoni giorni. Nel 25: dato a Battista a conto del suo stipendio tre franchi.
- Mi pare che gli si dia troppo spesso del danaro disse Marcello in via di riflessione.
- Gli dovremo meno - rispose Rodolfo. - Continua.
- Nel 26 marzo: spese diverse ed utili sotto il punto di vista dell'arte, trentasei franchi e quaranta centesimi.
- Che diavolo possiamo aver comprato di tanto utile? - disse Rodolfo - non me ne ricordo.
- Come, non te ne ricordi? È il giorno in cui siamo andati sulle torri di Nostra Signora, per vedere Parigi a volo d'uccello...
- Ma non si spendono otto soldi per salire sulla torre? - rispose Rodolfo.
- Sì è vero, ma discendendo siamo andati a San Germano a pranzo.
- Questa redazione non pecca di troppa limpidità osservò Rodolfo.
- Nel 27: non c’è nulla di notato.
- Bene: quest'è economia!
- Nel 28: dati a Battista a conto del suo stipendio sei franchi.
- Oh! questa volta sono sicuro che noi non dobbiamo più nulla a Battista. Potrebbe anche darsi che egli sia debitore. Bisognerà osservare.
- Nel 29: oh grazioso davvero! Il 29 non è notato, ed in luogo della spesa abbiamo il principio di un articolo sui costumi.
- Nel 30: ah! noi avevamo invitati a pranzo; spesa forte il giorno 30! Franchi cinquantacinque. Il 31 è oggi, e non abbiamo speso ancora nulla. Tu vedi - terminò Marcello - che i conti furono tenuti esattamente. Il totale non ascende però a cinquecento franchi.
- Allora ci deve essere in cassa dei danaro!
- Si può guardare -. disse Marcello aprendo una cassetta. - No - diss’egli - non c'è più nulla; non c'è che un ragnatelo.
- Ragno di mattina, cattivo destino! - disse Rodolfo.
- Dove diavolo è andato tanto danaro? - disse Marcello stravolto, vedendo la cassetta vuota.
- Per Bacco! è chiaro - disse Rodolfo - abbiamo dato tutto a Battista.
- Aspetta, aspetta - esclamò Marcello frugando nella cassetta dove vide una carta. - La ricevuta della pigione dell'ultimo trimestre !!!
- Bah! - disse Rodolfo - con ic diavolo vuoi tu che ci sia venuta?
- È saldata! - aggiunse Marcello - sei tu che hai pagato il padrone di casa?
- Io? cosa ti viene in mente? - disse Rodolfo.
- E allora come spiegare...
- Ma t'assicuro...
- "Qual mistero è dunque nato" - cantarono tutti e due in coro, sull'aria di una canzone in voga.
Battista, che amava la musica, accorse.
Marcello gli fece vedere la ricevuta.
- Ah sì - disse Battista con indifferenza - avevo dimenticato di dirvelo; il padrone di casa è venuto stamane mentre voi eravate fuori. L'ho pagato per risparmiargli l'incomodo di ritornare.
- Dove avete preso il danaro?
- Oh signore, l'ho preso nella cassetta; anzi ho pensato che voi, signori, l'aveste lasciata aperta, con questa intenzione, e dissi fra me:! miei signori hanno dimenticato di dirmi: Battista, il padrone di casa verrà per prendere la sua pigione, bisogna pagarlo; ed io ho fatto ciò come se me lo avessero comandato.
- Battista - disse Marcello, infiammato da una collera incandescente - voi avete trasgredito i nostri ordini; da quest’oggi non fate più parte della nostra casa. Restituite la vostra livrea.
Battista si tolse il berretto di tela incerata che costituiva la sua livrea, e lo restituì a Marcello.
- Bene - disse questi - potete andarvene.
- E il mio salario?
- Che cosa dite? Voi avete ricevuto più di quanto vi si doveva. Vi ho dato quattordici franchi in quindici giorni soli. Che fate voi di tanto danaro? Mantenete una ballerina?
- Io resterò dunque abbandonato - disse lo sciagurato servitore - senza un ricovero per mettere al coperto la mia testa?...
- Riprendete la vostra livrea - rispose Marcello commosso suo malgrado. E restituì il berretto a Battista.
- E costui, per altro, che ha dilapidato il nostro tesoro - disse Rodolfo vedendo uscire il povero Battista. - Ma intanto dove pranziamo oggi?
- Lo sapremo domani - rispose Marcello.

VIII.
QUANTO COSTI UN PEZZO DA CINQUE LIRE

Un sabato sera, Rodolfo, quando ancora non si era accasato colla signora Mimì, colla quale faremo presto conoscenza, s’imbattè, a tavola, con una modista per nome Laura. Avendo saputo che Rodolfo era redattore della ‘Sciarpa d'Iride’ e del ‘Castoro’, giornali di mode, la signora Laura gli usò un mondo di gentilezze, sperando che egli farebbe della pubblicità alle sue mode. Alle parole lusinghiere della signora, Rodolfo rispose con un tal fuoco artificiale di madrigali, da destare invidia a Benserade, Voiture e a tutti i Ruggieni dello stile galante. Alla fine del pranzo, madamigella Laura, udendo che Rodolfo era poeta, gli fece capire chiaramente ch'ella non era aliena di accettano come suo Petrarca. Anzi, senza tante circonlocuzioni, gli diede convegno per il domani.
- Per Bacco! - diceva Rodolfo tra sè accompagnando a casa madamigella Laura. - Ella è certamente molto amabile: mi pare che debba avere molta cognizione della grammatica ed una guardaroba abbastanza provvista: son dispostissimo a renderla felice.
Arrivata alla porta della sua casa, madamigella Laura lasciò il braccio di Rodolfo e lo ringraziò vivamente del disturbo che s'era preso accompagnandola in un quartiere sì lontano.
- Oh, signora - rispose Rodolfo inchinandosi fino a terra - avrei desiderato che voi dimoraste a Mosca od alle isole della Sonda per avere il piacere di essere più lungamente vostro cavaliere.
- E un po’ lontano - rispose Laura facendo la smorfiosa. -
- Saremmo passati sui boulevards - disse Rodolfo. Permettetemi di baciarvi la mano, signora, nella vostra guancia - continuò Rodolfo baciandola sulle labbra, prima che Laura avesse potuto opporre resistenza.
- Oh, signore, voi camminate troppo lesto - soggiunse Laura.
- E per arrivare più presto - rispose Rodolfo. - Le prime stazioni dell’amore bisogna passarle al galoppo, mia cara Laura.
- Matterello! - pensava la modista entrando in casa.
- Bella donnina! - disse il suo compagno andandosene.
Rodolfo, appena entrato in casa sua, si mise a letto e fece i più bei sogni. Vedeva sè stesso nei balli e nei teatri a braccetto colla bella Laura, vestita degli abiti più belli e d’ultima moda. Una coppia felice ed invidiata.
Il domani, alle undici, Rodolfo, secondo il solito, s'alzò. Il suo primo pensiero fu per madamigella Laura.
- È una donna come si deve - pensava. - Sono certo ch'ella è stata educata a San Dionigi. Finalmente proverò la felicità di avere un’amante che comprenda l'altezza del mio amore! Sì, certo, io farò dei sacrifici per lei, andrò a prendere il mio danaro alla ‘Sciarpa d’Iride’, comprerò dei guanti ed accompagnerò Laura a pranzo in una trattoria, ove sia abituale il tovagliuolo. Il mio abito non è bellissimo, ma... bah! il nero sta sì bene!
Egli uscì per andare all’ufficio della Sciarpa d’Iride, e, traversando la via, vide un omnibus su cui stava scritto:
OGGI, DOMENICA, GIUOCHI D'ACQUA A VERSAILLES.
Un fulmine che fosse caduto ai piedi di Rodolfo, non gli avrebbe cagionato un’impressione più profonda di quella prodotta dalla vista di quell’avviso.
- Oggi, domenica, l'avevo dimenticato!!! - esclamò - non potrò avere il mio danaro!!... Oggi, domenica!! ma... tutti gli scudi di Parigi sono in cammino alla volta di Versailles!...
Spinto nondimeno da una di quelle sperare fantastiche alle quali l'uomo s'attacca sempre, Rodolfo corse all'ufficio del giornale, sperando che un caso fortuito vi avesse trascinato il cassiere.
Il signor Bonifazio vi era stato difatti, ma per un momento solo, ed era partito subito.
- Per andare a Versailles - disse il giovane d'ufficio a Rodolfo.
È finita! - disse Rodolfo. – Vediamo - egli pensava - il mio convegno è per questa sera. È mezzogiorno, dunque ho cinque ore per trovare cinque franchi: venti soldi l'ora come i cavallini del Bosco di Boulogne. Avanti!...
Siccome Rodolfo si trovava nel quartiere ove abitava quel giornalista che chiamava il critico influente, pensò di fare un tentativo verso di lui.
- Quello lì son certo di trovarlo - pensava - oggi è il suo giorno d’appendice, non c’è pericolo che esca di casa. Mi farò prestare cinque franchi.
- Oh siete voi? - disse il letterato vedendo Rodolfo arrivate a tempo; ho un piacere da chiedervi.
- Quale combinazione! - pensò il redattore della ‘Sciarpa d’Iride’.
- Eravate voi ieri sera all’Odéon ?
- Io ci son sempre.
- In tal caso avrete veduto il nuovo dramma?
- Chi l'avrebbe veduto dunque? Il pubblico dell’Odéon sono io.
- È vero - disse il critico - voi siete uno dei sostegni di quel teatro. Corre voce anzi che gli facciate delle sovvenzioni. Ecco cos'ho da chiedervi: il resoconto del nuovo dramma.
- È facile: ho una memoria da creditore.
- Chi è l'autore ?
- È un signore. - E Rodolfo s’era già messo allo scrittoio.
- Non dev'essere troppo forte colui - diceva il critico influente, a Rodolfo che scriveva.
- È forte più d'un Turco.
- Allora non è robusto. I Turchi hanno una riputazione di forze che è usurpata: essi non potrebbero essere Savoiardi.
- Cos'è che l’impedirebbe?
- Perché i Savoiardi sono dell'Alvergna e gli Alvergnati sono forti come facchini. Del resto poi, Turchi non ce ne sono più, se non nei balli in maschera e ai Campi Elisi, dove hanno bottega di dottore. Il Turco è un pregiudizio! Un mio amico, che conosce l’Oriente a perfezione, m’assicurò che tutti gli indigeni di quel paese sono nati in via Coquenard.
- È magnifica! - disse Rodolfo.
- Vi pare? - disse il critico. - Lo metterò nella mia appendice.
- Ecco qui la mia critica, è fatta coi fiocchi - riprese Rodolfo.
- Sì, ma è breve.
- Mettendovi dei puntini diventerà lunga, e lo sviluppo della vostra opinione analitica riempirà dello spazio.
- Non ne ho tempo, e, del resto, la mia opinione non occupa spazio.
- Mettete un aggettivo ogni tre parole.
- Non potreste scarabocchiare voi una piccola o meglio una lunga critica del dramma in coda alla vostra analisi? - interrogò il critico.
- Uhm - disse Rodolfo - le mie idee sulla tragedia le ho certo, ma vi avverto che le ho stampate tre volte nel ‘Castoro’ e due nella ‘Sciarpa d’Iride’.
- Non fa nulla; quante linee occupano le vostre idee?
- Quaranta linee.
- Caspita! Voi avete delle grandi idee! Bene, prestatemi le quaranta linee.
Va benone! - pensò Rodolfo - se gli faccio per venti franchi di originale non potrà negarmene cinque. - Debbo avvertirvi - diss’egli al critico - che le mie idee non sono proprio affatto nuove: sono un po’ spelate... sul gomito. Prima di stamparle le ho urlate in tutti i caffè di Parigi, e non c’è un garzone che non le sappia a memoria.
- Oh! che m’importa ?... Non mi conoscete voi bene? C’è forse qualche cosa di nuovo nel mondo ?... eccettuata la virtù?
- Ecco - disse Rodolfo quand'ebbe finito.
- Fulmini e tempeste!! Mi mancano ancora due colonne! Con che cosa potrò mai riempire questo abisso! esclamava il critico. - Poiché ci siete, somministratemi qualche paradosso.
- Non ne ho qui - rispose Rodolfo - posso però prostarvene alcuni; essi non sono miei,. ve ne avverto; li ho pagati cinquanta centesimi ad un mio amico che era in miseria. Essi non hanno servito, quasi...
- Benissimo - disse il critico.
- Ah! - pensò Rodolfo rimettendosi a scrivere - gli chiederò dieci franchi; in questi giorni i paradossi sono cari quanto le pernici.
Scrisse una trentina di linee, nelle quali risaltavano mille minchionerie sui pianoforti, sui pesci rossi, sulla scuola del buon senso e sul vino del Reno, il quale era chiamato vino di toilette.
- Bello, bello! - esclamò il critico. - Aggiungete, per favore, che la galera è il ritrovo degli uomini più onesti.
- Oh bella! e perché?
- Per fare due linee. Benissimo: ecco finito - disse il critico influente, chiamando il servo per mandare il manoscritto alla stamperia.
- Adesso - disse fra sè Rodolfo - tiriamogli la stoccata.
Ed articolo la sua domanda.
- Ah, cara mio - disse il critico - non ho qui neppure un soldo. Lolotte mi rovina a forza di profumerie, e poco fa mi ha svaligiato fino all'ultimo centesimo, per andare a Versailles a vedere le Nereidi ed i mostri di bronzo vomitare l'acqua.
- A Versailles!! Ma dunque è un'epidemia! - esclamò Rodolfo.
- Per qual motivo avete voi bisogno di danaro?
- Ecco il poema - disse Rodolfo. - Oggi alle cinque ho un appuntamento con una signora del gran mondo, una persona distinta, la quale non esce mai se non in omnibus, io vorrei unire il mio ai suo destino per alcuni giorni, e mi pare conveniente farle assaporare le dolcezze della vita. Pranzo, ballo, passeggiata, ecc., ecc.; mi occorrono indispensabilmente cinque franchi, e se non li trovo..., se non li trovo, la letteratura francese è disonorata nella mia persona.
- Perché non domandate in prestito questa somma alla stessa signora? - disse il critico.
- La prima volta?! Non è possibile. Soltanto voi potete levarmi da questo imbarazzo.
- In nome di tutte le mummie d'Egitto, vi giuro sulla mia grandissima parola d'onore, che non ho da comprare una pipa di gesso. Però ho alcuni vecchi libri di cui potreste tentar la vendita.
- Oggi, domenica, impossibile: mamma Mansut, Lebigre e tutti i bugigattoli della Ripa e della via Saint-Jacques sono chiusi. Che cosa sono questi vostri libri? Dei volumi di poesia col ritratto dell'autore cogli occhiali? Ma queste sono cose che non si comperano...
- A meno che non si venga condannati dalla corte d’assise - disse il critico. - Aspettate, aspettate; ho qui alcune romanze e dei biglietti di concerti; sapendo fare, potreste forse cavarne qualche soldo.
- Mi piacerebbe di più qualche altro oggetto: un paio di calzoni, per esempio.
- Orsù via, pigliate anche questo Bossuet ed il busto di gesso d’Odilon Barrot; in parola d'onore è l'obolo della vedova.
- Vedo che ci mettete della buona volontà - disse Rodolfo. - Porto via i tesori, ma se ne cavo trenta soldi, dirò che ho fatto la tredicesima fatica d’Ercole.
Dopo aver corso quattro miglia circa, Rodolfo, coll'aiuto di una eloquenza di cui aveva il segreto nelle grandi occasioni, riuscì a farsi prestare due franchi dalla sua lavandaia, lasciandole in pegno i volumi di poesie, le romanze e il busto di Odilon Barrot.
- Orsù - diss’egli ripassando i ponti - la salsa c’è; adesso bisogna trovare l'arrosto. Se andassi da mio zio!
Mezz'ora dopo, egli era dallo zio Monetti, il quale sulla faccia di suo nipote vide chiaro di che si trattava. Perciò si mise in guardia e prevenne qualunque specie di domande con una serie di frasi del genere seguente: "I tempi son tristi; il pane è cara; i debitori sono insolvibili; bisogna pagare la pigione; il commercio è arrenato" ecc., ecc. Insomma tutte le ipocrite litanie dei bottegai.
- Crederesti - diss’egli infine - che sono stato costretto di farmi prestar danaro dal mio commesso per pagare una cambiale?
- Dovevate mandare da me - disse Rodolfo. - Vi avrei potuto prestare qualche cosuccia: ho ricevuto duecento franchi or son tre giorni.
- Grazie, ragazzo mio, ma tu hai bisogno dei tuoi guadagni. Oh! giacché sei qui, dovresti copiarmi alcune fatture, che voglio mandare a riscuotere; tu hai una sì bella calligrafia!
- Ecco cinque franchi che mi costeranno cari - disse Rodolfo mettendosi al lavoro; e lo finì.
- Mio caro zio, so quanto vi piace la musica, vi porto dei biglietti per un concerto.
- Tu sei molto gentile, figlio mio. Vuoi pranzare con me?
- Grazie, caro zio; sono aspettato a pranzo nel sobborgo San Germano, anzi, sono dispiacente di dovermene andare subito, per salire in camera mia a prendere del danaro per comprarmi i guanti.
- Non hai guanti? Vuoi che ti presti i miei?
- Grazie, noi non abbiamo la stessa mano: però mi fareste un favore se mi voleste prestare...
- Ventinove soldi per comprarne un paio? Sì, certo, figlio mio; quando si va nel gran mondo bisogna essere precisi. È meglio essere invidiati che compianti, diceva tua zia. Basta, vedo che ti sei lanciato; tanto meglio... Avrei voluto darti di più, ma bisognerebbe che andassi sopra e non posso lasciar la bottega sola ; ad ogni momento arrivano avventori.
- Ma se dicevate, un momento fa, che il commercio era arrenato?...
Lo zio Monetti fece le viste di non udire, e disse al nipote che metteva in tasca i ventinove soldi:
- Non aver premura di restituirmeli.
- Che tanghero! - disse Rodolfo fra sè, fuggendo. Ah! mi mancano ancora trentun soldi: dove li troverò ?... Oh! mi viene in mente adesso! Andiamo al quadrivio della Provvidenza.
Rodolfo aveva così battezzato il punto più centrale di Parigi, il Palazzo Reale. È un luogo dove non si può stare dieci minuti senza vedere qualcheduno di conoscenza: creditori sopratutto. Rodolfo dunque andò a mettersi in sentinella presso i giardini del Palazzo Reale. Questa volta la Provvidenza fu lunga a venire: alla fine Rodolfo la scoprì. Aveva un cappello bianco, un soprabito verde, ed un bastone col pomo d'oro... una Provvidenza molto elegante, come vedete.
Era un giovanotto cortese e ricco, benché falansteriano.
- Sono felicissimo d'incontrarvi - disse a Rodolfo -venite ad accompagnarmi un pochino.
- Andiamo; subirò il supplizio del falansterio - mormorò Rodolfo lasciandosi condurre.
Avvicinandosi ai ponte delle Arti, Rodolfo disse al suo compagno:
- Vi lascio perché non ho di che pagare il pedaggio.
- Ne ho io - disse l'altro, e gettò due soldi all’invalido, custode del ponte.
- Ecco giunto il gran momento - pensava il redattore della Sciarpa d'Iride traversando il ponte: ed arrivati all'estremità, dinanzi l'orologio dell'Istituto, si fermò d'un tratto, mostrando il quadrante con un gesto di disperazione. - Sacra...!! Cinque ore meno un quarto! Sono un uomo morto!
- Che cosa avete? - chiese l'altro meravigliato.
- Ho - rispose Rodolfo - che in grazia vostra, manco ad un appuntamento.
- Importante?
- Lo credo, per Bacco! Dovevo andare a prendere dei danaro a Batignolles alle cinque... Non potrò arrivare in tempo... Sacra...! come fare ?... Non ho un soldo per prendere una vettura.
- Perbacco! È una cosa molto semplice - disse il falansteriano - venite a casa mia e ve ne presterò.
- Impossibile! voi abitate a Montrouge e io ho un affare alle sei nella Chaussée d’Antin!... Per satanasso....
- Ho alcuni soldi in tasca... - disse timidamente la Provvidenza - ma pochissimi...
- Se avessi almeno tanto per prendere una vettura, forse arriverei a Batignolles.
- Ecco qui il fondo della mia borsa, mio caro: sono trentun soldi.
- Datemeli, datemeli, presto, che me ne vada - disse Rodolfo che udiva suonare le cinque, e corse al luogo del suo appuntamento. - Sono stati difficili a trovarsi - proseguiva contando le sue monete - cinque franchi l... giusti come l'oro. Basta, sono equipaggiato, e Laura vedrà che ella ha da fare con un uomo, il quale conosce il viver del mondo. Non voglio portare a casa neppure un centesimo. Bisogna riabilitare la letteratura... provare al mondo che per essere ricca, ella non ha bisogno d'altro se non di molto danaro.
Rodolfo trovò madamigella Laura all'appuntamento.
- Alla buon’ora! - diss’egli - per l'esattezza è una donna-cronometro.
Passò la serata con lei, e fece coraggiosamente struggere i suoi cinque franchi nel crogiuolo della prodigalità. Madamigella Laura era incantata de’ suoi modi, ed ebbe l'ingenuità di non accorgersi ch'egli la conduceva alla di lui casa, se non quando la fece entrare nella sua camera.
- È un fallo che commetto - ella disse. - Non fatemene pentire coll’ingratitudine, che è la virtù del vostro sesso.
- Signora - rispose Rodolfo - io sono conosciuto nel mondo per un uomo costante.! miei amici mi hanno soprannominato il generai Bertrand dell'amore.

