HENRI MURGER

SCÈNE DE LA VIE DE BOHÈME - 1
LA BOHÈME O GLI EROI DELLA MISERIA


















































I.
COME SI FORMÒ IL CENACOLO DELLA BOHÈME

Ecco in qual modo il caso, appellato dagli scettici l'uomo d'affari di Dio, mise in contatto gli individui, la cui fraterna associazione doveva formare più tardi il cenacolo di quella parte della Bohème e che l'autore di questo libro tenta di far conoscere al pubblico.
Una mattina (era l'8 aprile) Alessandro Schaunard, il quale coltivava le due arti liberali della pittura e della musica, fu sgarbatamente risvegliato dal do diesis di un gallo del vicinato, che gli serviva di sveglia.
- Perbacco! - gridò Schaunard - il mio orologio a piume corre: non è possibile che questa mattina sia già oggi.
Così dicendo, balzò precipitosamente fuori da un mobile di sua industriosa invenzione, il quale, la notte, rappresentava un letto (parte però ch'esso rappresentava assai male), e il giorno serviva per tutti gli altri mobili assenti, a causa dell'intenso freddo dell'inverno precedente. Era una specie di mobile omnibus.
Per garantirsi dai morsi di una brezza mattutina assai fresca, Schaunard indossò più che in fretta una sottana di seta color rosa e sparsa di stelle, la quale gli serviva da veste da camera. Quel costume era stato dimenticato in casa dell'artista, dopo un ballo in maschera, da una Follia, la quale aveva commessa l'imprudenza di lasciarsi accalappiare dalle fallaci promesse di Schaunard. Egli, mascherato da marchese di Mondor, aveva fatto sentire nelle sue tasche i suoni seduttori di una dozzina di scudi, moneta di fantasia, fabbricata a taglio secco con una foglia di rame, che aveva presa a prestito nel magazzino d'un teatro..
Quando l'artista ebbe fatto la sua toilette di casa, aprì la finestra. Un raggio di sole, simile ad una freccia, penetrò nella camera, e costrinse l'artista a spalancare gli occhi ancora velati dalla nebbia del mattino. Suonavano in quel momento le cinque ore ad un campanile.
- È l'aurora in persona - mormorò Schaunard - è sorprendente! Ma - soggiunse egli consultando un almanacco appeso al muro - ad ogni modo v'è uno sbaglio. Le indicazioni delle scienze affermano che in quest'epoca dell'anno il sole non deve levarsi che a cinque ore e mezzo: sono le cinque soltanto ed è già in piedi! Zelo colpevole! Quest'astro ha torto. Presenterò una querela all'ufficio delle longitudini; bisognerebbe per altro - aggiunse egli - ch'io incominciassi a darmi un po' di pensiero. Oggi è davvero il domani di ieri, e siccome ieri era il 7, oggi dovrebbe essere 18, a meno che Saturno non cammini all'indietro. Se io presto fede ai discorsi di questa cartaccia - diceva Schaunard andando a rileggere una formula di disdetta giudiziale incollata sul muro è oggi a mezzogiorno preciso, che io debbo lasciar liberi questi locali e contare nelle mani del signor Bernard, mio padrone di casa, una somma di settantacinque franchi per tre mesi di fitto scaduto, che egli reclama con una pessima scrittura. Avevo Sperato, come sempre, che il caso si sarebbe incaricato di liquidare questa pendenza, ma pare che non ne abbia avuto il tempo. Basta! ho ancora sei ore a mia disposizione... chi sa se impiegandole bene... Eh, andiamo, andiamo... - aggiungeva Schaunard.
Già si disponeva a mettersi un pastrano, la cui stoffa in origine era a lunghi peli, ma ora presentavasi afflitta, da una profonda calvizie, allorchè, tutt'ad un tratto, si mise ad eseguire un passo coreografico di sua composizione, il quale nei balli pubblici gli aveva spesso meritato gli onori della gendarmeria.
- To' to'.... - gridava egli - è strano come l'aria del mattino ci fa nascer tante idee! Credo di essere sulle traccia: della mia aria... Vediamo.
E Schaunard, mezzo vestito, andò a sedersi davanti al pianoforte. Dopo avere svegliato l'istrumento con una quantità spaventosa di accordi, egli incominciò, sempre parlando fra sè, a perseguitare sulla tastiera la frase melodica cercata da sì gran tempo.
- Do, sol, mi, do, la, si, do, re, bôôm, bôôm, fa, re, mi, re.
- Ahi, ahi, è falso come Giuda questo re - disse Schaunard battendo con rabbia sulla nota dal dubbio suono. - Questo deve abilmente dipingere l'affanno di una donzella, che sfoglia una margherita bianca in un lago azzurro. Ecco qui un'idea che non è minore.. d'età... Basta, dal momento che è di moda, e che non si trova un editore il quale si arrischi a pubblicare una romanza, dove non ci sia un lago blu ... bisogna rassegnarsi... - Do, sol, mi, do, la, si, do, re... non ne sono malcontento; questa frase dà abbastanza l'idea di una margheritina, e sopratutto a coloro che sono profondi in botanica ... - La, si, do, re - birbante di re, va !... Adesso per far ben capire il lago azzurro ci vorrebbe qualche cosa di umido, di turchino, di chiaro di luna, perché la luna c'entra anch'essa... To' to', ma che cosa vi dico io?... viene, viene..., non dimentichiamo il cigno... - fa, mi, la, sol, - continuava Schaunard facendo ondeggiare le note sonore nell'ottava alta. - Manca l'addio della donzella, che si decide a gettarsi nel lago azzurro per raggiungere il suo diletto sepolto sotto la neve. Questo intreccio non è chiaro, non è interessante. Ci vorrebbe qualche cosa di tenero, di malanonico... viene, viene. Ecco qui una dozzina di battute che piangono come tante Maddalene... il cor si spezza... Brr.... Brr.... - esclamò Schaunard rabbrividendo nella sua sottana sparsa di stelle - se si potesse spezzare della legna! Nella mia alcova o è una trave che mi incomoda assai quand'ho gente... a pranzo; accenderei con quella un po' di fuoco... - la, la.... re.... mi poichè sento che l'ispirazione mi arriva avviluppata in un raffreddore... Ah, bah, tanto peggio... Continuiamo ad annegare la gentil ragazza.
E, mentre le dita tormentavano impazientemente la tastiera, Schaunard coll'occhio acceso e l'orecchio teso, correva dietro la sua melodia, la quale, simile ad un fuggente silfo, caracollava in mezzo alla nebbia, che le vibrazioni sonore del pianoforte sembravano sviluppare nella camera.
- Vediamo- adesso - riprendeva Schaunard - come la mia musica si addica alle parole del poeta.
E con voce molto stridula ed antipatica cantarellò un frammento di poesia, usato specialmente nelle opere semiserie e nelle ballate.
- Come? quale errore! -esclamò Schaunard, invaso da un giusto sdegno - le onde azzurre d'un lago d'argento! Di ciò, per esempio, non m'ero ancora accorto... E però troppo romantico... questo poeta è un idiota; egli non ha mai veduto nè argento, nè laghi. Del resto, la sua ballata è stupida e il metro de' suoi versi non si confà alla mia musica. D'ora in poi comporrò io stesso i miei poemi... anzi non più tardi di adesso. Subito, giacchè sono in vena, mi fabbricherò un abbozzo di strofe per adattarVi le mie melodie.
E Schaunari, prendendosi la testa fra le mani, assunse l'aspetto grave di un mortale che ha delle relazioni colle Muse. Dopo alcuni minuti passati in questo sacro concubinaggio, egli mise al mondo una di quelle deformità che gli scrittori di libretti d'opera chiamano Mostri, e che improvvisano abbastanza facilmente, per servire di canovaccio provvisorio all'ispirazione del compositore. -
Il Mostro di Schaunard però aveva il senso comune, ed esprimeva con bastante chiarezza l'inquietudine iisvegliata nella sua mente dal brutale arrivo di questa data fatale: l'8 aprile.
- Diavolo! - disse Schaunard rileggendo la Sua composizione - ecco qui alcune rime che non sono troppo bene riuscite... ma non ho tempo di limarle...
Vediamo un'poco come le note si adattano alle sillabe.
E con quella orribile voce che gli era particolare, ricominciò l'esecuzione della sua romanza. Contento del resultato, Schaunard se ne felicitò con una smorfia giubilatoria sua speciale, che, simile ad un accento circonflesso, si metteva a cavallo del naso ogni qualvolta era contento di sè. Ma questa beatitudine orgogliosa non durò molto. Undici ore suonarono al vicino campanile. Ognuno di quei rintocchi entrava nella camera e vi si perdeva in suoni beffardi, che sembravano dire all'infelice Schaunard: "Sei tu pronto?"
L'artista traballò sulla sedia.
- Il tempo corre come un cervo - diss'egli - non ho più che tre quarti d'ora per trovare i miei settantacinque franchi ed un nuovo alloggio. Io non ne verrò mai più a capo; quest'affare appartiene troppo al dominio della maga. Vediamo... mi accordo cinque minuti per trovare...
Ed egli discese negli abissi della riflessione, tenendosi la testa fra le mani.
I cinque minuti passarono, e Schaunard rialzò la testa, senza aver trovato nulla che somigliasse a settantacinque franchi.
- Decisamente mi rimane un solo partito da prendere per uscire di qua, ed è quello di andarmene, naturalmente. Il tempo è bello, ed il Caso, mio amico, sta forse passeggiando al sole. Bisognerà bene che egli mi dia l'ospitalità fino a che trovi il modo di liquidarmi col signor Bernard.
Schaunard, dopo aver riempite le tasche del suo pastrano, profonde come cave, di tutto ciò ch'esse potevano contenere, mise in un fazzoletto d naso qualche capo di biancheria, ed abbandonò la sua camera dopo averle dato un tenero addio con patetiche parole.
Ma, mentre traversava il cortile, il portinaio della casa, che pareva lo spiasse, lo fermò all'improvviso.
- Eh, signor Schaunard - esclamò egli barricandogli il passo - non ci pensate voi? Oggi è l'8, di aprile. Come vedete, siete in ritardo pal vostro sgombero. Sono undici ore e mezzo, ed il nuovo inquilino che ha preso la vostra camera può arrivare da un momento' all'altro... Bisognerebbe cercare di far presto. - - In tal caso lasciatemi passare, vado a cercare un carro poi miei mobili.
- Va benissimo, ma prima di sgomberare c'è una piccola formalità da adempiere. Ho l'ordine di non lasciarvi portar via un capello se non pagate le tre pigioui scadute. Voi siete probabilmente in grado ?...
- Diamine!... - disse Schaunard facendo un passo avanti.
- In tal caso, se volete entrare un momento nella mia stanza, vi darò la vostra ricevuta.
- La prenderò quando ritorno.
- Perché non la volete subito?
- Vado dal cambiavalute. Non ho danari spiccioli.
- Ah, ah! - riprese l'altro con inquietudine - voi andate a cambiare dei danari? Allora per farvi piacere terrò qui quell'involto che avete sotto il braccio e che vi incomoda.
- Signor guardiaportone - disse Schaunard con dignità - avreste voi forse delle diffidenze? Credete voi che io possa portar via i miei mobili in un fazzoletto da naso?
- Vi domando perdono, signore - rispose umiliato il portinaio - questa è la mia consegna. Il signor Bernard mi raccomandò espressamente di non lasciarvi portar via un capello, se prima non avete pagato.
- Guardate dunque - disse Schaunard aprendo il suo involto - non sono capelli, sono camicie che porto alla lavandaia che sta qui accanto al cambiavalute, a venti passi dalla casa.
- Allora è un'altra cosa - disse il portinaio dopo aver esaminato il contenuto del pacco. - Potrei, senza indiscrezione, domandarvi il vostro nuovo indirizzo? -- Via di Rivoli - rispose freddamente l'artista, il quale, avendo potuto mettere i piedi fuori di casa, prese il largo addirittura.
- Via di Rivoli - mormorava il portinaio cacciandosi le dita nelle narici - è strano che gli abbiano dato alloggio in via di Rivoli, senza neppure essere venuti a prendere informazioni; quest' è strano... Ad ogni modo, egli non por-terà via i suoi mobili senza pagare. Purchè l'altro inquilino non porti la sua roba proprio nel momento in cui il signor Schaunard se ne andrà colla sua. Questa coincidenza mi procurerebbe un bell'imbroglio su per le scale!... Ah, diavolo - esclamò tutt'ad un tratto mettendo la testa allo sportello - eccolo qui, proprio lui, il mio nuovo inquilino.
Un giovinotto, colla testa coperta d'un cappello bianco alla Luigi XIII, entrava difatti nel vestibolo, seguito da un facchino, che pareva non piegasse troppo, sotto il peso che portava.
- Signore - domandò al portinaio che gli era andato incontro - è libera la mia camera?
- Non ancora, signore, ma lo sarà a momenti. La persona che lo occupa è uscita a cercare un carro per trasportare i mobili. Del resto, il signore potrebbe, pal momento, far deporre i suoi mobili nel cortile.
- Ho paura che piova - rispose il giovanotto masticando tranquillamente un mazzetto di viole che teneva fra i denti - la mia mobilia potrebbe guastarsi. Facchino - diss'egli all'uomo ch'era rimasto là dietro a lui, con in spalla un fascio d'oggetti di cui il portinaio non sapeva spiegare la natura - posate tutto ciò sotto il vestibolo, e ritornate al mio vecchio alloggio a prendere il resto dei mobili preziosi e degli oggetti d'arte.
Il facchino accomodò lungo il muro un paravento, formato da diversi telai ricoperti di carta, dell'altezza di sei o sette piedi. Questi telai, erano ripiegati gli uni contro gli altri, e sembrava potessero spiegarsi a piacere.
- Guardate - disse il giovanotto al facchino aprendo a metà uno dei telai e facendogli vedere uno strappo fatto nella tela - ecco qui una disgrazia..., voi m'avete spezzato il mio specchio di Venezia..., procurate d'essere più attento nel vostro secondo viaggio..., abbiate cura sopratutto della mia biblioteca.
- Che diavolo vuoi egli dire col suo specchio di Venezia? - borbottava il portinaio girando intorno al paravento appoggiato al muro - io non vedo specchi... è uno scherzo di certo... io non vedo che un paravento..., basta, vedremo che cosa arriverà col secondo viaggio.
- Ma quand'è che il vostro inquilino mi lascierà la camera libera? È mezzogiorno e mezzo, ed io vorrei prendere possesso del mio alloggio - disse il giovanotto.
- Oh io non credo che possa tardare molto - rispose il portinaio - del resto non è un gran male dal momento che i vostri mobili non sono ancora arrivati - ed il portinaio appoggiava colla intonazione della voce su quest'ultima frase.
Il giovanotto stava per rispondere, quando un dragone, in tenuta di servizio, entrò a cavallo nel cortile.
- Il signor Bernard? - domandò tirando fuori una lettera dalla cartella di pelle che gli batteva i fianchi.
- Sta qui - rispose il portinaio.
- Ecco una lettera per lui - prosegui il dragone - datemene ricevuta - ed egli porse al portinaio il bollettario dei dispacci, che questi andò a firmare nella sua stanza.
- Vi domando scusa di lasciarvi solo - disse il portinaio al giovane che passeggiava con impazienza nel cortile - ho qui una lettera del Ministero pel signor Bernard mio padrone di casa, e vado di sopra a portargliela.
Quando il portinaio entrò, il signor Bernard stava radendosi la barba.
- Che cosa volete, Durand?
- Signore - rispose costui togliendosi il berretto un lragone ha portato questo piego per voi..., arriva dal Ministero.
Ed egli porse al signor Bernard la lettera, la cui busta portava il timbro del Ministero della guerra.
- Oh mio Dio! - esclamò il signor Bernard sì commosso che corse rischio di tagliarsi col rasoio che aveva in mano - dal Ministero della guerra!... Sono certo che è la mia nomina al grado di cavaliere della Legion d'onore che sollecito da tanto tempo... si rende finalmente giustizia ai miei meriti... Prendete, Durand - disse egli frugando nel taschino della sua sottoveste - eccovi uno scudo per bere alla mia salute. Ah! non ho in tasca la mia borsa... aspettate ve lo darò a momenti.
Il portinaio fu tanto confuso da questo atto di generosità fulminante, al quale il suo padrone non l'aveva assuefatto, che si ripose il berretto in testa.
Il signor Bernard, il quale in un altro momento avrebbe severamente biasimata quell'infrazione alle leggi della gerarchia sociale, non se ne accorse. Si pose gli occhiali, ruppe il suggello di ceralacca, colla rispettosa emozione di un visir che riceve un firmano del sultano, ed incominciò la lettura del dispaccio.
Alle prime righe una spaventevole smorfia tracciò delle profonde rughe nel lardo delle sue gote monastiche, ed i suoi occhietti lanciarono scintille tali, da mettere il fuoco alle ciocche della sua parrucca a cespugli. Insomma, i suoi lineamenti erano talmente sconvolti, che si sarebbe detto esser la sua faccia in preda ad un terremoto.
Ecco qui il contenuto del messaggio, scritto su carta intestata dal Ministero della guerra e portato a spron battuto da un dragone, del quale dispaccio Durand aveva rilasciato ricevuta al Governo:

"Mio signore e padrone di casa. - La buona creanza, la quale, se si presta fede alla mitologia, è l'avola delle belle maniere, m'obbliga farvi sapere, che io mi trovo nella crudele necessità di non poter adempiere l'usanza di pagare il fitto. Ho accarezzate fino a stamattina le speranze di poter festeggiare un sì bel giorno, pagando le tre quietanze della mia pigione... Chimere! illusioni! utopie!... Mentre io dormivo sul guanciale della certezza, la fatalità (in greco ananke) mandava disperse le mie speranze... Le riscossioni sulle quali io calcolavo... Dio! come il commercio è arrenato!... non si sono verificate..., e non ho ancora potuto indassare che tre soli franchi sulle ragguardevoli somme che debbo riscuotere; tre franchi che mi furono prestati, e che io non vi offro. Giorni migliori spunteranno per la nostra bella Francia e per me... non dubitatene, signore! Appena essi brilleranno, mi metterò le ali per venire ad avvertirvene e ritirare dal vostro stabile gli oggetti preziosi che vi ho lasciati, e che io metto sotto la protezione vostra e della legge, la quale vi proibisce di venderli prima che sia scorso un anno. Ve lo dico pel caso che voi voleste tentarne la vendita, onde ricavare la somma per la quale siete accreditato sul registro della mia probità. Vi raccomando in modo speciale il mio pianoforte e la grande cornice nella quale si trovano sessanta ciocche di capelli, i cui differenti colori segnano tutta la scala delle tinte capillari che furono involate dallo scalpello d'Amore sul capo delle Grazie.
Voi potete però, mio signore e padrone di casa, disporre del tetto sotto il quale ho abitato. Ve ne accordo il mio permesso qui in calce rivestito del mio suggello.

ALESSANDRO SCHAUNARD."

Quando il signor Bernard ebbe letta questa epistola, che l'artista aveva scritta nell'uffizio di un suo amico, impiegato al Ministero della guerra, la spiegazzò sdegnoso, e vedendo compar Durand che aspettava la promessa gratificazione, gli domandò sgarbatamente che cosa faceva.
- Io !... aspetto, signore.
- Che cosa?
- Ma... la generosità che ella... a motivo della buona notizia... - balbettò il portinaio.
- Uscite.... Come? briccone! voi state alla mia presenza col berretto in testa?
- Ma, signore...
- Orsù, non rispondete; uscite! No... aspettate.... Noi saliremo nella camera di questo birbante d'artista, che sgombera senza pagarmi.
- Come? - disse il portinaio - il signor Schaunard!
- Sì - seguitò il padrone il cui furore andava aumentando - e se egli ha portato via la più piccola cosa, io vi scaccio, capite? vi scaccio!...
- Questo è impossibile - mormorò il povero portinaio - il signor Schaunard non ha sgomberato, egli è andato a cambiare i danari per pagarvi ed a prendere un carro per trasportare i suoi mobili...
- Trasportare i suoi mobili !... - esclamò il signor Bernard - son certo che lo sta facendo; egli vi ha teso una trappola per farvi abbandonare la vostra portineria e fare il suo colpo, imbecille che siete!
- Oh Dio! imbecille che sono! - gridò il povero Durand tremante davanti l'olimpica ira del suo padrone, che lo trascinava giù per la scala.
Appena posero piede nel cortile, il portinaio fu apostrofato dal giovanotto del cappello bianco:
- Ebbene, portinaio! Non mi mettete voi in possesso del mio domicilio ? È o non è oggi l'8 aprile? È qui o non è qui che ho preso alloggio? Vi ho io dato la mancia, si, o no?
- Scusatemi, signore, scusatemi disse il padrone - sono da voi... Durand - aggiunse egli volgendosi al portinaio - risponderò io al signore. Correte lassù, quel birbone di Schaunard è rientrato senza fallo per far fagotto, e se voi lo sorprendete, chiudetelo in camera e venite giù a chiamar le guardie.
Compare Durand scomparve su per le scale.
- Vi domando perdono, signore - disse il padrone facendo un inchino al giovane che era rimasto solo - a chi ho l'onore di parlare?
- Signore, io sono il vostro nuovo inquilino; ho preso in affitto in questa casa una camera al sesto piano, ed incomincio a perdere la pazienza vedendo che l'alloggio non è libero.
- Voi mi vedete tutto mortificato, o signore - rispose il signor Bernard - è sorta una difficoltà fra me ed uno dei miei inquilini, quello appunto che voi dovete surrogare.
- Signor padrone - gridò il povero Durand da una finestra posta all'ultimo piano della casa -il signor Schaunard non c'è, ma la sua stanza è qui... Bestia ch'io sono! voglio dire signore, ch'egli non ha portato via nulla, neppure un capello...
- Va bene, scendete - rispose il signor Bernard. - Dio mio! - aggiungeva rivolgendosi al giovanotto - abbiate un momento di pazienza, ve ne prego. Il portinaio porterà in cantina i mobili che stanno nella camera del mio inquilino insolvibile, e fra una mezz' ora voi potrete prenderne possesso: del resto i vostri mobili non sono ancora arrivati.