IX.
LE VIOLETTE DEL POLO

Vi fu un tempo in cui Rodolfo era innamoratissimo di sua cugina Angiola, la quale non poteva soffrirlo; il termometro dell'ingegnere Chevallier, in quel tempo, segnava dodici gradi sotto zero.
Madamigella Angiola era figlia del signor Monetti, il fumista, del quale abbiamo già avuto occasione di parlare.
Madamigella Angiola aveva diciott'anni ed arrivava dalla Borgogna, dove aveva passati cinque anni con -una parente, che, morendo, doveva lasciarlo tutte le sue sostanze. La parente era una vecchia, che non era stata mai né buona, né bella; ma cattiva e divota. Angiola, quando parti, era una cara ragazzina, la cui adolescenza portava in sè il germe d'una graziosissima giovinezza; ritornò, dopo cinque anni, cambiata in una bella, ma fredda, ed indifferente ragazza. La vita ritirata di provincia, le pratiche di una divozione troppo spinta, ed i meschini principi con cui l'avevano educata, accumularono nel suo animo mille pregiudizi assurdi e volgari, ne rimpicciolirono l'immaginazione, e fecero del suo cuore un muscolo, che si limitava ad adempiere le funzioni di pendolo. Angiola aveva, per così dire, dell'acqua benedetta nelle vene, invece del sangue. Ritornata a Parigi, accolse suo cugino con glaciale riservatezza, ed egli sprecava il suo tempo tutte le volte che tentava far vibrare in lei la tenera corda delle reminiscenze; ricordi del tempo, in cui avevano sbozzato un amoretto alla Paolo e Virginia, il quale fra cugino e cugina è tradizionale. Nondimeno, Rodolfo era innamoratissimo di sua cugina Angiola che, come abbiamo detto, non poteva vederlo. Avendo saputo un giorno, ch'ella doveva recarsi ad un ballo di nozze d'una sua amica, si era arrischiato fino a prometterle un mazzo di viole per quella festa. Angiola, dopo aver domandato il permesso a suo padre, accettò la galanteria di suo cugino, insistendo però nel desiderare viole bianche.
Rodolfo, tutto felice dell'amabilità di sua cugina, sgambettava e canterellava salendo il suo San Bernardo. Egli chiamava così il proprio domicilio: vedremo, in seguito, perché. Mentre traversava il Palazzo Reale, passando davanti alla signora Provost, la celebre fioraia, vide nella vetrina delle viole bianche, e, per curiosità, entrò per saperne il prezzo.
Un mazzo, appena appena presentabile, costava dieci franchi: ce n’erano anche dei più cari.
- Diavolo! - disse Rodolfo - dieci franchi! e non ho che otto giorni per trovare questo milione. Bisognerà girare, ma non importa, mia cugina avrà le sue viole bianche. Ho una certa idea!
Quest'avventura succedeva all'epoca della genesi letteraria di Rodolfo. Allora non aveva altra rendita, se non una pensione di. quindici franchi al mese che gli aveva assegnato un suo amico, un gran poeta, il quale, dopo essere stato moltissimo tempo a Parigi, era diventato, coll'aiuto di protezioni, maestro di scuola in provincia.
Rodolfo, che aveva avuto per madrina la prodigalità, spendeva sempre la sua pensione in quattro giorni, e siccome non voleva abbandonare la santa e poco lucrosa professione di poeta elegiaco, viveva il resto del tempo colle mance impreviste, che cadono, di rado, dal pensiero della Provvidenza. Questa quaresima non lo spaventava; la traversava allegramente, grazie ad una stoica sobrietà ed ai tesori d'immaginazione, cui spendeva ogni giorno per arrivare al primo del mese, questo giorno pasquale che metteva fine al suo digiuno. In quel tempo Rodolfo abitava in una gran casa che si chiamava altre volte il Palazzo dell’Eminenza Grigia, perché dicevasi che Padre Giuseppe, l’anima dannata di Richelieu, l’avesse abitato. Rodolfo occupava una camera all'ultimo piano di quell’edifizio, uno dei più alti di Parigi. La sua camera, disposta in forma di belvedere, era deliziosa nell'estate, ma dal mese d'ottobre al mese di aprile diventava una piccola Siberia.! quattro venti cardinali, penetrandovi dalle quattro finestre aperte in ciascuna delle pareti, venivano ad eseguirvi dei torvi quartetti durante tutta la cattiva stagione. Era notevole una gola da camino (vera ironia, la quale pareva essere l'entrata d’onore, riserbata a Borea e a tutto il suo seguito). Ai primi freddi, Rodolfo ricorse ad un nuovo sistema di riscaldamento; egli aveva spaccati ed accatastati tutti i mobili che possedeva; otto giorni dopo, il suo mobilio era considerevolmente diminuito; non gli restavano più che il letto e due sedie: bisogna avvertire però che quei mobili erano di ferro e per conseguenza assicurati contro l’incendio. Rodolfo chiamava questo modo di scaldarsi, cambiar di casa pel camino.
Era dunque il mese di gennaio, ed il termometro, che sulla ripa delle Lunettes segnava dodici gradi sotto zero, ne avrebbe segnati due o tre di più se si fosse trasportato nel Belvedere, che Rodolfo chiamava il Monte San Bernardo, lo Spitzberg, la Siberia.
La sera in cui Rodolfo aveva promesso a sua cugina le viole bianche, fu preso da collera furiosa : i quattro venti cardinali, giuocando nella sua camera, avevano rotto un vetro d'una finestra. Era il terzo in quindici giorni. Naturalmente, Rodolfo si sfogò in imprecazioni contro Eolo e tutta la famiglia Rompitutto. Dopo avere turata quella nuova breccia, col ritratto di una sua amante; Rodolfo ai coricò bell’e vestito fra due assi, che aveva elevato al titolo di materasse, e tutta la notte non sognò che viole bianche.
In capo a cinque giorni, Rodolfo non aveva ancora trovato nulla che potesse aiutarlo a realizzare il suo sogno: e, dopo domani, doveva dare il mazzo a sua cugina. Intanto il termometro era disceso ancora di più, e il mal arrivato poeta si disperava, pensando che le viole erano certamente rincarate. Finalmente la Provvidenza ebbe pietà di lui, ed ecco come venne in suo aiuto.
Una mattina Rodolfo andò, ad ogni buon conto, a farsi dar la colazione dal suo amico, il pittore Marcello, e lo trovò in conversazione con una signora in lutto. Era una vedova del quartiere; aveva perduto il marito da poco tempo, ed era il per sapere quanto avrebbe dovuto spendere per far dipingere sulla tomba (fatta inalzare al defunto) una mano d'uomo, sotto la quale si doveva scrivere:

IO T'ASPETTO SPOSA ADORATA.

Per avere il lavoro a minor spesa, fece osservare all’artista, che, allorquando Dio la mandasse a raggiungere il suo sposo, egli (Marcello, non lo sposo) dovrebbe poi dipingere una seconda mano, cioè la sua, ornata d'un braccialetto; ed un’altra iscrizione così concepita:

ALFINE ECCOCI RIUNITI.

- Metterò questa clausola nel mio testamento - diceva la vedova - ed ordinerò che siate incaricato voi di eseguire il lavoro.
- Dacché è così, signora - rispose il pittore - accetto il prezzo che mi offrite, ma è nella speranza della stretta di mano. Non mi dimenticate nel vostro testamento.
- Io vorrei che me la faceste al più presto possibile diceva la vedova - però pigliatevi il tempo che vi conviene, e non dimenticate la cicatrice del pollice. Voglio una mano viva.
- Sarà parlante, signora, non ne dubitate - le diceva Marcello accompagnandola alla porta.
Ma al momento di uscire, ella si rivolse per dire.
- Ho ancora qualche cosa a domandarvi, signor pittore; vorrei far scrivere sulla tomba di mio marito una cosa in versi, nella quale si parlasse della sua buona condotta e si facesse menzione dell’ultime parole dette al letto di morte. È ciò distinto?
- Distintissimo! Si chiama un epitaffio! È una cosa distintissima!
- Non conoscereste qualcuno che mi potesse rendere questo servigio a buon prezzo? C'è il mio vicino signor Guérin, lo scrivano pubblico, ma mi domanda. una somma esorbitante.
Rodolfo lanciò un'occhiata a Marcello, che capì subito.
- Signora - disse l'artista mostrando Rodolfo - una felice combinazione ha fatto capitar qui la persona che può esservi utile in questa circostanza dolorosa. Il signore è un poeta assai celebre, e voi non potreste trovare di meglio.
- Io vorrei che fosse assai malinconica la cosa disse la vedova - e che l'ortografia fosse messa bene.
- Signora - rispose Marcello - il mio amico ha l'ortografia sulla punta delle dita: in collegio aveva sempre il primo premio.
- Oh bolla! anche il mio nipotino ha avuto un premio, eppure non ha che sett’anni.
- È un ragazzo molto precoce - replicò Marcello.
- Ma - disse la vedova - il signore sa poi fare versi malinconici?
- Nessuno li fa meglio di lui - replicò Marcello poiché ebbe molti dispiaceri nella sua vita. Il mio amico fa anzi versi troppo malinconici; è il difetto che gli rimproverano i giornali.
- Come! - esclamò la vedova - i giornali parlano di lui? Allora egli è per lo meno sapiente come il signor Guérin?
- Oh! molto di più! Affidatevi a lui, signora, non ve ne pentirete.
Dopo avere spiegato al poeta il senso dell'iscrizione ch’ella voleva per la tomba di suo marito, la vedova promise di dare a Rodolfo dieci lire se fosse rimasta contenta; ma pretendeva i suoi versi al più presto. Rodolfo li promise per il domani.
- Oh buona fata Artemisia! - esclamò Rodolfo appena uscita la vedova - ti prometto che sarai contenta; ti darò la buona misura del lirismo funebre e l'ortografia sarà abbigliata meglio d’una duchessa. Oh buona vecchia possa il Cielo (per ricompensarti) farti vivere centosette anni, come l’acquavite di prima qualità.
- Io mi oppongo - gridò Marcello.
- È vero - disse Rodolfo - dimenticavo che tu devi dipingere la di lei mano dopo la sua morte, e che perciò la sua longevità ti farebbe perdere danaro. - E, levando le mani al cielo, invoco: - Stelle, non ascoltate le mie preghiere! Ah! ho avuto una gran fortuna venendo qui!
- Appunto! che cosa volevi da me? - disse Marcello.
- Ci ripenso, ed ora che sono obbligato di vegliare questa notte per far la poesia, non posso a meno di chiederti ciò che venivo a domandarti: primo: da pranzo; secondo: del tabacco e delle candele; terzo: il tuo vestito d’orso bianco.
- Vai forse ad un ballo in maschera? Questa sera difatti c'è il primo.
- No, ma tal quale mi vedi, io sono gelato quanto la grande armata durante la ritirata di Russia. Certo il mio pastrano di lasting verde ed i miei calzoni di merinos scozzese, sono belli, ma son troppo primaverili, ed ottimi soltanto per abitare sotto l'equatore; quando si dorme sotto il polo, è più conveniente un abito di orso bianco; dirò di più, è indispensabile.
- Sì! sì! prendi il martino - disse Marcello - è una bella idea è caldo come la brace, e tu vi starai come il pane nel forno.
Rodolfo indossava già il costume del peloso animale.
- Adesso il termometro sarà indispettito davvero diss’egli.
- Vuoi tu uscire così? - domandò Marcello al suo amico, dopo che ebbero trangugiato un pranzo strano, servito dentro maiolica marcata cinque centesimi.
- Perdinci; me ne rido discretamente dell'opinione, io! D'altra parte oggi è il principio del carnevale.
Attraversò quindi Parigi colla grave attitudine dell’animale del quale portava la pelle. Passando davanti il termometro dell'ingegnere Chevallier, Rodolfo andò a fargli una boccaccia.
Appena entrato in camera, non senza aver procurato un’orribile paura al portinaio, il poeta accese la candela, ed ebbe la precauzione di metterle intorno una carta unta, per prevenire le malizie degli aquiloni; poi si pose subito al lavoro. Ma non tardò ad accorgersi, che se il suo corpo era in qualche modo garantito dal freddo, le sue mani non lo erano affatto.
Non aveva ancora scritto due versi, che il freddo gli intirizzì le dita, le quali lasciarono cadere la penna.
- L'uomo più coraggioso non può lottare contro gli elementi - disse Rodolfo cadendo annichilito sulla sedia. Cesare ha passato il Rubicone, ma non avrebbe passato la Beresina.
All'improvviso, il poeta gettò un grido di gioia dal fondo del suo petto d’orso, e si alzò precipitosamente versando il calamaio sopra la sua candida pelliccia; egli aveva un'idea, seconda edizione di quella di Chatterton.
Tirò quindi di sotto il letto un ammasso considerevole di carte, fra le quali si trovavano una diecina di manoscritti enormi del suo famoso dramma il ‘Vendicatore’. Questo dramma, per quale aveva lavorato due anni, era stato fatto e rifatto tante volte, che le copie riunite pesavano almeno sette chilogrammi. Rodolfo mise da parte il manoscritto più recente, e portò gli altri davanti al camino.
- Lo sapevo bene io, che, colla pazienza, avrei trovato loro un impiego! - esclamò egli. - Ecco qui una bella fascina di poesia. Oh, se avessi potuto prevedere quello che succede, avrei fatto un prologo al mio dramma, ed oggi avrei una maggiore quantità di combustibile. Ah; bah i non si può indovinar tutto.
Accese tosto nel camino alcuni fogli del manoscritto, alle cui fiamme si riscaldò le mani. Cinque minuti dopo, il primo atto del ‘Vendicatore’ era terminato, e Rodolfo aveva scritto tre versi del suo epitaffio.
Nulla al mondo potrebbe dipingere lo stupore dei quattro venti cardinali, vedendo del. fuoco nel camino.
- È un'illusione - disse soffiando il vento boreale, che si divertiva a prendere alla rovescia il pelo di Rodolfo.
- Se soffiassimo nella gola del camino! - rispose un altro vento - lo affumicheremo.
Ma proprio nel momento in cui stavano congiurando contro il povero Rodolfo, il vento meridionale vide Arago ad una finestra dell’Osservatorio, da dove minacciava quel quartetto di aquiloni, perciò il vento meridionale gridò ai suoi fratelli:
- Salviamoci e presto: l'almanacco segna tempo calmo per questa notte; no siamo in contravvenzione coll’Osservatorio, e se, a mezzanotte, non siamo a casa, il signor Arago ci farà mettere a pane ed acqua.
Intanto il second’atto del ‘Vendicatore’ abbruciava col più grande successo. Rodolfo aveva scritto dieci versi; egli però non potè scriverne che due durante il terzo atto.
- L’ho sempre detto che quell’atto è troppo breve disse Rodolfo - ma già i difetti non si scorgono se non alla rappresentazione. Fortunatamente quest’altro durerà di più; ci sono ventitré scene, fra cui quella del trono, che deve essere quella della mia gloria...
L'ultimo dialogo della scena del trono se ne andava in fumo, e Rodolfo aveva ancora una sestina da fare.
- Passiamo al quinto atto; questo durerà almeno cinque minuti... è un monologo solo.
Venne in fine la catastrofe, la quale, non fece che infiammarsi e spengersi. Nello stesso momento Rodolfo compiva con un magnifico slancio lirico, le ultime parole del defunto, in memoria del quale egli lavorava.
- Ce ne sarà ancora abbastanza per una seconda rappresentazione - diss’egli cacciando sotto il letto il resto dei manoscritti.
Il giorno dopo, a otto ore di sera, madamigella Angiola faceva la sua entrata nella sala da ballo, tenendo in mano un magnifico mazzo di violette bianche, in mezzo alle quali sbocciavano due rose, bianche anch’esse. Tutta la notte quelle viole attirarono alla ragazza i complimenti delle signore ed i madrigali degli uomini, di modo che Angiola fu un po’ riconoscente a suo cugino di queste piccole sodisfazioni d'amor proprio, ed avrebbe pensato ancora di più a lui, senza le galanti persecuzioni di un parente della sposa, il quale aveva ballato spesso con lei. Era un giovanotto biondo, e proprietario d'u n paio di quei superbi mustacchi, che sono ami ai quali si attaccano i cuori novizi. Il giovanotto aveva già supplicato Angiola di dargli le due rose bianche, gli unici fiori che rimanevano del mazzo, sfogliato dagli altri invitati. Ma Angiola aveva rifiutato, per poi dimenticare, al finire del ballo, il mazzo stesso sopra un divano, dove il giovanotto corse a prenderlo.
In quel momento c’erano quattro gradi di freddo nel Belvedere di Rodolfo, che appoggiato alla sua finestra, guardava dalla parte della barriera del Maine i lumi della sala da ballo, dove danzava la sua cugina Angiola, che non poteva soffrirlo..

X.
IL CAPO DELLE TEMPESTE

Nei mesi in cui incominciano le stagioni, si dànno delle date terribili, le quali in generale sono: il primo ed il quindici. Rodolfo, il quale non poteva vedere avvicinarsi l’una o l'altra di queste due date, le chiamava il Capo delle tempeste. In quei giorni, non è l'Aurora che apre le porte dell'Oriente, sono i creditori, i padroni di casa, gli uscieri ed altra gente seccante. In quei giorni incominciano con un rovescio di conti, di quietanze, di cambiali, e finiscono con una tempesta di protesti. Dies irae!
Il mattino dunque d'un 15 aprile, Rodolfo dormiva pacificamente... e sognava che uno zio gli lasciava in legato tutta una provincia del Perù, comprese le peruviane.
Mentre egli nuotava nelle acque del suo tesoro immaginario, il rumore della chiave che girava nella toppa, interruppe l'erede presuntuoso nel momento più rilucente del suo sogno dorato.
Rodolfo s’alzò sui guanciali e, dormendo ancora colla mente, si guardò attorno.
Allora vide, diritto in mezzo alla sua camera, un uomo; é qual uomo!!
Quell'estraneo sì mattiniero portava un cappello a tre punte, aveva una valigetta in spalla, in mano un gran portafogli; era vestito d’un abito di lino alla francese, colore grigio, e sembrava ansante per aver salito i cinque piani.
I suoi modi erano affabilissimi, e la sua andatura era sonora come quella di un banco di cambiavalute che si mettesse a passeggiare.
Rodolfo sulle prime fu spaventato, e, vedendo il cappello a tre punte e l'abito, pensò che fosse una guardia di polizia.
Ma la vista della valigetta, discretamente gonfia, e l'aureo suono lo fecero accorto del suo errore.
- Ah! capisco - pensò - è un acconto della mia eredità, quest'uomo arriva dalle isole. Ma perché allora non è moro?
E facendo un segno all'uomo, gli disse indicando la valigetta.
- So cos'è. Mettetela là. Grazie.
L'uomo era un fattorino della Banca di Francia.
All’invito di Rodolfo, l'uomo rispose mettendogli sotto gli occhi una carta piena di geroglifici, di segni e di cifre a diversi colori.
- Voi volete una ricevuta? - chiese Rodolfo - è giusto. Datemi per favore la penna e l'inchiostro; là sul tavolino.
- No, vengo per incassare, è una cambiale di centocinquanta franchi. Oggi è il 15 aprile.
- Ah? - riprese Rodolfo, svegliandosi finalmente, ed esaminando la cambiale. - All'ordine Birmann; è il mio sarto. Ahimè! - soggiunse con malinconia, guardando alternativamente una redingote gettata sul letto e la cambiale - le cause se ne vanno... ma gli effetti restano. Come? oggi è il 15 aprile? È strano!! Non ho ancora mangiato fragole!
Il fattorino della Banca, annoiato di tale indifferenza, uscì, dicendogli:
- Voi avete tempo fino alle quattro per pagare.
- Per gli uomini onesti non ci sono ore - rispose Rodolfo, e vedendo l'uomo col cappello a punte che se ne andava, aggiunse: - Birbone! se ne va colla sua valigia!
Rodolfo chiuse le cortine del letto e tentò di rimettersi sulla via dell’eredità, ma sbagliò la strada, ed entrò trionfante in un sogno, nel quale il direttore del Teatro Francese veniva, col cappello in mano, a supplicano di concedergli un dramma pel suo teatro, e Rodolfo, che ne conosceva le abitudini, domandava un premio in danaro. Ma nel momento in cui il direttore pareva fosse sul punto di accondiscendere, il dormiente fu svegliato di nuovo dall'ingresso di un altro uomo: altra creatura del 15 aprile.
Era il signor Benoit, di cattiva fama, padrone della casa mobiliata, in cui alloggiava Rodolfo. Il signor Benoit era, tutt’insieme, il padrone di casa, il calzolaio e l'usuraio dei suoi inquilini. In quella mattina, il signor Benoit puzzava orribilmente di acquavite cattiva e di pagherò scaduti. Aveva in mano un sacchetto vuoto.
- Diavolo! - pensò Rodolfo - non è il direttore del Teatro Francese... egli avrebbe una cravatta..., ed il suo sacco sarebbe pieno.
- Buon giorno, signor Rodolfo - disse il signor Benoit avvicinandosi alletto.
- Signor Benoit, buon giorno. Qual avvenimento mi procura il piacere della vostra visita?
- Venivo per dirvi che oggi è il 15 aprile.
- Già? Come passa presto il tempo! È strano! Bisognerà che acquisti un paio di calzoni di ‘nankin’. Il 15 aprile! oh! Dio mio! senza di voi non ci avrei mai più pensato, caro signor Benoit. Quanta riconoscenza vi debbo...
- Colla riconoscenza mi dovete anche centosessantadue franchi - rispose il signor Benoit - ed è ormai tempo di regolare questo conticino.
- In quanto a me non ho gran fretta, non vi disturbate, signor Benoit, vi darò del tempo... delle dilazioni. Il conticino diventerà grande...
- Ma - disse il padrone - sono parecchie volte che rimandate più in là il pagamento.
- In tal caso regoliamo, regoliamo, signor Benoit: per me sono indifferente. Oggi, o domani, è eguale, e poi siamo tutti mortali. Regoliamo.
Un amabile sorriso illuminò le grinze del padrone di casa; perfino il suo sacco vuoto si gonfiò di speranza.
Quanto vi debbo? - chiese Rodolfo.
- Prima di tutto, abbiamo tre mesi di pigione a venticinque franchi, dunque settantacinque franchi.
- Salvo errore - disse Rodolfo - e poi?
- Poi, tre paia di scarpe a venti franchi...
- Un momento... un momento, signor Benoit ; non confondiamo; qui non ho più che fare col padrone di casa, ma col calzolaio; voglio un conto a parte. Le cifre sono cose gravi, non bisogna imbrogliarsi.
- Sia - disse il signor Benoit, raddolcito dalla speranza ch'egli aveva di mettere finalmente un saldato in calce a’ suoi conti. - Ecco una fattura particolare per le scarpe. Tre paia di scarpe a venti franchi al paio fanno sessanta franchi.
Rodolfo gettò uno sguardo di compassione sopra un paio di scarpe malconce.
- Ahimè! - pensava - se avessero servito all’Ebreo Errante non potrebbero essere peggiori. Fu correndo dietro Maria che si logorarono in questa guisa; ahimè!... Continuate, signor Benoit...
- Dicevamo sessanta franchi - riprese questi. - Più ventisette franchi prestati...
- Alto là, signor Benoit. Noi siamo d’accordo che ciascun santo abbia la sua nicchia... E a titolo d'amicizia che voi mi avete prestato danaro. Dunque, se non vi dispiace, abbandoniamo il campo della calzatura ed entriamo in quello della confidenza e della benevolenza, che esigono un conto a parte. A quanto ascende la vostra amicizia per me?
- A ventisette franchi...
- Ventisette franchi? Voi avete un amico a buon mercato, signor Benoit. Basta... Noi diciamo dunque settantacinque, sessanta e ventisette... Tutto ciò forma?...
- Centosessantadue franchi - disse il signor Benoit presentando i tre conti.
- Centosessantadue franchi! - esclamò Rodolfo - è straordinario. Che bella cosa la somma! Bene, signor Benoit, ora che il conto è regolato, possiamo stare entrambi tranquilli; noi sappiamo a che attenerci. Il mese venturo vi salderò i vostri conti, e siccome da oggi a quell'epoca la confidenza e l'amicizia che voi mi professate dovranno aumentare, potrete concedermi una nuova proroga, se sarà necessaria. Perciò, se il padrone di casa od i calzolai fossero un po’ troppo impazienti, pregherò l'amico di richiamarmi alla ragione. È strano, signor Benoit; tutte le volte che io penso al vostro triplice carattere di padrone di casa, di calzolaio e d'amico, sono spinto a credere nel mistero della Santissima Trinità.
Il padrone di casa, udendo Rodolfo, era divenuto rosso, verde, giallo e bianco. A ogni scherzo del suo inquilino, quell’arco baleno si pronunziava sempre più sul suo viso.
- Signore - diss’egli - non mi piace affatto che si scherzi con me. Ho aspettato abbastanza. Vi ho dato congedo, e se questa sera non mi avrete portato del danaro... vedrò cosa mi resta a fare...
- Danaro! danaro!... Ve ne domando io forse! - rispose Rodolfo - d'altra parte se anche ne avessi, non ve ne darei: il pagare di venerdì, porta disgrazia.
L'ira del signor Benoit prendeva l'aspetto di un uragano; se i mobili non fossero stati suoi, avrebbe certamente rovinato qualche sedia o la poltrona.
Uscì minacciando.
- Dimenticate il sacchetto! - gli gridò dietro Rodolfo. - Che mestiere! - mormorò poi, quando fu solo - vorrei piuttosto domare dei leoni. Ma - continuò a voce alta, saltando fuori dal letto e vestendosi - presto presto, io non posso restar qui. L'invasione degli alleati continuerà. Bisogna fuggire... bisogna anche far colazione. Se andassi a trovare Schaunard?... Gli domanderei un posto a tavola e mi farei prestare qualche soldo. Cento franchi mi basteranno. Andiamo da Schaunard.
Scendendo le scale, Rodolfo incontrò il signor Benoit, il quale aveva subito altri insuccessi per parte degli altri inquilini: il suo sacco vuoto, lo provava.
- Se qualcuno viene a chiedere di me, direte che sono in campagna... sulle Alpi. No; dite che non abito più qui.
- Dirò la verità - mormorò il signor Benoit, dando alle sue parole un accento molto significante.
Schaunard abitava a Montmartre: era necessario attraversare tutta Parigi. Questa peregrinazione era per Rodolfo pericolosissima.
- Oggi - egli pensava - le strade sono selciate di creditori.
Non passò pei bastioni esterni, come ne aveva l'idea; una speranza fantastica l'incoraggio invece a passare pel centro pericoloso di Parigi. Rodolfo pensava che in un giorno, nel quale i milioni passeggiavano per Parigi, sulle spalle dei fattorini delle banche, potrebbe benissimo succedere che un biglietto da mille franchi, smarrito per la strada, aspettasse il suo Vincenzo de’ Paoli.
Rodolfo adunque camminava adagio e collo sguardo a terra. Non trovò che qualche spillo.
Due ore dopo egli arrivava da Schaunard.
- Oh sei tu? - disse questi.
- Sì, vengo a domandarti da colazione.
- Oh mio caro, tu arrivi male: la mia amica fu qui; erano quindici giorni che non la vedevo; se tu fossi arrivato solo dieci minuti prima!...
- Ma tu non hai un centinaio di franchi da prestarmi?... - riprese Rodolfo.
- Come? anche tu? - rispose Schaunard al colmo della meraviglia - anche tu vieni a chiedermi danaro? ti unisci anche tu ai miei nemici?
- Te lo restituirò lunedì.
- Ti dimentichi dunque, mio caro, qual giorno è oggi? Non posso far nulla per te. Ma non c'è nulla di disperato: la giornata non è finita. Tu puoi incontrare la Provvidenza, ella non s'alza mai prima di mezzogiorno.
- Oh! - rispose Rodolfo - la Provvidenza ha troppo da fare per gli uccelletti. Anderò a trovare Marcello.
Marcello allora abitava in via Breda. Rodolfo lo trovò assai pensieroso, in contemplazione davanti al suo grande quadro, che doveva rappresentare il Passaggio del mar Rosso.
- Cos'hai ? - gli chiese Rodolfo entrando. - Mi sembri tutto mortificato.
- Ahimè! - . disse il pittore - sono quindici giorni che mi trovo nella settimana santa.
Per Rodolfo questa risposta era limpida come l'acqua d'una fontana.
- Aringhe salate e radici nere! Benissimo! Me ne ricordo. - (Difatti Rodolfo rammentava lucidamente quel tempo, in cui era stato ridotto al consumo esclusivo di questo pesce.) - Diavolo! - diss’egli - questa è una cosa grave! Venivo per farmi prestare cento franchi.
- Cento franchi! - esclamò Marcello. - Ma tu fantastichi sempre! Venirmi a chiedere questa somma mitologica in un momento in cui si è sotto l'equatore della necessità! Ma tu hai preso un granchio!
- Ah! non ho preso niente affatto! - e se ne andò, lasciando il suo amico sulle sponde del mar Rosso.
Da mezzodì alle quattro, Rodolfo picchiò a tutte le case abitate da persone di sua conoscenza, percorse tutti i quarantotto quartieri della città, fece circa otto leghe: invano! L'influenza del 15 aprile si faceva sentire dappertutto collo stesso rigore: intanto l'ora del pranzo s'avvicinava. Ma non pareva che il pranzo s'avvicinasse all'ora, e Rodolfo credette per un momento di essere sulla zattera della Medusa.
Mentre attraversava il ponte Nuovo, gli venne tutt’ad un tratto un'idea!
- Oh, oh! - diss'egli tra sè e ritornando indietro - il 15 aprile... il 15 aprile... io sono invitato a pranzo quest'oggi!!
E frugando nelle sue tasche, ritrovò un biglietto stampato, così concepito:

- Io non sono dell'opinione dei discepoli di questo Messia - diceva Rodolfo - ma dividerò molto volentieri il loro pranzo.
E colla velocità dell'uccello, divorò lo spazio che lo separava dalla barriera.
Quando arrivò nella sala del Gran Vincitore, la folla era immensa. La sala di trecento posti conteneva cinquecento persone. Un vasto orizzonte di vitello colle carote, si stendeva davanti gli occhi di Rodolfo.
Finalmente s'incominciò a servire la zuppa.
Non appena i convitati avevano messo in bocca il cucchiaio, cinque o sei persone vestite in abito paesano irruppero nella sala con un commissario di polizia alla testa.
- Signori - disse il commissario - per ordine superiore non può aver luogo il banchetto. Vi ordino di ritirarvi.
- Oh! - disse Rodolfo, uscendo cogli altri - la fatalità mi rovescia la zuppa!!
Riprese la strada di casa sua e vi giunse alle undici di sera.
Il signor Benoit l’aspettava.
- Ah! siete voi - disse il padrone di casa. - Avete pensato a quanto vi dissi stamane? Mi portate del danaro?
- Debbo riceverne questa notte; ve ne darò domattina - rispose Rodolfo cercando la chiave e il candeliere nella sua cassetta: ma non trovò nulla.
- Signor Rodolfo - disse Benoit - me ne dispiace assai, ma la vostra camera è affittata, e non ne ho disponibile alcun'altra, cercate altrove.
Rodolfo aveva molto coraggio, ed una notte all'aria non lo spaventava; del resto, in caso di cattivo tempo, poteva coricarsi in un palco di proscenio dell'Odéon, come aveva già fatto altre volte. Reclamò i suoi effetti, che consistevano in un fascio di carte.
- È giusto - disse il padrone di casa - non ho diritto di ritenere quegli effetti. Salite con me; se la persona che ha preso la vostra camera non è ancora a letto, noi potremo entrare.
La camera era stata affittata, durante il giorno, ad una ragazza che si chiamava Mimì, colla quale un tempo Rodolfo aveva incominciato un duetto di tenerezza.
Essi si riconobbero subito; Rodolfo parlò all'orecchio di Mimì e le strinse la mano.
- Vedete come piove! - diss’egli accennando il fracasso del temporale che infuriava.
Madamigella Mimì andò dritta dal signor Benoit e gli disse accennando Rodolfo:
- Signore, la persona che aspettavo è questa. La mia porta è chiusa per tutti.
- Ah! - disse il signor Benoit facendo una smorfia va benissimo - e se n'andò.
Intanto che Mimì preparava una cena improvvisata, suonò mezzanotte.
- Ah! - disse Rodolfo tra sè - il 15 aprile è passato. Ho finalmente varcato il Capo delle tempeste. - Cara Mimì - aggiunse accostandosi alla giovanetta e baciandola sulla fronte - voi non avreste potuto mettermi alla porta: avete il bernoccolo dell'ospitalità.

XI
UN CAFFÈ DELLA BOHÈME

Ecco in qual modo Carolus Barbemuche, letterato e filosofo platonico, diventò membro della bohème nel suo ventiquattresimo anno.
In quel tempo Gustavo Colline, il grande filosofo, Marcello il grande pittore, Rodolfo il grande poeta, e Schaunard, il gran maestro di musica (come si chiamavano a vicenda), frequentavano regolarmente il caffè Momus, ove li soprannominavano i quattro Moschettieri, perché si vedevano sempre tutti e quattro insieme. Difatti, essi venivano; giuocavano e se ne andavano assieme, qualche volta anzi non pagavano le consumazioni, ma sempre con un accordo degno dell'orchestra del Conservatorio.
Per luogo delle loro riunioni avevano scelto una sala dove potevano star comodamente quaranta persone, ma essi avevano finito per rendere inaccessibile il luogo ai frequentatori ordinari, e perciò trovavansi sempre soli.
L'avventore di passaggio che si arrischiava in quell'antro, fin dal suo ingresso diventava la vittima del tetro quartetto e, il più delle volte, fuggiva senza terminare di leggere il giornale o di sorbire la sua tazza di caffè, perché gli inauditi aforismi sull'arte, sul sentimento, sull'economia politica, gliela inacidivano i discorsi dei quattro amici erano tali, che il cameriere che li serviva era diventato idiota sul fiore dell'età.
Le cose però giunsero a tal punto che il padrone del caffè, perduta la pazienza, una sera entrò in sala per fare le seguenti rimostranze:
Primo: Il signor Rodolfo veniva a far colazione la mattina e portava nella sua sala tutti i giornali del caffè, spingendo l'indiscrezione fino ad incollerirsi se trovava già rotte le fasce dei giornali, il che era causa che gli altri avventori, privi degli organi dell'opinione pubblica, restavano ignoranti in politica.
Bosquet e i suoi amici sapevano appena i nomi dei membri dell'ultimo ministero.
Anzi il signor Rodolfo aveva perfino obbligato il caffettiere a prendere un abbonamento al ‘Castoro’, giornale del quale era il collaboratore in capo. Questi aveva dapprima rifiutato, ma siccome il signor Rodolfo ed i suoi compagni chiamavano ad ogni momento il cameriere e gli domandavano ad altissima voce il ‘Castoro’, portateci il ‘Castoro’! alcuni altri avventori, la cui curiosità era stata eccitata da quella accanita domanda, chiedevano essi pure il Castoro.
Il proprietario del caffè era quindi stato forzato ad abbonarsi al ‘Castoro’, giornale dei cappellai, che si pubblica ogni mese, illustrato da una figura e, come Varietà, di un articolo filosofico del signor Gustavo Colline.
Secondo: Il signor Colline ed il suo amico Rodolfo ricreavano la loro mente, affaticata dai lavori intellettuali, giuocando a tavola reale, dalle dieci della mattina fino a mezzanotte, e, siccome il locale non possedeva che una sola tavola, ne veniva di conseguenza che le altre persone, appassionate a questo giuoco, si trovavano lese, perché ogni volta che gliela domandavano, essi rispondevano: La tavola è occupata; ripassate domani Bosquet e i suoi compagni si vedevano perciò costretti a raccontarsi i loro primi amori, od a giuocare a picchetto.
Terzo: Il signor Marcello, dimenticando che il caffè è luogo pubblico, si era permesso di portarvi il suo cavalletto, le cassette dei colori e tutti gli utensili della sua professione. Egli spinse l’ineducazione, al punto, di far venire modelli d'ambo i sessi.
Il che può offendere i costumi della compagnia Bosquet.
Quarto: Imitando l'esempio del suo amico, il signor Schaunard ha intenzione di trasportare nel caffè il pianoforte non si vergogna di far cantare in coro un'aria tolta dalla sua sinfonia, intitolata: ‘Influenza dell'azzurro sulle arti’.
Il signor Schaunard è andato ancora più oltre: egli ha posto nella lanterna a gas, che sere d'insegna al caffè, un trasparente sul quale si legge

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Dirigersi al banco.