- Domando scusa, signore - rispose tranquillamente il giovane.
Il signor Bernard si guardò intorno, e non vide altro che il gran paravento, il quale aveva già inquietato il portinaio.
- Come? vi domando scusa?... come? - mormorò ma... io non vedo nulla.
- Ecco - continuò il giovane... aprendo i telai del paravento, ed offrendo alla vista dell'estatico padrone di casa un magnifico interno di palazzo, con colonne di diaspro a bassorilievi.
- Ma i vostri nobili ?...
- Eccoli qui - rispose il giovane indicando la sontuosa mobilia che si vedeva dipinta nel paravento, da lui allora allora comperato ad un'asta pubblica, dove si vendevano le decorazioni di un teatrino da famiglia.
- Signore - disse il padrone - voglio credere che voi avrete mobili migliori di questi.
- Come? ma questi sono veri mobili di Boule...
- Voi capirete bene che io voglio una garanzia per la mia pigione.
- Bagattella!! Non vi basta un palazzo per garantirvi della pigione d'una soffitta?
- No, signore; io voglio dei mobili, dei veri mobili di legno e non della carta dipinta.
- Ahimè, signor mio, nè l'oro, nè il mogògono non ci fanno felici, disse un antico..., e poi io non posso soffrirli; il mogògono è un legno troppo comune; tutti ne hanno.
- Ma alla fin dei conti, voi avrete bene dei mobili, qualunque essi sieno.
- No, essi occupano troppo spazio negli appartamenti: dal momento che si hanno delle sedie non si sa più dove sedere.
- Ma ad ogni modo voi avrete un letto! Su che cosa riposate?
- Io riposo sulla Provvidenza, o signore.
- Mille scuse, un'ultima domanda - disse il signor Bernard. - La vostra professione, di grazia?
In quel momento il facchino del giovane entrava nel cortile, di ritorno dal suo secondo viaggio. Fra gli oggetti ch'egli portava in spalla si notava un cavalletto.
- Ah! signore - gridò compare Durand spaventato e mostrando al padrone il cavalletto - è un pittore!!!
- Un artista; ne ere certo - esclamò il signor Bernard, ed i capelli della sua parrucca quasi si rizzarono colpiti da spavento - un pittore!!! Ma voi dunque non avete preso informazioni su questo signore? - diss'egli dirigendosi al portinaio - voi non sapevate dunque la sua condizione?
- Diamine! - rispose il pover uomo - egli mi aveva date cinque franchi di mancia; potevo supporre...
- Quando avrete finito... - disse il giovane.
- Signore - replicò il signor Bernard inforcando i suoi occhiali sul naso - dal momento che non avete mobili, voi non potete alloggiare qui. La legge autorizza a rifiutare un inquilino che non può dar garanzia.
- E la mia parola?... - disse dignitosamente l'artista.
- Essa non vale dei mobili... voi potete cercare altrove un alloggio... Durand vi restituirà la mancia che gli avete dato.
- Ah! - disse il portinaio stupefatto - l'ho già portata alla cassa di risparmio.
- Ma, signore - replicò il giovane - io non posso in un momento trovarmi un nuovo alloggio. Datemi l'ospitalità almeno per un giorno.
- Andate all'albergo. - rispose il signor Bernard. A proposito - soggiunse tosto per una subitanea riflessione - se volete vi affitterò coi mobili la camera che voi dovevate occupare, dove si trovano quelli del mio inquilino insolvibile. Però voi sapete che in questo genere di locazione, la pigione si paga anticipata.
- Si tratta però di sapere quanto mi farete pagare di quella tana - disse l'artista costretto a rassegnarsi.
- L'alloggio è assai pulito; mi darete venticinque franchi al mese, stante la circostanza... Si paga anticipatamente.
- L'avete già detto: questa frase non merita certo l'onore del bis - disse il giovane frugandosi nelle tasche. Avete da rendermi il resto a un biglietto di cinquecento franchi?
- Eh ?... - disse il padrone meraviliato - cosa?
- Perbacco! la metà di mille: che e è di straordinario? Non ne avete mai visti? - aggiunse l'artista facendo passare il biglietto di banca sotto gli occhi del padrone e del portinaio, i quali, a tal vista, parve che perdessero l'equilibrio.
- Vado a prendervi il resto - riprese rispettosamente il signor Bernard. - Non riterrò che venti franchi, perché Durand restituirà a me la mancia che gli deste.
- Gliela lascio - disse l'artista, - a condizione che tutte le mattine venga a dirmi il giorno e la data del mese, il quarto della luna, il tempo che farà e la forma di governo sotto la quale vivremo.
- Ah, signore! - esclamò Durand descrivendo una curva di novanta gradi.
- Va bene, brav'uomo; voi sarete il mio almanacco. Intanto aiutate il facchino a portare le mie cose in camera, e guardate di non sciupar niente.
- Signore - disse il padrone - vi mando subito la ricevuta.
La stessa sera, il nuovo inquilino del signor Bernard, il pittore Marcello, occupava, trasformato in palazzo, l'alloggo del fuggitivo Schaunard.
In questo frattempo il detto Schaunard correva Parigi, battendo quella che egli chiamava la generale della moneta.
Schaunard aveva elevato l'imprestito all'altezza di una scienza. Prevedendo il caso in cui avrebbe dovuto opprimere qualche straniero, aveva imparato a domandare cinque franchi a prestito in tutte le lingue del globo. Aveva studiate a fondo tutto le malizie che adopera il metallo per sfuggire chi lo cerca; conosceva le epoche in cui le acque sono basse ed alte, assai meglio d'un pilota il quale conosca le ore della marea. Egli insomma sapeva a memoria i giorni in cui i suoi amici e le sue conoscenze avevano l'abitudine di ricevere del danaro. C'erano perciò delle case nelle quali, vedendolo entrare la mattina, non si diceva già: "ecco qui il signor Schaunard," ma si diceva invece: "ecco qui il primo o il quindici del mese". Per facilitare e nello stesso tempo livellare questa specie di decima, che prelevava quando lé circostanze l'obbligavano, Schaunard aveva compilato un quadro alfabetico per ordine di quartieri e di circondari, nel qual quadro si trovavano tutti i nomi dei suoi amici e delle sue conoscenze. Accanto a ciascun nome stavano scritti il maximum della somma che si poteva domandare, relativamente allo stato di fortuna, le epoche in cui erano in danaro, l'ora dei pasti e le distinte dei piatti che generalmente preferivano. Oltre questo quadro, Schaunard aveva un registro perfettamente in ordine, su cui annotava le somme che gli venivano prestate fino alle più piccole frazioni, perchè egli non voleva indebitarsi al di là di una certa somma, la quale stava ancora sulla punta della penna di uno zio di Normandia, di cui doveva essere l'erede. Quando Schaunard doveva venti franchi a qualcuno, chiudeva il suo conto, e lo rimborsava integralmente in una volta sola, a costo di contrarre un prestito con coloro ai quali doveva meno, per pagarlo. In questo modo si manteneva sempre sulla piazza un certo credito, che chiamava il suo debito fluttuante.
Siccome poi si sapeva ch'egli aveva l'abitudine di restituire, appena glielo permettevano le risorse personali, tutti, quando lo potevano, gli prestavano danaro.
Ma dalle ore undici del mattino, dacchè era partito da casa sua per metter insieme i settantacinque franchi necessari, gli non aveva ancor potuto raggranellare che un piccolo scudo, dovuto alla collaborazione delle lettere M. V. ed R. della famosa sua lista. Tutto il resto dell' alfabeto, che, come lui, aveva la pigione da pagare, lo aveva respinto con un: Non farsi luogo.
A sei ore, un violento appetito suonò nel suo ventricolo le campane del pranzo; egli si trovava allora alla porta del Maine, dove alloggiava la lettera U, al cui desco aveva il suo tovagliuolo... quando c'erano tovagliuoli.
- Dove andate, signore? - gli domandò il portinaio fermandolo al varco.
- Dal sinore U.... - rispose l'artista.
- Non c'è.
- E le sue signore?
- Neppure: essi mi hanno incaricato di dire ad un loro amico, il quale doveva venire stasera, che erano andati a pranzo fuori; se siete voi la persona ch'essi aspettavano, ecco qui l'indirizzo lasciatomi - ed il portinaio diede a Schaunard un pezzo di carta, sulla quale il suo amico U. aveva scritto: "Siamo andati a pranzo da Schaunard, in via... N.... vieni a trovarci".
- Va benissimo - disse l'artista andandosene - quando il caso se ne immischia, fa nascere delle cose buffe, curiose.
Schaunard si ricordò allora che si trovava a due passi da una piccola osteria, dove si era rifocillato due o tre volte a buon mercato. Si diresse dunque a quella, la quale si trovava sulla strada del Maine, e che nella bassa bohème era conosciuta sotto il nome di mamma Cadet. Era un'osteria, la cui clientela ordinaria componevasi di carrettieri della strada di Orléans, di cantanti del teatro Mont-Parnasse e dei primi amorosi del Bobino.
Durante la bella stagione, i letterati inediti, gli scribacchini delle gazzette misteriose e gli allievi dei molti studi di pittura che si trovano presso il Lussemburgo, vanno insieme a pranzo da mamma Cadet, celebre per la sua fricassea, pel saltz-craut autentico, e pel vinetto bianco che puzza di pietra focaia.
Schaunard andò a mettersi sotto i boschetti (si chiama così in quel luogo il fogliame di due o tre piante rachitiche, col quale si compone una specie di volta).
- Parola d'onore, tanto peggio - diceva Schaunard fra sè - bando alla malinconia, mi regalerò un banchetto da Baldassarre.
E senza titubare, comandò una zuppa, una piccola di saltz-craut e due piccole fricassee. Egli aveva notato che, dividendo una porzione, si guadagnava almeno un quarto sul totale.
Gli ordini d'un tal pranzo attirarono su di lui gli sguardi di una giovane vestita di bianco, con in capo alcuni fiori d'arancio e calzata di scarpini da ballo. Un velo trasparente le svolazzava sulle spalle, che avrebbero fatto meglio a conservare l'incognito.
Era una cantante del teatro Mont-Parnasse, le cui quinto vengono, per così dire, a far capo nella cucina di mamma Cadet. Ella era venuta a pranzare durante un intermezzo della Lucia e chiudeva in quel momento, prendendo il caffè, il suo pasto, composto esclusivamente di un carciofo all'olio.
- Due fricassee! perbacco! - diss'ella sottovoce alla ragazza che faceva le funzioni di cameriere - è un giovinotto che si tratta bene. Quanto vi devo?
- Quattro di carciofo, quattro di caffè e un soldo di pane, in tutto nove soldi.
- Prendete - disse la cantante, e se ne andò canterellando.
- Senti, senti, prende il la! - disse allora un personaggio misterioso, seduto alla stessa tavola dove stava Schaunard, e mezzo nascosto dietro una muraglia di vecchi libracci.
- Ella lo prende!! Mi pare invece che lo lasci disse Schaunard. - È impossibile farsi un'idea di questa gente - continuò, indicando col dito il piatto nel quale Lucia di Lammermoor aveva mangiato il suo carciofo. - Metterei in fusione il suo falsetto nell'aceto...
- Difatti esso è un acido violento - aggiunse il personaggio che aveva già parlato. - La città di Orléans ne fabbrica certe qualità, che godono, a ragione, d'una grande rinomanza.