Ciò è causa, che il suddetto banco sia tutte le sere assediato da persone indecentemente vestite, le quali vengono a domandare per dove si passa.
Di più il signor Schaunard dà appuntamento ad una signora, che si chiama Femia Teinturière, la quale non porta mai cappello.
Perciò il signor Bosquet ha dichiarato, di non porre più i piedi in un luogo, nel quale si oltraggia in tal guisa la moda.
Quinto: Non contenti di spendere pochissimo, questi signori hanno tentato di diminuire ancora la spesa. Essi hanno portato nel caffè una macchina a spirito e, sotto pretesto di avervi sorpreso il molca in adulterio colla cicoria, fanno da sè stessi il caffè, che raddolciscano collo zucchero, preso fuori a basso prezzo, la qual cosa costituisce un insulto per il proprietario del locale.
Sesto: Il cameriere Bergami, (così nominato, a causa delle sue simpatie), corrotto dai discorsi di questi signori, dimentico dell'umiltà de’ suoi natali, rompendo ogni ritegno, si è permesso dirigere alla signora che sta al banco, una poesia, nella quale l’eccita all'oblio dei suoi doveri di moglie e di madre.
Dal disordine dello stile si riconosce che quella lettera è stata scritta sotto l'influenza perniciosa dei signor Rodolfo e della sua letteratura.
Per conseguenza, il proprietario del locale, sebbene con dispiacere, si trova nella necessità di pregare la compagnia Colline di scegliersi un altro luogo per tenere le sue conferenze rivoluzionarie.
Gustavo Colline, che era l'avvocato della società, prese la parola, e provò, a priori, al proprietario del caffè, che i suoi lamenti erano ridicoli ed infondati, che gli si faceva un grande onore scegliendo il suo locale per trasformarlo in un focolare d'intelligenza, e che il suo abbandono, e quello degli amici suoi, costituirebbe la rovina del caffè, elevato dalla loro presenza al grado di ritrovo artistico-letterario.
- Ma - disse il padrone del caffè - voi e coloro che vengono a trovarvi consumate sì poco!...
- Questa sobrietà, della quale vi lamentate, è una prova dei nostri buoni costumi - replicò Colline. - Del resto dipende da voi; se volete che noi spendiamo di più, apriteci un conto corrente.
- Daremo noi stessi un registro - aggiunse Marcello.
Il caffettiere finse di non capire, e chiese alcuni schiarimenti a proposito delle lettere incendiarie che Bergami aveva diretto a sua moglie.
Rodolfo, accusato di aver servito come segretario in questo illecito amore, si difese calorosamente.
- Del resto - conchiudeva - la virtù della signora era una fortezza così inespugnabile, che...
- Oh! - disse il caffettiere, con un sorriso d’orgoglio - mia moglie fu allevata a San Dionigi!
Insomma, Colline finì di confonderlo completamente coi raggiri della sua insidiosa eloquenza, e tutto s’accomodò colla semplice promessa che i quattro amici non farebbero più il caffè privatamente; che fin d'allora il locale riceverebbe gratis il ‘Castoro’; che Femia Teinturière si metterebbe una cuffia; che la tavola reale sarebbe lasciata godere alla società Bosquet tutta la domenica, da mezzogiorno alle due; e che, in particolar modo, non si aumenterebbe il debito.
Per alcuni giorni tutto andò bene.
La vigilia di Natale, i quattro amici arrivarono nel caffè in compagnia delle loro spose, cioè madamigella Musette; madamigella Mimì, la nuova amante di Rodolfo, una creatura adorabile, la cui voce sonora faceva il fracasso di un timpano, e Femia Teinturière, l'idolo di Schaunard.
Quella sera, Femia aveva una cuffia. Quanto a madama Colline, che non si vedeva mai, era rimasta in casa a mettere le virgole ai manoscritti dello sposo.
Dopo il caffè, che, in via straordinaria, fu scortato da un battaglione di bicchierini di cognac, si chiesero dei ponci.
Il cameriere, non abituato a questo procedere grandioso, si fece ripetere l'ordine due volte. Femia pareva in estasi bevendo in bicchieri a calice. Marcello bisticciava con Musette a proposito d'un cappellino, di cui, sospettava l'origine. Mimì e Rodolfo, ancora nella luna di miele, parlavano insieme gesticolando. Quanto a Colline, egli andava di donna in donna, ripetendo loro tutte le sdolcinature raccolte nella collezione dell'Almanacco delle Muse.
Mentre quest'allegra comitiva si abbandonava al giuoco ed alle risa, un forestiere, seduto in fondo alla sala, presso una tavola isolata, osservava con sguardo stranissimo l'animato spettacolo, che si svolgeva davanti a lui.
Da quindici giorni, veniva là tutte le sere; di tutti gli avventori era il solo che avesse potuto resistere all'orrendo fracasso che facevano i bohèmes.
Egli stava là, tutta la sera, fumando la sua pipa con una regolarità matematica; lo sguardo fisso, come, se custodisse un tesoro, e l'orecchio aperto a tutto ciò che si diceva intorno a lui. Sembrava di carattere dolce, di condizione agiata perché possedeva un orologio, assicurato alla sua tasca da una catena. Un giorno in cui Marcello si trovò al banco con lui, lo sorprese che cambiava un luigi per pagare ciò che aveva bevuto.
Da quel giorno, i quattro amici lo chiamavano il capitalista.
All'improvviso, Schaunard, che aveva una vista eccellente, fece notare che i bicchieri erano vuoti.
- Per Bacco! - disse Rodolfo - stasera è la vigilia di Natale; noi siamo tutti buoni cristiani, dunque bisogna fare un po’ di allegria.
- Sì, davvero - aggiunse Marcello - facciamoci portare cose soprannaturali.
- Colline! - riprese Rodolfo - suona il campanello.
Colline tirò il cordone freneticamente.
- Cosa prenderemo? - domandò Marcello.
Colline si curvò come un arco, e riprese, indicando le donne:
- Il diritto di comandare l'ordine e la marcia dei rinfreschi, appartiene alle signore.
- A me - disse Musette, facendo vedere la lingua lo sciampagna non farebbe paura.
- Sei pazza! - esclamò Marcello. - Dello sciampagna? Prima di tutto non è vino...
- Che importa? Mi piace... fa fracasso!...
- Io - disse Mimì, accarezzando con uno sguardo Rodolfo - io preferisco il beaune, in un cestino.
- Ma u perdi la testa! - esclamò Rodolfo.
- Voglio perderla - riprese Mimì, sulla quale il ‘beaune' produceva un effetto singolare.
Il suo amante rimase fulminato da quella risposta.
- Io - disse Femia Teinturière, cullandosi sul divano elastico - io vorrei del perfetto amore. È stomatico.
Schaunard, con voce nasale, articolò alcune parole che fecero trasalire Femia.
- Ah, bah! - gridò Marcello - una volta tanto facciamo centomila franchi di spesa!
- E poi - aggiunse Rodolfo - il padrone si lamenta che non spendiamo abbastanza!
- Bisogna sprofondarlo nello stupore.
- Sì - disse Colline - abbandoniamoci ad uno splendido convito: d'altra parte noi dobbiamo a queste signore la più completa obbedienza; l'amore vive di sacrifizi, il vino è il succo dei piacere, il piacere è il dovere della gioventù; le donne sono fiori, e bisogna annaffiarle. Annaffiamo! Cameriere! Cameriere!
E Colline si attaccò al cordone dei campanello scuotendolo con febbrile agitazione.
Il cameriere arrivò, rapido come il fulmine.
Allorché udì parlare di sciampagna, di beaune e di altri diversi liquori, la sua fisionomia eseguì tutta la scala dello stupore.
- Ho dei buchi nello stomaco - disse Mimì. - Prenderei volentieri del prosciutto.
- Ed io delle sardine e dei burro - aggiunse Musette.
- Ed io un po’ di carne contornata da radici - disse Femia.
- Dite addirittura che volete cenare - riprese Marcello.
- Noi ci staremmo - risposero in coro le donne.
- Cameriere! - disse gravemente Colline - portateci il necessario per cenare.
Il cameriere, a forza di sorprese, era diventato tricolore. Scese lentamente al banco, e comunicò al padrone del caffè la straordinaria ordinazione ricevuta.
Il caffettiere credette che volessero scherzare: ma ad una nuova scampanellata salì egli stesso, e si diresse a Colline, pei quale aveva una certa stima.
Colline gli spiegò che volevano celebrare nel suo locale la solennità della vigilia di Natale, e lo pregò di far servire ciò che gli avevano chiesto.
Il caffettiere non rispose; se ne andò ritrosamente, facendo dei nodi coi tovagliuoio che aveva in mano. Si consultò per un quarto d'ora con sua moglie, la quale, in grazia dell'educazione liberale ricevuta a an Dionigi, sentiva un vero trasporto per le belle arti e per la letteratura, e lo incoraggiò a far servire la cena.
- Infine poi - disse il caffettiere - essi possono ben avere, qualche volta, del danaro.
E diede ordine al cameriere di portar dl sopra butto quello che avevano ordinato. Indi s'ingolfò in una partita di picchetto con un vecchio avventore. Fatale imprudenza!
Dalle dieci a mezzanotte, il cameriere non fece che salire e scendere continuamente. Ad ogni momento gli si domandavano dei supplementi. Musette si faceva servire all'inglese e cambiava posata ad ogni boccone. Mimì beveva ogni qualità di vino in tutti i bicchieri; Schaunard aveva in gola un Sahara continuo; Colline eseguiva, cogli occhi, fuochi incrociati; e, mentre strappava il tovagliuolo coi denti, stringeva la gamba del tavolo, credendola quella di Femia.
Quanto a Rodolfo ed a Marcello, essi non perdevano il loro sangue freddo, ma vedevano con inquietudine avvicinarsi l'ora dello scioglimento.
Il forestiero considerava con grave curiosità queste scene; la sua bocca si schiudeva, di quando in quando, come per sorridere; poi si udiva un rumore simile a quello d'una porta che stride chiudendosi.
Era il forestiero che rideva per conto suo.
A mezzanotte meno un quarto, la padrona mandò sopra il conto che ammontava alla cifra esagerata di franchi venticinque e settantacinque centesimi.
- Vediamo - disse Marcello - tiriamo a sorte, a chi dovrà parlamentare col caffettiere. Sarà un affare grave!
Presero un giuoco di dominò, e tirarono fra loro al numero più alto.
Sventuratamente la sorte designò come plenipotenziario, Schaunard, che era un eccellente artista, ma un pessimo diplomatico. Egli arrivò al banco, proprio in quel momento in cui il padrone finiva di perdere la partita col suo vecchio avventore. Momus, curvo sotto la vergogna dei tre cappotti, era d'un umore terribile; alla prima parola di Schaunard montò in una collera violenta. Schaunard era un buon musicista, ma aveva un carattere. deplorevolissimo. Rispose con insolenze a doppio tempo. La questione si inaspriva, ed il caffettiere salì per dichiarare che dovevano pagare, altrimenti non sarebbero usciti. Colline tentò d'intervenire colla sua moderata eloquenza, ma la collera dei caffettiere raddoppiò, vedendo un tovagliuolo ridotto a filaccie, e, per garantirsi, osò mettere le mani sul soprabito di Colline e sui mantelli delle signore.
Uno scambio vivissimo d'ingiurie seguì fra i bohèmes e il padrone del caffè.
Le tre donne intanto parlavano d'amore e di mode.
Lo straniero incominciò a togliersi dalla sua impassibilità: a poco a poco si era alzato, aveva fatto un passo, poi due, infine camminava naturalmente: s'avvicinò a Momus e gli parlò sottovoce. Rodolfo e Marcello lo seguirono collo sguardo. Il caffettiere finì dicendo allo straniero:
- Certo che acconsente, signore, sicuramente: intendetevela con loro.
Il signor Barbemuche ritornò al suo tavolino per prendere il cappello, se lo pose in testa, fece una conversione a destra, ed in tre passi fu vicino a Rodolfo ed a Marcello; si levò il cappello, ed inchinandosi dinanzi agli uomini, indirizzò un saluto alle signore. Levò poscia di tasca il fazzoletto, si soffiò il naso, e con voce timida, disse:
- Vi domando perdono, signori, della indiscrezione che sto per commettere. Da molto tempo arde dal desiderio di fare la vostra conoscenza, ma finora non mi si è presentata mai l'occasione per mettermi in relazione con voi. Mi permettereste di cogliere quella che oggi si presenta?
- Sicuro certo..., certo... - rispose Colline, che vedeva dove sarebbe arrivato lo sconosciuto.
Rodolfo e Marcello chinarono il capo senza proferire parola.
La troppa squisita delicatezza di Schaunard, poco mancò non mandasse tutto in rovina.
- Permettete, signore - diss’egli con enfasi - voi non avete l’onore di conoscerci, e le convenienze non permettono che... Avreste la bontà di darmi una pipata di tabacco ?... Del resto, io sarò dell'opinione dei miei amici...
- Signori - riprese Barbemuche - sono anch’io un discepolo delle belle arti, come voialtri. Per quanto ho potuto capire, udendovi discorrere, le nostre aspirazioni sono uguali; desidero ardentemente d'essere vostro amico e di poter trovarvi qui ogni sera... Il proprietario di questo locale è un uomo brutale, ma io gli ho detto una parola e, se volete, siete padroni di partire... Spero che voi non mi rifiuterete il mezzo di rivedervi qui e accetterete il piccolo servigio che...
Il rossore dell'indignazione salì improvviso alla faccia di Schaunard.
- Specula sulla nostra posizione - diss’egli - noi non possiamo accettare. Ha pagato il nostro conto; giuocherò con lui i suoi trentacinque franchi al biliardo, e gli darò dei punti.
Barbemuche accettò la proposta, ed ebbe il delicato riguardo di perdere la partita; ma questa cortesia gli acquistò la stima della bohème.
Si lasciarono, dandosi appuntamento per il domani.
- Così - diceva Schaunard a Marcello - noi non gli dobbiamo nulla; la nostra dignità è salva.
- E noi possiamo quasi esigere un'altra cena - aggiunse Rodolfo ridendo.

XII.
UN RICEVIMENTO NELLA BOHÈME

La sera stessa in cui Carolus aveva pagato la cena alla compagnia dei bohème, dispose le cose in modo che Colline lo accompagnasse. Dacché assisteva alla conversazione dei quattro amici nel caffè, dove li aveva tratti d'impaccio, Carolus aveva specialmente notato Colline e provava già una simpatica attrattiva per questo Socrate, del quale doveva, col tempo, diventare il Platone. Perciò lo scelse subito come suo introduttore nel cenacolo. Strada facendo, Barbemuche offrì a Colline di prendere qualche cosa in un caffè, che si trovava aperto ancora. Ma Colline non solo rifiutò, ma raddoppiò il passo, e passando dinanzi al caffè calò sugli occhi il suo cappello iperfisico.
- Perché non volete entrare? - domandò Barbemuche insistendo con squisita gentilezza.
- Ho le mie ragioni - rispose Colline - in questo caffè c'è al banco una signora che si occupa molto di scienze positive, ed io non potrei fare a meno di avere con lei una discussione assai lunga, ciò che cerco di evita re non passando mai per questa strada a mezzogiorno, né in tutte le altre ore di sole.
- Ma come avvenne ?...
- Oh, è cosa semplicissima - rispose con ingenuità Colline - abitavo con Marcello in questo quartiere.
- Avrei desiderato offrirvi un ponce e parlare un po’. Non avete qui prossimo un luogo, dove possiate entrare senza essere impedito da difficoltà... matematiche? - aggiunse Barbemuche, il quale credette a proposito, di essere molto spiritoso.
Colline pensò un momento, e poi:
- Ecco lì un locale, dove la mia posizione è meno equivoca - diss’egli indicando un vinaio.
Barbemuche fece una smorfia, e parve esitare.
- È un luogo pulito? - domandò.
Colline, considerando l'attitudine riservata e glaciale di Barbemuche, il suo muto sorriso e, sopratutto, la sua catena coi ciondoli, s'era immaginato ch'egli fosse impiegato in un'ambasciata, e perciò avesse paura di compromettersi entrando in una taverna.
- Non havvi nessun pericolo di essere veduti - diss’egli - a quest'ora tutto il corpo diplomatico è a letto.
Barbemuche si decise ad entrare, ma, in fondo all'anima, egli avrebbe almeno voluto aver un naso posticcio. Per maggior sicurezza, domandò un gabinetto riservato, ed ebbe cura di metter un tovagliuolo sui vetri della porta. Prese queste precauzioni, parve meno inquieto, e comandò due ponci. Barbemuche, riscaldato un po’ dalla bevanda, divenne più espansivo, e, dopo aver dati alcuni ragguagli sopra sè stesso, osò articolare la speranza da lui concepita, di poter un giorno diventar membro ufficiale della. Società della Bohème, e pregava Colline di aiutarlo a realizzare questo ambizioso progetto.
Colline rispose, che per conto suo si metteva a disposizione di Barbemuche, ma nondimeno, non poteva con certezza, assicurare nulla.
- Vi prometto il mio voto - diss’egli - ma non posso assumermi di disporre di quello dei miei amici.
- Ma - chiese Barbemuche - per quali motivi ricuserebbero essi di ricevermi fra loro?
Colline depose sulla tavola il bicchiere che stava per portare alle labbra, e con aria seria, disse all'ardito Carolus press'a poco così:
- Voi coltivate le belle arti?
- Io lavoro modestamente i nobili campi dell'intelligenza - rispose Carolus, il quale voleva spiegare i colori del suo stile.
Colline trovò la frase ben concepita, e fece un inchino:
- Conoscete la, musica?
- Ho suonato il contrabbasso.
- È uno strumento filosofico, dà suoni gravi. Allora, se conoscete le leggi dell’armonia, sapete che, senza calpestare le leggi, non si può introdurre un quinto in un quartetto; altrimenti non sarebbe più un quartetto.
- Diverrebbe un quintetto - rispose Carolus.
- Che cosa? - domandò Colline.
- Quintetto.
- Perfettamente. Così pure, se nella trinità voi introducete un’altra persona, non vi sarà più trinità, ma un quadrato, e la religione sarebbe oscurata nel suo bel principio.
- Permettete - disse Barbemuche, il cui intelletto incominciava ad inciampare in mezzo a tutte le spine ed i triboli del ragionamento di Colline - non vedo però troppo chiaro...
- Guardate e seguitemi... - continuò Colline - conoscete voi l’astronomia?
- Un pochino; sono baccelliere.
- C'è una canzone su quest'argomento - disse Colline – "Baccellier, dicea Lisetta..." non me ne ricordo più l’aria... Allora voi dovete sapere che ci sono quattro punti cardinali. Ebbene, se sorgesse un quinto punto cardinale, tutta l'armonia della natura sarebbe sconvolta. È ciò che si chiamerebbe un cataclisma. Capito ?
- Aspetto la conclusione.
- Difatti, la conclusione è la fine del discorso, come la morte è la fine della vita, come il matrimonio è la fine dell’amore. Ebbene, mio caro signore, io ed i miei amici siamo assuefatti a vivere insieme, e temiamo di veder rompersi l’armoniche file del nostro concerto di costumi, di opinioni, di abitudini, di gusti, di caratteri, coll’introdurre un estraneo fra noi. Noi dobbiamo essere un giorno i quattro punti cardinali dell'arte contemporanea, ve lo dico con modestia, e senza complimenti; abituati a questa idea, ci seccherebbe di vedere un quinto punto cardinale.
- Però, quando si è quattro si può ben essere cinque - disse Carolus.
- Sì, ma non si è più quattro.
- È un futile pretesto.
- Non c'è nulla di futile a questo mondo, tutto è nel tutto; i ruscelletti formano i grandi fiumi, le sillabe fanno i sonetti, e le montagne son fatte di granelli di sabbia. Tutto questo si trova nella Sapienza delle Nazioni, ce n'è un esemplare sulla Ripa.
- Voi dunque credete che questi signori troveranno dell’eccezioni per ammettermi all'onore della loro intimità? - domandò Barbemuche.
- Lo credo... in Dio padre onnipotente... è un'abitudine. Ditemi, mio caro signore, nei campi dell’intelligenza qual è il nobile solco che voi tracciate di preferenza?
- Cosa dite?
- Perdono...
- I miei modelli sono i grandi filosofi ed i buoni classici - rispose Carolus - io mi pasce del loro studio. Telemaco fu il primo che m'ispirò la passione che mi divora.
- Telemaco sta molto sulla Ripa - disse Colline. Vi si trova a tutte le ore, lo comprai per cinque soldi in una buona occasione: però acconsentirei privarmene per farvi piacere. Del resto, buona opera e ben compilata.
- Sì, signore - continuava Carolus - l'alta filosofia e la sana letteratura, ecco le mie aspirazioni. Secondo la mia opinione, l’arte è un sacerdozio.
- Dunque, essendo l'arte una solenne funzione, gli scrittori debbono incessantemente...
- Perdonate, signore - interruppe Colline che udiva suonare la mezzanotte - a momenti sarà domani mattina, ed ho paura di rendere inquieta una persona che mi è cara. Del resto - mormorò fra sè - le avevo promesso d'andare a casa di buon'ora... è il suo giorno.
- È tardi difatti - disse Carolus - ritiriamoci.
- Abitate lontano? - interrogò Colline.
- Via Reale Sant’Onorato, numero dieci.
Colline aveva avuto occasione, una volta, d'andare in quella casa, e si ricordò ch'era un magnifico palazzo.
- Parlerò di voi a quei signori - diss’egli a Carolus lasciandolo - state sicuro che adoprerò tutta la mia influenza, affinché vi siano favorevoli... Ah! permettetemi di darvi un consiglio.
- Parlate - disse Carolus.
- Siate amabile e galante colle signore Mimì, Musette e Femia queste signore esercitano una grande autorità sui miei amici, e sapendovi mettere sotto la protezione delle loro donne, voi otterrete da Marcello, Schaunard e Rodolfo tutto ciò che vorrete.
- Procurerò - rispose Carolus.
Il domani, Colline piombò in mezzo al cenacolo della bohème era l'ora della colazione, e la colazione era giunta coll’ora. Le tre famiglie erano a tavola, in preda ad un orgia di carciofi al pepe.
- Diavolo! - disse Colline - qui si mangia sempre... così non può durare. Vengo come ambasciatore dei generoso mortale che abbiamo trovato ieri sera al caffè.
- Domanda forse il danaro che anticipò per noi? interrogò Marcello.
- Oh! - disse Mimì - non avrei mai creduto fosse capace di ciò! Ha un fare così distinto...
- No - rispose Colline - quei giovane desidera essere dei nostri; vuoi prendere delle azioni della nostra società e partecipare ai benefizi, ben inteso.
I tre bohèmes alzarono la testa e si guardarono l'un l’altro.
- Ecco tutto - conchiuse Colline. - Ora la discussione è aperta.
- Qual è la posizione sociale del tuo protetto? - domandò Rodolfo.
- Non è un mio protetto - rispose Colline. - Ieri sera mi avete pregato di seguirlo, egli dal canto suo mi pregò di accompagnarlo, e va benissimo. Lo seguii: egli mi abbeverò, per gran parte della notte, di attenzioni e di liquori fini, ma vi giuro, ho sempre conservato la mia indipendenza.
- Benissimo - disse Schaunard.
- Schizzaci qualche tratto importante dei suo carattere - aggiunse Marcello.
- Anima grande, costumi austeri, non osa entrare da un mercante di vino, baccelliere, candido come neve, suona il contrabbasso, natura che cambia qualche volta pezzi da cinque franchi.
- Benissimo - disse Schaunard.
- Quali sono le sue speranze?
- Ve l’ho già detto: la sua ambizione non ha limiti: egli aspira a darci del tu.
- La qual cosa significa che vuoi trarne profitto osservò Marcello. - Vuoi farsi veder montare nelle nostre carrozze.
- Qual arte è la sua?
- Sì - disse Marcello - quale strumento suona?
- La sua arte? - rispose Colline - che cosa suona? Letteratura e filosofia unite.
- Quali sono le sue cognizioni filosofiche?
- Egli segue una filosofia provinciale. Chiama l'arte un sacerdozio.
- Dice sacerdozio? - esclamò Rodolfo spaventato.
- Lo dice.
- E in letteratura?
- Frequenta Telemaco.
- Benissimo disse Schaunard masticando il gambo dei carciofi.
- Come, benissimo? Imbecille!! - esclamò Marcello. Non arrischiarti a dire simile bestialità per strada...
Schaunard, indispettito per questo rimprovero, diede sotto la tavola una pedata a Femia, che sorprese mentre faceva un'invasione nella sua salsa.
- Te lo domando ancora - disse Rodolfo - che condizione è la sua? di che vive? il suo nome? la sua abitazione?
- La sua condizione è onorevole: è professore di enciclopedia, presso un'onorata famiglia. Si chiama Carolus Barbemuche; consuma le sue rendite, vivendo nel lusso, ed abita in via Reale, in un bel palazzo.
- Ammobiliato?
- No, perché vi sono mobili buoni.
- Domando la parola - disse Marcello. - È per me evidente che Colline è corrotto: egli ha venduto anticipatamente il suo voto per una somma qualunque di bicchierini. Non interrompermi - seguitò Marcello - tu risponderai alla tua volta. Taci per adesso; Colline, anima venale, vi presenta questo straniero sotto un aspetto troppo favorevole, perché sia l'immagine della verità. Ve l'ho detto: io indovino i calcoli di questo straniero. Vuole speculare su di noi. Egli ha detto a sè stesso: "Ecco lì dei giovanotti che faranno carriera: bisogna ch'io mi metta fra loro, ed arriverò con essi alla stazione della fama ".
- Benissimo - disse Schaunard - non c'è più salsa?
- No - rispose Rodolfo - l'edizione è finita.
- Da un'altra parte - continuò Marcello - questo mortale insidioso, che Colline patrocina, non aspira forse alla nostra amicizia, se non con colpevoli disegni? Noi non siamo soli qui, miei signori - proseguiva l'oratore gettando sulle donne uno sguardo eloquente - ed il protetto di Colline, introducendosi nelle nostre case, sotto il manto della letteratura, potrebbe essere null'altro che un seduttore infame. Riflettete: per me io voto contro l'ammissione.
- Domando la parola soltanto per una rettifica - disse Rodolfo. - Nella sua commendevole improvvisazione, Marcello ha dichiarato che il nominato Carolus voleva, coll'intenzione di disonorarci, introdursi in casa nostra, sotto il manto della letteratura.
- Era una figura rettorica - disse Marcello.
- Io biasimo questa figura... cattiva. La letteratura non ha mantelli.
- Poiché qui faccio l’ufficio di relatore - disse Colline, alzandosi - io sosterrò le conclusioni del mio rapporto. La gelosia, che lo divora, fa perdere il capo al nostro amico Marcello: il grande artista è insensato...
- All'ordine - urlò Marcello.
-... insensato al punto, ch’egli, così buon disegnatore, ha introdotto nella sua orazione una figura, della quale rilevò la scorrezione io spiritoso oratore che mi precedette su questa tribuna.
- Colline è un idiota! - esclamò Marcello dando sulla tavola un pugno che produsse una profonda sensazione nei piatti. - Colline non capisce nulla in fatto di sentimento, incompetente nella questione: ha un libraccio vecchio al posto del cuore.
(Risa prolungate di Schaunard).
Durante questo tumulto, Colline scuotendo le pieghe della sua cravatta bianca, lasciava scorrere i torrenti dell’eloquenza.
Allorché si ristabilì il silenzio, continuò il suo discorso:
- Signori, con una sola parola io farò svanire i chimerici timori che i sospetti di Marcello avrebbero potuto far nascere sul conto di Carolus.
- Provati - disse Marcello.
- Non sarà più difficile di questo - rispose Colline spengendo d'un soffio il fiammifero col quale aveva accesa la pipa.
- Parlate! parlate! - gridarono in coro Schaunard, Rodolfo e le donne, le quali si divertivano a quella discussione.
- Signori - declamava Colline - benché sia stato violentemente e personalmente attaccato in questo luogo, quantunque sia stato accusato di aver venduto per qualche liquore l'influenza che io posso avere fra voi, forte della mia coscienza, io non risponderò alle accuse mosse alla mia probità, alla mia lealtà, alla mia moralità (emozione). Ma havvi una cosa ch’io voglio far rispettare! (L’oratore si dà pugni sul ventre). È la mia prudenza, che conoscete benissimo, e che si volle mettere in dubbio. Mi si accusa di voler fare entrare fra voi un mortale, che nutre disegni ostili alla vostra felicità... sentimentale. Questa supposizione è un insulto alle virtù di queste signore e di più un insulto alloro buon gusto. Carolus Barbemuche è bruttissimo. (Smentita visibile sulla faccia di Femia Teinturière; rumore sotto la tavola. Schaunard corregge a pedate la compromettente franchezza della sua giovine amica). Ma - continuava Colline - ciò che ridurrà in fumo il meschino argomento, del quale il mio avversario si fece un'arma contro Carolus, mettendo a profitto le vostre paure, si è, che il suddetto Carolus è un filosofo platonico. (Sensazione sul banco degli uomini: tumulto su quello delle signore).
- Cosa vuoi dire platonico? - interrogò Femia.
- È la malattia degli uomini, che non ardiscono abbracciare una donna - disse Mimì. Ho avuto un amante di questo genere: lo tenni due ore.
- Hai ragione, mia cara - riprese Marcello. - Il platonismo in amore è come l’acqua nel vino. Beviamo puro il nostro vino.
- Evviva la gioventù! - esclamò Musette.
La dichiarazione di Colline produsse una reazione favorevole a Carolus. Il filosofo volle approfittare del buon memento prodotto dalla sua eloquente e destra accusa.
- Ora - continuava Colline - io non vedo quali sieno l’eccezioni che si potrebbero sollevare contro questo giovane mortale, il quale, in fin dei conti, ci ha reso un favore. Quanto a me, che sono accusato di aver agito da stordito, volendo introdurlo fra noi, io considero quest'opinione come un attentato alla mia dignità. Ho operato in questo affare colla prudenza del serpente, e, se un voto di fiducia non ammette questa prudenza... io do le mie dimissioni.
- Vuoi tu farne una questione di gabinetto? - disse Marcello.
- La faccio - rispose Colline.
I tre artisti si consultarono, e si accordarono per restituire al filosofo il carattere d'alta prudenza ch’egli reclamava. Colline cedette poi la parola a Marcello, il quale, ricredutosi alquanto del poco fondamento dei suoi sospetti, dichiarò che voterebbe forse per la conclusione del relatore. Ma, prima di passare alla votazione decisiva, che avrebbe aperto a Carolus l'intimità della bohème, Marcello fece mettere ai voti questo emendamento:
"Siccome l'introduzione di un nuovo membro è cosa grave, e, considerato che uno straniero può portarvi elementi di discordia, non conoscendo i costumi, i caratteri e le opinioni dei suoi compagni, ciascuno dei membri passerà una giornata col detto Carolus e farà un'inchiesta sulla sua vita, capacità letteraria e guardaroba. I bohèmes si comunicherebbero poi le loro particolari impressioni, e dopo si stabilirebbe sul rifiuto o sull'ammissione; più, prima dell'ammissione, Carolus dovrebbe subire il noviziato di un mese, cioè non avrebbe il diritto di dar dei tu, né il braccio ai compagni. Il giorno del ricevimento si darà una splendida festa, a spese del neofito. Il preventivo della spesa per questa festa non potrebbe elevarsi a meno di dodici franchi."
Questo emendamento fu approvato colla maggioranza di tre voti contro uno, quello di Colline, il quale trovava che non si aveva abbastanza confidenza in lui, e che questo emendamento era ancora un attentato alla sua prudenza.
La sera stessa, Colline andò espressamente di buon’ora al caffè per trovarvi pel primo Carolus.
Non aspettò molto. Carolus arrivò portando tre enormi mazzi di fiori.
- Oh, oh! - disse Colline - che volete fare di quel giardino?
- Mi sono ricordato - rispose Carolus - di ciò che mi diceste ieri: i vostri amici verranno certo colle loro signore, ed è per loro che ho portati questi fiori.
- Infatti, valgono quindici soldi almeno.
- Che diavolo dite? - ripeté Carolus - siamo nel mese di dicembre, se diceste quindici franchi...
- Oh Dio! - esclamò Colline - un terzetto di scudi per questi semplici doni di Flora, che pazzia! Ebbene, mio caro signore, ecco li quindici franchi che noi saremo obbligati di sfogliare alla finestra.
- Come? che cosa volete dire?
Colline raccontò i gelosi sospetti che Marcello aveva fatto concepire a’ suoi amici, e mise Carolus al corrente della tempestosa discussione che aveva avuto luogo il mattino.
- Io protestai che le vostre intenzioni erano immacolate, ma l’opposizione fu viva egualmente. Guardatevi dunque dal far rinascere i gelosi sospetti che si poterono concepire sul conto vostro, facendovi vedere troppo galante colle signore, e per incominciare, facciamo sparire questi mazzi di fiori.
Colline prese i mazzi e li nascose in un armadio che serviva da ripostiglio.
- Ma non è tutto - diss’egli. - Quei signori, prima di legarsi intimamente con voi, desiderano di studiare, ciascuno separatamente, il vostro carattere e i vostri gusti.
Poi, affinché Barbemuche non avesse ad urtarsi troppo co’ suoi amici, Colline gli tracciò uno schizzo del loro rispettivo carattere.
- Fate di trovarvi d'accordo con loro individualmente - aggiunse il filosofo - ed alla fine saranno tutti vostri.
Carolus acconsentì a tutto.
I tre amici giunsero poco dopo in compagnia delle loro amiche.
Rodolfo si mostrò cortese con Carolus. Schaunard ebbe della familiarità. Marcello restò freddo. Carolus si sforzò d'essere allegro ed affettuoso cogli uomini, ed indifferentissimo colle donne.
La sera, nel lasciarsi, Barbemuche invitò Rodolfo a pranzo per il domani; pregandolo però di andare a casa sua a mezzogiorno.
Il poeta accettò.
- Bene diss’egli fra sè - principierò io l'esame.
Il giorno dopo, all'ora stabilita, Rodolfo andò da Carolus; Barbemuche stava difatti in un bel palazzo della via Reale, e vi occupava una camera abbastanza ben ammobiliata. Rodolfo fu stupito nel vedere le imposte chiuse, le tende abbassate e due candele accese sulla tavola, benché fosse mezzogiorno. Ne chiese il motivo a Barbemuche, il quale rispose:
- Lo studio è figlio dei silenzio e del mistero!
Sedettero e si misero a discorrere. Dopo un'ora di conversazione, Carolus, con una pazienza ed una maestria oratoria stupenda, seppe far sentire una frase, la quale, a dispetto dell'umile sua forma, era nientemeno che un ordine dato a Rodolfo di ascoltare la lettura di un opuscolo, frutto delle sue veglie.
Rodolfo capì d'essere accalappiato. Però, desideroso di conoscere io stile di Barbemuche, s'inchinò umilmente, assicurandolo che era felicissimo di... ecc... ecc... ecc.
Carolus non aspettò il resto della frase: corse a chiudere la porta della camera, pose i catenacci e ritornò presso Rodolfo. Poi prese un fascicoletto, il cui formato e la poca grossezza fecero spuntare un risolino di compiacenza sulle labbra di Rodolfo.
- È quello il manoscritto delle vostre opere? - chiese.
- No - rispose Carolus - è il catalogo dei miei manoscritti, e cerco il numero di quello che voi mi avete permesso di leggere… eccolo: Don Lopez, ossia la Fatalità, n. 14. E sul terzo scaffale - continuò Carolus, ed andò ad aprire un armadio nel quale Rodolfo, vide con spavento, una grande quantità di manoscritti.
Carolus ne prese uno, chiuse l'armadio, e ritornò a sedere in faccia al poeta.
Rodolfo gettò un'occhiata sui quattro quinternetti, che componevano l'opera, scritta su carta, grande come il Campo di Marte.
- Coraggio - diss’egli a sè stesso - non è in versi... ma si chiama don Lopez.
Carolus prese il primo fascicolo ed incominciò così la sua lettura:
"In una fredda notte d'inverno, due cavalieri avviluppati nei loro mantelli e montati su due mule indolenti, camminavano in una delle vie, che attraversano la solitudine orribile dei deserti della Sierra Morena..."
- Dove sono io? - pensò Rodolfo colpito dall'esordio.
Carolus continuò nello stesso modo la lettura del primo capitolo, tutto scritto con questo stile.
Rodolfo ascoltava, assorto nel pensiero di trovare un mezzo per fuggire.
- C’è la finestra - pensava - ma oltre l'essere chiusa, noi siamo al quarto piano. Ah! ora capisco le precauzioni di costui!
- Che dite del mio primo capitolo? - interrogò Carolus - non risparmiato la critica, ve ne prego.
Rodolfo credette ricordarsi d'aver udito degli squarci di filosofia declamatoria sul suicidio, spifferati da don Lopez, eroe del romanzo, e, ad ogni buon conto, rispose:
- La grande figura del don Lopez è studiata coscienziosamente: essa mi rammenta la professione di fede dei Vicario Savoiardo: la descrizione della mula di don Alvarez mi piace infinitamente e si direbbe un bozzetto di Géricault. Il paesaggio offre delle belle linee; quanto alle idee è sementa di Gian Giacomo Rousseau, sparsa in un terreno di Lesage. Però, permettetemi un'osservazione. Voi mettete troppe virgole e fate un vero abuso delle parole: d'ora in avanti; è una bella parola che sta bene di quando in quando; essa dà un certo colore, ma non bisogna abusarne.
Carolus prese il secondo fascicolo e rilesse il titolo di Don Lopez, o la Fatalità.
- Una volta conobbi un don Lopez - disse Rodolfo egli vendeva sigaretti e cioccolata di Bajona; forse era un parente del vostro... Continuate pure.
Alla fine del secondo capitolo, il poeta interruppe Carolus domandandogli:
Non vi sentite un po’ male in gola?
- Nient'affatto - rispose Carolus - adesso udrete la storia di Juesille.
- Ne sono ansiosissimo. Però, se siete stanco, non vorrei...
- Capitolo III - disse Carolus a bassa voce.
Rodolfo esaminò attentamente Carolus, e s'accorse che aveva il collo corto ed il colorito sanguigno.
- Ho ancora una speranza - disse fra sé il poeta dopo questa scoperta - può aiutarmi l'apoplessia.
- Noi passiamo al IV capitolo. Voi avrete la bontà di dirmi il vostro parere sulla scena d'amore.
E Carolus riprese la lettura.
In un momento in cui egli guardava Rodolfo per leggere sul suo volto l'effetto che produceva il dialogo, Carolus vide il poeta, il quale, chino sulla sua sedia, sporgeva la testa nell'attitudine di un uomo che ascolti suoni lontani.
- Che cosa avete? - gli domandò.
- Zitto! - disse Rodolfo - non udite? Mi par che gridino: Ai fuoco! andiamo a vedere ?...
Carolus ascoltò un momento, ma non udì nulla.
- Mi avrà ingannato l'orecchio - disse Rodolfo - continuate pure. Don Alvarez è oltremodo simpatico: è un nobile giovanotto.
Carolus continuò a leggere, e pose tutta la dolcezza della sua voce su questa frase di don Alvarez:
O Juesille! Chiunque tu sia, angelo o demonio, qualunque sia la tua patria, la mia vita t'appartiene; io ti seguirò in cielo... all'inferno... In quel momento fu picchiato all'uscio, ed una voce dall'esterno chiamò Carolus.
- E il mio portinaio - diss’egli andando ad aprire l'uscio.
Era il portinaio difatti che gli portava una lettera. Carolus l'aprì in fretta.
- Disgustoso contrattempo! - esclamò egli - siamo costretti di rimandare ad un altro giorno la lettura; ricevo adesso una notizia che mi obbliga ad uscir subito.
- Oh! - pensò Rodolfo - quella è una lettera che cado dal cielo; ne riconosco il timbro.
- Se volete - disse Carolus - possiamo fare insieme la corsa, alla quale mi costringe questo messaggio; dopo anderemo a pranzo.
- Sono ai vostri ordini - rispose Rodolfo.
Quand’egli la sera fu di ritorno al cenacolo, i suoi amici lo interrogarono sul conto di Barbemuche.
- Sei contento di lui? Ti ha trattato bene? - domandarono Marcello e Schaunard.
- Sì, ma mi costò caro - rispose Rodolfo.
- Come? hai forse dovuto pagar tu? - interrogò Schaunard con crescente indignazione.
- Mi ha letto un romanzo, nel cui interno vi stanno dei don Lopez e dei don Alvarez, e dove gli amanti chiamano le loro bello angelo o demonio.
- Che orrore! - esclamarono tutti in coro.
- Ma, del resto - disse Colline - letteratura a parte, qual è il tuo parere sul conto di Carolus?
- È un buon giovane. Voi potrete giudicarne e far in persona le vostre osservazioni: Carolus vuole intrattenersi con ciascuno di noi. Schaunard è invitato a far colazione domani. Quando anderete in casa di Barbemuche, miei cari, non fidatevi dell'armadio dei manoscritti: è un mobile pericoloso.
Schaunard fu esatto all'appuntamento, e fece una perquisizione d'usciere che opera un sequestro. La sera tornò a casa colle tasche piene di annotazioni.
Aveva studiato Carolus sotto il punto di vista degli effetti mobili.
- Ebbene - gli domandarono - qual è il tuo parere?
- Ma - rispose Schaunard - questo Barbemuche è impastato di buone qualità; egli sa il nome di tutti i vini, e mi fece menzione di certe vivande ancor più delicate di quelle che si mangiano in casa di mia zia nei giorno della sua festa. Sembra che si trovi in buoni rapporti coi sarti e con i calzolai della strada Vivienne e del Panorama. Ho notato inoltre esser egli della nostra statura, ciò significa che, in caso di bisogno, potremmo prestargli i nostri abiti.I suoi costumi sono meno severi di quanto Colline ci ha detto; s'è lasciato condurre ovunque ho voluto; mi ha pagato una colazione in due atti, il secondo dei quali l'abbiamo rappresentato in una taverna del mercato, dove sono conosciuto per avervi fatte delle Orgie in carnevale. Carolus è entrato là dentro come un avventore. Ecco tutto. Marcello è invitato per domani.
Carolus sapeva che Marcello era quello che metteva maggiori ostacoli al suo ricevimento nel cenacolo, perciò lo trattò con una particolare ricercatezza. Ma la speranza di dipingere i ritratti dei parenti dell'allievo di Carolus, rese l'artista più favorevole a lui.
Quando Marcello ebbe fatto il suo rapporto, i suoi amici non trovarono più in lui quella ostilità sistematica, ch’egli aveva da principio dimostrata con Colline.
Il quarto giorno, Colline informò Barbemuche che era ammesso.
- Come! sono ricevuto? - esclamò Barbemuche al colmo della gioia.
- Sì, ma a patto di correggersi.
- Che cosa volete dire?
- Voglio dire che vi sono ancora alcuno piccole abitudini volgari che dovrete abbandonare.
- Farò il possibile per ubbidirvi - rispose Colline.
Tutto il tempo del suo noviziato, il filosofo platonico frequentò assiduamente i bohèmes, ed essendo in condizione di esaminare profondamente le loro abitudini, provava qualche volta le più grandi sorprese.
Una mattina, Colline entrò in casa di Barbemuche col viso raggiante.
- Caro mio, voi siete dei nostri definitivamente: è stabilito. Ora non resta più che fissare il giorno della grande festa; vengo per questo ad intendermi con voi.
- Va proprio benone - rispose Carolus - i parenti del mio allievo trovansi in campagna; il viscontino, dei quale sono il mentore, mi presterà gli appartamenti per una sera; così godremo la massima libertà; però bisognerebbe invitare il viscontino.
- Sarà un affare delicato - osservò Colline - gli schiuderemo gli orizzonti letterari! - Ma credete che egli accetterà?
- Ne sono certissimo.
- Allora non rimane che fissare il giorno.
- C'intenderemo stasera al caffè - disse Barbemuche.
Carolus andò a trovare il - suo allievo, e gli annunziò essere stato nominato membro d’un’alta società artistica-letteraria, e che, per celebrare l'avvenimento, faceva conto di dare un pranzo seguìto da una festiociuola: lo pregava perciò di far parte degli invitati.
- E siccome - aggiunse Carolus - voi non potete star fuori tardi, e la festa durerà fino a notte inoltrata, daremo la nostra festa, per vostro comodo, in questo appartamento. Il vostro servo Francesco sa tenere il segreto, i vostri genitori non sapranno nulla, e voi avrete fatto conoscenza colle persone più rinomata di Parigi, artisti ed autori.
- Stampati? - chiese il giovanetto.
- Stampati, certo! uno di essi è redattore in capo della ‘Sciarpa d'Iride’, alla quale vostra madre è abbonata; sono persone molto distinte, quasi celebri; io sono loro amico: interverranno anche le loro graziosissime signore.
- Ci saranno dunque delle donne? - interrogò il viscontino Paolo.
- Assai belle.
- Oh, caro maestro mio, ve ne ringrazio; certo daremo la festa qui; farò accendere tutte le lampade e togliere la fodera ai mobili.
La sera, al caffè, Barbemuche annunziò che la festa avrebbe avuto luogo sabato prossimo.
I bohèmes invitarono le loro donne ad occuparsi della toilette.
- Non dimenticate - dissero loro - che andiamo in un vero salon. Dunque preparatevi una toilette semplice, ma ricca.
Da quel giorno, tutta la strada sapeva che le signore Mimì, Musette e Femia andavano alla festa...
Arrivò il giorno della solennità.
Colline, Schaunard, Marcello e Rodolfo andarono in coro da Barbemuche, il quale fu meravigliato di vederli così di buon'ora.
- Sarebb’egli avvenuto qualche inciampo, che obblighi a rimandare la festa ad altro giorno? - domandò questi con una certa inquietudine.
- Sì e no - rispose Colline. - Udite che cosa succede. Non facciamo mai cerimonie fra noi, ma quando avviciniamo degli estranei, abbiamo piacere di presentarci con un certo decoro.
- Ebbene? - disse Barbemuche.
- Ebbene - continuò Colline - siccome stasera dobbiamo trovarci col signorino che ci schiude i suoi salons, per rispetto a lui e per il nostro amor proprio (giacché potremmo essere compromessi dal nostro abito un po’ negletto), veniamo semplicemente a domandarvi, se potreste prestarci, per questa sera, qualche spoglio d'un taglio un po’ elegante. Ci è quasi impossibile, voi lo capite bene, venire in giacca e in soprabito sotto le volte sontuose di questo palazzo.
- Ma - disse Carolus - io non ho quattro abiti neri.
- Eh! - disse Colline - ci accomoderemo con quelli che avete.
- Guardate, dunque! - disse Carolus aprendo un guardaroba ben fornito.
- Ma voi avete un arsenale completo di mode.
- Tre cappelli! - esclamò in estasi Schaunard. È egli possibile aver tre cappelli, quando non si ha che una sola testa?
- E le scarpe!? - disse Rodolfo. - Ma guardatele!
- Ce ne sono dello scarpe !... - urlò Colline.
In un batter d'occhio, ciascuno aveva scelto un vestito completo.
- A stasera - dissero lasciando Barbemuche. - Le signore hanno deciso d'essere risplendenti, abbaglianti!
- Diamine! - esclamò Barbemuche, dando un'occhiata alle grucce completamente vuote - voi non lasciate nulla per me. Come farò a ricevervi?
- Oh, per voi è un altro affare - riprese Rodolfo voi siete il padrone di casa, e potete lasciare da parte l'etichetta.
- Però - disse Carolus - non mi resta più se non che una veste da camera, un paio di calzoni, una sottoveste di flanella e le pantofole; mi avete preso tutto.
- Che importa? Noi vi teniamo per scusato fin d'ora - risposero i bohèmes.
Alle sei, nella sala da pranzo, stava imbandito un sontuoso banchetto.I bohème arrivarono. Marcello zoppicava, ed era di cattivo umore. Il viscontino Paolo corse incontro alle signore e le condusse ai posti migliori. Mimì aveva una toilette di alta fantasia. Musette era abbigliata con gusto, ed era assai provocante. Femia sembrava una finestra di vetri colorati; ma non aveva coraggio di mettersi a tavola. Il pranzo durò due ore e mezzo, e vi regnò un'immensa allegria.
Il viscontino Paolo schiacciava furiosamente il piede di Mimì, che gli stava vicina, e Femia richiedeva sempre qualche cosa a ciascuna portata. Schaunard era nei pampini. Rodolfo improvvisava i sonetti, e rompeva i bicchieri battendo il ritmo. Colline parlava con Marcello, che conservavasi di cattivo umore.
- Che hai? - gli domandò.
- I piedi mi fanno un male orribile, e ciò mi annoia. Questo Carolus ha un piedino da donna.
- Basterà dirgli - disse Colline - che così non può andare, che d'ora in poi si ordini scarpe alquanto più larghe; stai tranquillo, ci penso io. Andiamo in sala, i liquori ci chiamano.
La festa ricominciò con maggior calore. Schaunard si mise al pianoforte, e suonò la sua nuova sinfonia, ‘La morte della giovanetta’, con uno slancio prodigioso. Il bel pezzo intitolato ‘La marcia del creditore’, ebbe gli onori del bis. Due corde del pianoforte si ruppero.
Marcello continuava ad essere di cattivo umore, e siccome Carolus andò a lamentarsene con lui, l'artista gli rispose:
- Mio caro signore, noi non saremo mai amici intimi, ed ecco perché. Le dissomiglianze fisiche sono quasi sempre indizio certo di quella morale; la filosofia e la medicina sono d'accordo su questo punto.
- Ebbene? - disse Carolus.
- Ebbene - rispose Marcello mostrando i suoi piedi - la vostra calzatura, infinitamente troppo piccola per me, indica che non abbiamo lo stesso carattere; del resto, la vostra festa è incantevole. A un'ora del mattino, i bohèmes si ritirarono facendo lunghi giri per andare a casa. Barbemuche si ammalò e fece dei discorsi insensati al suo allievo, il quale pensava soltanto agli occhi azzurri di madamigella Mimì.