Schaunard esaminò attentamente questo originale, che gli gettava in tal modo l'amo per intavolare il discorso. Lo sguardo fisso dei suoi grandi occhi azzurri, che parevano sempre in cerca di qualche cosa, dava al suo aspetto quel carattere di beata placidezza che distingue i seminaristi. La sua faccia aveva il colore dell'avorio vecchio, meno le guance però, le quali erano coperte d'una tinta mattone-pesto. La sua bocca pareva fosse stata tratteggiata da uno scolaro dei primi elementi, al quale avesser date delle spinte nel gomito, mentre disegnava. Le labbra, un po' rovesciate, come quelle della razza mora, lasciavano allo scoperto denti degni d'un cane da caccia; il mento posava le due pieghe su di una cravatta bianca, una punta della quale minacciava gli astri e l'altra forava la terra; le sue chiome fuggivano in bionde cascate fuori di un cappello a tesa smisuratamente larga. Portava un soprabito color nocciuola a pellegrina, e la stoffa ridotta alla trama aveva la scabrosità di una grattugia. Dalle tasche spalancate spuntavano fascicoli di carte e libercoli. Senza occuparsi affatto dell'esame di cui era oggetto, egli assaporava un saltz-craut guernito, dando frequenti segni di alta sodisfazione. Leggeva, mangiando, un vecchio libraccio, che stava aperto avanti a lui, sul quale di tanto in tanto scriveva delle note, con un lapis ch'egli portava all'orecchio.
- Ebbene? - gridò tutt'ad un tratto Schaunard, battendo col coltello sul bicchiere - e la mia fricassea?
- Signore - rispose la serva, accorrendo con un piatto in mano - non ce n' è più: questa è l'ultima, e fu già domandata da questo signore - aggiunse, posando il piatto in faccia all'uomo dai libri vecchi.
- Sacra...!! - gridò Schaunard.
C'era tanto rammarico in quest'esclamazione che l'uomo dai libri vecchi ne fu profondamente colpito. Egli respinse la barricata di libri che s'inalzava fra lui e Schaunard e, mettendo il piatto fra di loro, gli disse coi più dolci suoni della voce:
- Signore, potrò io pregarvi di dividere questa pietanza con me?
- Signore - rispose Schaunard - non vorrei privarvene.
- Mi toglierete dunque il piacere di servirvi? - aggiunse l'uomo dei libri vecchi.
- Quand'è così, signore... - e Schaunard spinse avanti il suo piatto.
- Permettetemi di non darvi la testa - disse lo straniero.
- Ah, signore! - esclamò Schaunard - non soffrirò mai...
Ma tirandosi presso il piatto, egli s' accorse che lo straniero gli aveva proprio dato quel pezzo che diceva voler tenere per sè.
- Che mi viene a cantare colle sue gentilezze, costui? - borbottò Schaunard fra sè.
- Se la testa è la parte più nobile dell'uomo, essa è la più scipita del coniglio - disse lo straniero. - Perciò vi sono molti che non la possono soffrire. Per me è un altro affare: io l'adoro.
- In tal caso sono dolentissimo che ve ne siate privato per me.
- Come? vi domando scusa - disse l'uomo dai libri la testa l'ho tenuta io! Anzi ebbi l'onore di farvi osservare, che...
- Permettete - disse Schaunard mettendogli il suo piatto sotto il naso. - Cos'è questa qui?
- Giusto cielo, che vedo io mai?!! O Dei! Un'altra testa!! È un coniglio bicefalo - esclamò lo straniero.
- Bice.... - disse Schaunard.
-... falo... deriva dal greco. Difatti il signor Buffon, il quale portava dei manichini trinati, cita alcuni esempi di simile singolarità. In fede mia sono contento di aver mangiato un fenomeno.
A causa di questo incidente, la conversazione era incominciata davvero.
Schaunard, che voleva avere il sopravvento in gentilezze, domandò una bottiglia di più. L'uomo dai libri ne fece venire un'altra; Schaunard offrì un'insalata, l'uomo dei iibracci regalò un dessert. Alle otto ore di sera, c'erano sei bottiglie vuote sulla tavola. Chiacchierando sempre e bevendo, la confidenza era venuta, e ii aveva eccitati a farsi l'un l'altro la loro biografia, talchè dopo due ore di compagnia si conoscevano come se avessero vissuto sempre assieme. L'uomo dai libri, dopo aver ascoltate le confidenze di Schaunard, gli disse ch'egli aveva nome
Gustavo Colline, che esercitava la professione di filosofo, e si guadagnava il pane dando lezioni di matematica, di scolastica, di botanica, e di molte altre scienze in -ica.
Il poco ch'egli guadagnava insegnando agli scolari, lo spendeva comprando libri vecchi. Il suo soprabito nocciuola era conosciuto da tutti i rivenditori di libri usati, che stanno all'aria aperta sulla Ripa, dal ponte della Concordia fino a quello di San Michele. Nessuno al mondo, sapeva che diavolo facesse di tutti quei libri, cui la vita d'un uomo non avrebbe bastato a leggerli; egli poi lo sapeva meno d'ogni altro. Ma questo capriccio aveva preso le proporzioni d'una passione; quand'egli si ritirava la sera senza portar a casa un nuovo libraccio, ripeteva usualmente il motto di Tito: "Ho perduto la mia giornata..." I suoi modi graziosi, il suo linguaggio, che presentava un mosaico di tutti gli stili, ed i terribili giuochi di parole coi quali smaltava il discorso, avevano sedotto Schaunard. Egli domandò subito a Colline il permesso di aggiungere il suo nome a quelli che componevano le famose liste, contenute nel portafogli di cui abbiamo fatto menzione.
Essi uscirono dall'osteria di mamma Cadet a nove ore di sera, abbastanza brilli entrambi, e camminando come gente che finisce di conversare colle bottiglie.
Colline offerse il caffè a Schaunard, e questi accettò a condizione di pagare i liquori. Salirono quindi in un caffè della via Saint-Germain l'Auxerrois, che aveva per insegna
Momus, il Dio dei giuochi e del riso.
Nel momento in cui entravano, era impegnata una discussione vivissima fra due frequentatori del luogo. Uno di essi era giovane, e il suo volto si perdeva in fondo ad un bosco di barba variopinta.
Una calvizie precoce aveva sguernita la sua fronte, vera antitesi all'abbondanza dell'onor del mento. La di lui fronte pareva un ginocchio, ed un ciuffo di capelli, tanto rari che si potevano contare, tentava invano di nasconderne la nudità. Era vestito di un abito lacero che lasciava vedere i gomiti a nudo. I suoi calzoni dovevano essere stati neri, ma i suoi stivali, che non furono mai nuovi, pareva avessero fatto diverse volte il giro del mondo, sulle orme dell'Ebreo Errante.
Schaunard notò che il suo nuovo amico Colline ed il giovine barbuto si erano salutati.
- Conoscete voi quel signore? - domandò al filosofo.
- Niente affatto - rispose quegli - l'incontro qualche volta alla biblioteca. Credo sia un letterato.
- In ogni caso ne ha l'apparenza - replicò Schaunard.
Il personaggio col quale quel giovane stava in discussione, era un uomo sulla quarantina, predestinato ad un colpo d'apoplessia fulminante, così l'indicava la sua grossa testa, sepolta immediatamente nelle spalle senza l'intermezzo del collo. L'idiotismo si leggeva a lettere maiuscole sulla sua fronte depressa e coperta da una papalina nera. Si chiamava Mouton, ed era impiegato al Commissariato Municipale del IV Circondano.
- Signor
Rodolfo! - esclamava con voce d'eunuco e scuotendo il giovane ch'egli aveva agguantato per un bottone dell'abito - volete ch'io vi dica la mia opinione? Ebbene! tutti i giornali non servono a nulla. Vedete; un'ipotesi. Io sono padre di famiglia, io, non è vero? Bene... Io vengo al caffè a giuocare la mia partita al dominò... Seguito bene il mio ragionamento?
- Proseguite, proseguite - disse Rodolfo.
- Ebbene - continuava compare Mouton, accentuando ognuna delle sue frasi con un pugno che faceva tremare le bottiglie di birra ed i bicchieri che stavano sulla tavola. Ebbene, io prendo un giornale, bene... Che cosa vi trovo? L'uno dice bianco, l'altro dice nero, e viceversa. Che importa a me tutto questo pasticcio? Io sono un buon padre di famiglia, che viene per fare...
- La sua partita al dominò - disse Rodolfo.
- Tutte le sere - continuò il signor Mouton. - Ebbene, un'ipotesi: voi capite...
- Benissimo - disse Rodolfo.
- Leggo un articolo che non è della mia opinione. Ciò mi fa arrabbiare, e mi strugge l'anima... perchè vedete, tutti i giornali sono bugiardi... Sì, bugiardi - urlò egli nel suo più acuto falsetto - ed i giornalisti sono briganti, scribacchini...
- Però, signor Mouton...
Sì, briganti - continuava l'impiegato - son essi la causa delle disgrazie di tutti... Son essi che hanno fatto la rivoluzione: prova Murat.
- Scusatemi - notò Rodolfo.- voi volete dire Marat.
- Ma no, ma no - ripigliava Mouton - Murat; quando vi dico che io ho veduto i suoi funerali quand'era ancora piccino...
- Vi assicuro....
- Se ne è fatto perfino una rappresentazione al Circo dei cavalli... là...
- Appunto per questo - disse Rodolfo - è Marat.
- Ma dunque? cos' è che vi dico io da un'ora? gridò l'ostinato Mouton. - Murat che lavorava in una cantina. Ebbene, un'ipotesi. Non hanno forse fatto bene i Borboni, mandandolo alla ghigliottina dal momento che aveva tradito?
- Chi ghigliottinato? Chi tradito? Cosa? - esclamò Rodolfo afferrando anch'egli il signor Mouton pel bottone del suo abito.
- Chi dunque? Marat...
- Ma no, ma no, signor Mouton... Murat, intendiamoci, sacra...
- Sì, certo, Marat, una canaglia. Egli tradì l'imperatore nel 1815. Appunto per ciò dico che tutti i giornali sono uguali - continuava Mouton rientrando in quella ch'egli chiamava una spiegazione. - Sapete voi cosa vorrei io? Ebbene, un'ipotesi... Io vorrei un buon giornale, eh!... Non grande.... buono... e che non facesse frasi!
- Voi siete troppo esigente - disse Rodolfo - un giornale senza frasi!
- Vi dico di sì: seguite bene la mia idea.
- Faccio il possibile... -
Un giornale che parli semplicemente della salute del re, e dei beni della, terra. Perchè, infine, a che servono tutte le vostre gazzette delle quali non si capisce niente ?... Un'ipotesi. Io sono al Municipio, or bene? Io tengo il mio registro, in piena regola! Ebbene, è come se venissero a dirmi: "Signor Mouton, voi notate i decessi; fate questo, fate quest'altro". Or dunque, cos'è, cos'è? cos'è? I giornali sono la stessa cosa - finì egli concludendo.
- Evidentemente - disse un vicino che aveva capiti.
Ed il signor Mouton, ricevute le felicitazioni di coloro che erano del suo parere, andò a continuare la sua partita al domino.