XIII.
LA CATENA DEL FUOCO

Torniamo indietro un poco.
Tuttociò che sono per raccontare succedeva in quel periodo di tempo in cui Rodolfo dimorava con madamigella Mimì, e otto giorni dopo tutto il cenacolo era assai inquieto della scomparsa del poeta, il quale, tutt’ad un tratto, era divenuto introvabile. Lo avevano cercato in tutti i luoghi che era solito di frequentare, e, dappertutto, avevano avuto la stessa risposta: "Da otto giorni non lo vediamo più."
Gustavo Colline, più d’ogni altro, era inquieto, ed ecco perché. Alcuni giorni prima aveva consegnato a Rodolfo un articolo d'alta filosofia che questi doveva inserire nel ‘Castoro’ alla colonna ‘Varietà’. L'articolo filosofico era comparso sì o no agli occhi della stupefatta Europa? Questa era la domanda che Colline si rivolgeva, e si scuserà la sua ansietà, pensando che il filosofo non aveva ancora ottenuti gli onori della tipografia, e che ardeva dal desiderio di veder l'effetto della sua prosa stampata in carattere ‘cicero’.
Affine di procurare questa sodisfazione al suo amor proprio, aveva già spesi sei franchi in sedute di lettura in tutte le sale letterarie di Parigi, senza trovarvi mai il Castoro.
Colline, incapace di frenarsi più a lungo, giurò a sé stesso che non si sarebbe riposato prima di avere agguantato l’irreperibile redattore di quel giornale.
Aiutato da combinazioni che sarebbero troppo lunghe a ridirsi, il filosofo aveva mantenuto la sua parola. Due giorni dopo egli conosceva il domicilio di Rodolfo, e vi andava alle sei del mattino.
Rodolfo allora abitava una camera ammobiliata in una via deserta del sobborgo San Germano, e stava al quinto piano, perché non c'era il sesto.
Colline, allorché giunse all'uscio, non vi trovò la chiave. Batté dieci minuti senza che alcuno rispondesse dall'intorno; il mattutino rumore fece accorrere il portinaio, il quale pregò Colline di cessare.
- Vedete bene che il signore dorme - gli disse.
- È appunto per questo che voglio svegliano - rispose Colline ripicchiando da-capo.
- Allora non vuoi rispondervi - riprese il portinaio, deponendo all'uscio di Rodolfo un paio di scarpe lucide da uomo ed un paio di stivaletti da donna.
- Aspettate un po’ - disse Colline esaminando la calzatura maschile e femminile. - Delle scarpe nuove di zecca!! Allora mi sono ingannato, non è questo certamente il suo uscio.
- Ma, infine, chi cercate? - interrogò il portinaio.
- Degli stivaletti da donna! - continuava Colline parlando fra sé e pensando ai costumi severi dei suo amico. - Sì, sì, certo, mi sono ingannato. Questa non è la camera di Rodolfo.
- Sì, vi domando scusa, sì, signore, è questa.
- Allora siete voi che v'ingannate, mio brav'uomo.
- Che cosa volete dire?
- Ma certo che v'ingannate - aggiunse Colline indicando le scarpe verniciate. - Cos’è questa roba?
- Sono le scarpe del signor Rodolfo. Cos'è di straordinario?
- E questi? - riprese Colline indicando gli stivaletti da donna - sono anche questi del signor Rodolfo?
- Sono di sua moglie.
- Di sua moglie? esclamò Colline incantato. Ah! sibarita!! Ecco perché non vuole aprire
- Per Bacco! - pensò il portinaio - questo signore è troppo licenzioso. - Poi disse: - Se vuoi dirmi il suo nome, ne farò parte al signor Rodolfo.
- No - rispose Colline. - Adesso so dove trovano, ritornerò.
E corse subito a partecipare a’ suoi amici le grandi notizie.
Le scarpe verniciate di Rodolfo furono considerate come una favola dovuta alla fervida immaginazione di Colline; si dichiarò poi che la sua amante era un paradosso.
Questo paradosso era una verità; poiché la stessa sera Marcello ricevette una lettera collettiva per tutti gli amici.
La lettera era così concepita:
"Il signor Rodolfo e la sua signora letterati, vi pregano di onorarli accettando un pranzo domani sera, alle cinque precise.
N. B. Vi saranno i piatti."
- Signori - disse Marcello andando a comunicare la lettera ai suoi amici - la notizia si conferma. Rodolfo ha davvero un'amica, di più ei invita a pranzo, ed il poscritto promette della terraglia. Non vi nascondo però che quest'ultimo paragrafo mi pare un'esagerazione: ad ogni modo vedremo.
Il giorno dopo, all'ora indicata, Marcello, Gustavo Colline ed Alessandro Schaunard, affamati come l'ultimo giorno della quaresima, andarono a casa di Rodolfo, che stava giocando con un gatto rossiccio, mentre una bella donnetta poneva la tavola.
- Signori - disse Rodolfo stringendo la mano ai suoi amici ed indicando loro la signora - permettetemi di presentarvi la padrona di questa casa. Mimì, ti presento i miei migliori amici; ora vai a preparare la zuppa.
- Oh signora! - osservò Alessandro Schaunard, precipitandosi verso Mimì - voi siete fresca come un fiore selvatico.
Schaunard, dopo essersi convinto che veramente in tavola vi erano dei piatti, andò ad informarsi di quello che si sarebbe mangiato. Egli spinse la curiosità fino a scoprire la cazzaruola dove cuocevano le vivande, e la presenza di un gambero gli cagionò una viva emozione.
Quanto a Colline, aveva tratto in disparte Rodolfo per domandargli delle notizie sul suo articolo filosofico.
- Mio caro, è alla tipografia: il ‘Castoro’ esce giovedì prossimo.
Rinunzieremo a dipingere la letizia del filosofo.
- Signori - disse Rodolfo ai suoi amici - vi chiedo scusa se sono, stato tanto tempo senza darvi mie nuove, ma ero nella luna di miele.
E raccontò la storia del suo matrimonio con quella bella creatura che gli aveva portato in dote i suoi diciott'anni e mezzo, due tazze da caffè ed un gatto fulvo, che si chiamava mimi, come lei.
- Orsù, signori - continuò Rodolfo - noi mettiamo casa. Vi avverto che faremo un pranzetto senza cerimonie; i tartufi saranno suppliti da una franca cordialità.
Difatti quest'amabile virtù non cessò di regnare fra i convitati, i quali trovarono che quel pranzo, sedicente frugale, non mancava di una certa sontuosità. Rodolfo aveva subite delle spese. Colline faceva notare che si cambiavano i piatti!! Dichiarò altresì, ad alta voce, che madama Mimì era degna della sciarpa azzurra di cui sono decorate le imperatrici dei fornelli, frase completamente sanscrita per la signora, e cui Rodolfo traduceva dicendole che ella era un vero cordone azzurro.
L’entrata in iscena del gambero produsse l'ammirazione generale. Schaunard domandò di fare egli stesso le porzioni, sotto pretesto di aver studiato la storia naturale: invece approfittò della circostanza per rompere un coltello e per tenersi la parte più abbondante, la qual cosa suscitò la generale indignazione. Ma Schaunard, trattandosi sopratutto di gamberi, non aveva amor proprio; anzi, siccome ne restava ancora un pezzo, ebbe l'audacia di metterlo da parte, dicendo che se ne sarebbe servito come di modello, per un quadro di natura morta, che stava dipingendo.
L’amicizia indulgente simulò di credere a questa menzogna, figlia della sua sconfinata ghiottoneria.
Quanto a Colline, riserbava la sua simpatia per l’antipasto, e si ostinò a rifiutare recisamente il cambio della sua parte di pasticcio al rum, con un piatto di aranci di Versailles, che Schaunard gli proponeva.
A questo punto la conversazione incominciò ad animarsi. Alle tre bottiglie a sigillo rosso succedettero tre bottiglie a sigillo verde, in mezzo alle quali se ne vide comparire una, che dal collo inargentato, si riconobbe far parte del reggimento Real-Sciampagna: vino sciampagna di fantasia, raccolto nei vigneti di Saint-Ouen e venduto a due franchi in Parigi; due franchi la bottiglia! per causa di liquidazione, diceva il negoziante.
Ma non è il paese che fa il vino, ed i nostri bohèmes accettarono come uno sciampagna autentico, il liquido che fu loro servito in bicchieri ad hoc. Malgrado la poca vivacità che mise il turacciolo a scappare dalla sua prigione, essi andarono in estasi sull’eccellenza dei vino, vedendone la molta schiuma. Schaunard impiegò il senno che gli restava per scambiare di bicchiere, bevendo in quello di Colline, il quale, colla più grande soavità, inzuppava il suo biscotto nella senapa, mentre spiegava alla signora Mimì l'articolo filosofico, che doveva uscire nel Castoro. Tutto ad un tratto egli impallidì e chiese il permesso di mettersi alla finestra per ammirare il tramonto del sole, benché il sole fosse da molto tempo coricato ed addormentato.
- Che disgrazia! questo sciampagna non è frappé esclamò Schaunard tentando ancora di sostituire al suo bicchiere vuoto, quello pieno dei suo vicino; ma il tentativo non ebbe buon successo.
- Signora - disse Colline a Mimì dopo aver preso un po’ d'aria alla finestra - lo sciampagna salta col ghiaccio, il ghiaccio è formato dall’acqua condensata, aqua in latino. L’acqua gala a due gradi, e vi sono quattro stagioni, l'estate, l'autunno e l'inverno; il che fu causa della ritirata di Russia. Rodolfo, dammi un emistichio di sciampagna!
- Che cosa dice il tuo amico? - interrogò Mimì, che non capiva.
- È un frizzo - rispose Rodolfo. - Colline vuoi dire un mezzo bicchiere.
All'improvviso, Colline battè sulle spalle a Rodolfo, e gli disse con voce imbrogliata e che pareva impastasse le sillabe: -
- Domani è giovedì, non è vero?
- No - rispose Rodolfo - domani è domenica.
- No, giovedì.
- No, ancora una volta; domani è domenica.
- Ah, domenica! - disse Colline, crollando la testa, e cade addormentato colla faccia dentro li formaggio alla
crême che aveva nel suo piatto. -
- Che ei vien egli a cantare col suo giovedì? - chiese Marcello.
- Ah, lo capisco! - disse Rodolfo che incominciava a comprendere l'insistenza del filosofo, tormentato dalla sua idea fissa - ciò deriva dal suo articolo pel Castoro. Udite, egli parla in sogno.
- Buono! - osservò Schaunard - egli non avrà il caffè - non è vero, signora?
- A proposito - disse Rodolfo - dateci dunque il caffè, Mimì.
Stava per alzarsi, allorché Colline la fermò prendendola per la vita, e le disse, confidenzialmente in un orecchio:
- Signora, il caffè è originario dell'Arabia, dove fu scoperto da una capra. Poscia venne in uso in Europa. Voltaire ne prendeva settantadue tazze ai giorno. Io l'amo senza zucchero, e lo prendo caldissimo.
- Dio mio! com'è erudito questo signore!! - pensava Mimì.
Intanto le ore passavano: mezzanotte era suonata da un pezzo, e Rodolfo tentò di far capire ai suoi convitati che era tempo di ritirarsi. Marcello, il quale aveva conservato tutta la sua ragione, si alzò per uscire.
Ma Schaunard s'accorso che c'era ancora del cognac in una bottiglia, e dichiarò che non sarebbe mai mezzanotte, finché rimaneva qualche cosa in una bottiglia. Colline stava a cavallo sulla sua sedia, mormorando:
- Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì...
- Ma infine - pensava Rodolfo assai imbarazzato io non posso tenermeli qui tutta la notte! Una volta era una cosa, ma adesso è differente - aggiungeva egli guardando Mimì, il cui occhio infiammato pareva domandasse la solitudine in due.
- Come fare? Consigliami tu, Marcello. Inventa una storia per metterli fuori.
- No - rispose Marcello - non inventerò, imiterò. Mi ricordo una commedia nella quale un servitore intelligente trova il modo di mettere alla porta tre bricconi ubbriachi come Sileno.
- Me ne ricordo anch'io - disse Rodolfo - è nel ‘Kean’.
Difatti la scena è la stessa.
- Ebbene, vedremo se il teatro è la natura. Aspetta un momento : incominceremo da Schaunard. Eh! Schaunard - gridò il pittore. -
- Eh! che c’è? - rispose questi, che sembrava nuotare nel blu di una dolce ebrezza.
- C’è che qui non vi è più nulla da bere e che noi tutti abbiamo sete. -
- Ah! sì - soggiunse Schaunard - queste bottiglie sono così piccole!
- Rodolfo - riprese Marcello - ha deciso che passeremo qui la notte; bisognerebbe quindi andare a prendere qualche cosa, prima che si chiudano le botteghe.
- Il mio droghiere sta qui sull'angolo - disse Rodolfo - dovresti fare una corsa tu, Schaunard. Prendi due bottiglie di rum per mio conto.
- Subito! - rispose Schaunard prendendo un soprabito, che non era il suo, ma quello di Colline.
- E uno! - disse Marcello appena partito Schaunard. Ora a Colline; costui sarà più duro! Oh, un'idea Colline! - gridò scuotendo violentemente il filosofo.
- Che ?... che ?... che ?... che ?...
- Ma bada dunque! Schaunard va a casa, e porta via il tuo soprabito color nocciuola. Colline si guardò intorno, e vide difatti, al posto dove stava il suo soprabito, il piccolo e leggiero abito a quadretti di Schaunard. Un’improvvisa idea gli balenò alla mente, e lo riempì d'inquietudine. Colline, secondo il solito, aveva comprato alcuni libercoli nella giornata, e fra gli altri (per quindici soldi) una grammatica finlandese, ed un piccolo romanzo del signor Nisard, intitolato: ‘Il funerale della lattaia’. A questi due acquisti andavano uniti sette od otto volumi di alta filosofia, ch'egli portava sempre con sé, per avere una fonte nella quale attingere gli argomenti, in caso di discussioni filosofiche. L'idea di vedere la sua biblioteca in mano a Schaunard, lo fece rabbrividire. - Oh sciagurato, perché prendere il mio soprabito?! - esclamò Colline. - Fu per sbaglio.
- Ma i miei libri... Egli potrebbe farne cattivo uso.
- Non temere, non li leggerà - disse Rodolfo.
- Sì, ma io lo conosco, è capace di servirsene per accender la pipa...
Se sei inquieto puoi raggiungerlo, è uscito adesso: lo troverai alla porta.
- Sì certo che lo raggiungerò - rispose Colline mettendosi il suo cappello a tesa sì larga, che potevasi sulla medesima servire un thè per dieci persone.
- E due - fece Marcello a Rodolfo. - Eccoti libero; io me ne vado, e raccomanderò al portinaio di non aprire, se battono.
- Buona notte e grazie - disse Marcello.
Ritornando dall'aver accompagnato l'amico, Rodolfo udì per le scale un miagolio prolungato, al quale il gatto fulvo rispose con un altro, cercando scappare dall'uscio socchiuso.
- Povero Romeo! - esclamò Rodolfo - ecco la sua Giulietta che lo chiama. Va’ - diss’egli aprendo l'uscio all'innamorata bestia, che in un salto fu tra le zampe della, sua amica.
Rimasto solo con Mimì, che davanti ad uno specchio disponeva i capelli con una posa provocante, Rodolfo le si avvicinò e la strinse fra le braccia. Poi come un artista di musica, che prima d'incominciare il suo pezzo con qualche accordo, s’assicura della capacità del suo strumento, Rodolfo prese Mimì sulle ginocchia, e le diede un lungo e sonoro bacio. Esso destò una vibrazione sul corpo gentile della splendida creatura.
L’istrumento si accordava.
XIV. MADAMIGELLA MIMI