- L'ho messo al suo posto - diss'egli, indicando Rodolfo, il quale era andato a sedersi allo stesso tavolino, dove si trovavano Schaunard e Colline.
- Che imbecille! - disse questi ai due giovani, mostrando loro l'impiegato.
- Ha una bella testa, con quelle pàlbebre a ventaglio, e con quegli occhi da cicala - disse Schaunard tirando fuori di tasca con indifferenza una pipa di schiuma, stupendamente annerita.
- Perbacco, signore. - disse Rodolfo - voi avete una pipa stupenda.
- Oh! ne ho un'altra più bella per andare in conversazione - rispose Schaunard. - Datemi un po' di tabacco, Colline.
- Oh bella! - esclamò il filosofo - non ne ho più.
- Permettetemi di offrirvene del mio - disse Rodolfo, tirando fuori un cartoccio di tabacco, che depose sul tavolino.
A simile gentilezza, Colline credette suo dovere di corrispondere coll'offerta d'un bicchierino di Sligovitz.
Rodolfo accettò.
Il discorso cadde sulla letteratura. Rodolfo, interrogato sulla sua professione, già tradita dall'abito, confessò la sua relazione colle Muse, e fece portare del cognac. Il garzone del caffè servì, o stava per portar via la bottiglia, allorché Schaunard lo pregò di lasciarla. Egli aveva udito in una delle tasche di Colline l'argentino duetto di due pezzi di cinque franchi. Rodolfo salì bentosto al livello di espansione, al quale si trovavano già i due amici, e fece anch'egli le sue confidenze.
Avrebbero indubbiamente passata la notte al caffè, se non li avessero pregati di uscirne. Non avevano per anco fatto dieci passi nella via (e vi avevano impiegato un quarto d'ora), quando la pioggia li sorprese. Colline e Rodolfo abitavano le due estremità opposte di Parigi, uno stava all'isola San Luigi, l'altro a Montmartre.
Schaunard, il quale aveva completamente dimenticato di essere senza domicilio, offerse loro ospitalità.
- Venite a casa mia - diss'egli - sto qui vicino; noi passeremo la notte parlando di letteratura e di belle arti.
- Tu suonerai, e Rodolfo ci reciterà dei versi - disse Colline.
- Sì davvero - rispose Schaunard - bisogna ridere, non si vive che una volta sola.
Giunti davanti la casa; che Schaunard a fatica riconobbe, questi s'assise un momento sopra un pilastrino per aspettare Rodolfo e Colline, che erano entrati da un vinaio a prendere l'occorrente per cenare. Quand'essi ritornarono, Schaunard batté più volte alla porta, poichè si ricordava vagamente che il portinaio aveva l'abitudine di farlo aspettare. La porta finalmente si apri e comparve Durand, immerso nelle delizie del primo sonno, ed avendo dimenticato che Schaunard non era più suo inquilino, non si scompose affatto, quando questi, passando, gridò il suo nome.
Allorché furono giunti tutti e tre in cima alla scala, l'ascensione della quale fu tanto lunga quanto difficile, Schaunard, che camminava in testa alla colonna, gettò un grido di stupore, trovando la chiave nell'uscio della sua camera.
- Cosa avete? - domandò Rodolfo.
- Non ne capisco nulla - mormorava l'altro - trovo nel mio uscio la chiave che stamane ho portata via... Adesso, adesso vedremo. L'avevo messa in tasca. Eh! giuraddio! eccola qui ancora! - esclamò mostrando una chiave.
- Quest'è magia!...
- Fantasmagoria! - disse Colline.
- Fantasia! - disse Rodolfo.
- Ma - riprese Schaunard, la cui voce palesava un principio di terrore - udite voi?
- Cosa?
- Il mio pianoforte che suona da sè - la, mi, re, do, la, sol, mi, re. - Briccone di re, egli sarà sempre falso.
- Ma non è in casa vostra senza dubbio - disse Rodolfo, aggiungendo a bassa voce all'orecchio di Colline, sul quale si appoggiò di peso: - È brillo!
- Lo credo... prima di tutto non è un pianoforte, è un flauto.
- Ma.... anche voi siete brillo, mio caro - riprese il poeta, continuando a parlare al filosofo, che s'era seduto sul pianerottolo - è un violino.
Un vio.... Peuh !... Senti, Schaunard - balbettò Colline, tirando per le gambe il suo amico. -Quest'è bella! ecco qui il signore che pretende che sia un vio...
- Per Iddio! - gridò Schaunard al colmo dello spavento - il mio pianoforte continua a suonare; questa è magia!!
- Fantasma... goria! - urlò Colline lasciando cadere una delle bottiglie che aveva in mano.
- È fantasia! - mugolò Rodolfo alla sua volta.
In mezzo a questo fracasso,- l'uscio della camera si aprì ad un tratto, e si vide comparire sulla soglia un personaggio, che teneva in mano un candeliere su cui ardevano tre candele steariche, color rosa.
- Che cosa desiderate, signori? - chiese egli salutando cortesemente gli amici.
- Oh cielo che feci io mai!! Mi sono ingannato; questa non è casa mia! - disse Schaunard.
- Signore - continuarono insieme Colline e Rodolfo parlando all'individuo che aveva aperto - scusatelo; ogli brillo fino al terzo grado.
Tutto ad un tratto un lampo d'intelligenza balenò traverso l'ubbriachezza di Schaunard; egli lesse sulla sua porta, queste righe scrittevi col gesso:
Sono venuta tre volte per prendere il mio regalo:

FEMIA

- Ma sì, ma sì, io sono a casa mia! - gridò egli allora - ecco lì il biglietto da visita che Femia mi portò pel capo d'anno: questo è proprio il mio uscio.
- Dio mio, sono davvero confuso, signore - diceva Rodolfo.
- Credete, signore, che dal canto mio prendo molta parte alla confusione del mio amico - aggiunse Colline.
Marcello non poteva a meno di ridere.
- Se volete entrare un momento - rispose - il vostro amico riconoscerà il suo errore, appena avrà veduto la camera.
- Volentieri.
Il poeta ed il filosofo presero Schaunard ciascuno per un braccio, e l'introdussero nella camera o piuttosto nel palazzo di Marcello, che il lettore ha riconosciuto.
Schaunard girò vagamente lo sguardo intorno a sè e disse:
- È strano, come il mio soggiorno si è fatto bello!
- Ebbene, sei convinto adesso? - gli domandò Colline.
Ma Schaunard, visto il pianoforte, vi si era accostato, e faceva delle scale.
- Eh, voi altri, ascoltate qui - diss'egli, facendo degli accordi. - Alla buon'ora! L'animale ha conosciuto il suo padrone: - si, la, voi, fa, mi, re! - Ah ladro d'un re! Tu sarai sempre il medesimo! Ve lo dicevo ben io, ch'era il mio strumento.
-Egli insiste - disse Colline a Rodolfo.
- Egli insiste - disse Rodolfo a Marcello.
- E questa qui - aggiunse Schaunard mostrando la sottana seminata di stelle, che era in mostra sopra una sedia - non è forse il mio ornamento? Eh? - E guardava Marcello sotto il naso. - E questa qui - continuò egli staccando dal muro la disdetta giudiziale della quale abbiamo parlato più indietro. E si mise a leggere: - "In conseguenza, il signor Schaunard sarà obbligato di lasciar liberi i locali e di restituirli in buono stato, l'8 aprile prima di mezzogiorno. Ed io sottoscritto gli ho notificato il presente atto il cui costo è di franchi cinque." Ah ah! Non sono io il signor Schaunard? Non sono io che ho ricevuto il congedo, cogli onori del bollo, del costo di cinque franchi? E queste - continuò riconoscendo le sue pantofole, che Marcello aveva calzate - non sono le mie babbucce, dono di una mano adorata? A voi, signore - disse egli a Marcello - spiegate la vostra presenza nella mia casa.
- Signori - rispose Marcello, parlando a Colline ed a Rodolfo ed indicando Schaunard. - Il signore è in casa sua; lo confesso.
- Ah! - esclamò Schaunard - fortunatamente!
- Ma - continuò Marcello - anch'io sono in casa mia.
- Per altro, signore - interruppe Rodolfo - se il nostro amico riconosce...
- Sì - disse Colline - se il nostro amico...
- Se dal canto vostro vi ricordate che - aggiunse Rodolfo - com'è che ?...
- Sì - riprese Colline - com'è che?...
- Abbiate la bontà di sedere, signori - replicò Marcello - io vi spiegherò il mistero.
- Se noi annaffiassimo la spiegazione ?... - arrischiò Colline.
Mangiando un boccone - aggiunse Rodolfo.
I quattro giovani si misero a tavola, e diedero l'assalto ad un bel pezzo di vitella fredda, che il vinaio aveva loro venduto.
Marcello allora spiegò quel ch'era successo la mattina fra lui ed il padrone di casa, allorché era venuto per prendere possesso della camera.
- In tal caso - disse Rodolfo - il signore ha perfettamente regione: noi siamo in casa sua.
Voi siete in casa vostra - disse gentilmente Marcello.
Ma ci volle una fatica enorme per far capire a Schaunard quello ch'era successo. Un incidente burlesco venne a complicare la situazione. Schaunard, cercando qualche cosa in un armadio, trovò il resto del biglietto da cinquecento franchi che Marcello aveva fatto cambiare la mattina dal signor Bernard.
- Oh! ne ero certo! - esclamò - che il caso non mi abbandonerebbe... Adesso mi ricordo; stamattina ero uscito fuori di casa per corrergli dietro, è vero: egli sarà venuto mentr'io ero assente. Noi ci siamo incrociati, ecco tutto. Come ho fatto bene a lasciare la chiave nell'uscio.
Dolce follia! - mormorò Rodolfo, vedendo Schaunard che formava delle colonne di scudi.
- Sogno, menzogna, questa è la vita - aggiunse il filosofo.
Marcello rideva.
Un'ora dopo, tutti e quattro dormivano.
Il domani a mezzodì essi si svegliarono, e parvero assai stupiti di trovarsi insieme: Schaunard, Colline e Rodolfo pareva non si conoscessero, e si davano del signore.
Fu necessario che Marcello rammentasse loro che erano venuti insieme la sera.
In quel momento compare Durand entrò nella camera.
- Signore - diss'egli a Marcello - oggi ne abbiamo nove del mese d'aprile 1840; c'è molto fango nelle strade, e Sua Maestà Luigi Filippo è ancora re di Francia e di Navarra. Oh! bella! - esclamò compare Durand vedendo il suo antico inquilino - il signor Schaunard... come siete venuto qui?
- Col telegrafo - rispose Schaunard.
- Ma dite un po' - riprese il portinaio - siete sempre burlone?
- Durand - disse Marcello - io non amo che i servitori si mischino nelle mie conversazioni... andate dal vicino trattore, e dite che ci mandi da colazione per quattro. Questa è la lista - aggiunse dandogli un pezzo di carta sul quale aveva scritto i piatti che voleva. - Andatevene! Signori - continuò, allorquando il portinaio fu uscito - voi mi offriste da cena ier sera, permettete che questa mattina io vi offra da colazione... non in casa mia, ma in casa nostra - aggiunse stringendo la mano a Schaunard.
Alla fine della colazione, Rodolfo chiese la parola.
- Signori - diss'egli - permettetemi di lasciarvi.
- Oh no - disse Schaunard sentimentalmente - non lasciamoci più.
- È vero; si sta ottimamente qui - aggiunse Colline.
- Permettetemi di lasciarvi un momento - continuò Rodolfo - domani si pubblica la Sciarpa d'Iride, un giornale di mode, di cui sono il redattore capo; bisona che vada a correggere le mie bozze. Fra un'ora sarò di nuovo qui.
- Diavolo! - disse Colline - mi viene in mente che devo dare una lezione ad un principe indiano che è venuto a Parigi per imparare la lingua araba.
- Andrete domani - disse Marcello.
- Oh no rispose il filosofo - il principe deve pagarmi oggi... E poi, vi confesserò che questa bella giornata per me sarebbe sciupata, se non andassi a far un giro sul mercato dei libri vecchi.
- Ma ritornerai? - domandò Schaunard.
- Colla rapidità d'un dardo lanciato da una mano sicura - rispose il filosofo, che aveva una passione per le immagini eccentriche.
Egli uscì con Rodolfo.
- Insomma - disse Schaunard rimasto solo con Marcello - se invece di cullarmi sul guanciale del dolce far niente, io andassi in cerca di un po' di danaro per calmare la cupidigia del signor Bernard...
- Ma - disse Marcello con inquietudine - fate dunque conto di sgomberare?
- Ma... bisogna bene, dal momento che ho una disdetta giudiziale del costo di cinque franchi.
- E... se voi sgomberate - continuò Marcello - porterete via i mobili?
- Certamente... non ci lascerò un capello, come dice il signor Bernard.
- Diavolo! io sarò imbarazzato, io che ho preso in affitto la vostra camera già mobiliata.
- Oh! è vero! Bah - diss'egli malinconicamente non scorgo alcun indizio che possa farmi trovare i miei settantacinque franchi, nè oggi, nè domani, nè dopo.
- Aspettate, aspettate - esclamò Marcello - ho un'idea.
- Dite.
- La faccenda è questa... legalmente questo alloggio è mio, poichè ho pagato un mese anticipato.
- L' alloggio sì: ma i mobili, se pago, posso legalmente portarmeli via... e se fosse possibile io li porterei via anche extra-legalmente.
- Dimodochè - continuava Marcello - voi avete dei mobili e non avete alloggio, ed io ho un alloggio e non ho i mobili.
- Ecco il fatto - disse Schaunard.
- Quest' alloggio mi piace...
- E a me dunque ?!... Esso non mi piacque mai tanto quanto oggi.
- Ebbene, noi possiamo accomodare questa faccenda riprese Marcello - state qui con me, io metterò l'alloggio, voi somministrerete i mobili.
- E la pigione scaduta? - disse Schaunard.
- Siccome ho del danaro, pel momento, la pagherò... alla prima scadenza toccherà a voi. Riflettete.
- Io non rifletto mai, sopratutto quando si tratta d'accettare una proposizione che mi piace; accetto a prima vista... difatti la pittura e la musica sono sorelle.
- No, cognate - disse Marcello.
Verso le cinque, entravano Colline e Rodolfo, che si erano incontrati per la strada.
Marcello e Schaunard li informarono della loro associazione.
- Signori - gridò Rodolfo facendo suonare il suo taschino. - Io offro da pranzo alla compagnia.
- E precisamente quanto io volevo aver l'onore di proporre - disse Colline cavando di tasca una moneta d'oro ed incastrandosela nell'occhio. - Il mio principe mi ha dato quest'oro per comperare una grammatica araba-indostanica, che ho pagato, poco fa, sei soldi contanti.
- Ed io mi son fatto anticipare trenta franchi dal cassiere della Sciarpa d'Iride - disse Rodolfo - col pretesto che ho bisogno di farmi vaccinare.
- Oggi dunque è un giorno di riscossioni - disse Schaunard - io solo non ho avuto neppure una lira; è umiliante!
- Intanto - riprese Rodolfo - io mantengo l'offerta del pranzo.
- Anch' io - disse Colline.
- Va bene - rispose Rodolfo - noi giuocheremo a testa, od arme, per sapere chi di noi pagherà il conto.
- No -,grido Schaunard - ho qualche cosa di meglio, d'infinitamente meglio da proporvi, per togliervi di imbarazzo.
- Sentiamo.
- Rodolfo pagherà il pranzo, Colline ci offrirà una cena.
- Ecco qui una sentenza che io chiamerò da Giurisprudente Salomonico! - esclamò il filosofo.
- Bravo! bene! - gridarono gli altri.
Il pranzo ebbe luogo da un trattore provenzale della via Dauphine, celebre poi suoi camerieri letterati e pel suo stufato. Siccome bisognava lasciare anche un po' di posto per la cena, si mangiò e si bevve moderatamente. L'amicizia sbozzata il dì prima fra Colline, Rodolfo e Schaunard e dopo con Marcello, diventò sempre più intima; ciascuno dei quattro giovanotti inalberò la bandiera della sua opinione in fatto d'arte; tutti e quattro riconobbero di avere un eguale coraggio ed una stessa idealità. Chiacchierando e discutendo, s'accosero che le loro simpatie erano comuni, che tutti avevano la stessa scioltezza di linguaggio che fa ridere senza offendere, e che tutte le belle virtù della giovinezza non avevano lasciato alcun posto vuoto nel loro cuore, il quale era facile ad essere commosso alla vista od al racconto d'una buona azione. Partiti tutti e quattro dallo stesso punto per giungere alla medesima mèta, essi pensarono che nella loro riunione c'era ben altro che il volgare qui pro quo del caso: la Provvidenza, tutrice naturale dei derelitti, poteva ben entrarci per qualche cosa, ella che li prendeva così per mano, e che soffiava loro nelle orecchie la parabola evangelica, la quale dovrebbe essere la sola costituzione del genere umano; " Aiutatevi ed amatevi l'un l'altro".
Alla fine del pranzo, che si chiudeva con una certa gravità, Rodolfo si alzò per fare un brindisi all'avvenire... Colline gli rispose con un discorso non preso a prestito da alcun libro vecchio, e non appartenente in alcun modo al bello stile... Quel discorso però parlava il buon vernacolo della sincerità, che fa capire così bene ciò che si dice sì male.
- Che bestia di filosofo! - mormorò Schaunard, il quale aveva il naso nel bicchiere - egli mi costringe a metter dell' acqua nel vino.
Dopo pranzo andarono a prendere il caffè da Momus, dove avevano passato la sera avanti. Fin d'allora quel luogo incominciò a non essere frequentabile per gli avventori soliti.
Dopo il caffè ed i liquori,
la tribù della bohème, definitivamente costituita, ritornò all'alloggio di Marcello, il quale fu battezzato Eliso Schaunard. Mentre Colline era andato ad ordinare la cena che aveva promesso, gli altri facevano provvista di razzi, di petardi e di altri arnesi pirotecnici. Prima di mettersi a tavola, si incendiò dalla finestra un magnifico fuoco artifiziale, che sconvolse tutta la casa, e durante il quale i quattro amici cantavano.
Il domani mattina, si ritrovarono ancora assieme, ma questa volta senza meravigliarsene. Prima di andar ciascuno per conto suo, si recarono al caffè Momus, e fecero colazione. Là si diedero appuntamento per la sera, e da quel giorno vi andarono assiduamente.
Ecco i principali personaggi che si vedranno ricomparire nelle scene componenti questo volume, il quale non è un romanzo, e non ha altre pretese se non quella del suo titolo. La "Bohème"... non è altro fuorchè uno studio dei costumi. I suoi eroi appartengono ad una classe finora mal giudicata ed il cui più gran difetto è il disordine ; difetto ch'essa potrebbe farsi perdonare, essendo una necessità inerente alla sua vita.

II.
UN INVIATO DELLA PROVVIDENZA

Schaunard e Marcello, i quali, fino dalla mattina, si erano messi coraggiosamente a lavorare, sospesero tutt'ad un tratto il loro lavoro.
- Sacram.... che fame! - disse Schaunard: e con negligenza, aggiunse: - Non si fa colazione oggi?
Marcello sembrò stupefatto per simile domanda più che mai inqpportuna.
- Da quando in qua si fa colazione due giorni di seguito? Ieri era giovedì.
Ed egli completò la sua risposta ricordando questo comandamento della chiesa:
- "Non mangiar carne il venerdì."
Schaunard non trovò nulla per rispondere, e si rimise al suo quadro, il quale rappresentava una pianura abitata da una pianta azzurra e da un albero rosso, che si dànno una stretta di rami, allusione filosofica ed assai chiara delle dolcezze dell' amicizia.
In quel momento il portinaio bussò all'uscio.
Egli portava una lettera per Marcello.
- Tre soldi - diss'egli.
- Ne siete sicuro? - gli domandò l'artista. - Va bene, ve li dobbiamo.
E gli chiuse l'uscio in faccia.
Marcello aveva preso la lettera e rotto il suggello.
Dopo aver letto le prime parole, egli si mise a fare dei salti acrobatici per lo studio, ed intonò a voce spiegata una celebre romanza, che indicava in lui l'apogeo del giubbilo.
- Se tu non taci disse Schaunard, il quale incominciava a sentire dei sintomi di alienazione mentale - io ti suono l'allegro della mia sinfonia sull'influenza del colore azzurro sulle arti.
E si avvicinò al suo pianoforte.
Questa minaccia produsse l'effetto di una tazza d'acqua fredda che cada in un liquido bollente.
Marcello si calmò come per incanto.
- Prendi - diss'egli dando al suo amico la lettera e leggi.
Era un invito a pranzo da parte d'un deputato, intelligente protettore delle belle arti, e di Marcello in particolare, il quale aveva riprodotto la di lui casa di campagna.
- È per quest'oggi - disse Schaunard. - Qual disgrazia che il biglietto non valga per due persone! Ma, adesso che ci penso, il tuo deputato è ministeriale; tu non puoi... tu non devi accettare... i tuoi principi ti proibiscono di andare a mangiare un pane bagnato dai sudori del popolo.
- Ah bah! - riprese Marcello - il mio deputato è del centro sinistro; l'altro giorno ha votato contro il ministero. D'altra parte egli deve procurarmi del lavoro, e mi ha promesso di presentarmi nel gran mondo; e poi, vedi, ha un bell'essere venerdì... io mi sento preso da una voracità ugolinica, ed oggi voglio desinare; ecco il quanto.
- Vi sono altri ostacoli, mio caro - disse Schaunard, il quale era un po' geloso della fortuna che toccava al suo amico. - Non puoi andare a pranzo da un signore, in giacchetta rossa e con un cappello da facchino.
- Anderò a farmi prestare gli abiti da Colline o da Rodolfo.
- Giovane stolto, hai tu dimenticato che abbiamo passato il 20 del mese, e che a quest'ora i vestiti sono al Monte di pietà?
- Da qui a cinque ore troverò almeno un abito nero - disse Marcello.
- Mi ci vollero tre settimane per trovarne uno, quando andai alle nozze di mio cugino, ed eravamo al principio di gennaio.
- Ebbene, anderò così - riprese Marcello passeggiando a gran passi. - Non sarà mai detto che una meschina questione di etichetta mi abbia impedito di fare il primo passo nel gran mondo.
- A proposito! e le scarpe? interruppe Schaunard, il quale si divertiva a far arrabbiare il suo amico.