- O Rodolfo, amico mio, cos'è avvenuto? Perché sei tanto cambiato? Debbo credere alle voci che corrono? Questa disgrazia ha ella potuto abbattere a tal punto la tua robusta filosofia? Come potrò io mai, io lo storico ordinario della nostra epopea scapigliata, così piena di scoppi di rise, come potrò raccontare con un tono abbastanza malinconico la penosa avventura, che mette un velo nero alla tua allegria, chiudendo così, tutto ad un tratto, la serie de’ tuoi paradossi? Oh, mio amico Rodolfo! Ammetto che la disgrazia sia grande, ma poi non c'è da perdersi di coraggio. Io ti invito dunque a segnar una croce sui passato. Fuggi sopratutto la solitudine popolata di fantasmi, che eternerebbero il tuo affanno. Fuggi il silenzio, in cui l'eco della memoria sarebbe ancora piena della tua gioia e de' tuoi trascorsi dolori. Spargi coraggiosamente a tutti i venti della dimenticanza il nome che amasti tanto, e con lui getta quanto ancora ti resta di colei che io portava. Ciocche di capelli morse da labbra pazze di desio; boccetta di Venezia, ove dorme un resto di profumo, che ora sarebbe a te pericoloso più di qualunque veleno; al fuoco i fiori, i fiori di velo, di seta e di velluto; i gelsomini bianchi, gli anemoni imporporati dal sangue d'Adone, la miosotide azzurra e tutti i mazzolini ch'ella faceva nei giorni, ora lontani della tua felicità. Anch'io l’amavo allora, la tua Mimì, e non vedevo un pericolo nel tuo amore per lei. Ma ora... segui il mio consiglio; al fuoco i nastri, i bei nastri rosa, azzurri, gialli, coi quali si faceva dei vezzi per attirare lo sguardo; al fuoco i ricami, le trine, le cuffiette, i veli e tutti gli eleganti cenci, coi quali si rendeva leggiadra per amoreggiare coi Cesari, Gerolami, Carli o altri galanti del calendario, mentre tu l’aspettavi alla finestra, tremando di freddo tra il vento e la neve; al fuoco, Rodolfo, e senza pietà, quanto fu suo, e che potrebbe parlarti di lei; al fuoco le sue lettere d'amore. Eccone una appunto, e tu vi hai pianto sopra, come una fontana, sventurato amico mio!
"Siccome tu non vieni a casa, esco per andare da mia zia: porto meco il danaro che c’è qui, per prendere una carrozza. Lucilla."
E quella sera, tu, Rodolfo, tu non hai pranzato, te ne ricordi? E venisti a casa mia dove abbruciasti un fuoco artificiale di frizzi, che provavano la tranquillità del tuo spirito. Tu credevi che Mimì fosse a casa di sua zia, e se io ti avessi detto ch'ella era in casa del signor Cesare, o di un comico di Montparnasse, mi avresti segata la gola. Al fuoco anche quest’altro biglietto, che ha tutta la tenerezza laconica dei primo:
"Vado ad ordinare degli stivaletti; bisogna assolutamente che trovi del danaro, affinché possa pagani dopo domani."
Oh, amico mio! quegli stivaletti hanno ballato molte quadriglie, dove non facevi il vis-à-vis. Al fuoco, al fuoco tutte queste memorie, ed al vento le ceneri!! Ma ora, Rodolfo, per amore dell'umanità e per la gloria della ‘Sciarpa d'Iride’ e del ‘Castoro’, riprendi lo redini del buon gusto, che hai abbandonate, onde non no derivino cose orribili, delle quali saresti responsabile. Noi ritorneremo alle maniche a gigot, ai pantaloni a petit pont, e si vedrà un giorno venir di moda dei cappelli che affliggeranno l'universo invocando l'ira del cielo.
Ora è giunto il momento di raccontare gli amori del nostro amico Rodolfo con madamigella Lucilla, detta Mimì.
Fu a ventiquattro anni, che Rodolfo venne improvvisamente assalito da quella passione, che ebbe una grande influenza sulla sua vita. Nel tempo in cui incontrò Mimì, Rodolfo menava quella vita spensierata e fantastica, che abbiamo tentato descrivere nelle scene precedenti. Egli era allora uno dei più allegri porta-miserie che esistessero nella bohème. Quando nella giornata aveva fatto un cattivo pranzo ed un buon frizzo, camminava più orgoglioso sul selciato (che spesso gli aveva servito diletto) più orgoglioso sotto il suo abito nero (che gridava misericordia da tutte le cuciture), d’un imperatore sotto il suo manto di porpora. Nel cenacolo in cui viveva Rodolfo, aveva l'abitudine, per una disinvoltura comune in certi giovanotti, di trattare l’amore come un oggetto di lusso, come un motivo di scherzo. Gustavo Colline, il quale da lungo tempo era in relazione con una sottovestaia (cui egli rese curva di corpo e di spirito a forza di farle copiare i manoscritti delle sue opere filosofiche) pretendeva che l'amore fosse una specie di purgante, buono a prendersi ad ogni cambiar di stagione. In mezzo a tutti questi falsi scettici, Rodolfo era il solo che ardisse parlare dell’amore con un certo rispetto, e quando si aveva la disgrazia di lasciargli toccar questa corda, egli continuava un'ora a gemere elegie sulla felicità di essere amato, sull'azzurro del cheto lago, sulla melodia della brezza, sul concerto degli astri, ecc., ecc. Questa mania fu cagione che Schaunard la battezzasse armonica. Marcello aveva pure trovato in tale occasione un bel giuoco di parole, col quale, facendo allusione alle tiritere sentimentali di Rodolfo, ed alla sua precoce calvizie, lo aveva battezzato: miosotide calva.
La verità era proprio questa:
Rodolfo, in quel tempo, credeva fermamente di averla finita per sempre con tutte le faccende di giovinezza e d'amore: allora egli cantava il De profundis sul suo cuore che credeva morto per sempre, mentre stavasi immobile, ma pronto a risvegliarsi, facile alla gioia e più che mai sensibile a tutti i cari dispiaceri, che non ispirava più, e che adesso facevano, la sua disperazione. Tu l'hai voluto, Rodolfo! E noi non ti compiangeremo, perché il male di cui ti lamenti, è uno di quelli che più si desiderano, sopratutto se abbiamo la certezza d'essere guariti per sempre.
Rodolfo incontrò la giovane Mimì, che aveva altre volte conosciuta allorché era l'amica d'un suo amico. La fece sua. Gli amici di Rodolfo fecero un gran chiasso, sul principio, quando seppero di tale unione; ma, siccome Mimì era assai bella, e nient'affatto beghina, e sopportava senza mal di testa l'odore della pipa e le discussioni letterarie, essi si abituarono a lei, e la trattarono come un loro camerata. Mimì era una deliziosa ragazza, e di tal carattere, che conveniva specialmente alle simpatie plastiche e letterarie di Rodolfo. Aveva ventidue anni; era piccola, delicata e vispa. Il suo visino sembrava lo schizzo d'una faccia aristocratica, i suoi lineamenti avevano una certa finezza, e parevano debolmente illuminati dalla luce de’ suoi occhi limpidi e azzurri: essi, in certi momenti di noia e di cattivo umore, prendevano un carattere di fierezza quasi selvaggia, la quale poteva essere da un fisiologo spiegata siccome un indizio di profondo egoismo o di grande insensibilità. Ma quasi sempre ella era una testa incantevole, dal fresco e giovane sorriso, dallo sguardo tenero e pieno di una imperiosa civetteria. Il sangue della gioventù scorreva rapido e caldo nelle sue vene, e coloriva d una tinta rosea la sua pelle trasparente e bianca come le foglie della camelia. Questa anemica bellezza seduceva Rodolfo, sicché, spesso, passava la notte coronando di baci la fronte pallida della dormente sua amica, i cui occhi umidi e stanchi brillavano semichiusi sotto il velo de’ suoi capelli neri. Ma ciò, che più d ogni altra cosa, contribuì a rendere Rodolfo innamorato pazzo di Mimì, furono le sue mani che sapeva conservare bianche, quanto quelle della Dea dell'ozio. Eppure, queste mani sì piccole, sì morbide, sì dolci alle carezze del labbro, queste mani di bambina, nelle quali Rodolfo aveva deposto il suo cuore rigenerato, queste bianche mani di Mimì dovevano lacerare, tra poco, colle loro rosee unghie, il cuore del povero poeta.
In capo a un mese, Rodolfo incominciò ad accorgersi di avere sposato la tempesta, e che la sua amica aveva un grande difetto. Ella vicinava, come si dice, cioè passava una gran parte dei suo tempo in casa d'altre donne, colle quali aveva stretta relazione. Il resultato fu quale Rodolfo lo prevedeva, allorché s'accorse delle abitudini contratte da Mimì. La variabile opulenza di qualcuna delle sue amiche aveva fatto nascere nel cuore di essa una foresta di ambizioni. Mimì incominciò a sognare seta, velluti e merletti. A dispetto del divieto di Rodolfo, ella continuò a frequentare quelle donne, le quali erano d’accordo nel persuaderla a finirla con un bohème che non poteva neppure darle centocinquanta franchi per comprarsi una veste.
- Bella come siete - le dicevano le sue consigliere voi troverete una posizione migliore. Basta cercare.
E madamigella Mimì si mise a cercare.
Testimonio delle sue frequenti uscite, mal motivate, Rodolfo entrò nella dolorosa via dei sospetti; ma dal momento in cui egli si sentiva giunto sulla traccia di una prova d'infedeltà, si calava accanitamente una benda sugli occhi per non veder più nulla. Egli aveva per lei un amore geloso, fantastico, bizzarro, irrequieto, che la donna non capiva, perché non provava per Rodolfo se non quell'attaccamento freddo, che risulta dall'abitudine. D'altra parte, la metà del suo cuore ella l'aveva speso nel tempo del suo primo amore; e l'altra metà era piena delle memorie del suo primo amante.
Otto mesi trascorsero così, alternati di giorni buoni e cattivi. In questo tempo, Rodolfo fu venti volte sui punto di dividersi da Mimì, la quale aveva per lui tutte le crudeltà della donna che non ama. Parlando esattamente, bisogna dire che questa esistenza era diventata un inferno per ambedue. Ma Rodolfo erasi abituato a questa lotta giornaliera, e temeva molto di veder finire questo stato di cose. Sentiva che con esso cesserebbero per sempre quelle febbri giovanili, quelle agitazioni, che da tanto tempo non provava.
E poi, se debbo dir tutto, c'erano dei momenti, nei quali Mimì sapeva far dimenticare a Rodolfo tutti i dubbi che gli laceravano il cuore. C'erano dei momenti, in cui ella si lasciava cadere ai suoi ginocchi, affascinando come un bambino coll'azzurro suo sguardo, il poeta al quale aveva fatto ritrovare la perduta poesia, e che sua mercè era tornato sotto l'equatore dell’amore. Due o tre volte al mese, in mezzo alla tempesta dai loro litigi, Rodolfo e Mimì, di comune accordo, ai fermavano in una fresca oasi d'una notte d'amore e di dolci parolette. Rodolfo allora prendeva fra le sue braccia la testa animata e sorridente della sua amica, e le parlava per ore intere l'ammirabile ed assurdo linguaggio, che la passione improvvisa nelle ore di delirio. Mimì ascoltava, calma dapprima, piuttosto stupita che commossa; ma finalmente l'eloquenza entusiastica di Rodolfo tenera, allegra, malinconica successivamente, a poco a poco, vinceva. Ella sentiva svanire, ai contatto di questo amore, la glaciale indifferenza che le intorpidiva il cuore; una febbre contagiosa l'agitava, e si gettava al collo di Rodolfo dicendogli coi baci, ciò che colle parole non avrebbe saputo esprimergli. E l’alba li sorprendeva così abbracciati, lo sguardo fisso nello sguardo, le mani fra le mani, mentre le loro, labbra, umide ed ardenti, mormoravano ancora l'immortale parola che, da cinquemila anni, sfiora, ogni notte, le labbra degli amanti.
Ma il domani, il più piccolo pretesto provocava una lite, e l'amore fuggiva spaventato per molto tempo.
Finalmente Rodolfo s’accorse, che, se non vi poneva un rimedio, le bianche mani di Mimì lo avrebbero precipitato in un abisso, nel quale sarebbero morti la gioventù e l'avvenire. Vi fu un momento che la ragione parlò a lui più forte dell'amore, ed egli, a forza di argomenti avvalorati da prove, si convinse di non essere riamato. Arrivò per fino a dire, che le ore di tenerezza che gli concedeva, non erano se non un capriccio dei sensi, eguale a quello che le donne maritate provano poi loro mariti, quando esse hanno la febbre di un cachemire, o di una, veste nuova, o quando il loro amante è lontano; il oho fa simmetria col proverbio: In mancanza del cavallo trotta l'asino. Insomma, Rodolfo poteva perdonar tutto alla sua donna, tranne di 'non essere amato. Prese dunque un partito estremo, ed annunziò a Mimì che doveva cercarsi un nuovo amico. Mimì si mise a ridere, e diede in uno scoppio di millanteria. Ma, vedendo che Rodolfo era irremovibile nella sua risoluzione, e che la riceveva tranquillamente quando ritornava a casa dopo un’assenza d'un giorno o d'una notte, incominciò ad inquietarsi seriamente davanti a tale fermezza, alla quale non era abituata. Per due o tre giorni fu dunque amabilissima. Ma il suo amante non ritirava ciò che avevale detto, e si accontentava di domandarle se avesse trovato qualcuno.
- Non ho nemmen cercato - ella rispondeva.
Però ella aveva cercato, prima ancora che Rodolfo le avesse dato tale consiglio. Aveva fatti due tentativi in quindici giorni. Una sua amica l'aveva aiutata procurandole per la prima la conoscenza di un giovanottino, che fece brillare agli occhi di Mimì un orizzonte di cachemires dell'India e di mobili di mogògono. Ma, secondo la sua opinione, quel giovane liceista, il quale poteva riuscir celebre nell'algebra, non doveva essere un gran che in amore, e, siccome a Mimì non piaceva la parte d'educatrice, così piantò il suo novizio innamorato coi suoi cachemires, che pascolavano ancora nelle praterie del Thibet e coi suoi mobili di mogògono, che fiorivano ancora nulle vergini foreste del Nuovo Mondo.
- Il liceista non tardò molto ad essere surrogato da un gentiluomo inglese, pel quale Mimì aveva avuto un momento di capriccio; ella non dovette pregare a lungo per diventare contessa.
Ad onta delle proteste della sua amante, Rodolfo fu avvisato d'una specie d'intrigo; volle sapere la verità, e, dopo una notte in cui Mimì non era tornata a casa, si recò sul luogo in cui credeva si trovasse. Ivi potè convincersi pienamente, ed ebbe in mano una di quelle prove alle quali bisogna prestar fede ad ogni costo. Rodolfo vide madamigella Mimì, cogli occhi cinti d'una aureola di voluttà, uscire dal castello in cui s’era fatta nobilitare, al braccio del suo nuovo padrone e signore, il quale, bisogna dirlo, pareva orgoglioso della sua conquista, quanto Paride, il bel pastore greco, dopo il ratto della bella Elena.
Vedendo il suo amante, Mimì parve meravigliata. Ella gli si accostò, e chiacchierarono tranquillamente cinque minuti: poi si separarono per andar ciascuno per conto suo. La loro separazione era decisa.
Rodolfo ritornò a casa sua, e passò la giornata scegliendo tutti gli oggetti che appartenevano alla sua amante.
Il giorno dopo il divorzio, Rodolfo ricevè una visita dei suoi amici, ai quali raccontò quanto era successo. Tutti lo felicitarono per questo fatto, come d'una grande fortuna.
- Noi ti aiuteremo, poeta - dicevano essi, che erano stati molte volte testimoni delle scene avvenute cori Mimì - a riprendere il tuo cuore dalle mani di quella cattiva creatura: tra poco sarai guarito e potrai correre pei verdi sentieri di Aulnay e di Fontenay-auz-Roses con un’altra Mimì.
Rodolfo giurò che coi dispiaceri e la disperazione l'aveva finita per sempre. Anzi si lasciò condurre al ballo Mabille, dove la sua toilette trascuratissima, rappresentava malissimo la ‘Sciarpa d’iride’, che gli procurava il diritto d'ingresso in quel giardino dell'eleganza e del piacere. Rodolfo trovò altri amici, coi quali si mise a bere. Raccontò loro la sua avventura con un lusso inaudito di stile bizzarro, e fu stupendo di vena e di slancio per un’ora intera.
- Ahimè, ahimè - diceva il pittore Marcello udendo la pioggia d'ironie cadente dalle labbra del suo amico. Rodolfo è troppo allegro; troppo! troppo!
- È adorabile! - disse una giovane signora alla quale Rodolfo porgeva un mazzo di fiori -benché mal vestito, io mi comprometterei volentieri, ballando con lui, se mi invitasse.
Due secondi dopo, Rodolfo, che aveva udite queste parole, era ai piedi della signora, ed involgeva la sua domanda in un discorso profumato di muschio e di una galanteria ad ottanta gradi Richelieu. La signora restò confusa davanti a questo linguaggio scintillante di abbaglianti aggettivi e di frasi contornate, da far diventar rossi i tacchi delle scarpe di Rodolfo, il quale, in vita sua, non era mai stato così galante. L'invito fu accettato.
Rodolfo ignorava i primi elementi del ballo, quanto la regola del tre, ma sentivasi sorretto da una straordinaria audacia. Non esitò a slanciarsi, ed improvvisò un ballo sconosciuto in tutta la vecchia coreografia. Fu un passo ch'egli, battezzò: ‘Il passo dei sospiri e dei rimpianti’. La sua originalità ottenne un successo incredibile.I tremila beccucci di gas avevano un bel fargli le smorfie per ridersi di lui... Rodolfo ballava sempre... e, senza posa, gettava in faccia alla sua ballerina un numero straordinario di madrigali affatto inediti.
- Ahimè - diceva Marcello - è incredibile. Rodolfo mi fa l'effetto d'un ubbriaco che si rotola su dei pezzi di vetro.
- Intanto egli ha conquistato una donna magnifica soggiungeva un altro, vedendo Rodolfo fuggire colla sua ballerina.
- Non ci dai la buona sera? - gli gridò Marcello.
Rodolfo ritornò presso l'artista e gli strinse la mano.
Era fredda come il marmo.