- Ah! - esclamò Marcello, ed uscì in uno stato impossibile a descriversi.
Due ore dopo ritornava carico di... un colletto da camicia.
- Ecco qui tutto quanto ho potuto trovare - disse egli sentimentalmente.
- Non valeva la pena di correre per sì piccola cosa riprese Schaunard - qui c'è della carta bastante da farne una dozzina.
- Ma - disse Marcello strappandosi i capelli - noi dobbiamo avere qualche oggetto, diavolo!
Poscia incominciò una lunga perquisizione in tutti gli angoli della camera.
Dopo un'ora di ricerche, egli realizzò una toilette così composta:
Un paio di calzoni scozzesi,
Un cappello grigio,
Una cravatta rossa,
Un guanto bianco,
Un guanto nero.
- In caso di bisogno puoi farti due guanti neri - disse Schaunard - ma quando sarai vestito sembrerai lo spettro solare.
Intanto Marcello si provava le scarpe.
Fatalità! esse erano entrambe dello stesso piede!
L'artista disperato scorso in un canto una vecchia scarpa, in cui si mettevano le stagnuole dei colori vuote. Egli l'afferrò.
- Dalla padella nella bracie - disse il suo ironico amico l'una ha la punta acuta e l'altra l'ha quadra.
- Non si vedrà: gli darò la vernice.
- È un'idea! Non ti manca più altro che un abito nero.
- Oh - replicò Marcello, e si mordeva i pugni darei volöntieri dieci anni di vita e la mano destra per averne uno.
In quel momento si udì di nuovo bussare alla porta.
Marcello, aprì.
- Il signor Schaunard? - disse un forestiero che si fermò sulla soglia.
Son io - rispose il pittore pregandolo di entrare.
- Signore riprese lo sconosciuto che possedeva una di quelle facce che fanno conoscere a prima vista il provinciale - mio cugino m'ha parlato molto bene di voi e del vostro talento nel fare ritratti, e siccome sto per recarmi alle Colonie, dove sono mandato in delegazione dai raffinatori di zuccheri di Nantes, vorrei lasciare alla mia famiglia un ricordo. Ecco perchè sono venuto a trovarvi.
- Oh santa Provvidenza l... - mormorò Schaunard a Marcello - dài una sedia al signore...
- Blancheron - rispose lo straniero - Blancheron da Nantes, delegato dell'industria dello zucchero, antico sindaco di V... capitano della guardia nazionale, ed autore di un trattato sulla questione degli zuccheri.
- Sono ben onorato della vostra scelta - disse l'artista inchinandosi al delegato dei raffinatori. - Come volete sia fatto il ritratto?
- In miniatura, come quello là - rispose il signor Blancheron indicando un ritratto a olio; poichéà pel delegato, come per molti altri individui, tutto ciò che non è pitturato sul muro è miniatura; non c'è via di mezzo.
Questa ingenuità diede a Schaunard l'idea del galantuomo che li era capitato fra le mani, sopratutto allorohè costui gli disse che desiderava avere il ritratto dipinto con colori fini.
- Io non ne adopero mai altri - disse Schaunard. Di qual grandezza lo desiderate?
- Grande così - disse Blancheron indicando una tela là vicino. - Quanto costa questo?
- Da cinquanta a sessanta franchi; cinquanta senza mani, sessanta colle mani.
- Diamine! mio cugino mi aveva parlato di trenta franchi.,
È secondo la stagione - rispose il pittore - i colori sono più o meno cari secondo il tempo.
- Oh! bella! come lo zucchero!
- Tale e quale.
Sia adunque cinquanta franchi.
- Voi avete torto; per dieci franchi di più avreste le mani, ed io vi metterei il vostro trattato sulla questione degli zuccheri; ciò è lusinghiero.
-Voi avete ragione davvero.
- Corpo di Satanasso! - disse fra sè Schaunard - se egli continua così mi farà perdere la pazienza, ed io lo ferirò con uno dei miei pezzi di musica.
- Hai veduto? - disse sommessamente Marcello all'orecchio di Schaunard.
Cosa?
- Ha un vestito nero!
- Capisco, ed entro nelle tue idee. Lascia fare a me.
- Ebbene, signore - disse il delegato quand'è che comincieremo? Vorrei far presto, perchè fra pochi giorni dovrò partire.
- Anch'io debbo fare un breve viaggio: dopo domani parto; dunque, se volete, possamo incominciare subito. Una buona seduta porterà avanti il lavoro.
- Ma... a momenti sarà notte, ed io credo non si possa dipingere al lume della candela.
- Il mio studio è disposto in modo che si può dipingere ad ogni ora - rispose il pittore. - Se volete togliervi il vestito e prendere la posa, noi incominceremo.
- Togliermi il vestito?... e perchè ?...
- Ma non avete detto che destinate il ritratto alla vostra famiglia?
- Certamente.
- In tal caso dovete posare col vostro abito da casa, una veste da camera. Del resto questa è l'usanza.
- Ma qui non ho veste da camera.
- Ne ho ben io. Il caso è preveduto.
E Schaunard presentò al suo modello un cencio stonato di macchie di colori, e sì strano, che l'onesto provinciale esitava a prenderlo.
- Quest'abito è singolare - diss'egli.
- È molto prezioso - rispose il pittore. - Un visir turco lo regalò ad Orazio Vernet, il quale lo regalò a me. Io sono suo allievo.
Voi siete allievo di Vernet? - esclamò il signor Blacheron.
- Sì, signore, e me ne vanto. - Poi mormorò fra sè: - Orrore!!! Io rinnego i miei dèi!
- Ne avete ragione - aggiunse il delegato mettendosi la vesta da camera d'una sì nobile stirpe.
- Attacca l'abito di questo signore all'attaccapanni disse Schaunard al suo amico, con un cenno molto significativo.
- Dimmi - mormorò Marcello slanciandosi sulla sua preda e mostrando Blancheron - com'è buono! Se tu potessi tenerlo qui un poco?
- Procurerò! ma non si tratta di ciò; vestiti e vattene. Ritorna per le dieci; lo tratterrò fino allora. Sopratutto ricordati di portarmi qualche cosa in tasca.
- Ti porterò un ananasso - rispose Marcello fuggendo via.
Si vestì; l'abito gli andava come un guanto; poi uscì ,dall'altra porta dello studio.
Schaunard s'era messo a lavorare. Calata affatto la sera, il signor Blancheron udì sonarò sei ore, e si ricordò che non aveva ancora pranzato. Lo disse al pittore.
- Sono anch'io nello stesso caso, ma questa sera ne farò a meno per, rendervi piacere. Ero invitato in una casa del sobborgo San Germano! Peccato. Ma noi non possiamo muoverci, la rassomiglianza si guasterebbe.
E riprese il lavoro.
- Però - diss'egli tutt'ad un tratto - noi possiamo pranzare senza muoverci. Qui a basso c'è un trattore eccellente, il quale, ordinando, ci porterà disopra tutto ciò che vorremo.
E Schaunard aspettò l'effetto del suo colpo strategico.
- Divido la vostra idea - disse Blancheron - e spero che mi farete l'onore di tenermi compagnia.
Schaunard fece un inchino.
Davvero è un brav'uomo - diss'egli fra sè - è un vero inviato della Provvidenza. - Poi, rivolgendosi a lui: - Volete scrivere ciò che desiderate?
- Mi farete piacere, occupandovene voi stesso.
- Te ne pentirai, Nicola - canterellò il pittore scendendo la scala a precipizio.
Entrò nella trattoria, si mise al banco, e scrisse una nota, che fece impallidire il trattore.
- Del Bordeaux al solito.
- Chi paga? - chiese l'oste.
- Probabilmente non sarò io - rispose Schaunard - ma un mio zio che vedrete su nello studio, un ghiottone finito. Procurate dunque di distinguervi e serviteci fra una mezz'ora. Piatti di procellana, siamo intesi!
A ott'ore, il signor Blancheron sentiva già il bisogno di espandere nel seno di un amico le sue idee sull'industria zuccherina, e lesse a Schaunard il trattato che egli aveva scritto.
Questi l'accompagnava al pianoforte.
Alle dieci, il signor Blancheron ed il suo compagno ballavano il galop, e si davano del tu.
Alle undici giurarono di non abbandonarsi mai più; e ciascuno di loro scrisse il suo testamento nel quale si istituivano eredi a vicenda.
A mezzanotte, Marcello tornò a casa e li trovò abbracciati; essi piangevano disperatamente. Nello studio c'era già un mezzo pollice d'acqua. Marcello inciampò nel tavolino, e vide gli splendidi avanzi del sontuoso banchetto. Esaminò le bottiglie, esse erano a secco.
Volle svegliare Schaunard, ma questi lo minacciò d'ucciderlo se tentava di rapirgli il suo Blancheron che gli serviva di guanciale.
- Ingrato! - disse Marcello - ed io gli portavo da pranzo!
E depose sul tavolino un pugno di nocciuole.

III.
AMORI QUARESIMALI

Una sera di quaresima, Rodolfo si ritirò di buon'ora con l'intenzione di lavorare, ma s'era appena messo al tavolino, quando uno strano rumore lo distrasse. Applicando l'orecchio alla sottile parete che lo separava dalla vicina camera, stette un momento in ascolto, ed udì distintamente un dialogo alternato da baci e da altre amorose espansioni.
- Diavolo! - pensò Rodolfo guardando il pendolo non è tardi, e la mia vicina è una Giulietta, che di solito tiene con sè il suo Romeo, fin dopo il canto mattutino dell'allodola, Stanotte non potrò lavorare...
Prese il cappello ed uscì.
Mentre deponeva la chiave nella portineria, sorprese la moglie del portinaio fra le braccia d'un giovinotto, e la povera donna ne rimase così spaventata, che per cinque minuti non seppe aprire la porta.
- È un fatto - pensò Rodolfo - che vi sono dei momenti in cui le portinaie ritornano donne.
Aprendo la porta vide sul canto un pompiere ed una cuciniera che si scambiavano delle prove d'amore.
- Perbacco! - disse fra sè Rodolfo, facendo allusione al guerriero ed alla sua robusta compagna - ecco qui degli eretici, i quali non pensano che siamo in quaresima.
Così dicendo s'avviò verso la casa d'un amico, che abitava in quei pressi.
- Se Marcello è in casa - pensava - passeremo insieme la serata, sparlando di Colline. Bisogna ben far qualche cosa...
Mentre egli batteva fortemente all'uscio, questo si aprì, ed un giovinotto, semplicemente vestito d'una camicia e con una lente all'occhio, si presentò.
- Non ti posso ricevere - diss'egli a Rodolfo.
- Perchè?
- Ecco - rispose Marcello indicando una testa di donna che si mostrava dietro una tenda. -Ecco lì la mia risposta.
- Non è bella - riprese Rodolfo mentre gli si chiudeva sul naso la porta.
- Che fare? - diss'egli fra sè, quando fu nella strada. - Se andassi da Colline? Passeremmo la serata mormorando di Marcello.
Traversando la via dell'Ovest, generalmente oscura e poco frequentata, Rodolfo vide un'ombra che passeggiava malinconicamente, masticando delle rime fra i denti.
- Eh, eh -disse Rodolfo - chi è quel sonetto che monta la sentinella? Oh bella, Colline?