La compagna di Rodolfo era una robusta figlia della Normandia: ricca ed abbondante natura, la cui rusticità natia s'era aristocratizzata, in poco tempo, in mezzo alla eleganza del lusso parigino e ad una vita oziosa. Ella si chiamava qualche cosa come signora Serafina, e pel momento era l'amica d'un Reuma, pari di Francia. Costui le passava cinquanta luigi al mese, che divideva con lui giovane di banco, il quale non le dava che bastonate. Rodolfo le piacque. Sperò che questi non le darebbe né luigi, né bastonate, e se lo condusse a casa.
- Lucilla - disse alla cameriera - non sono in casa per nessuno.
Ed essendo entrata nella camera da letto, ne uscì cinque minuti dopo abbigliata con una veste speciale. Trovò Rodolfo muto ed immobile, giacché dal momento del di lei ingresso in quella camera egli s'era ingolfato in tenebre piene di singhiozzi.
- Non mi guardate più? Non mi dite niente? - interrogò Serafina tutta commossa.
- Coraggio - disse Rodolfo tra sé, alzando la testa - guardiamola, ma per l'arte soltanto!
Quale spettacolo allor s'offerse al suo sguardo!!
come dice Raul negli ‘Ugonotti’.
Serafina era ammirabilmente bella. Le sue splendide forme, destramente messe in rilievo dal taglio della sua veste, si mostravano, piene di seduzioni, sotto la semi-trasparenza del tessuto. Tutte le febbri imperiose del desiderio si risvegliarono in Rodolfo. Una calda nebbia gli ingombrò il cervello. Guardò Serafina con occhio ben diverso da quello dell’estetica, e prese, fra le sue, le mani della bella donna.
Erano mani sublimi; si sarebbe detto che i più puri scalpelli della scultura greca le avessero scolpite. Rodolfo sentì queste ammirabili mani tremar fra le sue, e, sempre più dimentico dell'arte, si avvicinò a Serafina, mentre il suo volto si colorava di quel rossore che è l'aurora della voluttà.
- Questa creatura è un vero strumento di piacere; è uno stradivario d'amore, sul quale proverei un'aria assai volentieri - pensò Rodolfo, sentendo il cuore della splendida creatura battere una carica precipitosa in questo punto, una scampanellata fortissima si udì alla porta dell’appartamento.
- Lucilla, Lucilla! - gridò Serafina alla cameriera non aprite; dite che non sono ancora ritornata a casa.
A questo nome di Lucilla pronunziato due volte, Rodolfo si era alzato.
- Io non voglio in alcun modo esservi d'impiccio diss'egli. - D'altra parte, bisogna che me ne vada; è tardi, e sto assai lontano di casa. Buona sera.
- Come? Voi ve ne andate? - esclamò Serafina, raddoppiando i lampi dei suoi occhi. - Perché, perché partite? Io sono libera; potete star qui.
- Impossibile - rispose Rodolfo. - Aspetto un mio parente che arriva dalla Terra del Fuoco, e mi diserederebbe se non mi trovasse in casa per riceverlo. Buona sera, signora.
Ed uscì infuriato. La cameriera andò a fargli lume. Rodolfo alzò su di lei gli occhi. Era una giovane gracile, dall'andatura lenta; il suo viso pallidissimo faceva una bellissima antitesi colla capigliatura nera, ondata naturalmente, ed i suoi occhi azzurri sembravano due stelle ammalate.
- O fantasma! - esclamò Rodolfo, indietreggiando davanti la donna che portava un nome ed un viso eguali a quelli della sua amica. – Indietro!... Che vuoi da me?
E discese frettoloso la scala.
- Ma signora - disse la cameriera ritornando dalla sua padrona - quel giovane è pazzo!
- Di’ che è uno sciocco - rispose Serafina arrabbiata. Oh così imparerò ad essere buona! Se quell’imbecille di Leone avesse almeno ora il talento di venire.
Leone era quel tal giovanotto, la cui amabilità andava armata d'uno scudiscio.
Rodolfo arrivò presto a casa. Nel salire le scale, trovò il gatto fulvo che miagolava. Erano già due notti ch'egli chiamava così, e sempre invano, l’infedele sua amante, una Manon Lescaut angora, la quale aveva iniziata una campagna galante sui tetti del vicinato.
- Povera bestia! - disse Rodolfo - anche tu fosti ingannata: la tua Mimì ti fa le corna come la mia. Bah! consoliamoci. Mia povera bestia, il cuore delle donne e delle gatte, vedi, è un abisso che gli uomini ed i gatti non potranno mai del tutto scandagliare!
Appena in camera, a Rodolfo parve sentirsi cader sulle spalle un mantello di ghiaccio, benché il caldo fosse insopportabile. Era il freddo della solitudine, della terribile solitudine della notte, che nessuno disturba. Accese il lume e vide la sua camera tutta devastata. I mobili avevano le cassette vuote, ed un'immensa mestizia riempiva quella cameretta dal soffitto al pavimento, sicché a Rodolfo parve più grande d'un deserto. Passeggiando per la camera inciampò nei fagotti degli effetti appartenenti alla signora Mimì, e provò una sensazione di gioia vedendo che non era ancor venuta, a prenderli come gli aveva detto. Rodolfo sentiva che, malgrado tutti i suoi sforzi, s'avvicinava l'ora della reazione, e prevedeva che un'atroce notte gli avrebbe fatto espiare l'amara allegria da lui dimostrata la sera. Pure sperava: sperava che il suo corpo, affranto dalla fatica, s'addormenterebbe, prima che l'angoscia si risvegliasse, l'angoscia sì a lungo compressa nel cuore.
Mentre s'avvicinava al letto, e ne apriva le tende, sentì il cuore stretto da un invincibile affanno, tanto più crudele inquantoché non poteva scoppiare. Ne fu assalito, quando guardò quel letto, intatto da due giorni, quei due guanciali, messi l'uno accanto all'altro, e, sotto le pieghe d'uno di essi, la trina d'una cuffia da notte. Cadde ai piedi del letto, e si prese la testa fra le mani: poi, dopo aver gettato uno sguardo nella camera desolata, esclamò:
- Oh Mimì, gioia della mia casa, è proprio vero che tu sei partita, che ti ho scacciata, e che non ti rivedrò più? Dio mio! O bella testolina bruna, che dormisti tanto tempo qui, non vi ritornerai ancora? O capricciosa voce, le cui carezze mi facevano delirare, la cui collera mi incantava, non ti ascolterò più? O manine bianche, dalle vene azzurre, a cui avevo sposato le mie labbra, avrete voi proprio ricevuto il mio ultimo bacio ?
E Rodolfo, con una gioia delirante, ficcava la testa fra i guanciali ancora imbalsamati dai profumi della capigliatura della sua amica. Gli pareva che, dal fondo, di quella alcova, uscisse il fantasma delle belle notti, ch’egli aveva passate colla sua giovane amante.
In mezzo al silenzio notturno, udiva spandersi nell'aria il riso della sua Mimì, e si ricordò di quella incantevole e contagiosa allegria, colla quale tante volte aveva saputo fargli dimenticare tutti gl'imbarazzi e le noie della loro spensierata esistenza.
Durante la notte passò in rivista, gli otto mesi che aveva trascorsi in compagnia di quella bellissima e crudele giovanetta, che forse non l'aveva mai amato, ma le cui tenere bugie avevano ridonato al suo cuore la gioventù e la virilità primitiva.
L'alba biancheggiante lo sorprese nel momento in cui, vinto dalla stanchezza, chiudeva gli occhi fatti rossi dal pianto versato. Veglia dolorosa e terribile, e quale i più scettici, i più schernitori delle disperazioni amorose, potrebbero trovare in fondo al loro passato.
Al mattino, allorché i suoi amici entrarono nella camera, furono spaventati vedendo Rodolfo col volto solcato dall'angoscia, che l'aveva assalito in quella veglia sul Monte degli Oliveti dell'amore.
- Bravo - disse Marcello - ne ero sicuro; è l’allegria di ieri sera che gli è ripiombata sul cuore. Ciò non può durare.
E, d'accordo coi due o tre amici, cominciò una serie di rivelazioni sul conto di madamigella Mimì: ogni loro parola si configgeva come una spina nel cuore di Rodolfo. Essi gli provarono che la sua, amante l’aveva ingannato come un imbecille, sempre ed in ogni tempo, in casa sua e fuori; e che questa creatura, pallida come l’angelo dell’etisia, era uno scrigno di cattivi sentimenti e di feroci istinti.
Or l'uno, or l'altro, si alternarono nell'impegno che avevano assunto, cioè di condurre Rodolfo al punto in cui l'amore inasprito diventa disprezzo; ma questo scopo non fu che a metà raggiunto. La disperazione del poeta divenne furore. Si buttò rabbioso sugli involti preparati il giorno prima, e, dopo avere messo in disparte tutti gli oggetti che à sua amica possedeva, allorché era venuta a vivere con lui, fece altrettanto con tutti quelli che le aveva dati durante la loro relazione: specialmente gli oggetti di toilette, ai quali madamigella Mimì era attaccata con tutte le fibre della sua civetteria, divenuta insaziabile specialmente negli ultimi tempi.
Madamigella Mimì, il giorno seguente, venne per prendere i suoi oggetti. Rodolfo era solo in casa. Furono necessarie tutte le forze del suo amor proprio perché egli non si gettasse al collo dell'amica. Le fece un'accoglienza ingiuriosa, alla quale Mimì corrispose con quegli insulti freddi e pungenti, che fanno allungare le unghie anche ai più deboli e timidi. Di fronte allo sprezzo, col quale la sua amante lo flagellava con insolente ostinazione, la rabbia di Rodolfo scoppiò brutale e terribile. Mimì, pallida di terrore, si domandò un momento se sarebbe uscita viva dalle sue mani. Alle sue grida, accorsero alcuni vicini e la tolsero dalla camera di Rodolfo.
Due giorni dopo un’amica di Mimì venne a domandare a Rodolfo se voleva renderle gli Oggetti.
- No - rispose egli.
E fece parlare l'inviata della sua amica.
Questa gli disse che Mimì era in una pessima condizione e che si trovava senza tetto.
- Ma il suo amante di cui è sì pazza!
- Eh! - rispose la messaggiera - questo giovanotto non ha intenzione di farne la sua amante. Egli no ha una già da molto tempo e par che si occupi poco di Mimì, la quale mi è a carico e mi dà molta noia.
- S'ella sta male - disse Rodolfo - lo ha voluto, e peggio per lei.
E fece delle dichiarazioni galanti a madamigella Amalia persuadendola che era la più bella donna dell'universo,
Amalia raccontò poi a Mimì il suo abboccamento con Rodolfo.
- Cosa disse, cosa fece? - domandò Mimì. - Vi ha parlato di me?
- Niente affatto: voi siete dimenticata, cara mia. Rodolfo ha un'altra amante: le ha comprato una magnifica toilette, poiché ha ricevuto molto danaro, ed è vestito come un principe. Quel giovanotto è amabilissimo e mi disse delle cose assai gentili.
- Saprò cosa vuoi dire questa faccenda - disse fra sé Mimì.
Tutti i giorni madamigella Amalia andava a veder Rodolfo sotto un pretesto qualunque, e, ad onta di tutti i suoi sforzi, egli non poteva fare a meno di parlare di Mimì.
- Ella è allegra - diceva l'amica - e non si dà neppure il pensiero della sua posizione. Del resto mi assicura che ritornerà con voi quando vorrà, senza fare alcuna sottomissione, e solo per fare arrabbiare i vostri amici.
- Bene - rispose Rodolfo - venga e vedremo.
Poi ricominciò a corteggiare Amalia, la quale andava a riferir - tutto a Mimì e l'assicurava che Rodolfo era innamorato di lei.
- Egli mi ha baciato le mani ed il collo - soggiungeva - guardate, è ancora rosso. Domani vuol condurmi al ballo.
- Mia cara amica - rispose Mimì in tono pungente - vedo che volete arrivare a farmi credere che Rodolfo è innamorato di voi e che non pensa più a me: ma voi perdete il vostro tempo con ambedue.
Il fatto si è che Rodolfo non faceva l'amabile con l'Amalia, se non per indurla a venire spesso da lui, ed avere così occasione di parlare della sua amica.
Con un machiavellismo, che forse aveva il suo scopo, accorgendosi che Rodolfo amava ancora Mimì e che questa non era lontana dal ritornare con lui, Amalia si sforzava, con racconti maliziosamente inventati, di frapporre una barriera fra i due amanti.
Il giorno in cui doveva andare al ballo, Amalia venne a domandare a Rodolfo se egli avrebbe mantenuta la sua promessa.
- Sì - rispose - non voglio trascurare l'occasione di essere il cavaliere della più bella donna dei tempi moderni.
Amalia prese quell'aria civettuola che aveva avuta la sera del suo unico esordio in un teatro fuori della barriera, nella parte di quarta servetta, e promise che sarebbe pronta per la sera.
- A proposito - disse Rodolfo - dite alla signora Mimì che se vuoi commettere un'infedeltà verso il suo amante e venire a passare una notte con me, le restituirò tutti i suoi oggetti.
Amalia fece la commissione, e diede un senso tutto affatto contrario del vero alle parole di Rodolfo.
- Il vostro Rodolfo - diss’ella - è un uomo ignobile: la sua proposizione è un'infamia. Con questo passo falso, vuoi farvi discendere al livello delle più vili creature; se voi andate da lui non solo non vi restituirà ciò che vi appartiene, ma vi esporrà alle risa dei suoi amici: è una congiura combinata fra loro.
- Non anderò - rispose Mimì.
E vedendo che Amalia preparava la sua toilette, le domandò se si recava al ballo.
- Sì - replicò l'altra.
- Con Rodolfo?
- Sì; deve venire stasera ad aspettarmi venti passi lontane dalla porta.
- Buon divertimento - disse Mimì.
E, siccome si avvicinava l'ora di quell’appuntamento, ella corse tosto dall'amante di madamigella Amalia e lo avvertì che la sua amica stava combinando un tradimento con una sua antica fiamma. Il signore, geloso come una tigre, e brutale come un bastone, giunse a casa di Amalia e le annunziò che doveva passare la sera con lui.
Alle otto, Mimì corse al luogo ove Rodolfo doveva trovare Amalia. Ella vide il suo amante che passeggiava nell'attitudine di un uomo che aspetta, e gli passò due volte vicino, senza osare di parlargli. Rodolfo quella sera era elegantissimo, e le violenti crisi, alle quali trovavasi in preda da otto giorni, avevano impresso un malinconico carattere alla sua fisionomia. Mimì fu profondamente commossa: finalmente si decise a parlargli. Rodolfo l'accolse senz'ira, e le chiese notizie della sua salute; dopo di che, domandò qual fosse il motivo che la conduceva a lui. Tutto questo, con una voce dolce, in cui l'accento della tenerezza difficilmente si nascondeva.
- Vengo a portarvi una cattiva notizia; la signora Amalia non può venire al ballo con voi; il suo amante è in casa con lei.
- Andrò solo dunque.
Mimì, a questo punto, inciampò in qualche cosa, e appoggiò alle spalle di Rodolfo. Egli la prese pel braccio e le propose di condurla a casa.
- No - disse Mimì - io abito con Amalia, e siccome il suo amico è là, non potrò tornare a casa se non dopo che ne sarà uscito. -
- Sentite - aggiunse allora il poeta - vi ho fatto una proposta per mezzo di Amalia: ve l'ha comunicata?
- Sì - disse Mimì - ma con tali parole, che non ho
potuto credervi, anche dopo tutto ciò che è successo. No, Rodolfo, io non ho creduto che, ad onta di tutto quanto potete rimproverarmi, mi abbiate potuto stimare tanto senza cuore, da accettare un simile mercato.
- Voi non mi avete compreso, oppure vi fu riferita male la proposta. Ciò che è detto è detto - riprese Rodolfo - sono nove ore; ne avete ancora tre da riflettere. Io lascierò la chiave all'uscio della mia camera fino a mezzanotte. Buona sera. Addio, o a ben rivederci.
- Addio, dunque - balbettò Mimì con voce tremante.
E si lasciarono... Rodolfo andò a casa sua e si gettò sul lette bell'e vestito. Alle undici e mezzo madamigella Mimì entrava in camera.
- Vengo a domandarvi l'ospitalità - diss'ella - l'amico di Amalia è restato là, ed io non ho potuto entrare.
Chiacchierarono fino alle tre del mattino.
Era una conversazione esplicativa, nella quale il familiare tu succedeva spesso al voi nella discussione ufficiale.
Alle quattro la candela si spense. Rodolfo voleva accenderne un'altra.
- No - disse Mimì - non importa: è tempo di dormire.
E cinque minuti dopo, la sua bella testolina bruna aveva ripreso posto sui suo guanciale; e Mimì, con voce piena di tenerezza, chiamava le labbra di Rodolfo sulle sue bianche manine dalle vene azzurre, il cui allora d’avorio sfidava la candidezza delle lenzuola. Rodolfo, non riaccese il lume.
Il domani, s'alzò pel primo, ed indicando a Mimì diversi pacchi, le disse:
- Tutta questa roba vi appartiene: voi potete prenderla; io mantengo la mia parola.
- Oh - disse Mimì - sono assai stanca, vedete, e non potrei portar via tutto in una volta. Preferisco ritornare.
E, appena si fu vestita, non prese che un collo ed un paio di maniche.
- Porterò via il resto, a poco a poco - diss'ella ridendo.
- Orsù - replicò Rodolfo - porta via tutto, o nulla, fai come vuoi, ma finiamola.
- Ricominciamo invece, e facciamola durare, sopratutto - rispose Mimì abbracciando Rodolfo.
Dopo colazione partirono per la campagna. Attraversando il Lussemburgo, Rodolfo incontrò un gran poeta, il quale lo aveva sempre ricevuto con molta bontà. Rodolfo voleva fingere di non vederlo, per convenienza, ma il poeta non gliene lasciò il tempo, e, passandogli vicino; gli fece un cenno di familiarità, salutando nello stesso tempo con un grazioso sorriso la sua compagna.
- Chi è quel signore? - interrogò Mimì.
Rodolfo le rispose con un nome che la fece arrossire di piacere e d'orgoglio.
- Oh, l'incontro di questo poeta che ha cantato si bene l'amore, è di buon augurio, e porterà fortuna alla nostra riconciliazione.
- Io t'amo - disse Mimì stringendo la mano di Rodolfo, quantunque si trovassero in mezzo alla gente.
- Ahimè! - pensava Rodolfo - qua! È il meglio? Lasciarsi ingannar sempre diventando creduli, o non credere mai per non essere ingannati?