- Oh! Rodolfo! Dove vai?
- A casa tua.
- Non mi troverai.
- Cosa fai qui?
- Aspetto.
- E.... cos'aspetti ?
- Ah! - rispose Colline con enfasi sarcastica - che si può mai aspettare quando si hanno vent'anni, e che vi sono delle stelle nel cielo, e delle canzoni nell'aria?
Parla in prosa.
- Aspetto una donna.
- Buona sera - disse Rodolfo continuando la sua strada, e parlando fra sè. - Ahi! È forse San Cupido oggi? Non potrò far un passo senza inciampare in una coppia amorosa! È una cosa immorale, scandalosa. Che diavolo fa la polizia?
Siccome il Lussemburgo era ancora aperto, Rodolfo vi entrò per accorciare la strada. Ma in mezzo ai viali vedeva fuggirsi davanti, spaurite dai suoi passi, coppie amorosamente abbracciate, le quali cercavano, come disse il poeta, la doppia voluttà del silenzio e dell'ombra. - Questa è una serata che non fu definita in nessun romanzo - disse Rodolfo.
Intanto, colpito, suo malgrado, da un voluttuoso incanto, sedette su d'una banchina di pietra, e guardò sentimentalmente la luna.
In capo ad alcuni minuti, egli era completamente sotto il giogo di un'allucinazione. Gli sembrava che gli dèi e gli eroi di marmo, che popolano il giardino, scendessero dai loro piedistalli per andare a far la corte alle dèe ed alle eroine loro vicine; egli udì chiaramente il grosso Ercole spifferare un madrigale alla Velleda, la tunica della quale sembrava a Rodolfo straordinariamente accorciata. Infine dal luogo dov'era seduto, vide il cigno della vasca dirigersi verso una ninfa dei dintorni.
- Bene - pensò Rodolfo, il quale accettava tutta questa mitologia ecco Giove che va al suo appuntamento con Leda. Basta che il guardiano non li sorprenda!...
Poi presa la fronte fra le mani si conficcò più addentro gli spini del sentimento. Ma in quel bel momento del sogno, Rodolfo fu risvegliato da un guardiano che battendogli sulle spalle, gli disse:
- Bisogna uscire, signore.
- Fortunatamente - pensò Rodolfo - se fossi stato qui cinque minuti ancora, avrei finito col fare all'amore anch'io con qualcuna di queste marmoree beltà.
E, salutato il guardiano, uscì in fretta dal Lussemburgo, canterellando a bassa voce una romanza sentimentale, che per lui era la marsigliese dell'amore.
Una mezz'ora dopo, non so come, egli era al Prado, seduto ad un tavolino con un bicchiere di ponce, e occupato a parlare con un giovanotto, celebre pel suo naso, il quale (per un privilegio particolare) aveva il profilo aquilino e di faccia era schiacciato. Un naso famoso, che ebbe tante avventure galanti, da poter dare un buon consiglio in certi casi, ed essere utile ad un amico.
- Dunque - diceva Alessandro Schaunard, il padrone di quel naso - tu sei innamorato.
- Sì, caro mio. Quest'incomodo mi assalì, poco fa, tutto ad un tratto: è come un forte mal di denti che ho al cuore.
- Figurati - continuava Rodolfo - che da due ore in qua non incontro che innamorati... uomini e donne, a due a due. Mi venne in mente di passare pel Lussemburgo, e vi ho veduto ogni specie di fantasmagorie; tutto ciò mi ha sconvolto il cuore in un modo straordinario. Mi spuntano delle elegie; belo, vado tubando come un piccione; sono metà anguilla, metà tortorella. Guarda bene, io debbo avere della lana e delle penne.
- Cos'hai bevuto? - disse Alessandro ridendo - tu mi fai stupire...
- Ti giuro che sono a mente fredda - rispose Rodolfo.
Cioè no, ti annunzio che ho bisogno di abbracciare qualche cosa. Vedi, Alessandro? L'uomo non deve vivere solo; in poche parole, bisogna che tu mi aiuti a cercare una donna. Facciamo il giro del ballo, e tu andrai a dire alla prima donna che ti indicherò, che io l'amo pazzamente.
- Perchè non vai tu stesso? - riprese Alessandro colla sua magnifica voce di basso nasale.
- Eh, mio caro, ti assicuro che ho dimenticato affatto il modo di esprimere queste cose. Sono i miei amici che mi scrissero sempre le prefazioni in tutti i miei romanzi d'amore; qualcuno anche la catastrofe.
- Basta saper finire - disse Alessandro - ti capisco. Ho veduto una ragazza che è appassionata pel corno inglese: tu potresti piacerle, forse.
- Ah! - disse Rodolfo - desidererei ch'ella avesse dei guanti bianchi e gli occhi azzurri.
- Diavolo! gli occhi azzurri, non dico... ma i guanti!... Tu sai che non si può aver tutto in una volta. Nondimeno, andiamo nel quartiere dell'aristocrazia.
- Guarda - disse Rodolfo entrando nella sala dove si fermano le più eleganti signore dal luogo - eccone là una che ha la fisonomia abbastanza dolce - ed indicò una ragazza elegantemente vestita, che stava in un angolo.
- Va bene - disse Alessandro - sta un po' indietro: io vado a lanciare l'obice della passione per tuo conto. Quando dovrai venire, ti chiamerò.
Alessandro intrattenne la giovinetta per dieci minuti, ed ella, dopo aver riso giocondamente coll'araldo amoroso, finì col lanciare a Rodolfo un'occhiata, che diceva abbastanza chiaro : -
- Venite, il vostro avvocato ha guadagnata la causa.
- Vai - disse Alessandro - la vittoria è nostra; la piccina non è crudele, mi sembra, ma, per incominciare, sarebbe bene che tu facessi l'ingenuo.
- Non c'è bisogno di raccomandarmelo.
- Allora dammi del tabacco, e vai a sedere accanto a lei.
- Dio mio - disse la giovinetta, allorchò Rodolfo si fu seduto presso di lei - come è originale il vostro amico: parla come un corno da caccia.
- Difatti è filarmonico - rispose Rodolfo.
Due ore dopo, Rodolfo e la sua compagna erano fermi davanti ad una casa della via Saint-Denis.
- Io abito qui - diss'ella.
- Ebbene, carissima Luisa, quando e dove vi rivedrò?
- Domani sera, alle otto, in casa vostra.
- Davvero?
- Ecco la mia promessa - rispose Luisa, offrendo le fresche sue gote a Rodolfo, il quale baciò a sazietà quei bei frutti maturi di giovinezza e di salute.
Rodolfo ritornò a casa pazzo, ubbriaco.
- Oh - diss'egli, passeggiando per la sua camera a grandi passi - così non può passare... bisogna che faccia dei versi.
La mattina dopo il portinaio trovò nella camera di Rodolfo una trentina di fogli di carta, in cima ai quali si pavoneggiava maestosamente un verso erotico.
Rodolfo s'era, contro la sua abitudine, svegliato presto, benché avesse dormito pochissimo.
- Oh! - esclamava - oggi dunque è il gran giorno. Ma dodici ore di aspettativa!... Come riempire queste dodici eternità?...
E rivolgendo per caso lo sguardo sul tavolino, vide la penna che sembrava dirgli: "Lavora!..."
- Ah, sì, lavora!! Al diavolo la prosa i Non voglio star qui: c'è un puzzo d'inchiostro...
Andò in un caffè poco frequentato e dove era certo di non trovare amici.
- Essi si accorgerebbero ch'io sono innamorato - pensava - e criticherebbero il mio ideale.
Mangiò un poco e corse ad una stazione ferroviaria.
Mezz' ora dopo egli era in mezzo ai boschi di Ville d'Avray.
Ivi passeggiò tutto il giorno, sguinzagliando a traverso la natura ringiovanita, e non ritornò a Parigi che al cader della notte.
Dopo aver fatto mettere in ordine il tempio che doveva ricevere il suo idolo, Rodolfo fece una toilette di circostanza, e fu assai dolente di non potersi vestire tutto di biaiioo.
Dalle sette alle otto ore, Rodolfo fu in preda alla febbre acuta dell'aspettativa; lento supplizio, il quale gli ricordò i giorni passati e gli antichi amori che li avevano abbelliti. Poi, secondo il suo solito, sognò una gran passione, un amore in dieci volumi; un vero poema lirico con chiaro di luna, tramonti di sole, appuntamenti sotto i salici, gelosie, sospiri ed il rimanente. Tutte le volte che il caso conduceva una donna alla sua porta, succedeva sempre lo stesso: nessuna di esse lo aveva abbandonato senza portare con sè un'aureola di lacrime sulla fronte, od una collana, pure di lacrime, al collo.
- Esse accetterebbero più volentieri un cappello o degli stivaletti - gli, dicevano gli amici, ma Rodolfo si ostinava, e non ostante le molte lezioni subite, non era potuto guarire.
Aspettava sempre una donna che volesse rappresentare la parte di idolo; un angelo in veste di velluto, al quale potesse dedicare a suo bell'agio dei sonetti scritti su foglie i salice piangente.
Finalmente il nostro innamorato sentì suonare l'ora santa, e, mentre batteva l'ultimo tocco, gli parve che l'Amore e la Psiche, che ornavano la pendola, confondessero insieme i loro corpi di alabastro. In quel punto furono bussati due timidi colpi alla porta.
Rodolfo andò ad aprire: era Luisa.
- Sono di parola - diss'ella - vedete?
Rodolfo tirò la tenda ed accese una candela nuova.
La giovanetta intanto s'era tolto il cappello e lo scialle, che posò sul letto. L'abbagliante candidezza delle lenzuola la fece sorridere e quasi arrossire.
Luisa era piuttosto graziosa che bella; il suo fresco visetto aveva un'espressione metà innocente, metà maliziosa. Tutta l'attraente giovinezza di lei era messa in rilievo da un abbigliamento, il quale, benché semplicissimo, provava il gusto innato per l'ambizione, propria di tutte le donne, dalle fasce fino, alla veste di sposa.
Luisa sembrava avesse specialmente studiato la teoria della posa, ed ella, davanti a Rodolfo, prendeva delle seducenti attitudini, le quali, benché manierate, avevano però più grazia che naturalezza. I suoi piedi, calzati accuratamente, erano di una sodisfacente piccolezza, anche per un romantico, innamorato delle miniature andaluse o chinesi. La delicatezza delle sue mani attestava l'oziosità. Difatti, già da sei mesi esse non temevano le punture dell'ago. Insomma, Luisa era uno di quegli uccelli instabili e passeggieri, i quali, per capriccio o per necessità, fanno il loro nido per un giorno in una soffitta del quartiere Latino, o vi stanno qualche tempo, se si ha il talento di ritenerli con capriccio o con nastri.
Dopo aver chiacchierato un'ora con Luisa, il nostro Rodolfo le fece vedere, come un modello, il gruppo d'Amore e Psiche.
- E il gruppo di Paolo e Virginia? - domandò Luisa.
Sì - rispose Rodolfo, il quale non volle contraddirla per la prima volta.
- Sono bene imitati - disse Luisa.
- Ahimè - pensò Rodolfo guardandola - la poveretta non possiede molta letteratura! Sono sicuro che ella si limita all'ortografia del cuore, quella che non sa formare il plurale. Bisognerà che le compri una grammatica.